Lassassinio
di Brad Will ed il Barbagianni di Oaxaca
di John Dickie
Lungo il corso delle nostre vite, arrivano dei
momenti trascendentali,
che ci obbligano a fermarci a riflettere.
Ognuno vive questi momenti.
E ognuno reagisce in maniera differente.
È difficile capire da dove cominciare nel raccontare la
storia di uno
qualunque di questi momenti. Presumibilmente,
tocca ad ognuno fare del
proprio meglio per trasmettere la trascendenza percepita,
e ad ogni
ascoltatore interiorizzarla come propria. In questa
occasione, tutto
quello che posso fare è cominciare col raccontarvi
che ieri, per circa
cento minuti, sono stato morto.
Ieri, venerdì 27 ottobre, intorno alle cinque, cinque e
mezza del
pomeriggio, in pieno giorno, un Barbagianni ha
volteggiato sopra la
nostra casa. Il mio amico Jonathan lo guardava dal
balcone. Io non lho
visto. Sospeso nellaria, completamente fermo,
mi disse, a una
quindicina di metri sopra la sua testa, e lo guardava
fisso da alcuni
minuti. Eppure nellattimo che ha impiegato
per entrare in casa,
chiamarmi a vederlo e uscire di nuovo, il Barbagianni era
scomparso.
Jonathan era sconvolto. Sentiva che non era destino
che io lo vedessi.
Mentre ci interrogavamo sul significato dellevento,
squillò il mio
cellulare. Era il mio amico Diablo, cronista di
nera. In altre parole
mi resi conto successivamente il Diavolo mi
chiamava per ricordarmi
il mio destino. Mi chiese subito se stavo
bene. Avevano sparato ad un
giornalista straniero in centro. Gli pareva che il
tizio si chiamasse
Andrés. Non conoscevo nessuno con questo
nome. Chiama Victor, disse
Diablo, lui è sul posto. Allora ho
chiamato Victor. La comunicazione
era pessima. Però nel suo inglese approssimativo
mi disse che il tipo
si chiamava Bradley. Bradley Roland Will.
Pallottola in pieno petto.
Morto mentre lo trasportavano in ospedale. Lavorava
per Indymedia.
Solo Jonathan che era in piedi accanto a me potrebbe
raccontare la mia
faccia al sentire queste notizie.
Bradley. Era Bradley. Brad! Brad,
conosciuto giusto la settimana scorsa, quando siamo
arrivati entrambi
sulla scena dellarresto di un branco di giovinastri
ubriachi che
avevano aggredito una giovane coppia. Entrambi
stavamo filmando. Era
la prima volta che incontravo un giornalista straniero da
quando ho
cominciato a filmare il sollevamento popolare di
Oaxaca. Ovviamente, ci
siamo parlati, ci siamo scambiati informazioni personali,
barzellette,
ci siamo messi daccordo per scambiarci dei filmati,
e gli ho fatto
conoscere delle persone che potevano aiutarlo e dargli
suggerimenti su
dove andare a girare. Un tipo veramente simpatico;
un tipo veramente
bravo, onesto, simpatico che faceva del suo meglio per
registrare gli
avvenimenti in questa situazione di merda , nella
speranza di
raccogliere qualche briciola di attenzione dai
consumatori di notizie
del mondo. Brad, mi hai chiamato nella mattinata di
venerdì 27 ottobre,
lultimo tuo giorno su questa terra, per chiedermi
dove potevi
noleggiare una moto. E ora non ci sei più.
Sei la prima vittima
straniera da quando la regione è sprofondata in questo
inferno vivente.
La tredicesima vittima in totale. E,
tristemente, probabilmente la
più significativa di tutti.
Naturalmente, il mio primo pensiero è stato: avrei
potuto essere io E
per un po, sono stato io. Dico a Victor di
aspettarmi in ufficio, tiro
su una piccola macchina digitale, salto sulla moto e vado
dritto sul
posto. Il sole calava ed il mondo si faceva
buio. Decido di deviare
sul luogo del fattaccio, ma è molto difficile
riuscire a passare.
Stavano rinforzando le barricate. Avevano scaricato
tonnellate di terra
dai camion per bloccare le strade in punti
strategici. Ho parlato con
della gente APPO (per i media manifestanti di
sinistra; per il pubblico
ministero dello stato guerriglieri urbani
terroristi), quella stessa
gente che ha cercato di evitare che Brad perdesse i sensi
dopo che gli
avevano sparato; lavevano caricato sul sedile
posteriore di un
maggiolino VW per portarlo in una clinica privata (è
morto lungo il
tragitto), le stesse persone che hanno eretto barricate
per difendersi
dai criminali e dai pistoleros paramilitari che nelle
ultime settimane
hanno ripreso la loro campagna di sparare al volo dalle
auto in corsa.
Quello che la maggior parte dei media non vi diranno,
soprattutto in
Messico, è che i tre pistoleros che spararono sulla
barricata doverano
Brad e gli altri giornalisti, sono stati identificati
come poliziotti
locali. Avevano carabine AR-15 e diverse pistole e
hanno sparato
indiscriminatamente sulla folla. Probabilmente Brad
non è stato preso
di mira deliberatamente (benché la radio nazionale
Radio
Ciudadania:99.1 FM radio pirata governativa che
trasmette da una
località sconosciuta stia dicendo che Brad
era un terrorista armato,
e qui sotto cè qualche inghippo e che
Indymedia è una diramazione
dellAPPO), semplicemente è stato quello
sfortunato, preso in pieno
petto, proprio nel plesso solare, da una pallottola
dacciaio larga 9
millimetri e che viaggiava a circa 1000 metri al secondo.
Unaltra cosa che probabilmente non sentirete
raccontare è che la gente
dellAPPO non gira armata. Le loro uniche armi
sono pietre, bastoni,
molotov e ogni tanto qualche mortaio per fuochi
dartificio fatti in
casa. Che io sappia, in cinque mesi di proteste,
non hanno sparato
neanche un colpo di arma da fuoco. Tutte le vittime
sono state dalla
parte dei manifestanti, o APPO o
insegnanti. Certo, può darsi che
lAPPO disponga di una sfilza di armi da fuoco, ma
hanno preso la
coraggiosa decisione politica di non usarle.
Facendo i nomi di qualche compagno, lAPPO mi lascia
passare dalle
barricate e arrivo nel quartiere El Bajio dove Victor mi
stava
aspettando. Conosco un sacco di gente da queste
parti. Cè un gruppo
di giornalisti locali che hanno un modesto ufficio qui,
in un palazzo di
cemento che puzza di urina. Di sopra fanno un
giornalaccio di nera, Noti
Roja, diretto dal padrino della cronaca nera El
Chiricuto. E a fianco,
Diablo ha una stanza spoglia con un materasso ove a volte
passo la
notte. Spesso vengo qui a stare con loro, cercare
informazioni, vedermi
nuovi filmati e foto, farmi una birra. Chiricuto,
Victor, Bermudez,
Teo, Zurco, Diablo, Chavez: li conosco tutti da circa tre
anni. Poi, io
sono un bianco alto, con la coda, quindi tutto il
quartiere mi conosce,
anche se con alcuni di loro io non ho mai parlato.
Quando arrivo, verso le 7 di sera, ci sono una ventina di
persone
riunite nella strada. Alcuni piangono. Mentre
freno la moto, chiamo un
saluto a Chiricuto. Nel vedermi, rimane a
bocca aperta. Sembra
arrabbiato. Yon! Sei tu, Yon? Gli altri si
girano per guardarmi,
sconvolti. Mi rendo conto che sono tutti
ubriachi. Ma hanno la faccia
di chi ha visto un fantasma. Infatti, ne stanno
fissando uno proprio
lì, davanti a loro. Ma che vuoi dire?
gli chiedo. Yon, cazzone,
scendi dalla moto!
