DA - L'UNITA'
09.01.2003
"L'Occidente
crea mostri e poi si indigna. Vi spiego perché la pace
conviene"
Gino Strada in
questi giorni è a Milano, in partenza per Kabul. Intanto
sta trattando con le autorità irachene per trasferirsi a
Baghdad e allestire
rapidamente un ospedale di guerra. Strada non crede alla
possibilità che
la guerra non ci sia. Dice che gli interessi americani
sono troppo grandi
e che nessuna argomentazione politica o di buon senso
può convincere Washington a rinunciare all'attacco
all'Iraq. Strada dice che la guerra è in programma da
tempo, e che è un grande affare.
Gino Strada in Italia ormai è diventato il simbolo
vivente del pacifismo.
Ogni tanto
qualcuno dice: 'io sono pacifista, ma non sono pacifista
alla
Gino Strada'. Com'è il pacifismo di Strada'
Non saprei, bisogna chiedere a loro cosa intendono.
D'accordo, ma per
lei cos'è il pacifismo'
La scelta della pace per me è una scelta etica e
politica. Si basa sui valori
e sul buonsenso, sulla pratica, cioè sulle cose che ho
visto nella mia vita.
Io sono convinto che la guerra non sia mai un modo per
risolvere i problemi
ma sia un modo per ingrandirli. E che la guerra inneschi
una spirale che
nessuno poi riesce a spezzare. La politica internazionale
dell'ultimo anno
lo dimostra. Mi chiedo: dove ci porta questa spirale'
Vorrei che ce lo chiedessimo tutti. La pace, secondo me,
non è solo un dovere, un imperativo morale:
la pace è una necessità. Se non riusciamo ad affermare
un cultura di pace
e una politica di pace, sono convinto che andiamo verso
un'avventura il
cui punto finale è l'autodistruzione. Non sono un
catastrofista, non esagero:
è così. L'autodistruzione è la conclusione logica
della cultura della guerra.
Io pongo questa domanda semplicissima: e se il conflitto
tra Usa e Iraq
si trasformasse in conflitto nucleare, cosa succederebbe
del mondo'
È un'ipotesi
estrema, abbastanza irreale...
No, non credo che sia irreale. Gli americani hanno già
dichiarato in modo
abbastanza esplicito che sono pronti a valutare l'ipotesi
di usare bombe
atomiche tattiche. E a quel punto non è da escludere una
reazione devastante
del mondo islamico fondamentalista, e l'uso di strumenti
nucleari anche
da parte loro.
Queste sono le
ragioni 'politiche' del pacifismo integrale, alla
'Strada'.
E le ragioni etiche'
Sono i miei princìpi. I princìpi che nascono da quello
che ho fatto in questi
anni. Io lavoro per provare a salvare vite umane: sarebbe
per me un controsenso
essere favorevole a pratiche politiche e militari che
hanno come obiettivo
fondamentale quello di annientare vite umane. La mia
etica nasce dalle cose
che vedo.
Lei non è
religioso, se non sbaglio...
No, da quando sono adulto non lo sono mai stato. Sono
assolutamente un laico.
Però il mio punto di vista etico si incontra spesso con
quello di tanta
gente che ha un profondo senso religioso. Oggi per
esempio torno da Jesi,
dove abbiamo creato un centro di 'Emergency' in un
istituto di monache clarisse...
Faccio
un'obiezione che le avranno fatto spesso. Se si esclude
la guerra
come 'estrema ratio', se si esclude in via di principio
l'uso della forza,
non c'è il pericolo che il mondo cada in mano ai
prepotenti'
Ho già detto che le mie posizioni sono ispirate al buon
senso e alle cose
che vedo e che so. Non è giusto semplificarle. È del
tutto evidente che
se l'Italia fosse invasa da un esercito straniero che
ruba, stupra, uccide
e prende a mitragliate la gente, io reagirei. Mi
ribellerei. Va bene' Però
non mi sembra che questo scenario sia all'orizzonte,
giusto' E allora perché
discuterne' Discutiamo dei fatti reali, che succedono,
che si profilano
all'orizzonte. Il problema casomai è il seguente: come
si evita che i cosiddetti
'mostri' - diciamo i dittatori - salgano al potere e poi
diventino potentissimi'
Io credo che la risposta sia molto semplice: si evita di
costruirli. Una
volta che sono stati costruiti, appoggiati, coperti,
foraggiati, e che questi
dittatori sono diventati molto forti, certo, a quel punto
è difficile liberarsene
con mezzi pacifici. L'occidente, in genere, non si
preoccupa di questo.
Crea mostri e poi si indigna per il fatto che ci sono.
Oggi tutti dicono
che Saddam è uno spietato dittatore. Giustissimo. E
ricordano le sue nefandezze, soprattutto lo sterminio di
5000 curdi. Benissimo. Quando avvenne lo sterminio'
Nell'88. Allora le autorità americane sai come
chiamavano Saddam' Lo chiamavano il presidente, ne erano
amici, lo aiutavano, lo armavano. Oggi lo chiamano il
dittatore. E invece chiamano presidente il signor
Musharraf, il pachistano, che pure ha svariate bombe
atomiche. Vedrai un giorno ci ripenseranno, si
accorgeranno che è un dittatore...
Recentemente lei
ha detto che i paesi che fanno uso delle mine, e che le
producono (quindi anche l'Italia) sono paesi che
praticano il terrorismo.
Le mine sono terrorismo. Mi sembra che su questo c'è
poco da obiettare.
Però ha anche detto che le sanzioni contro l'Iraq (cioè
l'embargo) è terrorismo.
Non è un'esagerazione' Le sanzioni spesso sono
l'alternativa alla guerra.
