Italia alleata di guerra con l'affare ENI

Ci sono i prodotti distribuiti in Italia delle compagnie che hanno sostenuto la campagna elettorale di Bush, tra cui la Esso su cui è in corso una campagna internazionale. In più si parla di una concreta riduzione dei propri consumi petroliferi. Con l'aiuto fondamentale della giornalista Marinella Correggia, la redazione di Altreconomia pubblica un libro sulle ragioni economiche del conflitto Stati Uniti - Iraq. La compagnia petrolifera italiana ENI sta sfruttando la politica di guerra del governo italiano per spartirsi le risorse petrolifere irachene. L'Eni in quell'area è presente in tutti i Paesi che affacciano sul Mar Caspio. Un'eventuale presenza dell'Eni a Baghdad insieme alle supermajor (Exxon Mobil,Chevron Texano, Bp Amoco, Shell, TotalFinaElf), completerebbe dunque la mappa delle relazioni tessute dal gruppo Eni in questa parte del mondo. Gruppi organizzati promuovono per Venerdì 21 Marzo ore 15 sit-in all'Eni a Roma in P.le E. Mattei. Intanto Medici Senza Frontiere (MSF) mantiene a Baghdad un'equipe medica composta da 6 persone: un chirurgo, un anestesista, un medico esperto in medicina d'urgenza, due logisti e il capo-missione.

Fonti: AltrEconomia

Il Medio Oriente è la principale area per produzione di petrolio e per riserve di petrolio e di gas. In particolare, l'Arabia Saudita, che possiede oltre il 25% delle riserve petrolifere mondiali, si conferma nel 2002 il primo produttore mondiale di petrolio, con un'estrazione media giornaliera di circa 8,3 milioni di barili, mentre l'Iraq mantiene il rapporto più alto tra riserve e produzione con riserve petrolifere per 152 anni.

Il governo italiano sapeva tutto.

Il 22 ottobre 2003 alcuni parlamentari si recarono in visita a Nassiriya incontrando l'ambasciatore italiano a Bagdad, che illustrò ai parlamentari circa la presenza militare italiana finalizzata agli affari del petrolio, in maniera diretta e addirittura "ovvia". Anche la cosiddetta missione "Antica Babilonia" fu giustificata "ufficialmente" come missione con motivi "culturali" legati alla presenza di siti archeologici.... in realtà la scelta della base italiana fu dettata proprio da ragioni completamente estranee alla missione culturale-umanitaria per le quali i soldati furono mandati.

"Diario da Nassiriya"

fine di una illusione

Il libro non è altro che un diario che riporta giorno per giorno l’esperienza in Iraq di Marco Calami, dal 11 ottobre al 12 novembre 2003, partito dall’Italia come Consigliere Speciale della CPA (Autorità Provvisoria della Coalizione) di Nassiriya. Con questo libro Marco C. racconta i principali problemi del popolo iracheno tra i quali la sanità, la sicurezza, l’istruzione, la disoccupazione, in una nazione in cui è cambiato ben poco dal periodo di Saddam, ma che ora presenta le condizioni per farlo. Il libro è ricco di riflessioni di Marco C. che s’interroga più volte sull’andamento della missione, soprattutto nel modo in cui stanno portando avanti le operazioni l’esercito americano, legato al management, all’efficienza, al lavoro di gruppo, e l’esercito inglese che usa ogni giorno la loro "memoria coloniale", la stessa che alla fine della prima guerra mondiale con la caduta dell’impero ottomano costituì l’Iraq, un paese "artificiale" che riunì curdi, sunniti e sciiti, tre popoli profondamente differenti. Marco C. è molto colpito da una riflessione ricevuta dal politologo americano Joseph LaPalombara, secondo la quale la situazione in Iraq non può che peggiorare, che ne sono consapevoli tutti negli Stati Uniti, perfino l’Amministrazione che pur continua a parlare d’importanti progressi sul campo, e che i duri della Casa Bianca non intendono mollare il potere alle Nazioni Unite poiché non vogliono condividere il processo decisionale con i paesi che contano, come la Germania e la Francia. Il libro è di facile lettura e comprensione, tranne una piccola parte iniziale ricca di acronimi di cui non sempre è facile ricordare il significato. La bellezza del libro è data dai dialoghi tra Marco C. e la popolazione irachena perché permettono di fare sentire la voce della gente, ormai stanca di tante parole e di tante promesse da parte della coalizione che rischia di far suscitare ulteriore rabbia e frustrazione nelle persone se le aspettative non saranno soddisfatte.

