E SE POI VOGLIAMO PARLARE ANCHE DEL FINTO SERVIZIO FOTOGRAFICO SEMPRE DA NOI DENUNCIATO... PUBBLICATO IN ANTEPRIMA SUL QUOTIDIANO - IL CORRIERE DELLA SERA - QUANDO LIBERARONO I TRE ITALIANI ... E CI ACCUSAVANO DI ESSERE MATTI...

«Quella casa al numero 17 di Zaitun Street era disabitata da almeno due mesi. Fino a lunedì sera tardi (7 giugno, ndr) quando, intorno alle 23, si è sentito un gran trambusto. Io, che abito al 13, ho visto arrivare alcune auto e fermarsi davanti a quella casa. Sono entrate un po' di persone. Era buio, non abbiamo visto bene. Poco dopo se ne sono andati via ed è tornata la calma».



«Il mattino seguente, intorno alle 9:30, sono arrivate cinque auto militari americane, di colore verde oliva. Si sono fermate davanti a quella casa. Ne sono scesi alcuni uomini vestiti in abiti civili e con gli occhiali scuri. Erano sicuramente uomini del mukhabarat (servizio segreto, n.d.r.) americano. Hanno aperto la porta dell'abitazione, senza forzarla, come se fosse già aperta, e sono riusciti subito con solo quattro uomini, che poi abbiamo saputo essere i tre ostaggi italiani e un ostaggio polacco. Li hanno caricati su un furgoncino bianco e se ne sono andati via. Il tutto con la massima calma.


Non è stato sparato un colpo. Nella casa, a parte gli ostaggi, evidentemente non c'era più nessuno. Non è stato assolutamente un blitz militare come è stato annunciato tre ore dopo. Quelli sono tutta un'altra cosa. Lì si è trattato di una semplice presa in consegna. Gli americani sono andati lì a colpo sicuro. Sapevano che gli ostaggi erano stati portati lì, si erano messi d'accordo.
Il vostro governo ha pagato un riscatto: nove milioni di dollari. Qui ormai lo sanno tutti.


Adesso però basta parlare al telefono, non è sicuro». A parlare, raggiunto al telefono da PeaceReporter, il giornale online di Emergency, è un iracheno, il signor Fahad, che assieme ad altri due suoi vicini, il signor Mohammed e il signor Ibrahim, è stato testimone oculare della liberazione di Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio.


La sua versione dei fatti è confermata da un'altra fonte irachena raggiunta da PeaceReporter, vicina al braccio politico della guerriglia. Una fonte che ha voluto rimanere anonima, e che ha fornito la sua versione di tutta la vicenda del sequestro, delle trattative e della liberazione. La fonte inizia facendo un nome, quello di Salih Mutlak. "Mutlak - dice - è un facoltoso commerciante iracheno arricchitosi con le speculazioni e il contrabbando durante il periodo dell'embargo. Da molti è definito semplicemente come un ‘mafioso'. Lui è il personaggio chiave della vicenda della liberazione dei tre ostaggi italiani, assieme al già noto Abdel Salam Kubaysi (solo un omonimo di Jabbar al-Kubaysi), ulema sunnita e docente all'università di Baghdad, salito all'onore delle cronache televisive internazionali per il suo ruolo nella trattativa per il rilascio - dietro pagamento di riscatto - degli ostaggi giapponesi".


Secondo la fonte, con Mutlak e con Kubaysi il governo italiano avrebbe trattato segretamente per settimane al fine di ottenere il rilascio di Agliana, Cupertino e Stefio, rapiti il 12 aprile assieme a Quattrocchi, ucciso il 14 aprile. Si scoprirà poi che aveva in tasca un porto d'armi rilasciato dalle forze britanniche e un pass della Coalizione. I contatti tra i nostri servizi segreti, il Sismi, e la coppia Mutlak-Kubaysi sono iniziati subito dopo quei tragici giorni, e già il 20 aprile erano cominciate a trapelare notizie sull'accordo con il governo italiano per il pagamento di un riscatto di 9 milioni di dollari. Il 22 era stato lo stesso governatore italiano di Nassiriya, Barbara Contini, a lasciarsi scappare che non c'era nulla da stupirsi del fatto che il governo pagasse un riscatto. "Si è sempre fatto così" aveva detto. Subito dopo aveva smentito questa dichiarazione, e il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aveva detto che si trattava di "storie prive di fondamento". Lo stesso giorno, una qualificata fonte dei servizi segreti italiani rivelava all'agenzia Ansa: "La trattativa, avviata da giorni, è già stata definita in tutti i suoi aspetti, sia para-politici, sia economici. Quello che dovevamo fare l'abbiamo fatto".



Dopo questa burrasca il Sismi ha protestato per queste fughe di notizie che rischiavano di far saltare le trattative in corso. A quel punto, il governo ha deciso di imporre il silenzio stampa assoluto sulla vicenda. "Le trattative - spiega la fonte - sono proseguite fino a quando, all'inizio di maggio, Salih Mutlak è andato in aereo a Roma. Ragione ufficiale del suo viaggio: affari. E' rimasto nella capitale italiana per una ventina di giorni, tornando a Baghdad alla fine di maggio con una valigetta piena di soldi. Cinque milioni di dollari, prima tranche di un riscatto complessivo di nove milioni di dollari. Gli altri quattro, questi erano gli accordi da lui presi, sarebbero stati consegnati ai rapitori dopo la liberazione degli ostaggi". Dopo il ritorno di Mutlak con i soldi, nei primi giorni di giugno si è consumato un duro scontro all'interno delle fila dei guerriglieri iracheni. Da una parte il braccio ‘militare' dei guerriglieri, quelli che detenevano materialmente gli ostaggi e che, tramite Mutlak e Kubaysi, erano in contatto con il governo italiano: per loro l'importante era solo incassare il malloppo. Dall'altra parte il braccio ‘politico' che non voleva fare la figura di una banda di delinquenti che rapiscono per soldi e che quindi non volevano accettare il riscatto. "Noi ci siamo opposti a questo gioco sporco.



Questa storia del riscatto e della messa in scena della liberazione - sostiene la fonte - avrebbe rovinato l'immagine della nostra causa, facendoci passare per dei volgari banditi, e poi avrebbe giovato al governo italiano e quindi prolungato l'occupazione militare dell'Iraq. Noi volevamo consegnare gli ostaggi, senza alcun riscatto, nelle mani di rappresentanti del mondo pacifista italiano, sia laico che cattolico, con cui eravamo già in contatto da tempo e con i quali eravamo vicinissimi a una conclusione". Ancora domenica scorsa 6 giugno, i rappresentati della Santa Sede in Iraq si dicevano infatti certi che la liberazione dei tre italiani sarebbe stata questione di ore. Anche il governo italiano sentiva che la questione era giunta a un punto decisivo: venerdì scorso, 4 giugno, il ministro Frattini ha annullato una sua importante visita a Tokyo per "motivi familiari". Forse quello è stato un giorno decisivo. "Alla fine - prosegue la fonte, con tono infuriato - l'hanno spuntata i ‘militari' senza scrupoli, che nei giorni scorsi, assieme a Mutlak, hanno organizzato in gran segreto il trasferimento dei tre ostaggi italiani dal loro luogo di detenzione, cioè Ramadi, un centinaio di chilometri a ovest di Baghdad, fino alla periferia occidentale della capitale, nel sobborgo di Abu-Ghraib. I tre sono stati lasciati in una casa e poi la loro posizione è stata comunicata ai servizi italiani e a quelli americani perché li venissero a prelevare.