Sono l'unica possibilità di fare politica sul piano
internazionale senza
ricorrere alle armi. Non è così' E non furono giuste le
sanzioni contro
Mussolini, negli anni 30, o quelle contro il Sudafrica di
Botha, negli anni
della apartheid'
Proviamo ad
esaminare la questione ponendoci dal punto di vista delle
persone
che vivono lì. Cioè in alcuni paesi concreti, reali,
dove sono in atto le
sanzioni.
Per esempio l'Iraq (era dell'embargo contro
l'Iraq che io parlavo
quando ho usato il termine terrorismo). L'embargo
funziona da 12 anni. Se
io e te ci chiamassimo Mohamed e avessimo un figlio, un
ragazzo, malato
di leucemia, e non potessimo avere le medicine che ci
servono per curarlo
perché così hanno deciso le nazioni dell'occidente e
gli americani, e vedessimo
il nostro bambino morire per questo, coda credi che
penseremmo di quelli
che ci impediscono di curarlo' Penseremmo: sono
terroristi. Qui da noi invece
invertiamo tutte le logiche. Siamo abituati a chiamare
'Opinione Pubblica'
l'opinione di un gruppetto di governati e commentatori,
siamo abituati a
chiamare 'Legalità Internazionale' la prepotenza degli
stati più forti,
e a chiamare 'diritti umani' i nostri privilegi. Noi
viviamo in una parte
del mondo che ospita il 20 per cento della popolazione e
consuma l'85 per
cento della ricchezza, e siamo convinti che i diritti
umani siano i diritti
di questo 20 per cento di mantenere o aumentare le
proprie ricchezze a danno
degli altri...
Lei non fa nessuna
distinzione tra uso della forza e terrorismo'
Il terrorismo è la forma moderna della guerra. È stato
terrorismo l'uso
dei gas in Russia, che ha ucciso gente inerme in un
teatro, lo è stato l'uso
del napalm, i bombardamenti contro i nicaraguensi, le
bombe a Tel Aviv dei
palestinesi e le rappresaglie israeliane. È terrorismo
anche l'embargo contro
l'Iraq. La guerra, fino al primo conflitto mondiale,
produceva l'85% delle
vittime tra i militari. Nella seconda guerra mondiale
cambiò tutto: il 65%
delle vittime fu tra i civili. Ora siamo arrivati a
percentuali ancora più
alte: 9 morti su dieci sono tra la popolazione civile. In
Afghanistan, nei
bombardamenti americani, secondo le stime più ottimiste
sono morti cinquemila civili. Le vittime tra i soldati
saranno state alcune decine, al massimo qualche
centinaia. Noi non possiamo sapere cos'è il terrorismo.
Per capirlo bisogna conoscerlo, averlo sperimentato.
Quando vedi che uccidono i tuoi parenti, i tuoi vicini, e
sai che non hanno fatto niente, mai un reato,
mai un delitto, mai un atto di violenza, che non hanno
mai tenuto in mano
un fucile, allora capisci che quelli che li hanno uccisi
sono terroristi.
Si ma lei parla di
terrorismo per l'embargo contro l'Iraq....
Un milione e mezzo di morti in dodici anni di embargo.
Come dobbiamo valutarli, come opera di bene' Quando si
attua una politica che uccide i civili e mantiene in vita
i regimi, anzi li rafforza, cosa si sta facendo' Io sono
medico,
sarebbe come se decidessi di usare per il mio lavoro
delle medicine che
rafforzano i batteri e indeboliscono l'organismo da
curare. Come mi considereresti'
Un delinquente...
Non mi ha risposto
però all'obiezione sulle sanzioni a Mussolini o quelle
a Botha...
Io non sono contrario in via di principio alle sanzioni.
Sono contrario
alle sanzioni che uccidono la gente per bene e rafforzano
i dittatori. Tutto
qui. Sono favorevole, eventualmente, a sanzioni che non
uccidono gli innocenti....
Conosce anche
l'altra obiezione al pacifismo. Quella, diciamo così,
storica:
cosa sarebbe successo se le potenze europee avessero
lasciato fare Hitler'
Le potenze occidentali hanno lasciato fare Hitler. La
guerra è scoppiata
nel '39. Precedentemente Hitler aveva annesso l'Austria,
la Renania, era
entrato nelle zone smilitarizzate, aveva riarmato la
Germania violando l'armistizio, aveva negli anni venti
tentato un colpo di Stato, eccetera eccetera. C'erano
state mille occasioni per fermarlo, ma non conveniva a
nessuno. Il riarmo della Germania fu una grande affare
per tutti...
Dunque se Saddam
è come Hitler, prima si interviene per fermarlo e meglio
è. Saddam Hussein è come Hitler'
Guarda, se si facesse un referendum mondiale, e si
chiedesse ai sei miliardi
di cittadini che popolano il mondo in chi vedono il
pericolo di un nuovo
Hitler, so con certezza chi vincerebbe il referendum: lo
vincerebbe George
W. Bush. Non è così' del resto chi è che oggi più di
chiunque altro al mondo
mette a rischio la sicurezza internazionale' Quel
guerrafondaio, petroliere,
figlio di petroliere guerrafondaio, che è George W.
Bush. I paesi più pericolosi
per il mondo, in questo momento sono tre: al primo posto
gli Stati Uniti,
al secondo Israele, al terzo la Russia.