DIRA’ MARCO CALMAI - ero, diciamo,il numero uno degli italiani civili che operavano all’interno della CPA - AUTORITA’ PROVVISORIA DELLA COALIZIONE - e mi occupavo appunto di questo, dei progetti di ricostruzione. Anzi ho cercato di occuparmene, perche’ poi le condizioni oggettive, come appunto sappiamo, hanno fatto si che la ricostruzione non sarebbe mai cominciata. Insomma e’ saltata, si faceva tutto in minima parte e questo e’ uno dei motivi per cui ho dato le dimissioni. Sono andato via per un atteggiamento critico e globale della strategia anglo americana in Iraq. Cioe’ l’america esporta la democrazia a parole e nei fatti ha impedito la crescita democratica dal basso che per il mio parere e’ essenziale anche per facilitare il processo di ricostruzione.

Ci siamo posti tutti la domanda del perche’ gli italiani avevano la base a Nassiriya e non in altre zone del paese. Ci siamo chiesti perche’ sotto il comando degli inglesi, visto che Nassiriya era una della quattro province sciite dirette appunto dall’inghilterra. Mi sono anche chiesto se c’erano grossi interessi economici e scelte fatte a monte, che spiegavano la presenza italiana a Nassiriya. Pero’ onestamente non c’e’ mai stato un documento, o qualcosa di ufficiale che spiegasse il perche’ gli italiani si trovassero in quel luogo, orientati cioe’ verso quello provincia invece di un’altra.

BENITO LI VIGNI

Benito Li Vigni è stato uno dei più stretti collaboratori di Enrico Mattei, il presidente dell’ENI, scomparso nel 1962 in uno strano incidente aereo che oggi sappiamo con certezza fu originato da un sabotaggio.

DA UNA INTERVISTA A MEGACHIP - <http://www.megachip.info>

Saddam con l'Italia era più generoso - 16-2-06

Dottor Li Vigni, perché siamo a Nassirya?

Io sono convinto che siamo lì per fare affari. Non lo dico io, ma lo dice un dossier del Ministero delle Attività Produttive del febbraio del 2003, che sei mesi prima dell'attacco americano all'Iraq è stato commmissionato al professor Giuseppe Cassano della facoltà di Economia dell'Università di Teramo. In quel documento di 20 pagine, 10 parlavano di petrolio: in parole povere, vi era scritto che se gli Usa avessero attaccato l'Iraq noi avevamo degli affari da difendere e si parlava chiaramente del petrolio di Nassirya. Nel 1996 Saddam Hussein aveva promesso all'italiana Eni, alla russa Lukoil e alla francese Total-Fina condizioni estremamente vantaggiose per lo sfruttamento del petrolio iracheno. Il dittatore chiedeva in cambio un sostegno anti-embargo in sede Onu. Lo dimostra un documento ufficiale Usa, il numero 35AS0713 del "Foreign Suitors for Iraqi Oilfield Contracts", datato 5 maggio 2001, che fa parte del rapporto Cheney sull'energia dello stesso anno.
Il giacimento di Nassirya è valutato attorno ai 3-4 miliardi di barili, il che porterebbe all'Eni circa 3,5 miliardi di dollari. Saddam aveva promesso all'Italia quella zona, e oggi il nostro contingente militare controlla proprio quell'area.

Quindi l'Eni avrà comunque ciò che gli aveva promesso Saddam, anche se ora a garantirglielo sono gli alleati delle "forze della coalizione"?

Secondo la costituzione irachena appena approvata, il petrolio deve rimanere proprietà del popolo. Le grandi compagnie angloamericane non puntano quindi alla privatizzazione dei giacimenti, ma a stipulare con l'azienda petrolifera statale dell'Iraq un contratto molto vantaggioso: esattamente quello che Saddam aveva offerto a Italia, Russia e Francia, e non a loro. Si chiama Production Sharing Agreement (PSA). Prevede che chi riceve in gestione un giacimento lo utilizzi per un periodo che va dai 20 ai 40 anni e soprattutto trattenga dal 40 al 60 per cento dei profitti. Non solo, la compagnia può inserire nei propri bilanci le riserve che ha in gestione ….

…allora americani e inglesi avranno in gestione i giacimenti a queste condizioni vantaggiose, e la nostra Eni otterrà altrettanto per Nassirya. Siamo a posto, avremo quello che volevamo...

No. La novità è che la nuova classe dirigente irachena non sembra essere disposta a concedere alle compagnie straniere contratti come il PSA, così svantaggioso per il popolo iracheno. Questo contratto nel mondo è stipulato solo per il 10 per cento circa delle riserve mondiali, per piccoli giacimenti, e i paesi produttori lo evitano, perché è sostanzialmente un contratto capestro. La situazione attualmente è tale per cui si va verso un fallimento dell'ipotesi PSA. La legge sul petrolio che ora giace al parlamento iracheno molto probabilmente alla fine non prevederà questo tipo di contratto.

Ma questo significherebbe il totale fallimento dell'invasione dell'Iraq, che nella visione dei neocon americani, come è scritto del documento A Project For a New American Century , doveva garantire agli Usa il controllo del petrolio del Golfo.

