Intervista con
Giulio Tremonti

dal sito internet - http://www.fub.it/telema/TELEMA11/Tremon11.html

Fra il potere e i cittadini
serve un (nuovo) contratto

Gli Stati non sono più in grado di controllare un'economia ormai senza vincoli di territorialità. Ma sopravviveranno se saranno capaci di stabilire con i propri cittadini un patto di reciproca convenienza. Spetterà loro il compito di sviluppare le risorse umane attraverso l'educazione, pubblica e televisiva.

«Tra le conseguenze della modernità, della fase della modernità che chiamiamo globalizzazione», dice Giulio Tremonti, economista, politologo, ministro delle Finanze nel governo Berlusconi, grande esperto di problemi fiscali, «c'è la crisi irreversibile degli Stati nazionali, o almeno dei modelli di Stato prodotti dall'età moderna, quelli che ci sono familiari e che conosciamo. Se non saranno capaci di riformarsi in profondità e diventare rapidamente un'altra cosa, per quanto vogliano resistere entreranno in crisi».

Come si può arrivare a una conclusione tanto perentoria e tagliente, professore?Sappiamo bene che tutto nel tempo è destinato a cambiare, ma perché la deriva dovrebbe essere così ineluttabile e fatale? Non può l'uomo, in questo gigantesco insieme di flussi tecnologici e processi economici, opporsi alle tendenze che non gli piacciono, se non gli piacciono? E davvero la volontà statuale non è più in grado di condizionare o invertire il corso delle cose? Dopo Marx, è morto pure Hegel?

No, no - fa Tremonti con un guizzo ironico negli occhi - Marx è vivo, e la crisi degli Stati annunzia la morte del solo Hegel. In un mondo globalizzato certi scenari internazionalisti profetizzati da Marx stanno ancora perfettamente in piedi. Certe sue affermazioni conservano tutto il loro vigore: «All'antico isolamento nazionale subentrerà uno scambio universale, una interdipendenza universale». Oppure: «Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante movimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'età del capitalismo», e questa è più che mai l'età del capitalismo. Oppure: «L'industrializzazione non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo pagamento in contanti». In fondo è quello che dico anch'io quando affermo che i capitali sono divenuti apolidi e irresponsabili. Oppure: «L'egoismo si trova bene quasi dappertutto», anche negli apparati conservatori che vorrebbero mantenere gli Stati come sono, aggiungo io... Ebbene questo vive, mentre è del tutto morto il pensiero che faceva dell'ente statale il sovrano, il regista e il calmiere di ogni umana pulsione. Ma oltre al vivo Marx e al morto Hegel c'è un resuscitato; anzi è lui, mi creda, il vero protagonista della globalizzazione...

Chi sarebbe costui, professor Tremonti?

E' Kant. Il diritto contrattuale. Gli orfani dello Stato riformulano i patti necessari alla loro convivenza. Come vede, c'è più che mai un incontro di libere volontà.

Il suo teorema qui possiamo solo enunciarlo. Per la dimostrazione rimandiamo ai libri-choc che le hanno dato lustro, da "Ricchezza senza nazioni" a "Il fantasma della povertà". Accettiamo dunque l'assunto: che lo Stato nazionale sia alla fine per propria incapacità a governare l'economia e il fisco...

Elettronica e mondialità stanno modificando la geopolitica del pianeta, nel senso, appunto, che gli Stati contano sempre meno. Oggi le leggi finanziarie interne sono dettate dalla sovranità dei mercati più che dai parlamenti. Si può dirlo anche in termini più aspri: le leggi di bilancio che autorizzavano la spesa sociale in deficit sono abrogate dai mercati internazionali, che "colonizzano" i parlamenti... E' scomparsa quasi ogni traccia di nazionalismo economico. Di fronte agli spostamenti di capitali overnight le riserve valutarie delle banche centrali hanno una consistenza ridicola. La ricchezza, liberandosi dall'antico vincolo territoriale, si sottrae al potere fiscale degli Stati, che non può essere esercitato oltre i confini nazionali. Ebbene, la perdita di capacità economica genera fatalmente una perdita di capacità politica, o almeno di quella capacità politica che ha finora caratterizzato le socialdemocrazie, le sinistre occidentali classiche. E questo resta vero anche se in alcuni paesi, coaugulando tutte le paure sociali provocate dal cambiamento, le sinistre riescono ancora a ottenere una maggioranza elettorale.

Lei ha scritto che lo Stato moderno si è formato (e in sostanza anche fermato) prima dell'invenzione dell'automobile. Lo Stato moderno ha totalmente ignorato, cioè, gli effetti politici che si sprigionavano dal motore a scoppio...

Si è anche formato e fermato prima dell'invenzione del televisore e del computer, cioè delle macchine capaci di trasformare una massa di idee in idee di massa, e le informazioni in valori; capaci insomma di far progredire vertiginosamente, nella scala delle grandezze economicamente rilevanti, l'immateriale rispetto al materiale. Gli Stati non hanno potuto reagire all'entrata in funzione di relais planetari capaci di trasportare da una parte all'altra del globo flussi enormi di ricchezza. Ora, televisione e computer posseggono una forza politica mille volte più grande di quanta ne abbia avuta l'automobile. Televisione e informatica stanno giocando un ruolo determinante, impensabile fino a pochi anni fa, nei processi di formazione e migrazione del lavoro e del capitale. Le immagini televisive della ricchezza attivano e attirano come un miraggio il movimento della povertà... E per converso i capitali, smaterializzati al punto da assumere la sola consistenza di impulsi magnetici, si muovono e moltiplicano all'interno di una rete planetaria di computer. Ciò fuori da ogni controllo degli Stati.