Ancora non capisco. Mentre spengo il motore e
scendo, Chiricuto si
avvicina cautamente. Mi pizzica il braccio
Yon!, urla, abbracciandomi
forte. E Teo grida, ubriaco perso, Ve
lavevo detto, cazzo! Ve
lavevo detto! Yon, solo io ci credevo
veramente! Chiricuto: Yon!
Eri morto! Tutti credevamo che fossi morto!
Tutta la gente della strada mi circonda, mi abbraccia
freneticamente.
Chiricuto è sopraffatto dallemozione Figlio
mio! Figlio mio! È ancora
vivo!. Tira fuori la macchina fotografica e
comincia a scattare a
tutto spiano. Tutti vogliono una foto insieme al
morto. La gente
comincia a riversarsi nella strada. Teo:
Hanno fatto il tuo nome alla
radio! Hanno detto che ti avevano sparato e che eri
morto! Zurco ha
detto di aver visto il tuo corpo nel maggiolino!
Schiumavi dalla bocca!
Sta piangendo da allora. Devi andarli a
trovare! (si riferiva alla
gente sulle barricate a tre isolati di distanza, dove
avevo filmato
parecchio. Tutti ti credono morto.
Chiricuto ritorna con una tanica di plastica di 5 litri
di mezcal
Questo è per te, devi versare da bere a
tutti. È mezcal per il Morto.
Mentre comincio a versare bicchierini a tutti, mi
racconta di come
aveva pianto prima Potevano esserci dieci
morti
ma non Yon. Se cade
Yon, giuro che il prossimo sarà il
governatore. Chiricuto il
mingherlino, che parla come una tigre
rivoluzionaria. Mi cade una
goccia di mezcal, ma poi butto giù la mia dose, in
omaggio al mio
destino. Pur indaffarato a chiamare la gente in
strada, diffondere la
notizia e fotografarci tutti, Chiricuto continua a
parlare. Stavamo per
andare a ritirarti allobitorio, e poi avremmo fatto
una veglia funebre
per te tutti noialtri al centro del
cimitero laggiù. Ci trovavamo
ad un isolato di distanza dai cancelli del cimitero
cittadino; questa
via si chiama Caminito al Cielo, piccolo sentiero
per il cielo. Gli
occhi mi si sono riempiti di lacrime, che mi scendevano
sulle guance.
Per loro, dopo cento minuti, il mio elettrocardiogramma
non era più piatto.
Sono rimasto una mezzora con loro a festeggiare la
mia resurrezione.
Poi spiegai loro che il tipo che avevano ammazzato era un
mio amico e
che dovevo occuparmi di un po di cose. Avevo
mille pensieri: dovevo
mettermi in contatto con Zurco; dovevo rintracciare il
corpo di Brad
perché pensavo di dover magari essere io ad
identificarlo ufficialmente
il che significava anche andare allobitorio
cittadino mica facile;
dovevo mettermi in contatto con lambasciata
sia quella USA per Brad
che quella britannica per me. E se
lambasciata avesse saputo dalla
radio della mia morte, e avesse cercato di avvisare i
miei genitori ?
Non volevo neanche prendere in considerazione quella
eventualità
. Ma
non avevo i numeri di telefono. Però quello che
avevo con me era quel
miracolo minore di nome cellulare. Lo tirai fuori e
cominciai a
scorrere lelenco dei contatti. Decisi di
chiamare per prima Pati, una
ragazza fantastica che stava sulla barricata diretta da
Zurco. Rispose
la sua amica Olga, che conoscevo. Appena ho detto
Sono io, John, è
andata fuori di testa. Non riusciva a dire altro
che Yon? Ma sei tu,
Yon? Yon, sei davvero tu ? Deve averlo
ripetuto venti volte, finchè
io ho dovuto urlarle Olga, sono io! Sono
io! Datti una calmata, sto
arrivando!. Saltai sulla moto mi avviai verso
la barricata, a circa
300 metri da lì. Mentre mi avvicinavo, avvertivo
unaria molto più
minacciosa che nelle sere precedenti. Questa volta
avevano raccolto una
dozzina di autobus per bloccare le dieci strade di
accesso a questo mega
incrocio.
Cerano incendi tuttintorno: bruciavano
copertoni, divani, pali della
luce.. Tutte le luci elettriche erano spente.
Spensi i fari prima di
arrivare, una cosa che si fa sempre qui. Mi
puntarono in faccia una
torcia enorme, urlando No hay paso! Date la
vuelta (non si passa,
torna indietro). Di rimando urlai Sono io,
John!, Yon! Sei tu,
Yon? urlarono Olga e Pati, gridando come
ragazzine. Sono corse ad
abbracciarmi e baciarmi. Grazie a Dio che
stai bene! Mia madre non ha
smesso di piangere! Abbiamo sentito alla radio che
ti hanno sparato e
che eri morto! Zurco ha detto di aver visto il tuo
corpo in una
macchina!. Sono accorsi tutti quelli della
barricata. Saranno stati
un centinaio ammucchiati intorno a me. Mi
abbracciavano, mi stringevano
la mano e mi davano pacche sulle spalle. Una
vecchietta non voleva
mollarmi il braccio. Il grosso Zurco si avvicinò e
mi stritolò con un
abbraccio. Sua moglie piangeva. Anchio
ero sconvolto. Riuscivo
solamente a ripetere Gracias, gracias, sto benone,
sto benone. Ero in
casa. Hanno ucciso un amico, non me. Lo
conoscevo un po. Mi
chiedevano di Brad, e dissi loro quello che sapevo.
Pensavano alla sua
famiglia e si augurarono che adesso gli USA facessero
pressione sul
governo messicano per risolvere la situazione qui.
Adesso per davvero
il governatore dovrà andarsene, dissero
alcuni. E oggi, sabato, stanno
di nuovo radunandosi le truppe federali, presso
laeroporto militare.
Sono arrivati sei enormi aerei per il trasporto delle
truppe.
Districandomi a fatica, mi sono scusato e ho spiegato
loro che dovevo
occuparmi di qualche faccenda per Brad.
Allontanandomi a piedi, alla
fine dellisolato ho tirato fuori il telefono
unaltra volta. Per prima
cosa ho chiamato Daniela alla fondazione anglo-messicana
di Città del
Messico, perché sapevo che aveva amicizie
allambasciata britannica.
Devi semplicemente dir loro che se gli arriva la
notizia che sono
morto, non è vero. Mi ha dato il numero di
emergenza dellambasciata
USA, che ho chiamato subito dopo.
Mi ha risposto un centralinista dellambasciata.
Mi chiamo John Dickie.
Sono un giornalista inglese a Oaxaca e vi sto chiamando
perché quaggiù
hanno appena sparato e ucciso un giornalista
americano. Il tono del
tipo mi ha subito fatto girare le palle Per chi
lavora lei? Cosa
importa per chi lavoro? Per la ITN, cazzo!
Quindi, con chi vuole
parlare? Dimmelo tu, dannazione!
Con chiunque cazzo credi che debba
parlare di un giornalista americano
ammazzato! Mi passò Robert
Zimmerman, vice capo dellufficio stampa. Lui
è stato più cooperativo.
Gli ho raccontato la storia e gli ho dato il nome
completo di Brad.
Non erano ancora stati informati. Gli spiegai
Attualmente non esistono
le autorità a Oaxaca, quindi è improbabile che vi
informino. Vi sto
informando io. Era scettico, perché non
aveva visto il corpo.
Daccordo. Ma io avevo parlato con dei
testimoni oculari e avevo già
visto le foto. Sto andando allobitorio. Mi
richiami fra mezzora.