Certamente. E la posta in gioco è molto più alta di quello che dicono le stime ufficiali, che parlano di 115 miliardi di barili nel sottosuolo iracheno. Infatti secondo il Dipartimento per l'Energia americano ci sono altre ricche riserve nella zona desertica occidentale, che fino ad ora non è stata sfruttata. Inoltre nella parte orientale si attinge solo da 17 giacimenti su 80. Insomma, ci sarebbero circa 260 miliardi di barili nella parte est più - almeno - altri 100 miliardi nella parte ovest, per un totale che può arrivare anche a 400 miliardi di barili sotto l'intero Iraq. Per avere una proporzione, le riserve totali di Stati Uniti, Canada, Messico, Europa occidentale, Australia, Nuova Zelanda, Cina e tutta l'Asia non mediorientale messe insieme non superano i 114 miliardi di barili.

È un fallimento anche per l'Italia?

Se, come è probabile, gli iracheni non concederanno mai a nessuno un contratto capestro come il PSA, non lo otterremo nemmeno noi. È una sconfitta su tutti i fronti per le forze della coalizione, compresa l'Italia e la sua Eni. Io sono convinto che nell'ultimo discorso sullo stato dell'Unione del presidente Bush sia ravvisabile una sorta di pentimento, quando si afferma che gli Usa non debbono dipendere solo dal petrolio. È il pentimento di chi si rende conto che l'invasione dell'Iraq ha isolato gli Stati Uniti nel mondo, senza produrre in cambio i benefici sperati - ricordiamo che l'Iraq non è ancora stato pacificato.

Insomma, l'amministrazione Bush ha fallito su tutti i fronti?

Ha valutato malissimo la situazione sin dall'inizio. Basti pensare a come è stata trattata la minoranza sunnita, che al tempo di Saddam deteneva il potere attraverso il partito Baath. Ricorda? Dopo l'invasione l'esercito è stato immediatamente smantellato. Migliaia di ex soldati affamati e senza più lo stipendio sono andati a riempire le file degli "insorti". Per non parlare di tutta la classe dirigente sunnita che è stata epurata.
Ebbene, il territorio dove si concentrano i sunniti possiede la maggior parte dei giacimenti di petrolio ancora da scoprire. È proprio la parte desertica occidentale di cui le parlavo prima. I sunniti inoltre hanno le infrastrutture: gli oleodotti principali che partono da Bassora passano proprio per il cosiddetto triangolo sunnita (Baghdad-Ar-Ramadi-Tikrit). I sunniti hanno in mano il futuro iracheno, e governare senza di loro non è possibile. Quando gli americani lo hanno capito era troppo tardi: se li erano irrimediabilmente fatti nemici. Per chiudere il cerchio, aggiungiamo che l'altra principale etnia del paese, oltretutto quella maggioritaria, è la sciita. E gli sciiti sono filo-iraniani.

A proposito, il prossimo fronte sembra essere quello iraniano. La questione del nucleare di Teheran è sul punto di giungere sul tavolo del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Al Pentagono preparano nel dettaglio piani di bombardamento dell'Iran. L'Italia ha una Nassirya iraniana? Se il nostro paese dovesse partecipare - magari attraverso la solita formula dell'intervento "umanitario" - ad una guerra contro l'Iran, quali interessi dovremmo tutelare?

L'Italia è il pricipale partner commerciale dell'Iran non solo per il petrolio, ma anche per il gas. Abbiamo in concessione 4 aree in quel paese, dove siamo autorizzati a cercare giacimenti. Nel 1999 l'Iran ha riaperto il suo territorio all'esplorazione da parte di società internazionali, e noi siamo stati i primi ad avere concessioni Buy-Back . Questo tipo di contratto prevede che la società petrolifera che trova un giacimento, nel nostro caso sempre l'Eni, può tenere per sé il ricavato della vendita del greggio fino a che non copre i costi che ha sostenuto per la ricerca, e dopo può trattenere solo il 25 per cento dei ricavi, dando il restante 75 per cento allo Stato. In Iran vige il Buy-Back e il PSA è bandito. L'Italia ha fino ad ora beneficiato della vecchia politica filo-araba dell'Eni di Enrico Mattei, ma la nostra recente politica estera sta incrinando questo rapporto privilegiato.
Abbiamo tutto da perdere dall'aumento della tensione con l'Iran e da ogni nuovo possibile conflitto nell'aerea. L'Iran non può essere invaso come è stato per l'Iraq, è una prospettiva geopoliticamente improbabile. Se verrà bombardato ed emarginato, manterrà comunque la sua sovranità e l'Italia perderà con tutta probabilità i suoi giacimenti.

Benito Li Vigni è autore de "La guerra del petrolio" (Editori Riuniti) ed è in uscita il suo nuovo libro "In nome del Petrolio" con la medesima casa editrice.


di Paolo Jormi Bianchi