*Il
genocidio armeno *
"La mia coscienza non mi permette di rimanere
insensibile di fronte alla
negazione della Grande Catastrofe subita dagli armeni
dell'Impero ottomano.
Rifiuto questa ingiustizia e per parte mia condivido i
sentimenti e il
dolore dei miei fratelli e sorelle armeni. A loro chiedo
scusa."
Nel dicembre del 2008 un gruppo di intellettuali turchi
lanciava una
petizione on-line per chiedere il riconoscimento
ufficiale del genocidio
degli armeni all'inizio del secolo scorso in Turchia.
http://www.todayszaman.com/tz-web/detaylar.do?load=detay&link=160701
Rievochiamo una delle pagine più tragiche e meno
conosciute della storia del
nostro secolo: la repressione delle minoranze etniche
armene da parte dei
turchi. La lotta, che registrò crudelissimi episodi,
ebbe il suo
terrificante culmine nel 1915, quando il resto del mondo
era occupato a
seguire i drammatici eventi della prima guerra mondiale.
Tra il dicembre del
1914 e il febbraio del 1915, il Comitato Centrale del
partito Unione e
Progresso, guidato da due medici - i dottori Nazim e
Shakir - pianificò la
totale soppressione degli armeni come popolo. Venne,
così, creata la
famigerata Organizzazione Speciale, una struttura
paramilitare dipendente
dal ministero della guerra, ufficialmente incaricata di
operazioni
spionistiche oltre confine, ma segretamente incaricata di
sterminare gli
armeni.
Il 10 ottobre scorso, dopo quasi un secolo di gelo,
Turchia e Armenia hanno
firmato, a Zurigo, uno storico accordo di normalizzazione
dei rapporti tra i
due paesi. L'accordo dispone che venga riaperta la
frontiera turco-armena,
che vengano ristabilite relazioni diplomatiche tra i due
Stati e che la
questione del genocidio armeno venga affidata a una
commissione di storici
per la sua indagine oggettiva.
Inizia nella notte del 24 aprile 1915: gendarmi turchi
bussano alle porte di
duecentoventicinque notabili armeni di Costantinopoli.
Sono scienziati,
scrittori, giornalisti, poeti, mercanti. È una visita
attesa: l'odio
razziale striscia da tempo in ogni angolo del paese. La
campagna che lo
gonfia è bene orchestrata. Si stringono antichi nodi,
che, lo vedremo, sono
stati intrecciati dal vecchio sovrano Abdul Hamid II
(1842-1918).
L'inquietudine tormenta la minoranza armena che è
cristiana. Il pugno forte
dei giovani turchi, il cui aggancio progressista con
l'Europa si ispira
all'esasperato nazionalismo tedesco, ha bisogno di oro.
Le ricchezze
nascoste dai mercanti sono là. Non resta che coglierle.
L'occasione offre il pretesto per tagliare corto con
rancori che covano da
tempo. Il programma trova uno slogan: la risposta di
Enver Pasha
(1881-1922), ministro turco della guerra, a Mehmet Talat
Bey (1874-1921),
ministro dell'interno:
"Non dobbiamo preoccuparci di ciò che ci verrà
chiesto tra tre o quattro
anni. Se agiamo con raziocinio e decisione, tra tre o
quattro anni non
esisterà un problema armeno. Non vi saranno più
armeni."
Il massacro inizia in una tiepida notte di primavera: i
notabili vengono
lapidati, assassinati, decapitati, perfino squartati. Ora
la strada del
genocidio è aperta. Un genocidio programmato a freddo,
che anticipa gli
orrori dei lager hitleriani.
Gli armeni sono una minoranza etnica nel grande impero
ottomano. Sono
concentrati nella culla della loro civiltà, l'Armenia,
appunto, ma anche
seminati nelle città turche, a Smirne, a Costantinopoli.
Dietro la guerra
santa dei musulmani non vi sono solo bramosie di
ricchezze, stizze
politiche, dissapori etnici. Adesso sappiamo che il
Kaiser aveva astutamente
preparato un piano: esasperare il sentimento religioso di
300 milioni di
musulmani per sollevarli contro Inghilterra, Francia e
Russia. Il piano
fallisce perché gli arabi e gli altri popoli asiatici
non si accordano con
il califfo turco. La vampata di rabbia si abbatte solo
sugli armeni: a
rileggere i documenti di quegli anni vi è da
rabbrividire.
"Ogni musulmano",
incita il sultano Mehmet Reshad V (fratello di Abdul
Hamid)
"deve prestare solenne giuramento per impegnarsi a
uccidere almeno tre o
quattro cristiani della provincia. Colui che obbedirà a
questa legge divina
sarà esentato dal Giudizio Finale e avrà meritato la
vita eterna."
