La pulizia etnica della Palestina

di Ilan Pappe Oneworld 2006

Epilogo  La Serra

L’Università di Tel Aviv, come tutte le altre università israeliane, è impegnata a promuovere la libertà della ricerca accademica. Il circolo dei docenti dell’Università di Tel Aviv si chiama la Serra. In origine era la casa del mukhtar del villaggio di Shaykh Muwannis, ma se vi capitasse di essere invitato a pranzo o di partecipare a un seminario sulla storia del paese o sulla città di Tel Aviv, non ve ne accorgereste affatto. Nel menù del ristorante del circolo si legge che l’edificio fu costruito nell’ottocento da un uomo facoltoso di nome ‘Shaykh Munis’: un uomo senza volto, fittizio, messo lì in un non-luogo fittizio, come lo sono le altre persone ‘senza volto’ che una volta vivevano nel villaggio distrutto di Shaykh Muwannis, sulle cui rovine l’Università di Tel Aviv ha costruito il suo campus. In altri termini la Serra compendia la negazione del piano strategico concepito dal Sionismo per la pulizia etnica della Palestina, messo a punto non lontano da lì, sulla spiaggia, in Yarkon Street, al terzo piano della Casa Rossa.

Se l’Università di Tel Aviv si fosse dedicata a una ricerca accademica seria, ci si sarebbe potuti aspettare che per esempio i suoi economisti avessero già valutato la portata delle proprietà palestinesi perse nelle distruzioni del 1948 e predisposto un inventario sulla base del quale i futuri negoziatori potessero iniziare il loro lavoro in vista della pace e della riconciliazione. Le imprese private, le banche, le farmacie, gli alberghi e le società di trasporti di proprietà dei palestinesi, i caffé, i ristoranti, le  officine che questi gestivano e gli incarichi che essi ricoprivano nel governo, nel sistema sanitario e in quello dell’istruzione – tutto fu confiscato, svanì, venne distrutto o trasformato in ‘proprietà’ ebraica, quando i sionisti presero possesso della Palestina.

I geografi professionisti che si aggirano nel campus di Tel Aviv avrebbero potuto fornirci una carta obiettiva della quantità di terreno appartenente ai profughi che Israele ha confiscato: milioni  di dunams di terra coltivata e quasi altri dieci milioni di dunams che costituiscono il territorio destinato dal diritto internazionale e dalle risoluzioni ONU  allo Stato palestinese. E vi avrebbero aggiunto anche gli altri quattro milioni di dunams di cui lo Stato di Israele ha espropriato i cittadini palestinesi nel corso degli anni.

I professori di filosofia del campus avrebbero già riflettuto sulle implicazioni morali dei massacri perpetrati dalle truppe israeliane al tempo della Nakba. Le fonti palestinesi, attingendo sia agli archivi militari israeliani sia alla storia orale, elencano trentuno massacri incontestabili – a cominciare da quello di Tirat Haifa dell’11 dicembre 1947 sino al massacro di Khirbat Ilin nelle vicinanze di Hebron che avvenne il 19 gennaio 1949 – e se ne potrebbero aggiungere almeno altri sei. Non disponiamo ancora  di un archivio sistematico della Nakba con l’elenco dei nomi di tutte le persone morte nei massacri - un gesto di commemorazione dolorosa che si sta mettendo pian piano in atto al momento in cui questo libro va in stampa.

A un quarto d’ora di automobile dall’Università di Tel Aviv c’è il villaggio di Kfar Qassim, dove,  il 29 ottobre 1956, i soldati israeliani  massacrarono quarantanove contadini che facevano ritorno dai campi. Poi fu la volta di Qibya negli anni ’50, di Samoa nei ’60, vennero poi i villaggi della Galilea nel 1976, Sabra e Chatila nel 1982, Kfar Qana nel 1999, Wadi Ara nel 2000 e il campo profughi di Jenin nel 2002. Si aggiungano i numerosi assassini dei quali tiene debitamente il conto B’tselem, la principale organizzazione per i diritti umani israeliana.

L’uccisione di palestinesi da parte di Israele non ha mai avuto fine.

