Quello che Tremonti non dice

http://www.rassegna.it/2002/attualita/articoli/tremonti2.htm

di  Simona Vettraino

Prosegue a ritmo serrato al Senato la discussione sul decreto legge n° 63 del 15 aprile 2002, con il quale il governo ha istituito Patrimonio dello Stato spa” e “Infrastrutture spa”, le due società per azioni volute fortemente da Giulio Tremonti. Il termine di tempo per la conversione del decreto legge è il 14 giugno e non dovrebbe essere mancato, viste le speranze che in esse il nostro creativo ministro dell’Economia ripone. “Patrimonio dello Stato” gestirà il patrimonio immobiliare dello Stato per avviare “una gestione redditizia in vista di eventuali dismissioni”. “Infrastrutture” finanzierà grandi opere pubbliche con fondi privati. Il governo conta di risparmiare così dieci 10 miliardi di euro l’anno per le grandi opere. Non sono in molti però, finora, ad aver capito cosa sono davvero e cosa si propongono di fare le due nuove società.

Per saperne di più di “Patrimonio dello Stato” e di “Infrastrutture” abbiamo incontrato Tommaso Di Tanno, ordinario di Diritto tributario internazionale comparato presso la facoltà di Economia dell’Università di Cassino.

Di Tanno Che un governo, in questo caso il governo Berlusconi, si ponga l’obiettivo di valorizzare i suoi beni al fine di creare risorse per finanziare le grandi opere pubbliche, è sicuramente un intento lodevole. Del resto, questo tentativo fu fatto anche dai governi di centro sinistra, ma i risultati furono modesti. Che ci riprovi questo governo va benissimo. Però il ministero dell’Economia deve fare chiarezza su molte cose. Ci troviamo di fronte a un intervento che interessa più settori, che contiene un insieme di alterazioni della regolamentazione che riguarda il regime (amministrativo) dei beni appartenenti allo Stato, il regime (civilistico) delle società di capitale all’uopo create e i meccanismi di finanziamento di attività di mercato (finanziario) riconducibili all’iniziativa pubblica.

Rassegna Tante modifiche per fare che cosa? Cominciamo con “Patrimonio dello Stato spa”.

Di Tanno La società è costituita per legge con un capitale iniziale di un miliardo di euro, e potrà essere riempita con beni trasferiti con un puro e semplice decreto del ministro dell’Economia. Potrà ricevere “immobili del patrimonio disponibile e indisponibile (edifici sedi di pubblici uffici, caserme, miniere) ma anche beni demaniali (spiagge, strade, immobili storico-artistici, contenuto dei musei), e ancora, diritti d’autore, partecipazioni (in società) e crediti”. Le modalità e i valori di trasferimento dallo Stato, come ho già detto, sono definiti in deroga a tutte le disposizioni del codice civile.

Beni trasferibili. Ma come?
I beni di “Patrimonio dello Stato spa”, inoltre, possono essere da questa trasferiti a “Infrastrutture spa” e nel testo non è chiaro come questo trasferimento debba intervenire e cioè se sotto forma di conferimento, di attribuzione gratuita o di vendita (con quale prezzo?).

Rassegna Il testo lascia intendere che oggetto della valorizzazione saranno soprattutto i beni immobili. A Montecitorio c’è chi ha parlato di vendita del Colosseo e di alienazione delle spiagge...

Di Tanno Nessuno pensa di vendere il Colosseo, ma gli immobili di cui si parla in questo decreto sono molto diversi da quelli degli enti previdenziali su cui si è fatta la cosiddetta “cartolarizzazione”. In quel caso si trattava di immobili già locati e di cui si doveva semplicemente ottimizzare la redditività.

Immobili particolari
Non dimentichiamo che, per esempio, anche il governo di centro sinistra aveva cartolarizzato i crediti Inps. Nessuno si scandalizza per la scelta; in questo caso, però, si tratta di immobili difficili da gestire e da valorizzare senza ulteriori interventi e, spesso, investimenti. Gli immobili in questione sono essenzialmente gli uffici pubblici, le caserme e il resto, distinguibili in tre categorie: disponibili, non disponibili, demaniali. Bene, gli uffici pubblici sono quelli che somigliano di più agli immobili degli enti previdenziali, potendo prevedere la loro locazione allo stesso ufficio pubblico che li ha in uso (sale and lease back) con un determinato canone e nell’intesa che il prezzo di vendita può essere giusto ma aumentando la spesa corrente; se invece si vuole mantenere bassa la spesa corrente tramite un basso canone, la vendita non può che avvenire sottocosto e si traduce quindi in una svendita.