Il loro piano era di far sembrare tutto come un blitz militare che si concludesse con l'arresto dei sequestratori. Ma non è andata così". E in effetti, fonti vicine ai servizi italiani hanno rivelato che i due arrestati effettuati in connessione con il presunto blitz erano in realtà solo due pastori iracheni, che nulla avevano a che fare con la guerriglia e che erano stati pagati per farsi trovare lì. Di certo, il fatto che a condurre l'operazione siano stati militari americani, e non italiani, preclude alla magistratura una effettiva indagine sui "liberatori". In Iraq, al mercato nero delle armi, un kalashnikov costa tra i venti e i trenta dollari. Con nove milioni di dollari se ne possono comprare centinaia di migliaia.

E DA DARFUR AL LIBANO ECCO DOVE SI VOLEVA ARRIVARE...

Darfur. L’industria della guerra umanitaria torna al lavoro

Contropiano

Emergenza umanitaria? Stesse le fonti, stessi i protagonisti, stessi gli obiettivi di sempre: intervento militare con l’obiettivo di disgregare un paese - il Sudan - e mettere le mani sulle sue risorse ( acque del Nilo e petrolio). Una guida ed una lettura ragionata ai documenti che stanno preparando la nuova guerra umanitaria".

Gli uomini di Soros. L’International Crisis Group

L'ultimo rapporto dell'International Crisis Group accusa la Comunità internazionale di fare troppo poco per proteggere le popolazioni civili colpite dal conflitto.

"Darfur: the Failure to Protect". Questo il titolo dell'ultimo rapporto pubblicato oggi dall'organismo internazionale per la difesa dei diritti umani International Crisis Group (Icg). In apertura, Icg invita "il Consiglio di sicurezza a porre un termine alle sue divisioni e agire immediatamente per fermare le atrocità" perpetrate in Darfur.

Nel rapporto, Icg denuncia "un peggioramento delle situazioni umanitaria e politica, e della sicurezza in una regione dove i massacri proseguono in un clima di totale impunità, la gente continua a morire in massa per malattie e malnutrizione, temendo la carestia".
"Le tre risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu hanno fallito nel loro intento di fermare le violenze " commenta Icg, a detta del quale la quarta "in corso di dibattito deve essere sufficientemente incisiva per fare la differenza" in un conflitto che dal febbraio 2003 vede contrapporsi due movimenti ribelli (Sla e Jem) e le milizie armate Janjaweed, a loro volta supportate via aerea dal regime di Khartum. In due anni, le violenze perpetrate dal governo sudanese e dai janjaweed ha fatto 100mila vittime e colpito 2,65 milioni di persone.


Ricordando implicitamente che la soluzione del conflitto va trovata in vie politiche, il direttore del Programma Africa di Icg, Suliman Baldo sostiene che "la risposta internazionale è stata retoricamente forte, ma ci vuole di più che semplici parole per fermare i massacri". Tra le soluzioni ipotizzate da Icg, "vi è la necessità di convincere il governo a mantenere la sua promessa nel disarmare e neutralizzare le milizie Janjaweed". Per raggiungere questo obiettivo, è nessario:
- una risoluzione Onu che imponga misure punitive mirate, come il congelamento dei beni delle principali compagnie legate al regime, impedire alle figure militare chiave di recarsi all'estero, imporre un embargo sulle armi, autorizzare investigazioni e processi della Corte penale internazionale (Cpi) sui crimini atroci documentati dalla Commissione d'inchiesta;


- un Consiglio di sicurezza che autorizza una no-fly zone sul Darfur riogorosamente monitorato dalle forze dell'Unione africana, con un Consiglio pronto a lanciare una forte azione in caso di violazione e
- una decisione tesa a moltiplicare le forze dell'Ua inadeguate (attualmente meno di 2mila) portandole a almeno 10mila soldati e rafforzare il suo mandato per proteggere i civili."

Rapporto marzo 2005

Anche la solita Human Rights Watch comincia a martellare con i suoi rapporti. Le parole strategiche "mobilitanti" sono le stesse di sempre e ci sono tutte:

Darfur: pulizia etnica nel Sudan Occidentale

Human Rights Watch ha di recente pubblicato un rapporto esteso sulla sistematica pulizia etnica condotta dal governo e da milizie arabe da lui sostenute contro le popolazioni africane Fur, Masalit e Zaghawa nel Darfur sudanese. Pubblichiamo il sommario del rapporto.

Il governo sudanese è responsabile di atti di pulizia etnica e crimini contro l'umanità nel Darfur, una delle regioni più povere e inaccessibli del mondo, ai confini occidentali del Sudan, verso il Ciad. Il governo del Sudan e le milizie arabe "Janjaweed" che il governo arma e sostiene hanno perpetrato numerosi attacchi contro le popolazioni civili dei gruppi etnici Fur, Masalit e Zaghawa.


Darfur, villaggio di Jijira Adi Abbe

Le forze governative hanno supervisionato e direttamente partecipato ai massacri, con esecuzioni sommarie di civili - comprese donne e bambini - incendio di villaggi e spopolamento violento di larghe fasce di terra a lungo abitate da Fur, Masalit e Zaghawa. Le milizie Janjaweed, musulmane come i gruppi Africani che colpiscono, hanno distrutto moschee, ucciso leader musulmani e sconsacrato i Corani appartenuti ai loro nemici.

Il governo e i suoi alleati Janjaweed hanno ucciso migliaia di Fur, Masalit e Zaghawa - spesso a sangue freddo - violentato donne e distrutto villaggi, scorte di cibo e altri beni essenziali per le popolazioni civili. Hanno spinto più di un milione di persone, per lo più contadini, in accampamenti e insediamenti nel Darfur, dove vivono in condizioni prossime alla mera sopravvivenza, esposte agli abusi dei Janjaweed.


Circa 110.000 persone sono fuggite nel vicino Ciad, ma la grande maggioranza delle vittime di guerra è rimasta intrappolata nel Darfur.
È un conflitto con profonde radici storiche, aggravatosi a partire dal febbraio 2003, quando due gruppi ribelli, l'Esercito di Liberazione del Sudan/Movimento (SLA/M) e il Movimento per la Giustizia e l'Eguaglianza (JEM), guidati da membri dei gruppi etnici Fur, Masalit e Zaghawa hanno chiesto la fine della cronica marginalizzazione economica e cercato di ottenere una redistribuzione del potere all'interno dello stato sudanese, governato dai gruppi arabi.
Le richieste miravano ad ottenere anche una azione governativa che mettesse fine agli abusi dei loro rivali, pastori arabi spinti dentro i campi degli africani dalla siccità e dalla desertificazione, con alle spalle una lunga tradizione di milizie armate nomadi.

Il governo ha risposto a questa minaccia politica e militare colpendo le popolazioni civili da cui provenivano i ribelli.


Si è impegnato scopertamente in operazioni di pulizia etnica organizzando una alleanza militare e politica con gruppi di nomadi arabi, compresi i Janjaweed; li ha armati, addestrati e organizzati; li ha provvisti dell'impunità per tutti i crimini commessi.