Strada, perché il
pacifismo è filopalestinese' Non sarebbe giusto mettere
sullo stesso piano il terrorismo palestinese e le
rappresaglie di Sharon'
Noi di 'Emergency' mettiamo sullo stesso piano il
terrorismo di frange palestinesi e quello del governo
israeliano. Recentemente ci siamo offerti per realizzare
un servizio di ambulanze che intervenisse sia per le
vittime palestinesi che per quelle israeliane. Trattammo
con l'ambasciatore di Israele a Roma, studiammo tutti i
dettagli per dare al governo israeliano ogni garanzia
possibile. L'autorità palestinese ha subito accettato la
nostra offerta,
il governo israeliano neanche ci ha risposto. Detto ciò,
noi non abbiamo
sposato la causa palestinese, nel senso che non abbiamo
sposato i metodi
di lotta che stanno usando (difendiamo invece il diritto
di avere una terra,
una patria e la pace). L'autorità palestinese ci ha
invitato per una manifestazione di solidarietà politica:
non ci siamo andati, noi non facciamo testimonianza,
lavoriamo come medici per salvare delle vite.
La sinistra
italiana, per la prima volta nel dopoguerra, sembra
finalmente
unita nel no alla guerra. È un fatto importante, non
crede'
Io spererei che tutto il Parlamento italiano sia unito
contro la guerra.
La pace non è un valore di sinistra o di destra, è di
tutti gli uomini.
Dopodiché, vedremo cosa succederà. L'Ulivo sarà unito
nel no alla guerra'
Ne sarei felice. Anche se alcuni dirigenti dell'Ulivo non
mi sembrano molto
convinti. Fassino molte volte ha polemizzato con me...
Se però, pur
polemizzando, si ritrovasse nel no alla guerra...
Ne sarei molto contento, figurati. Però non sono
sicurissimo di come andranno
le cose. Ho visto che molti dicono: ' no alla guerra, a
meno ché l'Onu non
l'autorizzi...'. Per Onu si intende Consiglio di
sicurezza dell'Onu. I cinque
stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza e con
diritto di veto
sono i produttori dell'85 per cento degli armamenti che
esistono al mondo.
Cioè sono quelli che alimentano i 50 conflitti
attualmente aperti nel mondo
(e ci guadagnano sopra).
Strada, secondo
lei la guerra in Iraq è inevitabile o ci sono ancora
speranze
di evitarla'
Non credo che ci siano speranze di evitarla. Alcuni studi
dicono che l'America
nei prossimi diciassette anni prevede di aumentare dal 50
al 65 per cento
la quota di petrolio che importa per coprire il proprio
fabbisogno nazionale.
Dove andrà a trovare tutto quel petrolio, e in che modo
potrà controllarne
il prezzo e dunque governare la propria economia' Te lo
dico io: nei cinque
paesi del centro-Asia, a partire dall'Afghanistan, e in
Iraq che è il paese
al mondo che ha più riserve petrolifere. Chi controlla i
pozzi dell'Iraq
(che è fuori dall'Opec) è colui che fa il prezzo del
petrolio nel mondo.
Per questo l'America farà la guerra. E spenderà, per
fare la guerra - dicono
gli esperti- non meno di 200 miliardi di dollari. Pensa
che il Wto ha stimato
che con 13 miliardi di dollari si può battere per un
anno la fame in tutto
il mondo. Vuol dire che coi soldi che si spenderanno per
la guerra si fa
sparire la fame per una quindicina d'anni. Gliene frega
niente a nessuno'
No, tutti dicono: be, la guerra... io sono contrario per
carità... però
l'estrema ratio....'. Mentono: non è l'estrema ratio, è
la prima scelta.
E sai perché' Perché la politica oggi, in molti paesi,
è nelle mani di gruppi
di gangster.
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DA - IL MANIFESTO - 9 GENNAIO2003
Con i soldi degli
altri
Ma famiglia e banche diranno no al piano Colaninno. Parla
l'economista
Messori
GALAPAGOS
«Su un punto sono d'accordo con il piano
presentato da Colaninno: per rilanciare
la Fiat auto serve una gigantesca iniezione di
liquidità. Ma la riuscita
del piano dipende anche da un forte impegno e dai
sacrifici della famiglia,
oltre che del sistema bancario. E su questo punto ho
molti dubbi». Marcello
Messori, economista (insegna all'università di Tor
Vergata a Roma) esperto
di sistemi previdenziali, ex consigliere economico di
D'Alema, segue con
passione i problemi della Fiat. «Colaninno - aggiunge -
ha smentito le indicrezioni
sul suo piano apparse sulla stampa. Ragionando su quello
che sappiamo, sono
scettico sulla possibilità di successo del progetto
vincolato a molte ipotesi
che non mi paiono realizzabili. A cominciare dal consenso
della famiglia
Agnelli all'operazione».
Perché
sei convinto che la famiglia non accetterà il piano?
Se gli Agnelli puntassero veramente al rilancio
dell'auto, non avrebbero
bisogno di Colaninno e del suo intervento finanziario. Se
quello che sappiamo
sarà confermato, Colaninno entrerà nel capitale Fiat
con un miliardo di
euro. Il piano finanziario complessivo, invece, prevede
risorse per circa
8 miliardi di euro. Più di metà di questa somma
arriverà da dismissioni
di asset Fiat: Toro assicurazioni e Fiat Avio, secondo
quanto si dice. Sono
gioielli di famiglia dei quali è difficile ipotizzare
che gli Agnelli si
disfarranno con facilità. Di più: finora, rispetto
all'auto l'atteggiamento
della famiglia è stato quello di «guadagnare tempo»,
assestare un po' i
conti in attesa di esercitare il «put» nei confronti di
Gm. Il rilancio
dell'auto non mi sembra assolutamente nelle intenzioni
degli Agnelli. Infine,
e non mi sembra secondario, con l'entrata di Colaninno la
famiglia perderebbe
ogni ruolo gestionale all'interno del gruppo, visto che
Colaninno rivendica
la carica di vicepresidente e amministratore delegato
della Fiat Spa, anche
se legato da un patto di sindacato con la famiglia che
vedrebbe però scendere
al 15-20% la propria partecipazione.