Rassegna Facciamo un esempio pratico…

Di Tanno È possibile ipotizzare di applicare un canone di locazione a tutte le pubbliche amministrazioni che hanno in uso - gratuito, al momento - immobili del patrimonio indisponibile e cedere gli stessi per un adeguato controvalore, ovvero cedere a terzi i canoni futuri che dette amministrazioni pagheranno. In entrambi i casi, però, basta esserne consapevoli, il canone di locazione si traduce nell’incremento di una voce di spesa corrente che pesa sul Bilancio dello Stato (“fitti passivi”). Se poi si cedono i crediti, si fa un’operazione che unifica (e anticipa) l’introito di importi che avrebbero dovuto essere spalmati su più esercizi, compiendo un’operazione di discutibile aggiustamento del bilancio corrente, come sottolineato nell’audizione dalla Corte dei Conti in commissione congiunta Finanze e Bilancio alla Camera il 7 maggio scorso.

Rassegna Poi ci sarebbero le caserme e gli altri beni…

Di Tanno Le caserme effettivamente disponibili - a mio parere numerose - sono individuabili e trasferibili solo con la collaborazione dei militari che, ovviamente, tendono però a salvaguardare interessi non sempre “comuni”. È fin troppo facile immaginare i problemi che scoppierebbero tra i due ministri interessati. E poi pensiamo, ad esempio, alle caserme romane del quartiere Prati. Puoi venderle solo a fronte di progetti di sviluppo di ampio respiro e cambiando la destinazione d’uso per farne centri commerciali, posteggi. Ma in questo caso saranno necessari interventi urbanistici enormi e un ampio accordo tra Comune, Municipio, Regione, ministeri. In ogni modo, va detto con molta chiarezza, operazioni del genere sono auspicabili se ben congegnate, ma con esse non si fa cassa.

Rassegna Nel decreto si parla anche delle miniere, delle carceri …

Di Tanno Dicono e scrivono miniere, ma si riferiscono alle saline, grandi spazi costieri molto appetibili. Ma non tengono conto degli ambientalisti.

Pochi soldi da carceri e ferrovie
Per carceri e linee ferroviarie dismesse con relative aree di pertinenza, va detto che questi beni si trovano, perlopiù, in stato di abbandono o sono occupati, di fatto, da enti locali, polisportive, abusivi. Possono quindi essere appetibili solo dopo interventi importanti. Se si vuole intervenire per rendere utilizzabili queste risorse procedano pure. Ma va ribadito che anche in questi casi, i soldi ricavati alla fine sarebbero davvero pochi.

Rassegna Eppure il governo fa tutto questo per valorizzare i suoi beni al fine di creare risorse...

Di Tanno Come ho già detto, tranne che nel caso degli edifici adibiti ad uffici pubblici, le altre operazioni non producono significativi benefici di cassa. Al tempo stesso va rilevato che per ottenere da subito i benefici di cassa che il provvedimento insegue, occorre procedere a un montaggio basato sulla creazione - da parte di Patrimonio dello Stato spa - di “società veicolo” (quelle con dentro gli immobili da vendere) che si finanziano emettendo obbligazioni garantite dallo Stato: ma così si mette in piedi un meccanismo che rende illeggibile il Bilancio dello Stato. Per evitare che ciò accada bisogna creare una voce nel bilancio statale che evidenzi almeno i rischi connessi a queste garanzie e che sia valutata come tale in sede europea. Altrimenti si finanziano le riforme con risorse inesistenti e peggiorando semplicemente l’equilibrio del Bilancio dello Stato. Operazione che prima o poi presenta il conto obbligando a ridurre la spesa sociale.

Rassegna Pare di capire che il problema sia nella contabilizzazione di tutte queste operazioni. È così?

Di Tanno “Patrimonio dello Stato spa” può costituire “società veicolo” per la realizzazione di operazioni di cartolarizzazione e, al tempo stesso, queste società possono emettere titoli di debito garantiti dallo Stato. Questa garanzia costituisce, è bene saperlo, un gravame aggiuntivo sui beni della collettività che - almeno al momento - non risulta riconoscibile da chi vuole farsi un’idea dello stato di salute del Bilancio dello Stato. Se analoga garanzia fosse rilasciata da un’ordinaria società azionaria essa dovrebbe essere indicata fra i conti d’ordine: al contrario, in quanto rilasciata dallo Stato non pare debba risultare - per ora - da alcun documento contabile.