L'alleanza tra governo e Janjaweed è caratterizzata da attacchi congiunti, rivolti più spesso contro le popolazioni civili che contro le forze ribelli: spedizioni composte da membri dell'esercito sudanese e da Janjaweed che indossano uniformi praticamente indistinguibili da quelle dell'esercito regolare.

Sebbene i Janjaweed siano sempre in numero superiore a quello dei soldati regolari, durante gli attacchi le forze governative arrivano per prime e si ritirano per ultime. Come ha raccontato uno sfollato, "I soldati vedono tutto" quello che fanno i Janjaweed. "Arrivano con loro, combattono con loro e se ne vanno con loro".

Gli attacchi congiunti esercito-Janjaweed sono spesso sostenuti dalle forze aeree sudanesi. Molti assalti hanno decimato le piccole comunità contadine, uccidendo in qualche caso anche un centinaio di persone per attacco. Ma la maggior parte delle vittime non compare in alcun tipo di registro.

Human Rights Watch è rimasta 25 giorni all'interno e sui confini del Darfur Occidentale, documentando gli abusi nelle aree rurali precedentemente popolate dai contadini Fur e Masalit.


A partire dall'agosto 2003, larghe fasce di terra, tra le più fertili della regione, sono state incendiate e spopolate.


Con rare eccezioni, la regione è stata svuotata dei suoi originari abitanti Fur e Masalit.


Tutto quello che può servire a sopravvivere - bestiame e riserve di cibo, pozzi e pompe per l'acqua, coperte ed abiti - è stato saccheggiato o distrutto. I villaggi sono stati dati alle fiamme, non casualmente ma sistematicamente, spesso non una volta ma due, a distanza di poco tempo.

La presenza incontrollata di Janjaweed nella regione incendiata e nei villaggi bruciati e abbandonati, ha spinto i civili in accmpamenti e insediamenti ai margini delle città più grandi, dove i Janjaweed uccidono, stuprano e saccheggiano, rubando anche i beni di soccorso ed emergenza, impunemente.

Di fronte agli appelli internazionali che chiedevano la verifica dei rapporti sulle violazioni di massa dei diritti umani, il governo ha risposto negando ogni addebito e tentando contemporaneamente di manipolare e contenere le fughe di notizie. Ha impedito la pubblicazione di rapporti sul Darfur sulla stampa nazionale, ristretto l'accesso dei media internazionali e tentato di ostacolare il flusso di coloro che intendevano rifugiarsi nel Ciad.


Solo con molti rinvii e dopo significative pressioni internazionali è stato permesso l'ingresso nel Darfur di due delegazioni di alto livello delle Nazioni Unite. Il governo ha promesso il libero accesso per gli aiuti umanitari, ma non lo ha poi deliberato.


Al contrario, recenti rapporti, che riferiscono della manomissione di fosse comuni e di altre prove da parte del governo, fanno pensare che il governo sia pefettamente consapevole della gravità dei suoi crimini e che stia tentando ora di coprirne le prove.

Con l'avvio della stagione delle piogge, dalla fine di maggio, e le conseguenti diffcoltà logistiche, accresciute dalla scarsità di strade ed infrastrutture nel Darfur, il monitoraggio dell'incerto cessate il fuoco di aprile e delle violazioni dei diritti umani, nonché l'accesso dell'assistenza umanitaria, diventa ancora più difficile.


L'Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale ha avvertito che se il governo sudanese non cambia rotta e non garantisce il pieno e immediato accesso per gli aiuti internazionali, centomila civili sfollati rischiano di morire per mancanza di cibo e malattie entro i prossimi dodici mesi.

La comunità internazionale, che è già stata troppo lenta nell'esercitare tutte le pressioni necessarie sul governo sudanese perchè metta fine alla pulizia etnica e ai crimini contro l'umanità ad essa associati, deve agire ora.
Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, in particolare, dovrebbe prendere misure urgenti per assicurare la protezione dei civili, provvedere alla distribuzione degli aiuti internazionali e fermare la pulizia etnica nel Darfur.


Presto sarà troppo tardi.

28 giugno 2004.

Ancora Human Rights Watch. Si passa dalla denuncia alle "conferme" (di chi non lo sapremo mai) . Lo schema è quello consueto, quello già visto in Kosovo, a Cuba, in Iraq. Obiettivo? Dimostrare strumentalmente il legame tra il banditismo dei gruppi nomadi Janwawid e il governo del Sudan…per colpire il governo del Sudan (ovviamente).

Confermati i legami tra governo sudanese e milizie nel Darfur

Human Rights Watch ha comunicato oggi - 20 luglio 2004 - che documenti del governo Sudanese dimostrano chiaramente che funzionari governativi hanno diretto il reclutamento, l'armamento ed altre modalità di supporto delle milizie etniche conosciute come Janjaweed.

Il governo sudanese ha sempre negato di essere coinvolto nell'arruolamento e nell'armamento delle milizie Janjaweed, anche durante le recenti visite del Segretario di Stato americano Colin Powell e del Segretario Generale dell'ONU Kofi Annan.

Human Rights Watch ha affermato di avere ottenuto dall'amministrazione civile nel Darfur documenti confidenziali che implicano funzionari di alto grado del governo sudanese in una politica di sostegno della milizia.

"È assurdo distinguere tra le forze del governo Sudanese e le milizie, sono un'unica cosa," ha detto Peter Takirambudde, direttore della sezione Africana di Human Rights Watch. "Questi documenti mostrano che le attività delle milizie non sono state solo tollerate, ma specificamente sostenute da funzionari del governo sudanese."

Human Rights Watch ha ricordato che le forze governative sudanesi e le milizie sostenute dal governo sono responsabili di crimini contro l'umanità, crimini di guerra e 'pulizia etnica' attraverso attacchi aerei e terrestri contro civili appartenenti alle stesse etnie dei due gruppi ribelli del Darfur. Migliaia di civili sono stati uccisi, centinaia di donne e ragazze sono state violentate e più di un milione di persone sono state trasferite forzatamente dalle loro case e campi nel Darfur.

In una serie di documenti ufficiali in arabo emessi dalle autorità governative nel nord e nel sud del Darfur, datati da febbraio a marzo 2004, i funzionari parlano di reclutamento e sostegno militare, compreso di "provviste e munizioni" da consegnare a noti capi delle milizie Janjaweed, campi e "tribù lealiste".

Una particolare direttiva censurata di febbraio ordina a "tutte le unità di sicurezza" nell'area di tollerare le attività del famoso capo Janjaweed Musa Hilal nel Nord Darfur. Il documento sottolinea l'importanza rivestita dalla non interferenza per "non mettere in forse la sua autorità" e autorizza le unità di sicurezza della provincia del Nord Darfur a "sorvolare su reati minori condotti dai combattenti sui civili sospetti membri della ribellione".

Un altro documento fa riferimento a un piano di "operazioni di ricollocazione dei nomadi nei luoghi da cui i fuorilegge [i ribelli] si sono ritirati". Questo, come la recente dichiarazione del governo secondo la quale gli sfollati verranno mandati in 18 accampamenti invece che nei loro villaggi, aumenta il sospetto che si voglia consolidare la pulizia etnica iniziata impedendo a questa gente il ritorno alle proprie terre e villaggi.