Ma le
banche creditrici non potrebbero premere sulla famiglia?
E' molto difficile: le banche sono ipergarantite dal
patto siglato con la
Fiat per procedere al consolidamento di parte
dell'indebitamento del gruppo.
In pratica, il ricavato di ogni cessione deve andare a
riduzione dell'indebitamento
lordo e netto. Inoltre, è prevista una opzione di
convertibilità del debito
(non onorato) in azioni. Il piano Colaninno prevede al
contrario che il
ricavato delle dismissioni finisca a Fiat auto e che le
banche non esercitino
la convertibilità del debito. Implicitamente questo
significa che sono le
banche a impegnarsi nel settore auto.
Però
Colaninno si è impegnato ad accollarsi un paio di
miliardi del debito consolidato.
Ma vorrebbe dalle banche la garanzia della
non-convertibilità e anche una
rinegoziazione complessiva del debito, con un
allungamento delle scadenze
e una riduzione dei tassi.
La stampa
Usa scrive che l'ipotesi Colaninno non è malvista da Gm.
Il piano prevede che la Gm versi altri 1,5 miliardi di
euro nel capitale
della Fiat auto. In cambio aumenterebbe la propria
partecipazione al 40%
e al tempo stesso vedrebbe decadere l'opzione del «put»
che li obbliga,
se richiesti, di acquistare l'intera Fiat auto a partire
dal 2004. Credo
che quel put dia fastidio alla Gm e che il piano
Colaninno da loro possa
essere accettato.
Colaninno
avrebbe potuto fare di più? La sua offerta non appare
particolarmente generosa.
Tutti avrebbero dovuto fare di più. In primo luogo la
famiglia che avrebbe
dovuto mettere a punto un piano credibile se non di
rilancio, almeno di
risanamento e di tenuta del settore auto. Quello che
serve è una precisa
strategia per una aggregazione internazionale (a questo
punto sembra inevitabile),
arrivandoci da una posizione se non attiva (cioè con la
Fiat che detta le
condizioni), almeno non passiva, da pari o quasi. E
questo significa fissare
dei paletti per garantire siti produttivi e attività di
ricerca e sviluppo.
Tutto questo non lo vedo. C'é un clima da «tiriamo a
campare» in attesa
della cessione, senza alcuna attenzione ai risvolti
sociali.
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DA - IL MANIFESTO 10 GENNAIO 2003
«Non credo che
voglia dividerci»
Casarini: «Ma il dialogo dipende da quello
che dice su Genova»
«Noi a Firenze andiamo per ascoltare cosa
dicono su tre cose, per cominciare: guerra, Cpt e
soprattutto le inchieste
di Genova. Da quello dipende il giudizio. Non diciamo no
pregiudiziali».
Luca Casarini e i
Disobbedianti per adesso tengono un canale aperto nei
confronti di Sergio Cofferati.
Secondo
Bertinotti la strategia di Cofferati
«divide il movimento». Secondo te punta a fare questo?
No, secondo me no.
Voi,
però, a Firenze non siete stati invitati, a differenza
di altri settori del movimento. Questo, invece, è
un primo segnale negativo: che si dica ad esempio
Lilliput sì gli altri no.
Ma non è l'importante.
E cosa lo è?
Io voglio ascoltare se Cofferati mi dice che è dentro il
processo di costruzione
di un movimento. Voglio sentire se mi dice che non c'è
posto in questo processo
per chi è a favore dei Cpt, per chi ritiene che
un'organizzazione come il
G8 abbia il diritto di reprimere brutalmente chi vuole. E
anche la guerra,
certo, è determinante.
Genova per voi
resta dirimente?
E dovrebbe esserlo per tutti. Siamo di
fronte a una magistratura che archivia la morte di
Giuliani. Siamo di fronte a una vicenda come la Diaz in
cui le forze dell'ordine dicono:
abbiamo organizzato un massacro e lo abbiamo anche
coperto. Questi hanno
in mano la vita quotidiana dei cittadini e non li hanno
neanche sospesi.
Dall'altra parte, invece, c'è gente che rischia un anno
di carcerazione
preventiva, ci sono magistrati che dicono che siccome uno
va con le protezioni
allora vuole fare gli scontri, siccome è Disobbediente
allora vuole devastare.
Ma allora
a che serve essere diverso da chi va coi bastoni?
Qui non è Cosenza.
Qui siamo colpevoli: noi veramente abbiamo resistito alle
cariche, se è
questo che ci viene imputato. E allora, visto che si
fanno tanti bei discorsi
sulle riforme e sulla giustizia, siccome nei girotondi ci
sono anche tanti
magistrati, io voglio sentire cosa mi dicono. E cosa
dicono i politici.
E Cofferati: se il bambino palestinese, non il
terrorista, ucciso per l'Intifada
è colpevole, se Marcos è colpevole di disobbedire, se
la resistenza civile
al G8 è da processare. Da questo dipende il nostro
giudizio su cosa fare
da sabato. Poi potremo cominciare a discutere. Oppure
no.
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DA - L'UNITA' -
L'INTERVISTA
10.01.2003
"Cofferati
è una risorsa per tutta la sinistra"
ROMA Giovanni
Berlinguer,
scusi la
domanda diretta: quando Piero Fassino
ha detto di avere le tasche piene dell'opera di
delegittimazione nei suoi confronti, le sono fischiate le
orecchie?
«Evidentemente sì. Mi sono sentito chiamato in causa.
Il suo bersaglio non poteva che essere il cosiddetto
correntone».