Gli storici che lavorano all’Università di Tel Aviv avrebbero potuto fornirci il quadro completo della guerra e della pulizia etnica: loro che hanno un accesso privilegiato a tutta la documentazione militare e governativa ufficiale e al materiale d’archivio necessario. La maggior parte di loro, invece, preferisce fungere da portavoce dell’ideologia egemone: le loro opere descrivono il 1948 come una ‘guerra di indipendenza’,  celebrano i soldati e gli ufficiali ebrei che vi hanno preso parte, ne nascondono i crimini e diffamano le vittime.

Non tutti gli ebrei di Israele chiudono gli occhi di fronte ai massacri che il loro esercito si è lasciato alle spalle nel 1948, né sono sordi alle grida delle persone espulse, ferite, torturate e violentate, che cercano di arrivare sino a noi tramite coloro che sono sopravvissuti e attraverso i loro figli e i loro nipoti. Di fatto sempre più numerosi sono gli israeliani consapevoli di quanto è accaduto in realtà nel 1948 e che capiscono molto bene le implicazioni morali della pulizia etnica che si è scatenata nel paese. Vedono anche il rischio che Israele stia rimettendo in atto il programma di pulizia etnica, nel disperato tentativo di mantenere la sua assoluta maggioranza ebraica.

E’ fra queste persone che noi troviamo la saggezza politica che

sembra mancare totalmente a tutti i passati e a tutti i presenti procacciatori di pace:

essi sono pienamente coscienti del fatto che il problema dei profughi è  al centro del conflitto e che la sorte dei profughi è la chiave di volta di ogni soluzione che abbia una possibilità di successo

È vero, questi ebrei israeliani che non condividono la linea ufficiale sono pochi e lontani tra loro, tuttavia esistono, e dato che in generale i  palestinesi desiderano ottenere la restituzione e non chiedono il risarcimento, gli uni e gli altri insieme detengono la chiave della riconciliazione e della pace nella lacerata terra di Palestina. Essi sono oggi al fianco dei profughi palestinesi ‘interni’, circa mezzo milione di persone, nei pellegrinaggi che compiono insieme ogni anno ai villaggi distrutti, in un viaggio di commemorazione della Nakba che si svolge nel giorno in cui in Israele si celebra ufficialmente (secondo il calendario ebraico) il ‘giorno dell’Indipendenza’. Si possono vedere in azione come membri di ONG quali Zochrot – ‘ricordare’ in ebraico – che ostinatamente considerano un dovere mettere cartelli con i nomi dei villaggi palestinesi distrutti nei luoghi dove oggi sono gli insediamenti ebraici o le foreste del Fondo Nazionale Ebraico (JNF).  Si possono ascoltare  quando intervengono nelle conferenze per il diritto al ritorno e per una pace giusta che ebbero inizio nel 2004, quando insieme con gli amici palestinesi, provenienti dall’interno e dall’esterno del paese, riaffermano il loro impegno nella difesa del diritto al ritorno dei profughi e quando, come chi scrive, dichiarano di voler continuare la lotta per proteggere la memoria della Nakba contro tutti i tentativi di minimizzare l’orrore dei suoi crimini o negare che questi abbiano mai avuto luogo, perché un giorno ci sia nella terra della Palestina una pace completa e duratura.

Ma prima che queste poche persone impegnate riescano a fare la differenza, la terra di Palestina e il suo popolo, ebrei e arabi, dovranno affrontare le conseguenze della pulizia etnica del 1948.

Vogliamo concludere questo libro come lo abbiamo iniziato: esprimendo lo sconcerto di fronte al fatto che questo crimine sia stato così totalmente dimenticato e cancellato dalle nostre menti e dalla nostra memoria.

Ma adesso ne conosciamo il prezzo: l’ideologia che ha reso possibile spopolare la Palestina di metà della popolazione originaria nel 1948 è ancora operante e continua a dettare l’inesorabile, talora impercettibile, pulizia etnica nei confronti dei palestinesi che lì vivono oggi.