Human Rights Watch ha fatto un appello perché i funzionari governativi coinvolti nella politica di sostegno alla milizia vengano aggiunti nella lista delle sanzioni inclusa nella risoluzione pendente presso l'ONU. Inoltre, ha chiesto che venga avviata una attività di monitoraggio internazionale del disarmo delle milizie e l'insediamento di una commissione internazionale di inchiesta sugli abusi commessi nel Darfur da tutte le parti in conflitto.

"Il Sudan ha lanciato una grande campagna di pubbliche relazioni, apparentemente diretta a guadagnare tempo per le iniziative diplomatiche in corso," ha detto Takirambudde, "ma a questo punto e con queste ulteriori prove, Khartoum non ha più nessuna credibilità. Il governo sudanese ha sfruttato il tempo guadagnato solo per consolidare la pulizia etnica nel Darfur".

Mentre il governo si è dato il compito di disarmare i gruppi "fuorilegge", compresi gli insorti, non è chiaro se le milizie Janjaweed che ha sostenuto siano considerate dal governo come uno dei gruppi da disarmare. Rapporti sempre più numerosi riferiscono che i membri delle milizie Janjaweed vengono assorbiti nelle nuove forze di polizia schierate dal governo a "difesa" dei civili nel Darfur. Human Rights Watch ha affermato che in nessuna circostanza membri dei Janjaweed che abbiano partecipato ad attacchi, omicidi e stupri dei civili possono essere inclusi tra le forze militari e di polizia che il governo sta usando per proteggere la popolazione.

Inoltre, Human Rights Watch ha fatto appello per una immediata e netta risoluzione delle Nazioni Unite che sanzioni Khartoum e i funzionari del governo responsabili di crimini contro l'umanità.

"L'ambiguità delle dichiarazioni del governo dimostra che il monitoraggio indipendente del processo di disarmo è cruciale", ha detto Takirambudde. "L'Unione Africana e gli altri organismi di controllo internazionale devono osservare con estrema attenzione i piani di ricollocazione degli sfollati ed assicurarsi che le milizie non siano solo disarmate, ma allontanate definitivamente dalle aree civili che hanno lasciato."

I documenti che dimostrano i legami tra governo e Janjaweed sono discussi nel dettaglio sul sito di Human Rights Watch - www.Socialpress.it <http://www.anti-imperialism.net/lai/www.Socialpress.it>

21 luglio 2004.

Anche i professionisti italiani dell’industria della guerra umanitaria si aggregano. Sono gli stessi dell’Afganistan, gli stessi dell’Iraq. Sono soprattutto CESVI e INTERSOS. Gli stessi a cui appartiene Barbara Contini - ieri governatrice di Nassirya per conto della coalizione ed oggi nominata responsabile dell’operazione Darfur. Sono anche le stesse ONG a cui appartenevano i volontari diventati "contractors" in Iraq al servizio delle truppe di occupazione USA. Nella primavera del 2004 parte "L’operazione Darfur" ed a luglio il CESVI apre il suo ufficio nella capitale sudanese Kartoum.

Le organizzazioni umanitarie si coordinano. Aiuti, ecco il comitato.

Paul Ricard - 01/03/2005

È una onlus che farà sensibilizzazione e raccolta fondi. Una scelta di collaborazione per essere più incisivi.

Di fronte ai massacri in Darfur c'è un pezzo d'Italia che non si rassegna, e da tempo opera per rispondere ai bisogni di una popolazione in balìa di una grave emergenza umanitaria. Sono i cooperanti di quattro ong italiane che da tempo sono impegnati in un'azione coordinata con la Cooperazione italiana allo sviluppo su progetti straordinari di "impatto immediato".
Il lavoro umanitario in un contesto difficile e pieno di insidie come quello del Darfur e su territorio grande quasi due volte l'Italia, ha spinto le ong italiane a un'azione sempre più coordinata sia per ragioni di sicurezza, sia per dare più efficacia alle proprie azioni. Perciò il fatto che Cesvi, Coopi, Cosv e Intersos si siano costituite insieme nel Comitato Darfur onlus per svolgere attività di sensibilizzazione e di raccolta fondi, ci sembra un segnale foriero di positivi sviluppi nell'idea di cooperazione, non solo nella regione africana.


Il Comitato, nato sotto gli auspici della direzione Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Affari esteri, è anche esempio di sperimentazione di una collaborazione finalizzata, sin dall'inizio, al perseguimento di uguali obiettivi tra l'istituzione e le realtà del non profit. Sos Darfur è il nome della campagna di sensibilizzazione e di raccolta fondi a favore dei progetti umanitari in Darfur che si svilupperà per tutto il 2005.

Intervista dell'Eco di Bergamo agli operatori del Cesvi nel Darfur

Nel Darfur, un'area grande quasi due volte l'Italia e situata nella parte occidentale del Sudan, è in corso un violentissimo conflitto interno fra gruppi armati locali e milizie filo-governative.


Circa un milione sono gli sfollati nei campi profughi, e negli ultimi mesi oltre 170 mila persone si sono rifugiate nel vicino Ciad. 30 mila sono i morti.


Il 19 luglio scorso il Cesvi ha riaperto un ufficio a Kharthoum, la capitale, inviando una missione di esperti in Sud Darfur, nella zona intorno a Nyala, dove in precedenza l'organizzazione ha svolto interventi nel settore idrico.


I progetti del Cesvi mirano a sostenere la popolazione nei campi profughi e nei villaggi del Darfur. Le attività riguardano la distribuzione di generi di prima necessità e il miglioramento dei servizi igienico-sanitari.


Ad oggi il 48% delle persone sfollate in Darfur non riceve aiuti alimentari, il 46% è ancora senza un riparo all'interno dei campi, il 62% non ha accesso ad acqua pulita, l'87% non ha accesso a servizi igienici, mentre l'assistenza sanitaria di base è disponibile solo per la metà della popolazione vittima del conflitto (nei campi e non).
L'assistenza ai profughi è ancora difficile: non tutti i 134 campi sono assistiti, molti di questi si trovano in aree non accessibili, la stagione delle piogge è gia iniziata e ci vogliono giorni in attesa perché la piena dei fiumi diminuisca e sia possibile raggiungere le aree più isolate. Molti campi sono ad alta concentrazione di persone e dunque ad alto rischio di epidemie (colera, poliomielite, morbillo). Inoltre, non tutti possono essere assistiti a causa delle difficili condizioni di accesso.

La protezione e la sicurezza delle persone sfollate, insieme all'emergenza nutrizionale e sanitaria, rappresentano le preoccupazioni principali in questa fase di grande emergenza.

Non poteva mancare Medici Senza Frontiere. Tra loro c’è tanta brava gente ma il suo ex capo, Bernard Kouchner, è stato la testa d’ariete della guerra umanitaria in Jugoslavia. E' stato il teorico della "ingerenza" e della guerra umanitaria nei Balcani. E’ diventato poi il governatore del Kosovo occupato dalla NATO e adesso è deputato del Partito Socialista Francese. Non è una brava persona. Le sue responsabilità sulla Jugoslavia sono enormi.