Sorpresa,
collera? Qual è stata la sua reazione?
Sono rimasto sorpreso. Aveva appena argomentato la sua
analisi politica, che peraltro conteneva elementi
opinabili ma tutti discutibili in maniera positiva e
costruttiva, quando ha svolto questo processo contro
ignoti, perché non ha fatto né nomi né cognomi.
In
effetti, forse non ce n?era bisogno...
Delegittimazione è una parola pesante. Vorrebbe dire che
io o altri accusiamo Fassino e l'attuale gruppo dirigente
di essere degli usurpatori. La mia sorpresa nasce da
questo: mai nessuno ha sollevato dubbi sulla loro
legittimità. Ne io, né Cofferati né altri. Le fornisco
la citazione esatta di quanto dissi alla fine del
congresso di Pesaro. Augurai buon lavoro a Piero Fassino
eletto per via democratica a leader di tutto il partito.
E a questa considerazione mi sono attenuto.
Non
negherà però che il lavoro ai fianchi del segretario è
stato alquanto intenso. Non trova che gli si siano fatti
troppo spesso processi alle intenzioni ?
Il fatto è che alcune di queste intenzioni messe sotto
processo si sono manifestate. Penso a quando si era detto
no alla guerra ma sì alla guerra sotto il cappello
dell'Onu. Oppure alle critiche all'articolo 18 che sono
continuate - non da parte di Fassino, è vero - anche
quando il mondo del lavoro era in piazza per difenderlo.
Ricordo anche che lo stesso Fassino nella direzione dell'
ottobre scorso propose un tavolo istituzionale, quando
dopo l?approvazione della legge Cirami parlò di
eventuali accordi sui temi della giustizia... Insomma, il
nostro allarme aveva qualche giustificazione, non era
pretestuoso. Ciò non toglie che io ho sempre teso a
sottolineare ciò che ci unisce piuttosto che ciò che ci
divide. Ho molto apprezzato, per esempio, la posizione
finale sulla guerra.
E
la relazione fatta da Fassino ieri al direttivo?
Per molti aspetti l'ho trovata positiva. Soprattutto là
dove punta il dito sul fatto che l'Ulivo debba essere
qualcosa di più di una somma di sette partiti e sette
segretari, quando chiede la creazione di un Forum di
ascolto della società civile e dei movimenti, quando
auspica che all?elaborazione
del programma partecipi uno spettro di personalità molto
più ampio di quello partitico.
Condivide
anche il documento dell?Ulivo sulle riforme
istituzionali?
Complessivamente sì. Nutro una riserva netta a proposito
dei poteri aggiuntivi del capo del governo, in
particolare quello di proporre lo scioglimento delle
Camere: avremmo un parlamento perennemente sotto ricatto,
un soffocamento del potere legislativo.
Non
mi sembrano distanze abissali dalla maggioranza.
È sul piano dell?analisi che nutro le riserve maggiori.
Non mi convince l'idea che il problema italiano sia
quello di una transizione incompiuta. Trovo che la crisi
della democrazia sia più profonda, più allarmante.
Anche se in Italia siamo dei privilegiati rispetto ad
altri paesi: penso alla vitalità partecipativa del
movimento dei lavoratori, di quelli della società
civile, penso al Palavobis e a piazza San Giovanni, ai
girotondi, allo straordinario Forum sociale di Firenze.
D'accordo,
ma il dibattito politico ha le sue sedi istituzionali.
Vero, ma il rischio è che la nostra democrazia sia
rappresentativa soltano di alcuni ceti. Mi spiego. A
votare, sempre di più, vanno i ceti medi: coloro che
hanno un?istruzione limitata, i poveri, i soli, ovunque
votano di meno rispetto ai più agiati. Questa lettura
classista vale anche dalla parte degli eletti: si candida
chi gode di finanziamenti, chi stipula accordi di tipo
lobbysta... In un simile contesto prospera il leaderismo,
la personalizzazione,
e si fanno più facili le derive plebiscitarie. Questi
temi, questa analisi dovrebbero essere affrontati da
tutti, non solo dentro la nostra area politica.
Credo
che uno come Piero Fassino potrebbe condividere...
Infatti. Lo dico soltanto per dare un'idea dell?ampiezza
della crisi della nostra democrazia, delle sue
dimensioni. La mia critica a Fassino e allo stato
maggiore dell'Ulivo è più puntuale: esiste oggi una
crescente erosione del consenso per Berlusconi che non si
trasforma in adesione al centrosinistra. A mio avviso
perché non disponiamo di un programma chiaro e perché
non è
abbastanza forte il legame con i movimenti della società
civile.
Che
cosa rappresenta oggi Sergio Cofferati per la minoranza
ds?
Non solo per la minoranza ds, ma per una parte
consistente del paese Cofferati è una grande risorsa che
non può essere ristretta negli schemi ristretti
dell'alleanza ulivista. E' fondamentale anche ai fini di
un arricchimento dell'Ulivo, purché si creino le
condizioni idonee. Se questo è vero, credo che si debba
smetterla di considerare Cofferati semplicemente come una
persona in più nel quadro esistente, oppure esorcizzarla
a suon di improperi come ' signornò' o peggiorista.
Tanta acredine fa sospettare
che in Cofferati si tema un concorrente.
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DA - L'UNITA' - L'INTERVISTA -
12 GENNAIO 2003
Il mio amico Lula
può cambiare il Brasile"
Alberto Tridente, 70 anni, figlio d'immigrati dalla Puglia
a Venaria, operaio
alla Fiat ferriere, poi sindacalista Fim-Cisl, è stato
segretario nazionale
dell'Flm (la struttura unitaria cui diedero vita Fim,
Fiom, e Uilm negli
anni ?70, epoca d'oro dell'unità sindacale) con delega
unitaria per i rapportiinternazionali. Per anni ha
contribuito a definire le linee di politica
internazionale dell'Flm, indicando principi e forme per
una collocazione
internazionale del movimento sindacale unitario italiano.