Rassegna Ma se così non si fa cassa, secondo lei cosa pensa di fare il governo per recuperare denaro?

Di Tanno A leggere bene tra le righe, la parte più cospicua, quella su cui puntano Berlusconi e i suoi ministri, pare proprio quella relativa alle partecipazioni nelle società.

Dismissioni per decreto
Grazie a questo decreto lo Stato potrà, senza colpo ferire, vendere le sue quote in Rai, Eni, Alitalia, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, Poste, Telecom, Poligrafico, Grandi Stazioni. In questo modo, e non con gli immobili, si fa sicuramente cassa. Basterà trasferire le partecipazioni dal Tesoro alla “Patrimonio dello Stato spa” per cedere le partecipazioni a chi si vuole, anche in barba al conflitto d’interesse, senza passare per il Parlamento, esautorando il ruolo di deputati e senatori, togliendogli facoltà di parola e funzione di controllo. Le dismissioni, inoltre, potranno essere decise semplicemente con un decreto del ministero dell’Economia.

Ma non è ancora tutto. A leggere per intero il testo si legittima il sospetto che “Patrimonio dello Stato” punti a trasformarsi in una nuova Iri. Bene, nessuno ovviamente vuole dichiararsi contrario per principio, però, se vogliono davvero far questo perché non lo dicono apertamente? Si vuole ricostituire un ponte di comando delle partecipazioni possedute dallo Stato come era una volta il ministero delle Partecipazioni Statali? L’idea non è, in sé, illegittima. Ma che almeno lo si dica.

Rassegna Con “Infrastrutture”, la società che deve finanziare le grandi opere, sembra tutto più chiaro. Non è così?

Di Tanno Per finanziare le grandi opere avrebbe avuto più senso ipotizzare una società di project financing che partecipasse a joint ventures con operatori professionali del settore. Pur se l’intento è condivisibile non si sentiva certo la mancanza di questa nuova società. Le grandi opere possono essere finanziate costruendo con i privati e vendendo i crediti per gli anni a venire. È una cosa che hanno già fatto in tanti, ad esempio gli inglesi per il tunnel sotto la Manica.

Qualcosa di misterioso
Il fatto è che anche in questo caso hanno aggiunto qualcosa di misterioso. La nuova società, infatti, ha anche il compito di “finanziare lo sviluppo economico”. Sorge spontaneo il dubbio che si voglia, in realtà, ricostruire una sorta di Cassa per il Mezzogiorno. La società, infatti, finanzierà “qualsiasi attività economica che riceverà l’approvazione, via decreto, del ministero dell’Economia”. Lo stesso ministero potrebbe concedere finanziamenti a pioggia praticamente ad attività di qualsiasi dimensione, settore, area geografica, senza nessun obiettivo - se non quello di un generico sviluppo - con la sola riserva che, dovendo operare in via sussidiaria, vi sia un terzo (banca, intermediario finanziario, finanziarie regionali di sviluppo) che si assuma l’onere di cofinanziare la medesima attività. Va detto che si tratta di un atto di fede inconsueto sulla capacità di giudizio altrui.

Bisogna poi aggiungere che “gli interventi saranno realizzati con lo Stato attraverso “Infrastrutture Spa” in posizione di minoranza”. E qui torna alla mente un altro carrozzone, la vecchia Gepi.


(Rassegna sindacale, n. 22, giugno 2002)

 

 

Il prossimo segretario Cgil: troppe bugie, isolarci farà solo arretrare il Paese
Epifani: "Un patto scellerato le fabbriche lo puniranno"
La spaccatura Il dialogo con Cisl e Uil riprenderà quando loro capiranno di aver fatto un grave errore
LUISA GRION

da Repubblica - 3 giugno 2002

ROMA - Perde il sindacato, che sulla questione si è diviso, ma perdono anche le aziende. Anzi, perde il paese. Nella trattativa che si va aprendo.

Guglielmo Epifani, ancora per poco numero due della Cgil (a fine mese ne diventerà il segretario generale) vede un solo vincitore: il governo.