Rapporto di MSF a 18 mesi dall'inizio delle operazioni di soccorso umanitario in Darfur

Persecuzioni, intimidazioni e fallimento degli aiuti umanitari in Darfur MSF: "Tante parole, molta attenzione, ma pochi cambiamenti sul terreno"

(01/11/2004)

Nonostante i numerosi impegni, sia la comunità internazionale sia il Governo Sudanese non hanno fornito assistenza e sicurezza alle persone del Darfur, afferma Medici Senza Frontiere nel suo ultimo rapporto sulla situazione in Darfur. A più di un anno dalla fuga dai loro villaggi e dopo tante promesse, la vita degli sfollati è quotidianamente in pericolo. "Tante parole, molta attenzione, ma pochi cambiamenti sul terreno per garantire la sicurezza dei civili. La comunità internazionale deve ricordarsi che le violenze e le sofferenze in Darfur non sono ancora finite." Dichiara Ton Koene, Coordinatore di MSF per l'emergenza Darfur.

Per oltre un anno, le persone del Darfur hanno sopportato una terribile campagna di violenze e terrore che ha causato un enorme numero di morti e la fuga di più di un milione di persone dai loro villaggi distrutti. Gli sfollati raccontano a MSF di vivere sotto il controllo di quelle persone che hanno bruciato le loro case e ucciso le loro famiglie. Hanno troppa paura di tornare alle loro case e sono spaventati di rimanere dove sono. Ancora oggi, in Darfur, la sicurezza è un'illusione. Su quest'aspetto, la comunità internazionale e il Governo sudanese hanno totalmente fallito.

Il Darfur rappresenta oggi il maggior intervento di MSF. Più di 250 operatori internazionali e 2.500 operatori locali forniscono assistenza a circa 700.000 sfollati in Darfur e 85.000 profughi sudanesi in Ciad. Dall'inizio della crisi, MSF è stata testimone dell'estensione e della natura delle violenze contro i civili in Darfur e dell'impatto che questa situazione ha sulle condizioni sanitarie e nutrizionali della popolazione.

Il rapporto cerca di comunicare cos'è successo alla salute delle persone in Darfur sulla base di dati forniti dalle nostre cliniche e da indagini epidemiologiche. Accampamenti di massa, condizioni di vita precarie e la carenza di cibo hanno un notevole impatto sullo stato di salute della popolazione. Le principali cause di morte sono infezioni respiratorie, diarrea e malaria. L'alta incidenza di queste tre malattie può essere facilmente spiegata dalla mancanza di ripari adeguati, dalle sapventose condizioni igieniche e di approvvigionamento idrico. MSF sta lavorando al limite delle sue capacità.

Per migliorare la situazione, gli sfollati del Darfur devono avere:

. Un aumento dell'assistenza umanitaria in termini di qualità e quantità.
. L'accesso all'assistenza umanitaria ovunque abbiano trovato rifugio.
. La libertà di vivere senza la minaccia della violenza.

Infine arriva anche l'ONU che si conferma come organismo ben adeguato a giocare un ruolo estremamente ambiguo. Il rapporto dell'ONU sul Darfur denuncia che ci sono vittime ma deve ammettere di non essere presente (e dunque di poter verificare) lì dove avverrebbero i massacri. Resta "l'ufficialità" della denuncia sulla quale nessuno però si perita di indagarne la veridicità. Tanto basta a preparare la spedizione militare internazionale in Sudan.

Darfur: Onu, bilancio vittime superiore alle stime

A dirlo è il coordinatore per gli Aiuti umanitari dell'Onu, Jan Egeland, di ritorno da una visita in Sudan

Paul Ricard - 10/03/2005

Il bilancio delle vittime nel Darfur è decisamente superiore a quanto finora stimato, circa 70mila morti, e risulta impossibile averne uno più completo perchè ''è dove non ci siamo che avvengono gli attacchi''. A dirlo è il coordinatore per gli Aiuti umanitari dell'Onu, Jan Egeland, di ritorno da una visita in Sudan, sottolineando come quella stima, che si riferisce al periodo compreso tra marzo e l'estate dello scorso anno, non è di nessun aiuto. ''E' tre volte tanto?, cinque volte? Non lo so, ma è svariate volte il bilancio di 70mila morti''.

''Se ci si sposta oltre i campi, le donne vengono regolarmente stuprate - ha aggiunto Egeland nel corso di una conferenza stampa al Palazzo di Vetro - Ho detto agli alti esponenti del governo che la situazione è assolutamente fuori controllo e che non viene in nessun mdo arginata''. L'unica forza che si oppone a queste atrocità è il contingente di peacekeeping dell'Unione africana, definito ''coraggioso'' da Egeland, che si è però chiesto come abbiano fatto ad impiegarci dieci mesi per inviare una forza di appena 2mila soldati in un'area dove sono operativi 10mila operatori umanitari. ''Ci sono molti paesi in Africa che potrebbero inviare più forze e più rapidamente - ha spiegato - Ciò di cui abbiamo bisogno sono altre forze sul campo''.

Egeland si è infine detto a favore dell'imposizione di sanzioni contro il governo sudanese, come previsto dalla bozza di risoluzione presentata da Washington e al vaglio del Consiglio di sicurezza. Il testo autorizza l'invio nel sud del paese di una missione di peacekeeping dell'Onu, composta da 10mila soldati, l'embargo delle armi e misure restrittive contro chi è sospettato di atrocità e di violazioni dei diritti umani.

Sudan: approvato da Onu invio forza di pace di 10mila unità

Paolo Manzo - 25/03/2005

Il Consiglio di Sicurezza però non ha preso alcuna decisione sul conflitto nella regione occidentale del Darfur

Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha approvato una risoluzione che prevede l'invio di una forza di pace di 10.000 uomini in Sudan per contribuire all'applicazione dell'accordo di pace firmato in gennaio tra il governo e le forze dell'opposizione armata del sud del Paese.

La risoluzione, avanzata dagli Stati Uniti, è stata approvata all'unanimità. Ci vorranno alcuni mesi per mettere insieme la forza di pace, che dovrà comprendere 10.000 militari e un massimo di 715 agenti di polizia. Il Consiglio di Sicurezza però non ha preso alcuna decisione sull'altra grave emergenza che riguarda il Sudan: il conflitto nella regione occidentale del Darfur. Una risoluzione presentata dalla Francia, che prevede l'imposizione di sanzioni a Khartum ma il punto controverso è come e dove processare i responsabili delle atrocità che si stanno commettendo in quella regione.

La Francia ha proposto di deferire i sospetti criminali di guerra alla Corte Penale Internazionale, organismo cui Washington non aderisce, e cui è contraria. Ma un veto degli Usa potrebbe rappresentare un segnale di impunità per chi si è macchiato di atroci delitti contro la popolazione civile.

Infine non potevano mancare i registi di sempre. L’USAID statunitense, agenzia "umanitaria" creata e finanziata dalla CIA, attiva in tutti i teatri in cui c’è stato l’intervento militare americano: dall’America Latina al Vietnam. Sono anni che intervengono in Sudan e partecipano alle triangolazioni politiche e militari tra i gruppi "ribelli", i paesi africani confinanti filo USA (Uganda, Eritrea,Ciad) il Dipartimento di Stato USA e Israele.

Darfur: attacco a convoglio umanitario (USAID)

Joshua Massarenti - 23/03/2005

Un'ong americana cade in un'imboscata nel Darfur meridionale. Un'operatrice umanitaria ferita.