Per questo divenneil primo e principale interlocutore
italiano di colui che è diventato il
nuovo presidente brasiliano, Luiz Inàcio Lula da Silva.
Gli abbiamo chiesto un ricordo.
Un
vecchio dirigente politico brasiliano, Apolonho de
Carvalho, esule in
Italia durante il regime militare, una volta disse: «Nel
XX secolo è nato
Lula». Chi è Luiz Inàcio Lula da Silva?
«Lula è un caso unico. Un uomo determinato, sincero,
coerente con se stesso
ma capace di maturare il cambiamento. Il carisma che
tutti gli riconoscono
ha radici profonde; viene dalla sua storia e dalla sua
capacità di interpretare
il sentimento brasiliano, ma è anche quello di un uomo
cosciente di muoversi
all'interno di un mondo globalizzato. Non è solo
l'ex-tornitore con la barba
bianca, l'ex-guerrigliero stanco o il nuovo
"Zapata" brasiliano. Lula oggi
ha finalmente la chance di rimanere, governare e durare,
perché conosce
il Brasile, l'impazienza brasiliana che nasce dal bisogno
di vedere soddisfatte
le necessità primarie di un popolo (come la lotta alla
fame), e saprà mediare
con essa per la realizzazione degli obiettivi di lungo
periodo che si è
posto. Sono contento di aver dedicato tanti anni al
Brasile, di aver conosciuto
un uomo unico come Lula».
Come
è nato il suo rapporto con Lula?
«Mi si permettano alcuni ricordi personali: negli anni
?70 la Flm si trova
all'apice della sensibilità internazionalista e si sono
già stabiliti contatti
con filiali di multinazionali italiane all'estero. La
Spagna è la prima
palestra per il sindacato. Dal 1939 sotto la dittatura di
Franco, ospita
insediamenti di multinazionali di diversi settori e
paesi. L'Italia è presente
a Barcellona con la Fiat-Seat, con la Hispano Olivetti e
la Vespa Piaggio
a Madrid, oltre all'indotto. È maturo il tempo per
scavalcare l'Oceano e
stabilire nuovi contatti. Nel novembre 1979 andammo in
Argentina e in Brasile; andammo a Betim e poi da a San
Bernardo do Campo dove Lula è presidente del sindacato
metalmeccanico. Eravamo nel pieno della lotta per il
contratto e per la libertà sindacale e fummo colpiti
dalla capacità organizzativa dei giovani sindacalisti
del sindacato ufficiale. Era una leadership moderna,
cresciuta nella repressione e con scarsi aiuti
dall'estero.
Da questo momento
in avanti, come sindacalista prima e come deputato
europeo poi, seguirò
quasi tutte le campagne elettorali di Lula, imparando a
conoscere lui e
la sua famiglia di cui sarò spesso ospite, apprezzando
la sua grande intelligenza
politica, il coraggio, la coerenza e l'onestà».
Quali
erano i rapporti fra il Sindacato dos Metalurgicos de
São Bernardo
do Campo e Diadema e la Flm?
«Le racconto un episodio esemplificativo: nel 1980
invitammo Lula a Roma
per stabilire rapporti stabili di collaborazione con la
Flm. Avere Lula
come interlocutore significava avere rapporti con altri
sindacati di altre
città brasiliane. Il caso volle che contemporaneamente
Cgil, Cisl e Uil
invitarono anche Walesa, allora leader di Solidarnosc,
libero sindacato
polacco nella Polonia ancora comunista. L'atteggiamento
dei nostri sindacati
confederati fu indubbiamente discutibile perché si
occuparono molto di Walesa,
con grandi onori e manifesti per la città e poco di
Lula, il sindacalista
metalmeccanico, ex tornitore, all'epoca quasi
sconosciuto, che venne infatti
ricevuto soltanto dai sindacati metalmeccanici. A Roma,
l'attenzione è tutta
per Walesa: europeo ed anticomunista è la novità della
lotta contro il regime
del socialismo reale mentre, Lula è solo brasiliano.
Solo più avanti, quando
tornò in Italia come presidente del Pt, la Cgil si
accorse di lui. Il trattamento
ricevuto da Lula tuttavia mostra la forte discriminazione
allora esistente
nei confronti dei leader sindacali del terzo mondo.
Esisteva un razzismo
di fondo o più semplicemente una ferrea (ed
inaccettabile) gerarchia di
rapporti nella cultura europea, tale per cui un leader
europeo era ben più
importante di un leader sudamericano. Occorreva un
impegno non irrilevante
per far capire l'importanza delle lotte sindacali in
Brasile: c'era sempre
qualcosa di riduttivo nel riconoscimento della necessità
di sostenere Lula
da parte del sindacato. In un clima generale di confronto
fra le specifiche
esperienze sindacali nei diversi paesi, l'interesse per
la situazione in
America Latina si limitava al solidarismo. In uno dei
viaggi a Betim, parlando
con gli esponenti sindacali di Betim mi fu chiaro che non
esisteva alcuno
sforzo verso il coordinamento. Da Torino non vi era alcun
interesse. Di
internazionalismo sindacale non ne ha fatto nessuno,
salvo rare eccezioni
personali. Solo finti discorsi e cene. Lavorare per un
vero internazionalismo
della lotta sindacale era escluso. Non c'era alcuna
iniziativa diretta,
solo manifestazioni più o meno sentite di solidarismo in
presenza di sconfitte
o massacri (Cile, Sabra e Chatila). Nessuno ha lavorato
per un vero coordinamento
internazionale ed i rapporti del sindacato italiano con
Lula sono stati
fortemente viziati da ciò».