Poi ho chiamato il console USA di Oaxaca, un coglione
supponente, e gli
ho lasciato un messaggio. Poi un altro amico di
Brad per chiedergli di
accompagnarmi allobitorio. Sono venuti anche
due amici giornalisti del
posto, Victor e Bermudez. Ci siamo allontanati
dalla barricata in
gruppo, sulle moto. Non è stata una mossa molto
furba, perché gli
assassini paramilitari girano anchessi in
motocicletta, quindi lAPPO
si mette subito in allarme a vedere gruppi di
motociclisti. Inoltre,
dovevamo passare tutto il centro. Victor ci ha
portati per delle vie
che conosceva lui e non abbiamo incrociato nemmeno
una macchina.
Allarrivo allobitorio, dove conosco un
po di gente, siamo andati a
salutare il capo dei medici legali lo chiamano il
dottor Muerte. Ci
ha portati a vedere Brad. Vi risparmio la
descrizione della sala
operatoria. Una volta dentro, accanto alla fredda
lastra di pietra che
avevo filmato tante volte per un documentario girato
lanno scorso, mi
sono trovato invece di fronte al corpo di una persona che
avevo
conosciuto in vita; il peggior incubo di ogni cronista di
nera. Ho
fatto un cenno affermativo con la testa. Sì che
era davvero Bradley
Roland Will. I suoi occhi marroni erano spalancati,
mi trapassavano,
fissando linfinità. Gli avevano ricucito il
petto, ma il foro della
pallottola si vedeva chiaramente. Non mi sono
trattenuto a lungo. Il
Dottor Morte mi ha cinto le spalle e mi ha accompagnato
fuori, ove mi ha
mostrato i due proiettili calibro 9 che aveva estratto
dal petto di
Brad. Mi sono domandato perché li tenesse nella
tasca del camice.
Fuori, si erano raccolti i compagni di stanza di Brad, un
collega di
Indymedia, un fotografo spagnolo, un attivista per i
diritti umani.
Siamo rimasti tutti a parlare per un po. Loro
stavano con Brad al
momento della sparatoria. Un pick-up aveva sfondato
una barricata e
diversi uomini avevano aperto il fuoco contro i
dimostranti. Brad era
davanti, lhanno colpito da una trentina di metri
Avevano sparato contro
di loro .anche dai tetti. Successivamente le foto
dei giornalisti ed i
fotogrammi dei video hanno permesso
lidentificazione di chi sparava:
poliziotti locali. Teoricamente sono stati
consegnati alle autorità.
Non si erano coperti i volti prima di sparare; a Oaxaca,
quando tu sei
la legge, limpunità è uno sport.
La gente dellobitorio ci ha detto che non si poteva
procedere
allidentificazione ufficiale senza il passaporto di
Brad e la presenza
del console. Concordammo che se ne sarebbe occupato
lindomani mattina
il suo compagno di stanza.
Verso mezzanotte ci siamo avventurati nuovamente nel buio
delle strade
per tornare alla barricata. Sono rimasto alzato un
paio dore ancora,
al blocco stradale, poi ho infilato la strada verso la
stanza libera di
Diablo. Prima di coricarci, Chiricuto ed io abbiamo
guardato il
telegiornale. Su Televisa hanno passato filmati non
montati delle
sparatorie e della morte di Brad. Erano scene
raccapriccianti. Ma
ancora più raccapricciante era sentire il commentatore
affermare che gli
spari provenivano dai residenti del quartiere
che sono stufi del
conflitto e che si sono rivoltati contro
lAPPO. In Messico, il potere
di condizionamento dei politici non conosce limiti.
Sedici ore dopo lapparizione del Barbagianni, stavo
sul balcone con
Jonathan e ci siamo ricordati di un proverbio locale
Cuando la lechuza
vuela, el indio muere Quando vola il
Barbagianni, lindio muore. Il
Barbagianni era comparso al momento esatto della morte di
Brad.
Sicuramente non lavremmo rivisto. Perché il
Barbagianni non cera più
e adesso cè un indio di meno nel mondo dei
viventi. Per quanto
riguarda Brad e me, i nostri destini si sono
divisi. Io sono rimasto
qui, lui è stato chiamato indietro.
Almeno sembra che forse la morte di Bradley Roland Will
possa aiutare a
metter fine a questo conflitto perché, dopo cinque mesi
di apatia
totale, pare che il governo centrale si sia finalmente
deciso ad agire,
adesso che ha mandato la polizia federale a ristabilire
lordine pubblico.
George W. ha detto qualche parolina allorecchio di
Fox? Probabilmente.
E Brad e la sua famiglia possono essere orgogliosi
della loro parte
nel mettere in moto questi eventi. Però rimane da
vedere se
unimprovvisa incursione federale sarà sufficiente
per risolvere il
problema. Magari lo sapremo domani.
LAPPO non smobiliterà finché non
verrà rimosso il governatore. Ma la gente normale
di Oaxaca merita per
lo meno che le si permetta di vivere in un ambiente
sicuro, a
prescindere dalla loro appartenenza politica.
Quello che è certo è che
la mela marcia radicatasi nella cultura delle
amministrazioni locali nel
sud del Messico vada estirpata a forza. Immagino
che ci vorranno varie
generazioni.
In ultimo, rimane la domanda: ci vuole sempre la morte di
un gringo
perché il mondo si decida ad agire ?
Speciale del Narco
News Bulletin 29 ottobre 2006
Traduzione a cura di Lorraine Buckley
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Bushismo:
l'inizio della fine
Di Angel Guerra Cabrera
Una settimana tragica per George W. Bush. Nelle
elezioni di medio
termine, a cui è stata registrata la più intensa
partecipazione popolare
degli ultimi 24 anni, il presidente ha visto l'allentarsi
del controllo
che il partito repubblicano esercita dal 1994 sulle due
camere del
Congresso.
Ha anche visto Daniel Ortega ottenere la presidenza in
Nicaragua contro
la volontà di Washington e, come se non bastasse,
l'Assemblea Generale
dell'Onu ha approvato la condanna al blocco nei confronti
di Cuba con il
maggior numero di voti da quando alle Nazioni Unite si è
iniziato a
discutere su questo tema.
Il risultato elettorale del 7 novembre ha significato una
decisa censura
all'invasione dell'Iraq, elemento galvanizzatore nella
scelta di voto.
Quindi una grande sconfitta politica nazionale e
internazionale del
bushismo, in quanto il Paese arabo ha rappresentato
l'asse di una
pericolosissima politica estera di taglio nazista.
Se uniamo tutto questo alla defenestrazione di Aznar e di
Berlusconi e
al tramonto di Blair, abbiamo una conferma del rifiuto
della maggioranza
del popolo al bushismo, all'interno degli Usa e negli
Stati governati
dai suoi stretti alleati.
Ma la cosa straordinaria, nel nostro caso, è che sono
stati gli stessi
americani ad esprimere inequivocabilmente questo
sentimento nelle schede
elettorali.
A differenza di quando Bush venne rieletto, a niente sono
serviti
stavolta i racconti di Karl Rove sulla presunta minaccia
terroristica,
amplificati generosamente dai media di parte.
Sempre che ci sia stato, ha funzionato ben poco anche il
broglio
elettorale, che nel 2000 in Florida e poi di nuovo nel
2004 nell'Ohio ha
portato il presidente ad occupare in maniera illegittima
la Casa Bianca.
Non perde efficacia, per il fatto di essere ripetuta
spesso, la famosa
frase di Lincoln: si può ingannare una parte del popolo
per un certo
periodo di tempo, ma non si può ingannare tutto il
popolo per tutto il
tempo.
Il fatto è che i sondaggi postelettorali e le analisi
critiche degli
autori statunitensi sopra queste elezioni rivelano
l'indignazione dei
cittadini, non solo di fronte alle menzogne e al ricatto
continuato in
nome della "sicurezza della patria" e della
"guerra contro il
terrorismo" per mantenere Bush al potere e
l'esercito in Iraq.