Un convoglio umanitario di una organizzazione non governativa statunitense è caduto in un'imboscata tesa da uomini armati non ancora identificati nel Darfur meridionale, uno dei tre Stati che compongono l'omonima regione occidentale sudanese teatro da oltre due anni di scontri e violenze che hanno causato una grave crisi umanitaria. Lo riferiscono alla MISNA fonti umanitarie in Darfur, precisando che nell'agguato - avvenuto tra le città di Kass e Nyala - è rimasta ferita una cooperante americana dell'organizzazione governativa 'Usaid' raggiunta al volto da una pallottola.

La notizia, confermata sia dalle Nazioni Unite che dal dipartimento di Stato Usa, riporta l'attenzione sul problema della grave insicurezza in cui versano alcune zone del Darfur. Un aspetto che crea problemi soprattutto alle molte organizzazioni umanitarie che operano nella regione per cercare di portare aiuti alla popolazione, provata da più di due anni di conflitto e di tensioni. Dopo aver condannato l'episodio, l'inviato delle Nazioni Unite, Jan Pronk, ha detto che attacchi come questo continueranno finchè la comunità internazionale non sarà in grado di dispiegare una forza di pace di almeno 8.000 uomini col compito di proteggere la popolazione civile e gli operatori umanitari.

In un comunicato diffuso oggi, anche il ministero degli Esteri sudanese ha «condannato l'attacco», promettendo un'indagine sull'incidente. Dal dicembre scorso, almeno sei operatori umanitari stranieri e sudanesi sono stati uccisi durante attacchi o agguati ai convogli umanitari. Soltanto la scorsa settimana, l'avanguardia della Missione delle Nazioni Unite in Sudan (Unamis) aveva diffuso un rapporto in cui esprimeva le proprie preoccupazione per l'aumento degli attacchi (spesso a scopo di rapina o per sottrarre il contenuto del carico) contro i mezzi delle organizzazioni umanitarie.

NOTA . L’USAID è da tempo che è presente in Sudan.. Nel 1992 alcuni "operatori" della USAID furono uccisi nella regione meridionale dello Juba dove imperversava il conflitto tra il governo e il SPLA di John Garang. Dall’autunno del 1992 gli USA hanno cominciato ad attaccare il governo sudanese allora in mano a militari ed islamici (al Bashir). Il SPLA riceveva aiuti militari dall’Uganda che era entrato nella sfera statunitense. L’Uganda fungeva da retrovia.

Ma i paesi africani capiscono il trucco e gli obiettivi del pressing umanitario e si oppongono all’operazione interventista in Darfur.

Darfur , per gli Usa è genocidio. Unione Africana: "No alle ingerenze"

Carla Amato (Osservatorio della Legalità)

Il Sudan ha rifiutato ieri di accettare una dichiarazione degli Stati Uniti che definiva "genocidio" gli accadimenti violenti nel Darfur, ma subito dopo il presidente USA George W. Bush ha girato il coltello nella piaga dicendo di essere inorridito dalle violenze nella regione.

"Si tratta di un'altra specie di pressione portata contro il governo del Sudan dagli Stati Uniti e dai governi occidentali, il genere di pressione politica generale che mostra come gli Stati Uniti non siano amici del Sudan," aveva detto Ahmad Hassan Al-Zubair, il ministro delle finanze del Sudan; "dimostreremo che è vero che il conflitto nel Sudan è un problema tribale interno e sarà opportuno che sia il governo nazionale a risolvere questo problema."

In precedenza il governo del Sudan aveva protestato sia con gli Stati Africani, sia con la Lega Araba che gli USA cercavano una scusa per inviare truppe di invasione e rovesciare il governo di Khartoum. Tuttavia, un portavoce per il movimento dei ribelli per la liberazione del Sudan (SLM), Abd Al-Hafiz Mustafa Musa, ha commentato l'ultima azione degli Stati Uniti come "sviluppo benvenuto."

Il segretario di Stato USA Colin Powell aveva detto, in un'udienza in Senato, che le indagini fatte dagli Stati Uniti e da altre fonti "hanno concluso che è stato commesso genocidio in Darfur e che il governo del Sudan e le brigate Janjaweed ne hanno la responsabilità," ma capi dell'Unione Africana fanno notare che, durante la visita di Powell in Sudan, egli aveva sottolineato che non si trattava di genocidio: "se oggi sta affermando che era genocidio, vorremmo essere messi a parte di tali informazioni."

I presidenti del Sudan e del vicino Chad, che ha ricevuto 200.000 rifugiati fuggiti dal Darfur, i quali hanno partecipato ad un incontro fra Stati sul problema della disoccupazione, a margine all'incontro hanno espresso una convergenza su una soluzione pacifica e diplomatica della situazione, sottolineando che "una soluzione militare non risolverà i problemi in Darfur e sarebbe una catastrofe assoluta", aggiungendo che il governo del Sudan ha accettato il rinforzo dell'attuale missione militare dell'Unione Africana in Darfur.

L'Unione Africana è stata quindi molto chiara sul fatto di considerare come ingerenza un eventuale intervento di una forza non Africana in Sudan, mentre gli Stati Uniti stanno preparando una nuova risoluzione delle Nazioni Unite riguardante la crisi nella travagliata regione del Darfur, per ottenere sanzioni internazionali contro il governo di Khartoum, e lo stesso Bush è intervenuto invocando l'intervento dell'ONU.

I morti nella regione sono forse 50.000, mentre 200.000 sono i rifugiati in Ciad e 1.200.000 persone sono a rischio di vita per la persecuzione, le malattie e la fame. Anche la FAO ha lamentato di recente le condizioni proibitive in cui sono costrette ad operare le varie missioni umanitarie a causa di violenze che continuano a verificarsi nonostante il cessate il fuoco dichiarato.

Anche all’ONU qualcuno comincia ad avere dubbi sulla trasparenza e i veri obiettivi dell’Operazione Darfur. Russia, Cina e Algeria si astengono sulla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU

Mosca contraria alle sanzioni Onu sul Darfur

Joshua Massarenti - 30/03/2005

Il governo russo giudica "contro producenti" le sanzioni votate ieri dal Consiglio di sicurezza contro i responsabili delle atrocità in Darfur

Mosca ha definito oggi "controproducenti" le sanzioni votate ieri dal Consiglio di sicurezza dell'Onu contro i gruppi ritenuti responsabili delle atrocità pepetrate in Darfur. Lo riferisce l'Afp. L'Onu ha inoltre imposto un embargo sulla vendita di armi al governo sudanese. "Giudichiamo controproducente la decisione di imporre al governo sudanese delle restrizioni severe che riducono obbiettivamente la sua capacità di garantire la sicurezza ai civili del Darfur, e di mantenere l'ordine nella zona di conflitto". Lo ha sottolineato il ministro russo degli Affari esteri in un comunicato in cui esprime seri "dubbi riguardo un monitoring efficace sull'applicazione delle misure previste dalle sanzioni contro i gruppi non governativi in Darfur".
La risoluzione, proposta inizialmente dagli Stati Uniti, impone inoltre il congelamento dei beni e il divieto di spostamenti per gli individui ritenuti colpevoli dei crimini commessi in Darfur. Oltre alla Russia, la Cina e l'Algeria si erano astenuti di votare la risoluzione.

