Leggete questa
Introduzione del libro di Marco Travaglio. Ne vale la
pena. segnalato
da pino canale
«I fatti
separati dalle opinioni.» Era il motto del mitico
Panorama di Lamberto Sechi, inventore di grandi giornali
e grandi giornalisti. Poi, col tempo, quel motto è
caduto in prescrizione, soppiantato da un altro
decisamente più pratico: «Niente fatti, solo
opinioni». I primi non devono disturbare le
seconde. Senza fatti, si può sostenere tutto e il
contrario di tutto. Con i fatti, no.
Cè chi nasconde i fatti perché non li conosce, è
ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di
studiare, di informarsi, di aggiornarsi.
Cè chi nasconde i fatti perché trovare le notizie
costa fatica e si rischia persino di sudare.
Cè chi nasconde i fatti perché non vuole rogne e
tira a campare galleggiando, barcamenandosi, slalomando.
Cè chi nasconde i fatti perché ha paura delle
querele, delle cause civili, delle richieste di
risarcimento miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e
attirano i fulmini delleditore stufo di pagare gli
avvocati per qualche rompicoglioni in redazione.
Cè chi nasconde i fatti perché si sente embedded,
fa il tifo per un partito o una coalizione, non vuole
disturbare il manovratore.
Cè chi nasconde i fatti perché se no lo attaccano
e lui vuole vivere in pace.
Cè chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo
invitano più in certi salotti, dove sincontrano
sempre leader di destra e leader
di sinistra, controllori e controllati, guardie e ladri,
puttane e cardinali, prìncipi e rivoluzionari, fascisti
ed ex lottatori continui, dove tutti sono amici di tutti
ed è meglio non scontentare nessuno.
Cè chi nasconde i fatti perché confonde
lequidistanza con lequivicinanza.
Cè chi nasconde i fatti perché contraddicono la
linea del giornale.
Cè chi nasconde i fatti perché leditore
preferisce così.
Cè chi nasconde i fatti perché aspetta la
promozione.
Cè chi nasconde i fatti perché fra poco ci sono
le elezioni.
Cè chi nasconde i fatti perché quelli che li
raccontano se la passano male.
Cè chi nasconde i fatti perché certe cose non si
possono dire.
Cè chi nasconde i fatti perché «hai visto che
fine han fatto Biagi e Santoro».
Cè chi nasconde i fatti perché è politicamente
scorretto affondare le mani nella melma, si rischia di
spettinarsi e di guastarsi labbronzatura, molto
meglio attenersi al politically correct.
Cè chi nasconde i fatti perché altrimenti diventa
inaffidabile e incontrollabile e non lo invitano più in
televisione.
Cè chi nasconde i fatti perché fa più fine
così: si passa per anticonformisti, si viene citati, si
crea il «dibbattito».
Cè chi nasconde i fatti anche a se stesso, perché
ha paura di dover cambiare opinione.
Cè chi nasconde i fatti per solidarietà con
Giuliano Ferrara, che è molto intelligente e magari poi
si sente solo.
Cè chi nasconde i fatti perché i servizi segreti
lo pagano apposta.
Cè chi nasconde i fatti anche se non lo pagano, ma
magari un giorno pagheranno anche lui.
Cè chi nasconde i fatti perché il coraggio uno
non se lo può dare.
Cè chi nasconde i fatti perché nessuno
glielha ancora chiesto, ma magari, prima o poi,
qualcuno glielo chiede.
Cè chi nasconde i fatti perché così poi qualcuno
lo ringrazia.
Cè chi nasconde i fatti perché spesso sono
tristi, spiacevoli, urticanti, e non bisogna spaventare
troppo la gente che vuole ridere e divertirsi.
Cè chi nasconde i fatti perché altrimenti poi
tolgono la pubblicità al giornale.
Cè chi nasconde i fatti perché se no poi non lo
candida più nessuno.
Cè chi nasconde i fatti perché così, poi,
magari, ci scappa una consulenza col governo o con la Raio
con la Regione o con il Comune o con la Provincia o con la
Camera di commercio o con lUnione industriali o col
sindacato o con la banca dietro langolo.
Cè chi nasconde i fatti perché deve tutto a
quella persona e non vuole deluderla.
Cè chi nasconde i fatti perché altrimenti è più
difficile voltare gabbana quando gira il vento.
Cè chi nasconde i fatti perché altrimenti poi la
gente capisce tutto.
Cè chi nasconde i fatti perché è nato servo e,
come diceva Victor Hugo, «cè gente che pagherebbe
per vendersi».
URGE VOCABOLARIO
Sele notizie fanno paura, le parole
che le raccontano ne fanno ancor di più. In fondo è la
parola che si conficca nella memoria e aiuta a ricordare questo
o quel fatto, richiamandolo come il sibilo agli
ultrasuoni che fa scattare il cane. Così labbiamo
visto per la guerra e per la pace le parole
diventano più importanti dei fatti. Perché, giocando
con le parole, si possono manipolare i fatti e, alla fine
della catena, tutta la memoria collettiva.