Anche di fronte allo smantellamento delle riforme sociali
e alla
regolamentazione dei sindacati instaurati da Franklin
Roosevelt -
fenomeno che ha avuto inizio con Ronald Reagan e si è
protratto per
tutta la presidenza di William Clinton - che stanno
generando a
tutt'oggi disoccupazione, la rovina della scuola
pubblica, la pessima
qualità dei servizi sanitari, l'impoverimento delle
classi operaie e dei
ceti medi, una scandalosa corruzione nella politica e
nelle imprese, e
un'oscena concentrazione della ricchezza nelle mani di
una minoranza.
Sebbene le elezioni abbiano significato una civile
ribellione contro
questo stato di cose, sarebbe ingenuo cantare vittoria.
L'imperialismo yankee, certamente, ha visto diminuire il
suo potere
rispetto al momento in cui l'URSS si è disgregata. Il
gruppo bushista
non si riprenderà dal colpo subito alle urne, associato
indissolubilmente all'insuccesso mondiale del
neoliberismo, alla
ribellione latinoamericana in corso, al fallimento del
suo progetto di
"democratizzazione" (colonizzazione) del
"Gran Medio Oriente".
A questo bisogna sommare la minaccia, per la stabilità
dell'impero,
della sua economia da casinò, ormai in declino, come
pure la sfida da
parte di potenze emergenti come la Cina, la Russia,
l'Iran, un MERCOSUR
in via di espansione e le battaglie economiche con
l'Unione Europea.
Ciononostante, Washington conserva la superiorità
militare, strumenti di
coercizione economica e un forte controllo delle menti
attraverso i
tentacoli dei media. La banda di Bush, dotata di inediti
poteri
eccezionali conferiti dal Congresso all'Esecutivo, è
capacissima di
tentare colpi di testa dell'ultima ora. Ovvero l'Iran.
Il 7 novembre segna l'inizio della fine per questo gruppo
e per il suo
progetto, ma resta molta strada da fare prima di poter
assistere al suo
funerale. I democratici, che si sono dimostrati
acquiescenti nei
confronti di Bush, dovranno rispondere con azioni
legislative plausibili
di fronte ad un consistente elettorato politicamente
orientato più a
sinistra, se aspirano a convalidare la loro vittoria
nelle presidenziali
del 2008.
Se daranno retta ai votanti, premeranno per un rapido
ritiro dall'Iraq,
ma, a meno che il movimento pacifista non risorga nelle
strade, si può
già prevedere che ciò sarà ben difficile finché Bush
occuperà la poltrona.
In tutti i casi, il messaggio degli elettori rafforza
considerevolmente
la posizione del gruppo realista della classe dominante,
che si oppone
alla politica estera di Bush perché sta portando
l'impero al disastro,
e, tranne che nell'industria bellica e in quella
petrolifera, riduce i
guadagni delle corporations. Gli affari sono affari.
Servicio
Informativo "Alai-amlatina" 16 novembre 2006
Traduzione a cura di Cinzia Vidali
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Economia delle
Chain Gang - La strana relazione economica tra Cina e Usa
Di Walden Bello
La produzione cinese e il consumo
americano sono come i proverbiali
prigionieri che cercano di liberarsi, ma non possono
perché sono
incatenati l'uno all'altro. Questa relazione sta
prendendo sempre più la
forma di un circolo vizioso. Da un lato, la pericolosa
crescita cinese
dipende in misura sempre maggiore dalla capacità dei
consumatori
americani di continuare a consumare gran parte
dell'output della
produzione cinese determinato dagli eccessivi
investimenti. D'altra
parte, l'alto tasso di consumi americano dipende dai
prestiti di
Pechino, nei settori pubblici e privati statunitensi
"Il mondo sta investendo troppo poco" secondo
un autorevole economista
"l'attuale situazione affonda le radici in una serie
di crisi avvenute
nell'ultimo decennio, causate da investimenti eccessivi,
come la bolla
speculativa giapponese, le crisi nei paesi emergenti
dell'Asia e
dell'America Latina, e più recentemente la bolla
dell'Information
Technology. Da allora gli investimenti sono rapidamente
crollati, con
solo alcune caute riprese."
Non sono le parole di un economista Marxista che descrive
una crisi di
sovrapproduzione, ma quelle di Raghuram Rajan, il nuovo
capo economista
del Fondo Monetario Internazionale (IMF). La sua analisi,
risalente a
più di un anno fa, continua ad essere esatta. L'eccesso
di capacità
produttiva globale ha reso ulteriori investimenti
semplicemente non
redditizi, il che abbassa significativamente la crescita
economica
globale. In Europa per esempio, la crescita del PIL ha
raggiunto solo un
1.45% negli ultimi pochi anni. La domanda globale non è
riuscita a stare
al passo con la capacità produttiva globale. E se i
paesi non investono
nel loro futuro economico, allora la crescita continuerà
a stagnare e
potrà portare ad una recessione globale.
La Cina e gli Stati uniti, tuttavia, sembra che stiano
tenendo. Ma
anziché segno di salute, la crescita in queste due
economie - e la
relazione sempre più simbiotica tra le di esse -
potrebbe essere in
realtà un indicatore di crisi. E' ben nota la
centralità degli Stati
Uniti sia nella crescita globale che nella crisi globale.
Quello che è
nuovo è il ruolo critico della Cina. Un tempo
considerata come il più
grande successo di questa era di globalizzazione,
l'integrazione della
Cina nell'economia globale sta emergendo, secondo
l'eccellente analisi
dell'economista politico Ho-Fung Hung, come causa
centrale della crisi
di sovrapproduzione del capitalismo globale. (Ho-Fung
Hung, "Rise of
China and the Global Overaccumulation Crisis"
[Ascesa della Cina e crisi
di sovraccumulazione globale], articolo presentato alla
Divisione
Globale dell'Incontro annuale della Society for the Study
of Social
Problems, 10-12 Agosto 2005, Montreal, Canada. Una
versione riveduta di
questo articolo sarà presto pubblicata in un'importante
pubblicazione di
relazioni internazionali).
La Cina e la crisi di sovrapproduzione
Il tasso di crescita annuale della Cina (8-10%) è stato
probabilmente il
principale stimolo di crescita dell'economia mondiale
nell'ultimo
decennio. L'importazione cinese, per esempio, ha
contribuito nel 2003 a
porre fine alla decennale stagnazione economica
giapponese. Per
soddisfare la smania cinese per il capitale e per i beni
ad alta
tecnologia, le esportazioni giapponesi hanno rapidamente
raggiunto il
valore record del 44%, ovvero 60 miliardi di dollari. In
realtà la Cina
è diventata il destinatario principale delle
esportazioni asiatiche,
rappresentandone il 31%, mentre la quota riferita al
Giappone è scesa
dal 20% al 10%. La Cina ora sta trascinando in modo
irrefrenabile la
crescita delle esportazioni di Taiwan e Filippine, ed è
l'acquirente
principale dei prodotti di Giappone, Corea del sud,
Malesia e Australia.
Allo stesso tempo, la Cina è diventata un fattore
centrale della crisi
di sovracapacità produttiva globale. Sebbene in molte
economie gli
investimenti siano rapidamente diminuiti in risposta
all'eccesso di
capacità produttiva, particolarmente in Giappone e in
altre economie
dell'Asia orientale, sono invece cresciuti in modo
vertiginoso in Cina.
Gli investimenti in Cina non sono solo l'effetto inverso
del calo di
investimenti altrove, anche se la chiusura di servizi e
la perdita di
lavoro sono stati fenomeni significativi non solo in
Giappone e negli
Stati Uniti, ma anche in paesi nelle vicinanze della
Cina, come le
Filippine, la Thailandia e la Malesia. La Cina ha
rinforzato
significativamente la sua capacità industriale, e non ha
semplicemente
assorbito la capacità produttiva eliminata altrove. Allo
stesso tempo,
la capacità del mercato cinese di assorbire i suoi
stessi prodotti
industriali è limitata.