Quale
significato può avere la vittoria di Lula per un nuovo
internazionalismo
sindacale in un contesto globale?
«Oggi la vittoria di Lula è un episodio positivo in un
contesto come quello
sudamericano, ma non solo. Per il Brasile rappresenta
l'opportunità di un'impresa
importantissima: quella di rappresentare il vero motore
di un ruolo dell'America
Latina fondamentale per gli equilibri internazionali. Per
questo è forse
arrivato il momento di fare un esame di coscienza
sull'atteggiamento tenuto
dal sindacato in quegli anni e proporsi in un ruolo
diverso, più vitale,
più utile, più coerente. L'occasione è importante:
quanto accadrà nei prossimi
anni in America Latina richiederà l'attenzione e la
partecipazione responsabile
di coloro che sapranno capire che nulla può ormai essere
considerato marginale,
anche se accade in realtà lontane e a volte poco
conosciute».
Come
giudica il percorso di Lula da leader sindacale a leader
politico?
«Lula non nasce come un politico. Il suo è stato un
percorso di apprendistato.
Attraverso l'esperienza ha maturato una coscienza
politica che lo ha condotto
a riconoscere se stesso come leader. Ha saputo
trasformarsi e trasformare
i suoi obiettivi. La stessa evoluzione del suo difficile
rapporto con la
sinistra militarista lo dimostra: ha sempre tentato di
aggregarla, piuttosto
che emarginarla. Tutto ciò mostra l'impegno costante per
dare concretezza
ad una visione politica ampia. La stessa idea del
sindacato-partito ricorda
la traiettoria politica del laburisti».
L'immagine
internazionale "poco spendibile" di Lula è
stato uno dei nodi
centrali dei suoi oppositori. Cosa ne pensa?
«Nessuna paura per il capitalismo brasiliano: Lula è
cambiato, è maturato.
In passato la vicinanza con Urss, Ddr e Cuba hanno
rappresentato un elemento
di forte preoccupazione. Ora è diverso: gli esempi come
quello dell'Urss,
nell'elaborazione graduale di Lula e del PT sono
diventati modelli negativi
riconosciuti. Ovviamente restano le convergenze: le
stesse reazioni alla
vittoria di Lula di Castro (Cuba) e Chàvez (Venezuela)
lo dimostrano, tuttavia
gli impegni che il nuovo presidente ha preso con i suoi
elettori (fra cui
le riforme strutturali, la lotta alla fame ed alla
povertà) lo impegnano
ad uno sforzo continuo di composizione fra le diverse
realtà politiche e
Lula saprà assumersi tale responsabilità».
Cosa
rappresenta l'elezione di Lula per il Brasile?
«Non sarà una presidenza facile questa di Lula. Il
paese ha evitato il baratro
che inghiotte l'Argentina , e il compito del nuovo
presidente è di quelli
che appaiono quasi impossibili: vincere la fame,
distribuire il latifondo
ai contadini senza terra, realizzare la riforma agraria
con la creazione
di cooperative e pagare le rate del debito esterno (230
miliardi di dollari)
senza le quali non si otterranno i 30 miliardi decisi dal
Fondo Monetario
per rilanciare l'economia brasiliana e del Mercosur
(l'area economica e
politica sull'esempio di Unione Europea per
l'integrazione economica e sociale
a cui partecipano oltre all'Argentina e Brasile,
l'Uruguay e il Paraguay,
oltre a Cile e Bolivia con rango di paesi associati);
opporsi all'Alca,
il mercato continentale di libero scambio voluto dagli
Usa che intendono
invadere il sub-continente con le proprie produzioni
senza obblighi di integrazione
economico-sociale. Il Brasile è un paese-continente: 8
milioni e mezzo di
km quadrati, con oltre 170 milioni di abitanti, un quinto
sotto la soglia
della povertà, tuttavia è un decisivo per lo sviluppo
dell'intera America
Latina nella lotta alle disuguaglianze, alla fame e
all'ingiustizia della
povertà. L'elezione di Lula rappresenta la sintesi di
aspettative accumulate
da decenni. Una sfida per il rilancio di un continente
che "avanza verso
un'epoca di cambiamenti sociali", come ha dichiarato
il vicepresidente venezuelano
Jose Vincente Ranger».
E
cosa può rappresentare per l'Europa?
«Il Mercosur è già un importante partner dell'Unione
Europea e può esserlo
ancora di più se i paesi dell'Ue apriranno maggiormente
le frontiere commerciali
alle importazioni. Lula rappresenta un'occasione unica
per l'Unione Europea
perché è un'ipotesi alternativa ai tre poli fortezza:
U.S.A, Asia, Europa.
Tuttavia non è un'idea di tutti e per questo va
sostenuta; in questo senso
l'Italia può svolgere un ruolo importante. L'Europa
dovrà rispondere a questa
speranza, con generosità ed intelligenza, nel momento
stesso in cui si allarga
all'Est. Sarebbe un errore lasciarsi sfuggire l'occasione
di giocare un
ruolo in quella che potrebbe rappresentare una svolta
decisiva di interesse
mondiale. Il fatto che questo cambiamento avvenga grazie
al carisma di un
ex operaio tornitore è quasi magico».
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DA - IL
CORRIERE DELLA SERA 13 gennaio 2003
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI BOLOGNA - «Cofferati non è un
...
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
BOLOGNA - «Cofferati non è un problema, ma una risorsa.