La Cina ha accettato di inviare un contigente a sostegno della missione di peacekeeping delle Nazioni Unite in Sudan. Lo ha reso noto l'agenzia China New citata dall'Afp. Secondo l'agenzia di stampa cinese, su richeista dell'Onu, Pechino dispiegherà del personale medico, ingegneri, osservatori militari e poliziotti.

Senza rivelare cifre, China New si limita a citare il ministro cinese degli Affari esteri secondo il quale la Cina ha da sempre sostenuto le missioni di pace dell'Onu. Prova ne é, secondo il ministro, la decisione di consolidare gli sforzi della Comunità internazionale per il ritorno alla pace in Sudan. In realtà, per via degli interessi geostrategici (petrolio su tutto) che nutre in Sudan, la Cina si è da sempre opposta alle sanzioni dell'Onu contro il regime sudanese del presidente Omar el Beshir.

Il 24 marzo scorso, il Consiglio di sicurezza dell'Onu aveva deciso l'invio di una missione composta da oltre 10mila soldati per sostenere l'applicazione dell'accordo di pace siglato il 9 gennaio 2005 tra il regime centrale di Khartum e i ribelli sud sudanesi dello Splm/a (Esercito/Movimento di liberazione del Sudan). La forza di pace, battezzata Unmis (Missione delle Nazioni Unite in Sudan), ha un mandato inziale di sei mesi.

Qua e là lo tsunami mediatico sul Darfur comincia a perdere colpi. Qualcuno comincia a mettere in campo la controinformazione e a segnalare la vera posta in gioco. Il petrolio ma anche - e forse soprattutto - l’acqua del Nilo. In Sudan potrebbe essere sperimentata e combattuta la prima "guerra dell’acqua"

Darfur: le potenze occidentali orchestrano la disintegrazione del Sudan

Uwe Friesecke

Alla fine di luglio la crisi sudanese è entrata in una fase acuta con l'approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU della risoluzione stilata dagli Stati Uniti.
La situazione umanitaria per circa un milione di persone è catastrofica. 200 mila persone hanno abbandonato la regione del Darfur, dove infuriano gli scontri tra fazioni rivali per cercare rifugio nel vicino Chad o nei campi profughi in prossimità dei maggiori città del Darfur. Una mobilitazione della comunità internazionale è indispensabile per soccorrere i rifugiati attraverso le strutture delle Nazioni Unite. Cercare invece di sfruttare questa crisi per ricattare in maniera ancora più forte il governo di Karthoum, come fanno quegli ambienti che in occidente hanno caldeggiato la risoluzione e cercano di imporre le sanzioni o addirittura un intervento armato, significa scherzare con il fuoco: si rischia di mettere in moto un processo di disintegrazione del Sudan simile a quello che 15 anni fa ha distrutto la Somalia. Le conseguenze per l'intera regione, compresi i paesi vicini al Sudan, sono imprevedibili.

La crisi nel Darfur

La crisi in questa regione sudanese che copre un territorio vasto quanto quello della Francia trae origine, in primo luogo, dal deterioramento decennale della situazione economica di una popolazione sempre più numerosa. Una serie di siccità che colpirono la regione negli anni Ottanta costrinsero i nomadi del Nord a trasferisi più a Sud in cerca di pascoli per il bestiame. Così, le tensioni tradizionali tra le popolazioni nomadi e quelle stanziali, o tra pastori e contadini, si acuirono in maniera pericolosa. L'autorità centrale dello stato stenta a far sentire la propria autorità in questa regione dove usanze e consuetudini hanno un peso decisamente maggiore delle leggi decretate dal governo.


Un secondo fattore di destabilizzazione è costituito dai giochi di potere di fazioni diverse del vicino Ciad e delle élite sudanesi a Khartoum che cercano il loro tornaconto nella regione. Ad esempio, nel 1990, Idriss Déby diventò presidente del Ciad con un golpe organizzato proprio dal Darfur, dove contava sul sostegno della popolazione Zaghawa, che è distribuita nel Ciad e nel Darfur. Come reazione all'usurpazione del potere in Ciad da parte dei Zaghawa, altre popolazioni fuggirono dal Ciad per rifugiarsi nel Darfur, dove si costituirono delle milizie per combattere la maggioranza Zaghawa. Questa è una delle origini delle milizie Janiawid. Ma tutte queste popolazioni sono di religione musulmana e la loro differenza nasce dalla cultura e dalla tradizione e non tanto dalla religione o dalle razze.

Ciò che viene comunemente asserito -- che questo conflitto nel Darfur vede gli arabi del Nord (nomadi e miliziani Janjawid) schierati contro gli africani più meridionali (contadini e ribelli anti-governativi) -- non ha alcun senso appena si considera che i principali leader dei due gruppi ribelli, il Movimento/Esercito di liberazione sudanese (SLA) ed il Movimento per la giustizia e l'uguaglianza (JEM) sono seguaci di Hassan al-Turabi. Il fondatore e presidente del JEM, Khalil Ibrahim, è un ex ministro che si schierò con al Turabi quando questi giunse alla rottura con il presidente sudanese Al-Bashir nel 2002.


L'attuale crisi nel Darfur è il risultato di un intervento attivo da parte delli ribelli dello SPLA (Movimento/esercito di liberazione popolare sudanese) -- e il suo leader John Garang -- che nel corso del conflitto che da decenni si protrae nel Sud del Sudan ha lavorato per gli interessi geopolitici anglo-americani.

Secondo un rapporto dell'International Crisis Group (ICG) di Bruxelles, nel marzo 2002 lo SPLA ha addestrato 1500 darfuriani nei pressi di Raja nell'occidente del Bahr el-Ghazal, nel Sudovest del paese. Queste forze costituirono il nucleo principale dei giovani militari che assalirono le istallazioni del governo nel febbraio 2003. La prima dichiarazione politica dello SLA, rilasciata il 13 marzo 2003, fu redatta da attivisti nel Darfur esiliati e da leader dello SPLA. Il presidente dello SLA, Abdel Wahid, ha ufficialmente incontrato John Garang ad Asmara, in Eritrea, nell'aprile 2004.


Sebbene Garang neghi di aver armato lo SLA, secondo i rapporti dell'ICG lo SPLA fa arrivare i rifornimenti allo SLA e al JEM non solo attraverso il Ciad ma attraverso l'Uganda e il Kenya. Lo SLA gode anche del sostegno dell'Eritrea.


Questo significa che la crisi nel Darfur non si può ritenere un sollevamento spontaneo di una parte della popolazione contro le ingiustizie del governo, o degli africani contro gli arabi, come fanno solitamente i mezzi d'informazione: l'operazione militare dei ribelli dello SLA nel febbraio 2003 era già stata pianificata un anno prima ed è parte di una strategia più ampia messa a punto dai sostenitori anglo-americani di John Garang e dello SPLA. Questo comprende anche la minaccia di secessione del Darfur dal Sudan che lo SPLA sbandiera ormai da venti anni. Questo è sottolineato dal fatto che i ribelli dello SLA avevano posto come condizione ai negoziati con il governo che le truppe governative sloggiassero dal Darfur e hanno abbandonato il luogo dell'incontro che era stato convenuto ad Addis Abeba quando il governo ha respinto tale richiesta.