Cause di eccesso di investimenti
Uno degli attori principali dell'eccesso di investimenti
è stato il
capitale transnazionale. Nei tardi anni 80 e 90, le
corporazioni
transnazionali (TNC) hanno visto la Cina come l'ultima
frontiera, il
mercato illimitato che avrebbe potuto assorbire
all'infinito gli
investimenti continuando a restituire profitti. Tuttavia,
le regole
restrittive della Cina in fatto di commercio ed
investimenti hanno
obbligato le transnazionali a situare gran parte dei loro
processi
produttivi nel paese, anziché esternalizzarne una parte
limitata. Gli
analisti hanno chiamato queste attività produttive delle
trasnazionali
"internalizzazione eccessiva". Giocando secondo
le regole dettate dalla
Cina, le transnazionali hanno finito per sovrainvestire
nel paese
costruendo una base manifatturiera che produce più di
quanto la Cina, e
persino il resto del mondo, possa consumare.
Con il nuovo millennio, il sogno di sfruttare un mercato
senza limiti si
è vanificato. Le aziende estere hanno puntato sulla Cina
non tanto per
vendere a milioni di acquirenti cinesi di recente
prosperità, ma
piuttosto per fare della Cina la base manifatturiera dei
mercati globali
e trarre vantaggio dalla sua inesauribile capacità di
fornire manodopera
a basso costo. Una tipica azienda che si è trovata in
una situazione di
questo tipo è stata la Philips, azienda olandese nel
settore
elettronico. La Philips gestisce 23 stabilimenti in Cina
e produce beni
per un valore di circa 5 miliardi di dollari, ma due
terzi della sua
produzione è esportata in altri paesi.
Un altro gruppo di attori economici che ha contribuito
all'eccesso di
capacità produttiva sono stati i governi locali che
hanno investito in
industrie strategiche. Anche se questi sforzi sono spesso
stati "ben
pianificati e adeguatamente portati a termine a livello
locale" osserva
Ho-Fung Hung, "la combinazione di questi sforzi nel
suo insieme...
comporta una competizione senza regole tra economie
locali, dando luogo
al sorgere incontrollato di infrastrutture e ad una
capacità di
produzione ridondante".
Di conseguenza, la capacità di produzione inattiva in
settori strategici
come acciaio, automobili, cemento, alluminio e proprietà
immobiliari è
andata aumentando dalla metà degli anni 90, e ci sono
stime secondo cui
più del 75% delle industrie cinesi sono attualmente
affette da eccesso
di capacità produttiva; inoltre gli investimenti in
risorse fisse nelle
industrie già oggetto di sovrainvestimenti,
rappresentano il 40-50%
della crescita del PIL della Cina nel 2005. La
Commissione di stato
cinese per lo Sviluppo e la Riforma prevede che, da qui
al 2010,
l'industria automobilistica arriverà a produrre il
doppio di ciò che il
mercato sarà in grado di assorbire. L'impatto sui
profitti non è da
sottostimare, stando alle statistiche fornite dal
governo: alla fine del
2005, sottolinea Hung, il tasso di crescita del profitto
annuale medio
di tutte le aziende principali si è dimezzato e il
deficit totale delle
aziende in perdita ha subito un'impennata del 57%.
La strategia dei salari bassi
Il governo cinese potrebbe mitigare gli effetti di un
eccesso di
capacità produttiva espandendo il potere d'acquisto
popolare attraverso
una politica di redistribuzione dei redditi e delle
risorse. Fare questo
significherebbe probabilmente rallentare la crescita, ma
anche avere
maggiore stabilità interna e globale. Questo è ciò che
consigliano i
cosiddetti intellettuali della Nuova Sinistra cinese e
gli analisti
politici. Le autorità cinesi, tuttavia, hanno scelto
evidentemente di
continuare con la vecchia strategia di dominare i mercati
mondiali
sfruttando la manodopera a basso costo del paese. Su una
popolazione di
1,3 miliardi, 700 milioni di cinesi - più della metà -
vivono nelle zone
rurali e guadagnano in media appena 285 dollari all'anno,
secondo alcune
stime. Questo esercito di riserva di poveri rurali ha
permesso ai
produttori manifatturieri, sia stranieri che locali, di
tenere i salari
bassi.
A parte gli effetti politici potenzialmente
destabilizzanti di una
distribuzione regressiva dei redditi, questa strategia di
tenere i
salari bassi, come fa notare Hung, "impedisce la
crescita dei consumi
rispetto alla fenomenale espansione economica e
all'aumento degli
investimenti". In altre parole, la crisi globale di
sovrapproduzione
peggiorerà se la Cina continuerà a svendere la sua
produzione
industriale su mercati mondiali le cui scelte sono
dettate da una
crescita lenta.
Circolo vizioso
La produzione cinese e il consumo americano sono come i
proverbiali
prigionieri che cercano di liberarsi, ma non possono
perché sono
incatenati l'uno all'altro. Questa relazione sta
prendendo sempre più la
forma di un circolo vizioso. Da un lato, la pericolosa
crescita cinese
dipende in misura sempre maggiore dalla capacità dei
consumatori
americani di continuare a consumare gran parte
dell'output della
produzione cinese determinato dagli eccessivi
investimenti. D'altra
parte, l'alto tasso di consumi americano dipende dai
prestiti di
Pechino, nei settori pubblici e privati statunitensi , di
una porzione
significativa del trilione e oltre di dollari che la Cina
ha accumulato
nell'ultimo decennio tramite gli enormi profitti
derivanti dagli scambi
commerciali con Washington.
Questa relazione di "chain gang", dice Rajan
del Fondo Monetario
Internazionale è "insostenibile". Sia gli
Stati Uniti che il Fondo
Monetario Internazionale hanno definito la situazione con
l'eufemismo
"squilibri macroeconomici globali" e hanno
confidato nel fatto che la
moneta cinese si rivalutasse riducendo i profitti
derivanti dal
commercio con gli Stati Uniti. Ma la Cina non può
abbandonare realmente
la sua politica di basso costo del denaro. Insieme alla
manodopera a
basso costo, il basso costo del denaro contribuisce al
successo della
Cina nell'ambito della produzione per l'esportazione. E
gli Stati Uniti
non possono permettersi realmente di fare troppo i
difficili con la
Cina, visto che dipendono da un credito aperto da parte
di Pechino per
continuare ad alimentare la capacità di spesa della
classe media, che a
sua volta ne sostiene la crescita economica.
Il Fondo Monetario Internazionale attribuisce questa
situazione a
"squilibri macroeconomici". Ma in realtà si
tratta di un crisi di
sovrapproduzione. Grazie agli stabilimenti cinesi e ai
consumatori
americani, questa crisi probabilmente andrà peggiorando.
Fonte: Z-Net.it
Documento originale Chain-Gang Economics
Foreign Policy In Focus 3 Novembre 2006
Traduzione di Barbara Cerboni
Dopo il Vertice di
Cordoba - Con audacia, il MERCOSUR è riuscito a
cambiare la storia
di Víctor Ego Ducrot
La destra non ha saputo rispondere e ha cercato
di passare la cosa sotto
silenzio. Ciononostante, l'incontro dei capi di Stato
può servire da
innesco per un salto di qualità nella strategia, ponendo
l'accento
sull'elemento politico e sociale.
Né agli Usa né ai loro emissari locali in tutta la
regione può essere
riuscito eccessivamente simpatico il vertice che giovedì
e venerdì
scorsi ha riunito i presidenti dei Paesi membri del
Mercato Comune del
Sud (MERCOSUR), insieme ad altri presidenti di Stati
associati e ospiti.
E' ovvio, dato che la riunione ha messo in evidenza vari
elementi
inediti, che, nell'insieme, danno l'idea di come sia
possibile un salto
di qualità nella strategia, con contenuto politico e
sociale di
carattere controegemonico.