Non siamo più daccordo nemmeno sul dizionario
della lingua italiana. Anzi, svuotiamo o ribaltiamo il
significato delle parole per nascondere meglio i fatti, o
semplicemente per pigrizia, perché tutti fanno così e pare
brutto disturbare i manovratori. Chiamiamo pace la guerra
e guerra la pace. Chiamiamo dopoguerra una situazione in
cui si spara e si muore più che in guerra. Chiamiamo
terroristi i guerriglieri iracheni o afghani che
combattono armi in pugno contro le truppe che hanno
occupato il loro paese, solo perché le truppe sono anche
nostre, o comunque «amiche », senza riuscire nemmeno a
distinguerli dai veri terroristi, che mirano aobiettivi
civili (come peraltro fanno i nostri alleati a Falluja
con le bombe al fosforo). Se invece ci occupiamo del
Darfour, allora nessun dubbio sul fatto che siano tutti
guerriglieri e partigiani, anche se ricorrono a metodi
che in Iraq e in Afghanistan, dove ci siamo noi,
chiamiamo frettolosamente terroristici. (
)
Come possiamo vivere insieme e sentirci comunità se non
abbiamo più nemmeno un linguaggio comune? Da anni,
ormai, chiamiamo «esule» il latitante Craxi. Chiamiamo
«assolti» (cioè innocenti) i prescritti (cioè i
colpevoli che la fanno franca). Chiamiamo «presunte
tangenti» anche quelle consacrate da sentenze definitive
di condanna. E «processi politici» i processi ai
politici accusati di delitti comuni come la corruzione e
la concussione. E «giustizialisti» (come i seguaci di
Juan Domingo Perón) coloro che chiedono semplicemente
giustizia, certezza della pena e una legge uguale per
tutti, cioè i veri garantisti (cose che capitano in un
paese che confonde Cesare Beccaria con Cesare: Previti).
Chi difende lindipendenza della magistratura dal
potere politico, invece, è chiamato «giacobino», anche
se i giacobini teorizzavano la sudditanza della
magistratura al potere politico, mentre chi chiedeva
magistrati indipendenti erano semmai i girondini.
Chiamiamo «riformisti» strani personaggi che non hanno
mai fatto né proposto uno straccio di riforma, ma in
compenso predicano eternamente il dialogo, anzi
linciucio con Berlusconi, e non si capisce che
centri tutto questo col riformismo. Invece Rosi
Bindi, autrice di una delle pochissime riforme degne di
questo nome degli ultimi dieci anni, quella della
sanità, passa per unantiriformista «estremista»
e «radicale». E così altri due riformisti
ultramoderati, ma?, come Nanni Moretti e Giorgio
Cofferati. In compenso Berlusconi e Bossi, cioè gli
estremisti più autoritari ed eversivi mai visti in una
democrazia, rappresentano il polo «moderato» e
«liberale».
Chiamiamo «demonizzatori» o «apocalittici» quanti
hanno descritto e denunciato, insieme a tutto il mondo
libero, il conflitto dinteressi illiberale del
Cavaliere, il suo abuso delle televisioni, le sue censure
di regime e le sue leggi dimpunità su misura: la
semplice descrizione quotidiana delle mostruosità del
quinquennio 2001-2006 è divenuta «antiberlusconismo», allarmando
chi pensa che linformazione e la satira debbano
«moderare i toni» e lopposizione non debba
opporsi troppo. Si sono persino inventate categorie
sconosciute in qualunque altro paese, con luoghi comuni e
frasi fatte utili a squalificare in partenza chiunque
chiami le cose con il loro nome: chi chiedeva
lintervento del Quirinale, supremo garante della
Costituzione, contro le continue violazioni
costituzionali, veniva accusato di «tirare per la
giacchetta il capo dello Stato». Echi, da posizioni
liberali, o cattoliche, o azioniste, o socialdemocratiche
restava coerente con se stesso e teneva la schiena dritta
senzaccettare i continui fatti compiuti, veniva
ipso facto annesso alla «sinistra radicale»
dell«estremismo» e del «massimalismo». Ora,
poi, chiamiamo «girotondi» le manifestazioni
organizzate dai partiti del centrodestra contro il
governo Prodi e a favore di sua maestà Berlusconi,
mentre i girotondi erano movimenti spontanei e
autorganizzati della società civile, al di fuori dei
partiti, contro un governo che sgovernava e
unopposizione che non si opponeva.
Chiamiamo «genitori adottivi» i coniugi di Cogoleto che
hanno rapito e subornato Maria, la bambina bielorussa
loro affidata «affido», ma un semplice «percorso di accoglienza»
temporaneo).
Chiamiamo «nonne» le madri della coppia che, con la
complicità di alcuni preti, hanno tenuto la piccola
segregata per tre settimane in un convento della Val
dAosta in barba a tutte le leggi italiane e
internazionali. E chiamiamo «atto damore» quello
che giustamente Massimo Fini, sul Giorno, ha chiamato
«una cinica e brutta partita giocata sulla pelle di una
bambina da una coppia sterile che ha introiettato il
credo che avere un figlio sia un diritto e
uno status symbol irrinunciabile». Il tutto per
nobilitare o giustificare un vero e proprio sequestro di
minorenne con plagio, che lascerà tracce indelebili
sulla psiche della bimba, addirittura indotta aesibirsi
in un video alla al-Zarqawi in cui chiedeva di «tornare
da mamma e papà» (che non sono i suoi, non sono tali),
dava in escandescenze e minacciava un suicidio che
qualcuno le aveva sciaguratamente suggerito per forzare
la mano alle autorità e ottenere unadozione non
dovuta e nemmeno prevista. Ma come possiamo raccontare i
fatti, se non siamo più daccordo sulle parole?
Marco Travaglio -
La scomparsa sei fatti Il Saggiatore
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