Ma è una vittoria, quella dell´esecutivo, che farà male allo sviluppo.
Epifani, domani si apre il tavolo sul lavoro e la Cgil non ci sarà.

Non è una rinuncia a difendere le proprie ragioni?


«Semmai è il contrario. Se avessimo deciso di prendere parte alla trattativa avremmo condiviso la scelta fatta dal governo di attaccare il sistema di diritti dei lavoratori»


Cisl e Uil sono convinti però che sull´articolo 18 si è perso fin troppo tempo e che ora semmai c´è bisogno di fatti sul fisco, sul sommerso, sul Mezzogiorno.


«Chi dice questo dimentica che a far perdere tutto questo tempo è stato il governo. Se invece di affannarsi a modificare per forza un diritto che non avrà sviluppi sull´occupazione avesse deciso di affrontare i veri nodi che ne bloccano lo sviluppo sarebbe stato meglio per tutti»


Comunque sia siete rimasti isolati, pensa che ci saranno difficoltà a spiegare questa posizione nelle fabbriche?


«Non credo proprio, anzi mi risulta che nei luoghi di lavoro siano ben consapevoli dell´errore commesso da chi ha tradito lo sciopero fatto»


Ma Pezzotta ha detto che siede al tavolo per far cambiare idea al governo e che se l´intesa non ci sarà tornerà in piazza


«Qui bisogna essere chiari. Pezzotta dice che se toccano l´articolo 18 torna in piazza. La Uil assicura che non accetterà modifiche a quel diritto. Il sottosegretario Sacconi dichiara che quell´articolo, comunque sia cambierà. Qualcuno non dice la verità»


Chi?


«Lo scopriremo fra due mesi. Il tempo è galantuomo».


Con Cisl e Uil intanto il dialogo è rotto. Non era una cosa da evitare comunque?


«Faremo il possibile per ritrovare l´unità, ma il dialogo deve partire dalla consapevolezza che accettare la proposta del governo è stato un grave errore»


Anche se sugli altri fronti aperti i sindacati dovessero portare a casa risultati? Il governo parla di un nuovo patto sociale


«Credo poco a quanto si potrà ottenere sugli altri tavoli, anche se vi parteciperemo. Il fisco, per esempio: la trattativa è sui criteri generali, le decisioni vere le prenderà Tremonti. Tra l´altro visto che a questo esecutivo piace paragonarsi con la Spagna, ricordo che la riforma di Aznar è ben diversa da quella delineata da ministro delle Finanze. Là si è passati da 6 a 5 aliquote, Tremonti ne vorrebbe 2 sole. Aznar ha fissato il prelievo maggiore al 45 % Tremonti lo vorrebbe al 33. Quanto al resto il governo non ha voluto parlare di scuola, sanità, nemmeno di quella decontribuzione che rovinerà i conti Inps. Ma quale patto sociale! Questo sarà un accordicchio dove a perdere saranno e le aziende e il paese a vincere solo il governo»


A dire il vero Confindustria in un modo o nell´altro si metterà in tasca quello che voleva: la modifica dell´articolo 18


«Che non servirà a nulla. Il patto fra Berlusconi e D´Amato non servirà alle imprese. Le aziende non hanno ancora capito che fino a quando non si affronteranno i veri problemi che frenano lo sviluppo il loro sistema sarà destinato a soffrire. In più questa modifica che otterranno sull´articolo 18 avvelenerà il clima nelle fabbriche, dove inizieranno le mobilitazioni per i diritti. E la nostra divisione penalizza anche loro: trattare con un sindacato spaccato è impossibile»


La vostra divisione appunto, adesso da dove si riparte?


«Da un confronto franco e trasparente dove noi diciamo che Cisl e Uil hanno fatto un tragico errore. I segnali sbagliati erano arrivati subito, nei giorni successivi allo sciopero generale quando ci siamo accorti che stava partendo una trattativa divisa. Potevamo aspettarcelo dalla Confindustria, non da Cisl e Uil. E´ stato controproducente e ridicolo»


L´avrebbe immaginato un debutto alla guida della Cgil difficile come questo?


«Cofferati, io e una parte del gruppo dirigente apparteniamo ad una generazione che ha vissuto il terrorismo degli anni ´70 e la divisione dell´84. Siamo temprati. La differenza è che oggi la qualità del confronto interno è scaduta. Allora si litigava sulle grandi sfide, ora vedo solo operazioni di basso profilo interne ai rapporti fra i sindacati».