In primo luogo, il conclave sudemericano di Cordoba è
stato
caratterizzato da un fenomeno atipico negli incontri al
vertice di
questo livello.
Nessuno dei capi di Stato presenti è intervenuto
soltanto per farsi
fotografare o per siglare con gesti di asettica
diplomazia gli accordi -
o i disaccordi - elaborati in precedenza dai suoi
cancellieri o dai suoi
tecnici.
Là tutti hanno parlato e hanno prospettato tematiche
che, in certi casi,
alcuni dei partecipanti avrebbero volentieri fatto a meno
di ascoltare.
Non si sono preoccupati di apparire come promotori di un
processo
omogeneo e privo di difficoltà, ma - segno di insolita
maturità
politica, con i tempi che corrono - hanno fatto ciò che
è di loro
competenza: fare politica, manifestare differenze, però
ponendo anche
l'accento su quello che hanno in comune, su quello che -
sia detto
ancora una volta - risulta strategico.
Hanno fatto quanto previsto - ad esempio, definire
criteri unitari di
fronte alle politiche protezionistiche degli Usa e
dell'Unione Europea
in vista dei prossimi negoziati dell'Organizzazione
Mondiale per il
Commercio (OMC) - e fissare un calendario più o meno
definito per
trattare affari in sospeso che, va sottolineato, sono
questione di vita
o di morte per il blocco: delineare misure economiche e
commerciali
tendenti a smussare le asimmetrie interne.
In quest'ultimo senso sarà indispensabile che i soci di
maggioranza - il
Brasile e l'Argentina - e anche il nuovo fiammante quinto
Paese del
blocco, il Venezuela, predispongano tutte le iniziative
che si rivelino
necessarie, mantenendo i principi di base del Mercosur,
affinché i soci
minoritari - Uruguay e Paraguay - che giustamente
reclamano dei
compensi, non possano essere strumentalizzati come
fattori critici.
Cioè affinché vengano neutralizzati come opzione i
canti di sirena del
"libero commercio" che provengono dagli Stati
Uniti e dai loro
silenziosi alleati regionali (questi ultimi, se ci sono
ci sono, come
dice il proverbio popolare riferito al fatto che i
fantasmi non esistono).
I media del blocco egemone - la CNN come pure gli altri
media
statunitensi, ma anche i media vernacolari
latinoamericani - hanno
scelto di passare sotto silenzio il forum di Cordoba o di
tergiversare,
ponendo l'accento sui due aspetti che in realtà sono
risultati
secondari: le differenze interne, peraltro realmente
esistenti, e la
"malsana" politicizzazione del MERCOSUR.
Se i membri del blocco discutono di fronte alla società
i problemi
esistenti, soprattutto nella misura in cui essi
"facciano politica" e
pensino in termini di strategia regionale, si potrà
disarticolare la
matrice neoliberista dei processi di integrazione,
avviata durante gli
anni '90.
Cavalcando i principi del Consenso di Washington, i
regimi politici
dominanti in quel decennio hanno tentato con tutti i
mezzi di far sì che
i processi di integrazione si limitassero ad accordi e
spartizioni di
mercati, a nuove divisioni internazionali del lavoro,
tracciate dalle
corporazioni multinazionali.
Questo "fare politica" allora risulterà
decisivo, poiché il rovescio
della medaglia del Consenso di Washington è proprio un
MERCOSUR, come il
presidente della Bolivia (Stato associato) Evo Morales ha
detto nel suo
intervento plenario di venerdì scorso, che "serva a
risolvere i problemi
delle vittime" (del modello neoliberista).
O, come molte volte ha proclamato il suo omologo di Cuba,
Fidel Castro -
che ha partecipato in qualità di invitato, in quanto il
suo Paese ha
firmato importanti accordi commerciali col blocco - a
condizione che
esistano il desiderio e la volontà politica, il MERCOSUR
potrà diventare
uno strumento assai efficace per risolvere le carenze di
cui le regioni
soffrono nei settori della salute, dell'analfabetismo,
dell'educazione e
dello sviluppo sociale.
Da parte sua, Hugo Chavez, presidente del Venezuela -
Paese presente per
la prima volta in un'assemblea plenaria in qualità di
membro a pieno
titolo - non ha fatto riferimento solo ai potenziali
economici, sociali
e creativi della regione, ma si è riallacciato ad una
riflessione
storica tuttora attuale. Ha ricordato che nel XIX secolo
Simon Bolivar e
altri leaders indipendentisti parlavano di una lega di
repubbliche
sudamericane, una formula che, se applicata tale quale al
contesto
storico presente, potrebbe diventare la chiave, lo
strumento, per dar
forma alle strutture istituzionali di cui si sta
discutendo in seno a
MERCOSUR: il Parlamento, gli organi arbitrali e
tribunalizi, la moneta,
la banca e altre istituzioni comuni.
Proprio a causa di tutto questo gli Usa, che cercano
affannosamente di
conservare un'egemonia autoritaria sulla regione, stanno
facendo e
faranno l'impossibile per disconoscere, tergiversare e
boicottare il
cammino del MERCOSUR, infatti per Washington e per i suoi
alleati
(privati e governi), l'integrazione deve conformarsi ai
Trattati di
Libero Commercio (TLC), che di libero commercio hanno ben
poco e hanno
invece molto, anzi tutto, di sottomissione ai diktat del
modello
neoliberista.
Questa auspicabile politicizzazione del MERCOSUR non
soltanto può dare
un apporto per riuscire a pagare quello che realmente è
un grave "debito
interno" che il blocco ha ancora in pendenza - la
sua esistenza per la
maggioranza e non a beneficio delle multinazionali, come
è successo
finora, ma ha già iniziato ad esprimersi in alcuni
settori di per sé
strategici.
Si tratta del Gasdotto del Sud (comprendendo anche la
Bolivia, il
Paraguay e l'Uruguay), l'introduzione del Buono del Sud
(nella misura in
cui esso risulti uno strumento finanziario con finalità
sociale) e
l'avvio delle deliberazioni per la creazione della Banca
del Sud (a
patto che questa venga concepita come entità creditizia
di sviluppo
regionale).
Dato che la presente analisi pone l'accento sul
"fare politica", non
potrebbe terminare senza un'avvertenza. Gli strumenti
citati nei
paragrafi precedenti saranno strategici in vista di un
mutamento di
paradigma politico da noi in America solo a patto che gli
stessi si
pongano come finalità non il concludere affari
vantaggiosi - le
corporazioni sanno trovare molti adattamenti funzionali
in tal senso -
ma la soluzione strutturale dei problemi reali della
società
sudamericana: la povertà, l'impiego, l'alloggio, la
sicurezza in primo
luogo alimentare, l'educazione, la cultura, la
democratizzazione dei
mezzi di comunicazione, l'ambiente, i diritti umani in
senso integrale
(economici e sociali) e la democrazia effettiva.
In questo senso, il MERCOSUR ha bisogno di un programma
regionale,
discusso e elaborato dagli Stati ma anche dai movimenti
sociali, che
operi sui conti del "debito interno" del
blocco, e con criterio di
urgenza vitale.
Fonte: Agencia
Periodística del MERCOSUR (APM), Mar del Plata /
Argentina
http://www.prensamercosur.com.ar
Traduzione a cura di Cinzia Vidali
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La dittatura della
crescita
di Damien Millet
Tutta la stampa economica ne parla, la previsione
degli esperti si
espone addirittura in prima pagina: secondo l'economista
a capo del
Fondo monetario internazionale (FMI), il mondo sta
vivendo "il periodo
di espansione [...] piu' forte a partire dall'inizio
degli anni '70". La
crescita mondiale dovrebbe avvicinarsi al 5% nel 2006
cosi' come nel
2007, e addirittura al 7% nei paesi in via di sviluppo.