In Europa vi è la guerra che inchioda gli eserciti nelle
trincee. Il mondo
spia angosciato quei fronti, non ha tempo di scorrere i
rari dispacci
diplomatici che filtrano da Costantinopoli. Solo verso
l'estate le prime
voci trapelano. A New York il giornale armeno Gotcnagh, a
Baku il quotidiano
Arev, il Balkanian Mamoul di Rostow o l'Horizon di
Tiflis, prospettano in
termini drammatici la persecuzione. Sono cronache che
hanno sapore
ottocentesco:
"Viaggiatori arrivati dalla Bulgaria assicurano che
una sanguinosa
oppressione è in corso in Turchia nei confronti della
minoranza armena."
Ma sono allarmi isolati. L'America pensa a Parigi
minacciata dai tedeschi,
la Russia ai suoi eserciti che avanzano con troppa calma.
Un avvenimento commuove l'opinione pubblica: poche righe
strette in una
colonna del periodico londinese il lingua armena Ararat
riportano (novembre
1915) un comunicato della marina militare francese.
L'impresa ha la data del
22 settembre.
"Perseguitati dai turchi, cinquemila armeni, tra cui
tremila donne, vecchi e
bambini, si erano rifugiati sul finire di luglio nel
massiccio del Mussa
Dagh, a nord della baia di Antiochia, dove erano
riusciti, fino ai primi di
settembre, a tenere testa agli aggressori. Da allora,
approvvigionamenti e
munizioni iniziarono a venire meno ed erano sul punto di
soccombere, quando
riuscirono a segnalare a un incrociatore francese la loro
grave situazione.
Gli incrociatori della squadra francese che facevano il
blocco delle coste
della Siria, recarono subito soccorso e poterono
assicurare lo sgombero di
quel che restava dei cinquemila armeni. Vennero, poi,
trasportati a Porto
Said dove ricevettero le migliori accoglienze e furono
installati in un
accampamento provvisorio. Sappiamo che si tratta degli
abitanti di sette
villaggi della costa mediterranea di Alessandretta. La
montagna che servì
loro da trincea è, appunto, il Mussa Dagh, vale a dire
la Montagna di Mosè."
"È il solo avvenimento lieto nella tragedia
nazionale degli armeni.",
scrive lo storico inglese Arnold Toynbee in un
sensazionale Libro Blu (Blue
Book, 1915) che prepara per il governo britannico e con
il quale riesce,
finalmente, a far convergere gli sguardi del mondo sul
massacro. Ed è
un'avventura che ispira lo scrittore austriaco, ma nato a
Praga, Franz
Werfel (1890-1945). Il suo romanzo, I quaranta giorni del
Mussa Dagh (Die
vierzig Tage des Musa Dagh, 1933), coglie un successo
straordinario
nell'Europa che avverte le angosce della strage ebraica.
Il racconto è
abbozzato, nel 1929, a Damasco: sono i ragazzi armeni
sfruttati nelle
fabbriche, per pochi soldi, a commuovere Werfel.
Nel 1933, l'opera è pronta. Già l'autore ne ha proposto
dei brani in
conferenze. A Lipsia, nel 1932, sceglie un capitolo
particolarmente
significativo: legge in pubblico il colloquio tra un
sacerdote tedesco ed
Enver Pasha. Il pastore chiede la fine della
persecuzione. Gli risponde il
ministro turco:
"La Germania ha pochi nemici interni, ma posto il
caso che in altra
circostanza ne avesse, supponiamo franco-alsaziani o
ebrei, non approverebbe
allora qualsiasi mezzo per liberarsi del nemico interno
quando si è già
assediati da nemici esterni?
Giudicherebbe crudeli le persecuzioni o l'isolamento
delle popolazioni
ostili in territori deserti oppure ben guardati?"
Risponde il prete:
"Se il governo del mio popolo procedesse contro i
suoi conterranei di altra
razza o di altra opinione, in modo ingiusto e illegale,
io mi staccherei
all'istante dalla Germania e andrei in America."
E qui Werfel traccia profeticamente il suo destino.
A sua volta chiuso dai nazisti in un lager perché di
origine ebrea e
contrario pubblicamente al regime, Werfel riesce a
fuggire con un gruppo di
reclusi. Svizzera, Francia e, poi, l'America,
quell'America che un altro
esule, il famoso regista armeno Elia Kazan, invoca in un
diario-romanzo.
Questa volta la tragedia della povertà dei profughi, il
duro lavoro dei
bambini è visto da un protagonista.
"Racconto con i calli sulle mani",
spiega Kazan prospettando il sogno dell'irraggiungibile
libertà che spera di
godere oltreoceano.
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