La tenaglia geopolitica contro Khartoum

Né John Garang e il suo SPLA, né l'Eritrea, né l'Uganda disponevano della capacità di fomentare la ribellione del Darfur contro Khartoum senza l'attivo sostegno delle potenze anglo-americane. Dal 2001 l'amministrazione Bush cerca di dettare al Sudan i termini della pace per il conflitto decennale che ribolle nel sud del paese. La diplomazia americana e britannica ha attirato il governo sudanese del presidente al-Bashir nei negoziati di pace in Kenya, tenuti sotto gli auspici dell'Agenzia intergovernativa per lo sviluppo (IGAD). Ai rappresentanti di Bashir ai negoziati è stata estratta una concessione dopo l'altra. Il bastone era rappresentato dalla possibilità che Garang lanciasse una nuova offensiva militare nel Sud, con il pieno sostegno degli Stati Uniti, dell'Inghilterra e dell'Uganda di Museveni e forte dei rifornimenti da essi ottenuti.


Nonostante ciò, a Khartoum vi fu molta resistenza alle scelte di Bashir. Alla metà del 2003 il presidente sostituì il capo della delegazione dei negoziatori in Kenya, Ghazi Salahedin Atabani, con il vice presidente Ali Sman Taha. La ribellione del Darfur del febbraio 2003 minacciava Khartoum con una guerra su due fronti, e, se si aggiungono i collegamenti dell'Eritrea e dello SLA al Beja Congress -- gruppo di ribelli nel Sudan orientale -- persino su tre fronti. A questo si aggiunse l'eloquente lezione dell'invasione dell'Iraq, tanto che il governo di Bashir non ritenne di avere alternative e finì per accettare quasi ogni richiesta per la pacificazione del Sud.


Gli accordi negoziati tra il governo di Bashir e lo SPLA di Garang, di cui si prevedeva al più presto una firma a Washington, alla presenza di Bush, avrebbe portato John Garang a ricoprire la carica di vice presidente a Khartoum e gli avrebbe conferito poteri politici in tutto il paese, poteri molto più vasti di ciò che il governo di Khartoum avrebbe ottenuto sul Sud del paese.


John Garang appartiene a quelo gruppo di leader guerriglieri che negli ultimi 18 anni sono stati portati al potere e rappresentano una nuova leadership africana. I più importanti sono i presidenti Museveni dell'Uganta, Kagame del Ruanda e Afewerki dell'Eritrea. Questi personaggi hanno voltato le spalle al marxismo radicale della loro gioventù diventando i fautori più fanatici dell'ideologia liberista del FMI e della Banca Mondiale. Si tratta insomma di marionette approntate dalle potenze anglo-americane per i propri maneggi geopolitici in Africa.


Il Sudan doveva essere messo in ginocchio per due motivi: primo, il petrolio, secondo l'acqua del Nilo. Fino ad ora infatti alle imprese americane non è stato concesso di partecipare allo sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi sudanesi che secondo le stime dovrebbero contenere almeno 2 miliardi di barili di petrolio. L'estrazione fino ad oggi è stata affidata alla China National Petroleum Corporation, alla Petrona della Malaysia, alla Talisman Energy canadese, alla Gulf Petroleum del Quatar, alla Ludin Oil svedese ed alla Total Fina Elf francese. Il 25 luglio è stato firmato un nuovo pacchetto di investimenti, pari a 1,7 miliardi di dollari, per l'esplorazione di nuovi giacimenti petroliferi nel sud e per la costruzione di un nuovo oleodotto fino al Mar Rosso. In questo accordo figurano per la prima volta imprese inglesi e russe. Dopo il trattato di pace del Kenya tali accordi di estrazione petrofera saranno aperti anche ad imprese statunitensi.


Da un punto di vista strategico però la questione ancora più importante è quella delle risorse idriche. A Khartoun il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco confluiscono in un fiume unico che prosegue verso l'Egitto, di cui è l'arteria centrale. Da qualche mese le sollecitazioni anglo-americane hanno spinto l'Etiopia, il Kenya, l'Uganda e la Tanzania a rimettere in discussione il vecchio trattato per il Nilo che hanno con l'Egitto. Se Garang avrà voce in capitolo, il Sudan finirebbe per schierarsi con questo gruppo che, forte delle promesse anglo-americane, farebbe la voce grossa all'Egitto tenendolo sotto ricatto.
Nel gennaio 2001 il governo sudanese fu messo sull'avviso: l'amministrazione Bush non l'avrebbe trattato meglio dell'ex amministrazione Clinton. Lyndon LaRouche tenne il discorso principale ad un seminario che la rivista EIR aveva organizzato a Khartoum insieme all'Istituto di Studi Strategici sudanese sotto il titolo: "Pace attraverso lo sviluppo lungo il fiume Nilo". Lo statista americano avvertì il pubblico sudanese in merito alle intenzioni della nuova amministrazione Bush. Ma alcuni dei partecipanti sudanesi erano ancora così adirati nei confronti della politica di Bill Clinton verso il Sudan da sostenere che valesse comunque la pena di cercare di lavorare con la nuova squadra di Bush. Purtroppo i moniti di LaRouche sul conto di Bush sono stati tragicamente confermati dagli avvenimenti recenti nel Darfur.


Questa crisi è una nuova conferma sulla natura della politica cinicamente seguita nell'Africa occidentale. Prima, per decenni le istituzioni finanziarie globali, guidate da FMI e Banca Mondiale, hanno bloccato lo sviluppo del Sudan, del Ciad e di altri paesi della regione. Da qui nacquero inevitabilmente dissidi e attriti. Questi conflitti vennero alimentati con flussi di armi ben mirati che nessuno cercò di ostacolare. Le potenze occidentali, attraverso i mezzi d'informazione, dicono che i conflitti sono di natura etnica o religiosa e li manipolano nel contesto dei loro schemi geopolitici. Se questi conflitti sfuggono dal controllo la crisi umanitaria sarà sfruttata come il pretesto per dichiarare questi paesi "stati falliti" su cui "occorre" esercitare pressioni affinché avvenga un "cambiamento di regime". Secondo questo copione, l'occidente, e soprattutto la potenza anglo-americana (che la Francia si guarda dallo sfidare) ha le responsabilità principali per le guerre che dilaniano l'Africa negli ultimi 15 anni: Uganda, Ruanda, Burundi, Congo, Africa Occidentale e Sudan meridionale.
La crisi che precipita nel Darfur è solo l'ultimo episodio di questa tragedia. Certe forze a Khartoum forse contano di sfruttare questa situazione per trarne qualche vantaggio, ma resta il fatto che non è stato il governo di Bashir a iniziare il conflitto. Piuttosto, ha cercato di applicare il trattato che è stato firmato dal ministro degli Esteri Ismail e dal Segretario generale dell'ONU Kofi Annan il 3 luglio 2004, per disarmare la milizia Janjawid e per migliorare l'accesso ai campi dei rifugiati per gli aiuti umanitari. Il governo stesso ha chiesto aiuto all'Unione Africana.


L'accusa di genocidio non dev'essere rivolta al governo sudanese, ma dev'essere mossa contro coloro che in occidente gestiscono le manipolazioni geopolitiche come quella del Ruanda, di 14 anni fa, e poi del Congo.

[Executive Intelligence Review, N. 31, 6 agosto 2004]