Nessuna pagina di giornale di economia, nessun discorso
"decisionista"
dimentica di lodare questa crescita provvidenziale che
giustifica tutti
i sacrifici. I grandi tesorieri del mondo portano a
modello la Cina e
l'India, paesi verso i quali si moltiplicano le
delocalizzazioni delle
imprese, dove il costo della manodopera e' molto basso e
le condizioni
di lavoro deplorevoli.
Ma di fatto, cosa contiene questa crescita?
La crescita economica di un paese o di una regione e'
direttamente
legata alle politiche che vi sono condotte. Teoricamente,
a cifre
uguali, non puo' avere lo stesso significato in ogni
luogo. Essa
potrebbe riflettere un miglioramento delle condizioni
della vita delle
popolazioni, soprattutto delle piu' umili, che possono
prendere parte
all'attivita' economica e permettere lo sviluppo di
imprese locali che
forniscono innanzi tutto dei beni e dei servizi per il
mercato interno.
Oggi questo non avviene. E' decisamente non equa, e
registra la
manomissione dell'economia mondiale da parte di imprese
multinazionali
molto grandi, la cui cifra d'affari oltrepassa il
prodotto interno lordo
di molti paesi, addirittura di continenti interi. I clan
al potere nei
paesi del Sud vi trovano il loro tornaconto e mettono in
musica sul
posto la partitura dettata dai capi d'orchestra
lussuosamente installati
a Washington, Bruxelles, Londra, Parigi o Tokyo.
Le economie dei paesi del Sud sono dunque connesse
forzatamente al
mercato mondiale e sono le loro esportazioni che
trascinano la crescita.
Lontana dal favorire l'emancipazione degli individui e
dei paesi del
Sud, questa crescita scaturisce dalla loro subordinazione
organizzata
dalla mondializzazione neoliberale nell'ultimo quarto di
secolo. Il
debito ne e' stato il vettore: mentre i paesi del Sud
erano fortemente
spinti a indebitarsi negli anni 1960-70 dai grandi
creditori (banche
private, paesi ricchi, Banca mondiale e istituzioni
multilaterali), il
crollo del valore delle materie prime e l'aumento dei
tassi d'interesse
decisi unilateralmente dagli Stati Uniti alla svolta
degli anni '80
hanno fatto precipitare il terzo mondo nella crisi del
debito.
Era venuto il momento di tirare il cappio...
In seguito, la maggior parte dei paesi in via di sviluppo
hanno dovuto
piegarsi alle esigenze del FMI attraverso i programmi di
aggiustamento
strutturale, la cui priorita' assoluta e' d'organizzare e
di rendere
sicuro il servizio del debito nell'interesse dei
creditori. Le rimesse
in causa delle conquiste sociali, gli attacchi ripetuti
contro le misure
di giustizia sociale, i peggiori arretramenti in termini
di solidarieta'
collettiva o di ridistribuzione della ricchezza sono
stati presentati in
maniera molto abile dai responsabili politici come un
adattamento
indispensabile a una mondializzazione neoliberale eretta
a punto di
riferimento assoluto.
Eppure il sistema economico in vigore attualmente non ha
nulla di
immutabile, al contrario e' il risultato di scelte ben
precise imposte
da coloro che ne traggono profitto. La Cina e l'India,
tanto vantate,
sono ben lontane dall'aver applicato alla lettera le
raccomandazioni del
FMI e della Banca mondiale.
La versione ufficiale afferma che la poverta' (i cui
criteri sono sempre
fissati da non-poveri...) si sta riducendo leggermente a
livello
mondiale, quando invece se si escludono questi due paesi,
il numero di
poveri e' in piena...crescita! I sostenitori della
crescita economica a
tutti i costi si guardano bene dal far sapere che essa
puo' in effetti
rivelarsi depauperante. Inoltre il pianeta non potrebbe
sopportare a
lungo una crescita in tutti i continenti cosi' sostenuta
come quella
della Cina, dell'ordine del 10% annuo, con tutti i danni
ambientali,
umani e sociali che questa porta sulla sua scia.
Alcuni specialisti affermano che se anche i Cinesi
possedessero e
utilizzassero in media un'auto ciascuno come fanno gli
Occidentali, la
totalita' della produzione petrolifera mondiale si
dovrebbe dirigere
verso l'Asia...
La crescita sfrenata vantata dal sistema attuale non puo'
essere eterna.
Di fatto e' obbligata a diventare folle per perdurare, a
creare senza
sosta dei nuovi desideri di consumo, a inquinare per
disinquinare (ad
esempio l'acqua) e a distruggere per ricostruire (ad
esempio l'Iraq). Lo
tsunami del dicembre 2004 sara' positivo per la crescita
dell'Asia,
poiche' le zone industriali non sono state toccate e la
ricostruzione si
sta rivelando lunga e costosa. In queste condizioni, la
ricerca cieca
della crescita non puo' che stritolare l'essere umano, ma
questa
evidenza economica e' taciuta in quanto tocca il cuore
stesso di un
modello che si rivela incapace di integrare seriamente
tanto il fattore
ambientale quanto il fattore sociale. Pertanto questa
crescita non puo'
essere, e non deve essere, l'indicatore assoluto della
buona salute del
mondo.
Traduzione
a cura di Silvia Necco
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Un uomo amabile -
L'ascesa di Liebermann non è casuale
Di Uri Avnery
Nella sua espressione tedesca originaria il nome
- Liebermann -
significa "uomo amabile". Difficile immaginare
un nome meno appropriato
per il nuovo vice primo ministro di Israele. Non è
amabile, né per la
sua personalità né per le sue opinioni - e questo è
l'eufemismo dell'anno.
La sua personale amabilità si può giudicare dal fatto
che una volta è
stato arrestato per aver picchiato un ragazzo che aveva
litigato con suo
figlio.
Questa settimana l'arrivo di Lieberman al centro del
sistema politico
segna l'inizio di un nuovo capitolo negli annali dello
stato di Israele.
La scelta del momento non è casuale. Nei 56 anni della
sua esistenza la
democrazia israeliana non è mai caduta così in basso.
Nelle elezioni di
un anno e mezzo fa quasi il 40% dell'elettorato non ha
votato - il
doppio della percentuale consueta.
Da quel momento le vicende di corruzione si sono
susseguite. Il
presidente dello stato è in attesa di formalizzazione di
diversi capi
d'accusa per violenze e molestie sessuali. Il primo
ministro è oggetto
di una intera serie di indagini per corruzione, in
collusione con una
varietà di miliardari locali e stranieri. Due ministri
sono già sotto
processo. Su Ariel Sharon e sulla sua famiglia era
sospesa una pesante
nube di vicende di corruzione quando è stato colpito
dall'ictus. C'è la
sensazione diffusa che la compagine dirigente del governo
sia cinica e
corrotta.
La corruzione ed il cinismo di questo gruppo si esprime
anche nel
comportamento pubblico. I politici israeliani - e quelli
di tutto il
mondo - non sono mai stati famosi per l'adempienza alle
promesse
elettorali. Ma qui si è raggiunto un nuovo stadio - si
tradisce
dichiaratamente, sotto gli occhi della gente.
Ehud Olmert ha condotto la sua campagna elettorale sulla
base di un
piano specifico e dettagliato - la
"Convergenza". Adesso, senza batter
ciglio, annuncia di averlo abbandonato. Non gli resta che
un solo piano:
restare al potere, a qualunque costo.
Amir Peretz ha raccolto voti in quanto leader che voleva
attuare una
vera rivoluzione "sociale" per metter fine
all'oppressione dei deboli e
degli svantaggiati - gli anziani, i malati, i disoccupati
e tutti gli
altri. La distanza fra ricchi e poveri in Israele è tra
le più ampie del
mondo industrializzato. Peretz aveva anche promesso di
lavorare per la
pace con i palestinesi.