È tuttora un’ideologia potente, non solo perché le fasi precedenti della pulizia etnica della Palestina sono passate inosservate, ma soprattutto perché, con l’andar del tempo, la dissimulazione sionista delle parole è stata così abile nell’inventare un linguaggio nuovo che ha mascherato il devastante impatto delle sue pratiche. Comincia con ovvi eufemismi quali ‘ritiro’ e ‘trasferimento’ per camuffare le ampie dislocazioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza e dalla West Bank che sono in corso dal 2000. Continua con il termine improprio di ‘occupazione’ per descrivere la vera e propria legge militare israeliana vigente all’interno della Palestina storica, oggi più o meno il quindici per cento di questa, mentre presenta il resto del territorio come ‘liberato’: ‘libero’ o ‘indipendente’. È vero, la maggior parte della Palestina non è sotto occupazione militare, parte di essa è in condizioni molto peggiori. Si prenda la Striscia di Gaza dopo il ritiro, dove neppure gli avvocati che si occupano di diritti umani possono proteggerne gli abitanti, poiché essi non sono più protetti dalle convenzioni internazionali relative all’occupazione militare. Molti dei suoi abitanti godono di condizioni apparentemente migliori all’interno dello Stato di Israele; molto meglio per loro se sono cittadini ebrei, un po’ meglio se sono cittadini palestinesi di Israele. Meglio, per questi ultimi, se non risiedono nell’area della Grande Gerusalemme, dove  negli ultimi sei anni la politica di Israele è stata quella di trasferirli nella parte occupata o nelle aree senza legge né autorità della Striscia di Gaza e della West Bank, create dai  disastrosi accordi di Oslo negli anni ’90.

Molti palestinesi non sono sotto occupazione, ma nessuno di loro, compresi quelli nei campi profughi, sono esenti dal potenziale  pericolo  di una prossima pulizia etnica. Sembra si tratti più di una questione di priorità israeliana che non di una graduatoria tra palestinesi ‘fortunati’ e ‘meno fortunati’. Quelli che vivono nell’area della Grande Gerusalemme stanno subendo la pulizia etnica mentre questo libro va in stampa. Toccherà poi a coloro  che abitano nelle vicinanze del  muro dell’apartheid che Israele sta costruendo e che in questo momento è completato per metà. Anche quelli che vivono nell’illusione di una maggiore sicurezza, i palestinesi di Israele, potrebbero essere coinvolti prossimamente. In un recente sondaggio il sessantotto per cento degli ebrei israeliani ha espresso il desiderio che essi siano trasferiti.

Né i palestinesi né gli ebrei saranno in salvo gli uni dagli altri o da se stessi, se  non sarà messa in evidenza  correttamente l’ideologia che tuttora guida la politica israeliana nei confronti dei palestinesi. Il problema di Israele non è mai stato il giudaismo: il giudaismo presenta svariate facce e molte di queste forniscono una solida base per la pace e la coabitazione;

il problema è la natura etnica del sionismo.

Il sionismo non ha gli stessi margini di pluralismo che offre il giudaismo, meno che mai per i palestinesi. Essi non potranno mai essere parte dello Stato e dello spazio sionista e continueranno a lottare e c’è da sperare che la loro lotta sia pacifica e coronata da successo. In caso contrario sarà disperata e desiderosa di vendetta e come un turbine si porterà via tutto in una perpetua tempesta di sabbia di enormi dimensioni  che infurierà non soltanto nel mondo arabo e in quello islamico, ma anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, le potenze che, a turno, alimentano la tempesta che minaccia di portarci tutti alla rovina.

Gli attacchi di Israele contro Gaza e il Libano nell’estate del 2006 stanno a indicare che la tempesta sta già infuriando.

Organizzazioni come Hezbollah e Hamas, che osano contestare il diritto di Israele di imporre alla Palestina la propria volontà unilateralmente, hanno contrastato la potenza militare israeliana e per il momento (mentre scrivo)  riescono a resistere all’assalto.

Ma è tutt’altro che finita.

In futuro potrebbero essere presi di mira i sostenitori regionali di questi due movimenti di resistenza, l’Iran e la Siria; il pericolo di un conflitto ancor più devastante e di un bagno di sangue non è mai stato così acuto. 

Traduzione e editing a cura di ISM-Italia, 5 novembre 2006

ISM- Italia

info@ism-italia.it

www.ism-italia.it