Se fosse un problema
non sarebbe solo di Fassino ma di tutto l'Ulivo. Questa
è la fatica della
politica: ricondurre la pluralità a unità. Cofferati in
questo momento rappresenta
la passione. Ma bisogna che la passione sia governata
dalla ragione». Arturo
Parisi, vicepresidente della
Margherita, non teme la "mina" Cofferati. Cita
le contestazioni delle assemblee, i dibattiti infuocati,
le critiche: «Sono
una ricchezza per l'Ulivo e per la democrazia, ci aiutano
a crescere».
Che significa
governare la passione?
«Comporre ragione con passione. Tutti noi siamo
partecipi della passione
che si è vista a Firenze. La condividiamo. Tuttavia
sappiamo che questa
passione che ci attraversa deve essere guidata dalla
ragione.
Questo è il problema. Cioè, deve essere indirizzata
verso un progetto che,
anche se siamo oggi opposizione, è sempre un progetto di
governo».
Cofferati però
ripete: fermate ogni confronto sulle riforme, Berlusconi
è inaffidabile.
«Lui fa sentire quella preoccupazione che noi
condividiamo. Ma noi dobbiamo
immaginare un futuro per il Paese a prescindere da
Berlusconi.
Anche se nel presente è difficile alleggerirsi dalle
provocazioni costituite
dall'azione di governo e dall'azione parlamentare della
maggioranza, l'Ulivo
deve farsi carico del futuro.
Il tema della riforma è una scelta che abbiamo fatto sin
dal '96, quando
dicemmo che il patto relativo alle istituzioni era da
stilare insieme con
l'opposizione. Sapevamo quel che dicevamo, perché la
controparte che avevamo
di fronte non era diversa e neppure migliore da quella
attuale, anche se
non aveva manifestato compiutamente la propria
pericolosità».
E Cofferati questo
vostro "pensare al futuro" non lo capisce?
«E come fa a non capirlo? Ma la sua partecipazione al
dibattito interno
al centro-sinistra sembra farsi carico soprattutto della
dimensione delle
preoccupazioni. Noi lo ringraziamo pure di questa
sollecitazione, ma sappiamo
di essere caricati di responsabilità istituzionali che
dobbiamo esercitare.
Responsabilità che ci chiama a reagire alle provocazioni
del presente e
nello stesso tempo a costruire il futuro».
Responsabilità
che oggi Cofferati non ha.
«Cofferati è libero da queste responsabilità e quindi
può svolgere con compiutezza
la sua provocazione politica. Il Cofferati sindacalista
è riuscito a coniugare
il rigore della rappresentanza dei deboli assieme alla
necessità del confronto
e della negoziazione. Oggi capisca la nostra fatica come
noi apprezziamo
il suo contributo».
Quindi il
confronto sulle riforme, secondo lei, deve andare avanti?
«Sì, con le modalità che abbiamo detto: in modo
trasparente e quindi nelle
sedi istituzionali, al riparo da ogni sospetto di
trattative o inciucio;
con le precondizioni che abbiamo indicato e, terzo, con
un oggetto circoscritto,
definito dalla natura istituzionale della riforma».
Avanti tutta
nonostante Cofferati.
«No. Si vada avanti nonostante Berlusconi e nonostante
questo governo piccolo,
piccolo. Ma attenzione: parlo di confronto sulle riforme
non dell'apertura
di una stagione del dialogo. Sappiamo che Berlusconi è
guidato dall'intenzione
di spostare l'attenzione dalle difficoltà del governo,
così come sappiamo
che in tema di riforme istituzionali è guidato dal
progetto di definire
soluzioni sulla sua misura personale. Ma vogliamo
privarlo dell'alibi che
potrebbe spingerlo a approfittare della maggioranza per
procedere da solo,
e vogliamo rendere visibile il disegno unitario che
abbiamo per il Paese».
Confronto ad ogni
costo?
«L'approvazione della legge Frattini sul conflitto di
interessi, nel testo
proposto come "intoccabile", sarebbe un macigno
insuperabile sulla via del
confronto».
Perché?
«Nel momento in cui si indica, con la riforma, il tema
del rafforzamento
dei poteri del premier, diventa pregiudiziale che ci sia
l'abbandono di
un atteggiamento aggressivo e dilatorio. Perché, se
rafforziamo il premier
nella stessa Costituzione, contemporaneamente deve essere
introdotto un
contrappeso che affronta il problema delle
incompatibilità e delle ineleggibilità
che fanno capo al premier stesso. Riteniamo che si debba
immaginare un sistema
in cui poteri forti riequilibrano poteri forti.
Un sistema istituzionale forte in una società forte».
Rafforzerete,
intanto, il governo Berlusconi invece di pensare a
indebolirlo?
«Noi non pensiamo al governo Berlusconi, ma al governo
del Paese e al governo
della Repubblica, cioè il sistema delle istituzioni
nella sua interezza.
Questo è un governo debole e prepotente, noi lavoriamo
per governi forti
ma delimitati dalla legge».
Lei è amico di
Prodi e ne è stato a lungo consigliere. A Firenze, sia
Moretti
sia Cofferati hanno elogiato la vittoria dell'Ulivo nel
'96, e molti "pentiti"
oggi rivorrebbero Prodi alla guida della coalizione. Che
cosa ne pensa?
«Il rimpianto, qualche volta solo ex post, che emerge è
per il progetto.
Riandare a quella esperienza ci deve indurre prima che a
cercare la vittoria
elettorale a ritrovare il progetto politico. Come diceva
Galileo la verità
è figlia del tempo».
Ma anche lei crede
che sarà Prodi il taumaturgo del centro-sinistra?
«Mi difendo da questo appello prematuro. Posso solo dire
che da undici giorni
il 2004 è l'anno venturo».
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