Il giorno successivo alle elezioni Peretz ha tradito le
sue promesse
apertamente, senza vergogna e con sfacciataggine. Per
aiutare la sua
carriera non ha richiesto alcun ministero sociale, ha
invece accettato
il ministero della difesa. Da quel momento ha richiesto
l'aumento del
budget militare a scapito della spesa sociale. Invece
della pace ha
fatto la guerra. Questa settimana ha anche tradito la sua
promessa di
non stare in un governo che comprendesse Avigdor
Lieberman. Quasi tutti
i ministri del Labor Party sono complici di questo
lampante tradimento,
con l'onorevole eccezione di Ofir Pines-Paz che si è
dimesso. (Quattro
dei suoi colleghi del Labor Party, compreso Ehud Barak,
sono in lizza
per prendere il suo posto).
Il primo atto degno di nota della squadra Olmert-Peretz
è stato di
lanciare Israele in una guerra inutile e senza speranza.
L'irresponsabilità di questa decisione di iniziare una
guerra difficile
e complessa è pari solo all'irresponsabilità con cui la
guerra stessa è
stata portata avanti in tutte le sue fasi. Per aggiungere
al danno le
beffe hanno bloccato la nomina di una commissione di
inchiesta indipendente.
La guerra ha lasciato nella gente un profondo senso di
angoscia, oltre
al disgusto provocato dai tradimenti politici e dalle
vicende di
corruzione. La nostra democrazia adesso sembra
completamente marcia,
corrotta e incompetente. Un proverbio ebraico dice:
"la breccia nel muro
chiama il ladro". La situazione attuale chiama le
forze fasciste.
Entra Lieberman.
Gli esperti di comunicazione di Olmert e Peretz cercano
di rassicurarci.
Che c'è di così speciale a proposito di Lieberman, ci
domandano.
Ebbene, sostiene il transfer, l'espulsione dei cittadini
arabi da
Israele. Ha minacciato di distruggere l'Egitto facendo
saltare la diga
di Aswan Dam. Ha chiesto l'esecuzione dei membri
israeliani arabi della
Knesset per essersi incontrati con i leaders siriani e di
Hamas. E
allora? Rehavam Ze'evi la cui memoria è stata onorata
questa settimana
con una speciale cerimonia commemorativa della Knesset,
aveva proposto
la pulizia etnica, e il generale Effi Eytam, il capo del
partito di
unità nazionale, usa un linguaggio simile.
Non si dovrebbe permettere a una persona simile di
entrare nel governo?
E perché no? Dopo tutto Lieberman è già stato membro
di governo, come lo
sono stati Ze'evi e Eytam.
Questo argomento non è valido. Il Lieberman che era
entrato nel governo
Sharon cinque anni fa rappresentava un gruppo marginale
di nuovi
immigrati che non era preso sul serio. Sharon era un
leader forte, i
suoi ministri contavano poco. Ma il Lieberman che è
entrato nel governo
Olmert è tutt'altra cosa.: il leader di un partito forte
che diventa
sempre più forte, sotto un primo ministro che è un
piccolo funzionario
di partito di cui quasi tutti sono stufi.
Il partito di Lieberman è completamente diverso dal
fittizio partito
Kadima e dal decadente Labor Party. E' organizzato
secondo schemi
militari, con Lieberman come capo unico e incontestato.
Ha organizzato
la maggioranza degli immigrati dall'ex Unione Sovietica e
si sta
estendendo anche in altre comunità. Piace ai poveri e
agli oppressi.
Assomiglia al partito bolscevico che Lieberman ha
conosciuto da giovane
in Unione Sovietica. (Per inventare una formula:
bolscevismo meno
marxismo uguale fascismo).
Quando il sistema democratico ispira il pubblico
disprezzo, e quando
prende forza l'opinione che "tutti i politici sono
ladri" e che "il
sistema è marcio alle radici" questo tipo di
persona è un pericolo reale
per la democrazia.
Una vecchia massima dice che Israele può soddisfare solo
due dei suoi
tre desideri: essere uno stato ebraico, essere uno stato
democratico e
conservare tutta la terra fra il Mediterraneo e il
Giordano. Può
conservare tutta la terra ed essere democratico - ma
allora non sarà uno
stato ebraico. Può conservare tutta la terra ed essere
ebraico - ma
allora non sarà uno stato democratico. Può essere uno
stato ebraico e
democratico - ma allora non potrà conservare tutta la
terra.
Questa è stata la base della politica israeliana fin
dall'inizio.
L'argomento principale della "Separazione" di
Sharon e della
"Convergenza" di Olmert era proprio questo: per
fare in modo che Israele
restasse uno stato ebraico e democratico doveva cedere
quelle parti dei
territori palestinesi occupati, densamente abitati da
popolazione araba.
L'estrema destra ha una risposta che assomiglia all'uovo
di Colombo:
tutti e tre gli obiettivi possono essere conseguiti. La
soluzione è la
pulizia etnica - l'espulsione di tutta la popolazione
araba.
Cosa difficile da realizzare in un sistema democratico.
Quindi questo
obiettivo comporta quasi automaticamente che ci sia un
"leader forte".
Il che significa: una dittatura camuffata o conclamata.
Generalmente non viene detto in modo aperto, ma con
allusioni
accompagnate da una strizzatina d'occhi. Anche Lieberman
non lo dice
apertamente. Ma se si ascolta attentamente quel che dice
si possono
trarre le debite conclusioni.
Il fenomeno più deprimente in questo momento è la
mancanza di una
reazione da parte della gente.
Ci si poteva aspettare un tradimento da parte del Labor
Party. Amir
Peretz aveva davvero giurato che non sarebbe mai stato in
un governo con
Lieberman, ma per restare ministro è ben disposto a
vendere i suoi
principi. Non ci si poteva attendere una grande protesta
neppure da
parte di Meretz, dopo che Yossi Beilin aveva fatto la sua
famosa
colazione con Lieberman ed apprezzato lui e le sue
aringhe.
Ma l'opinione pubblica non sembra nemmeno scioccata. Qui
e là qualche
articolo è comparso ma senza sottolineare il pericolo
esistenziale che
minaccia la repubblica israeliana. Nemmeno gli arabi di
Israele, la cui
esistenza è minacciata da Lieberman, hanno dato vita ad
una vera
protesta. Il "Land Day" del 1976 quando i
cittadini arabi protestarono
contro l'espropriazione della loro terra, è stato molto
diverso. E lo
stesso vale per l'ottobre del 2000, quando i cittadini
arabi israeliani
protestarono contro una minaccia alla mosche al Aqsa.
Qual è la ragione di una reazione così debole che
assomiglia a quella
degli ultimi giorni della repubblica di Weimar?
C'è uno sdegno crescente per il sistema democratico.
C'è una stanchezza
generale dopo gli shock dello scorso anno. Ci si ritira
nel proprio
universo privato. Per la "gente della strada"
è difficile immaginare i
pericoli. Sono talmente abituati alla democrazia che non
possono
immaginare che cosa significhi vivere senza. Sono sicuri
che "non può
succedere qui."
Forse hanno ragione? Alla fine del 19mo secolo c'era un
generale
francese chiamato Georges Boulanger. Tutti si aspettavano
che da un
momento all'altro facesse un colpo di stato. Ma il
generale esitava,
continuava a rimandare il colpo di cui tanto si parlava,
finché qualcuno
non gli gettò in faccia: "Generale, alla sua età
Napoleone era già
morto!" Si disse che fu questo a rompere
l'incantesimo, le autorità
cominciarono ad agire e il generale fuggì all'estero.
Forse anche Lieberman si trasformerà in uno spauracchio.
Ma non ci
scommetterei sopra, se gli israeliani non si svegliano a
tempo.
da Znet.it
Documento originale Lovable Man
Traduzione di CV
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