Torneremo al tema della riforma degli Stati, ma dica: la povertà cammina con le gambe degli immigrati dall'Oriente e dal Sud del mondo? Ed è proprio vero che l'Occidente e il Nord in questa fase importano miseria ed esportano ricchezza?

Lei probabilmente allude alla concorrenza della manodopera immigrata che deprime i salari e genera povertà in Occidente. Ma se si trattasse soltanto di ciò, gli Stati potrebbero ancora contrastare questo fenomeno. Il problema in realtà è molto più complicato. Certamente è in atto una concorrenza salariale su scala planetaria; ma, più che l'immigrazione, ne è causa il fatto che nello stesso tempo i capitali occidentali si muovono in senso inverso, cioè verso i luoghi di provenienza degli immigranti: lì la manodopera costa pochissimo ed è lì che si genera la concorrenza mondiale delle professionalità e delle braccia. Intanto gli Stati rivelano tutta la loro impotenza a inseguire i capitali e a tassare la ricchezza nei luoghi dove viene prodotta. Così, mentre a Oriente vengono oggi pagati, benché bassi, molti più salari, i salariati d'Occidente si ritrovano la povertà in busta paga, stretti come sono nella morsa tra paghe sempre più "orientali" e costi del vivere che rimangono invece "occidentali", cioè nettamente più alti.

Lei ha anche scritto che il vecchio conflitto sociale tra operaio e robot (la macchina rubalavoro) sfuma in un diverso conflitto, tra una declinante aristocrazia operaia occidentale e il nuovo proletariato formato dagli operai orientali...

Nella migliore delle ipotesi, l'operaio orientale fa concorrenza sul salario all'operaio occidentale; nella peggiore gli "ruba" il posto di lavoro. In questi termini, la classe operaia non è mai stata tanto internazionale! Certo, è in corso un livellamento; e, cosa mai accaduta prima, l'Occidente esporta ricchezza e importa povertà. Ciò, oltretutto, in una fase in cui l'allungamento della vita media degli individui richiederebbe, semmai, una crescita anziché una diminuzione delle risorse a disposizione d'un paese.

Questo impoverimento dell'Occidente riguarderà progressivamente tutta la popolazione o alcuni ceti ne sono e ne saranno esclusi, destinati perciò a restare ricchi o, addirittura, atrarre vantaggio dalla nuova situazione diventarndolo ancor di più?

Si può temere la formazione di una casta mondiale di manovratori del potere finanziario e, sotto di lei, d'una enorme massa impegnata in una concorrenza al ribasso. Esiste anche un'ipotesi evoluzionista, secondo cui, al termine di un procedimento di redistribuzione della ricchezza mondiale, l'Occidente sarebbe solo un po' meno ricco ma l'Oriente decisamente meno povero. E può anche darsi che siamo in presenza di un "normale" processo di evoluzione del capitalismo. Ma sarà in ogni caso un processo tormentoso, tanto da caratterizzare una fase lunga e significativa della storia dell'umanità. E questo processo sarà governato da tre leggi. Uno, "lex mercatoria": nella repubblica internazionale del danaro il capitale è apolide e si muove in modo irresponsabile. Due, "lex fisci": non è più lo Stato a decidere come tassare la ricchezza ma è la ricchezza a scegliere il luogo dove vuole essere tassata. Tre, "lex pauperum": crisi delle socialdemocrazie di massa, che storicamente presuppongono l'incremento (e non la riduzione) del potere economico degli Stati: infatti non basta più, agli Stati, controllare il loro territorio con mezzi fisici (le dogane) o con mezzi giuridici (gli sbarramenti valutari) per controllare la ricchezza. Questa un tempo si baricentrava naturalmente sul territorio, essendo prima ricchezza agraria, poi ricchezza industriale concentrata intorno alle grandi macchine a vapore o alle grandi ciminiere. Ora non è più così. E' cambiato il rapporto fra Stato, territorio e ricchezza. La sovranità politica territoriale si annega nella nuova dimensione mondializzata; da tradizionale punto di forza, il territorio diviene ora un punto di debolezza. In particolare, poi, le dimensioni dello Stato moderno risultano essere troppo piccole rispetto a fenomeni che si svolgono su scala mondiale, e troppo grandi rispetto a molte esigenze di governo locale. Lo Stato insomma è insufficiente. Per difetto e per eccesso. Capisce?

Vi è una dissociazione progressiva tra Stato e mercato. Questo è chiaro. Però si potrebbe anche dire: tanti Stati e un solo mercato; facciamo dei nuovi accordi, con la benedizione di Kant...

Si potrebbe dirlo. E nel paese di Utopia funzionerebbe. Ma in pratica l'antica regola che vuole "uno Stato, un'imposta" è quasi infrangibile. Perché, poi, a chi spetta l'imposta? Chi la quantifica, chi ha il diritto di esigerla, e in quale proporzione? Chi può sinceramente dire oggi: questa cosa è italiana, quest'altra cinese? Ripeto: mentre le strutture statali restano domestiche, e a mentalità domestica, la ricchezza ne fuoriesce per entrare in aree di progressiva apolidia fiscale. Ciò altera profondamente anche i meccanismi della rappresentanza politica, a partire dal "no taxation without representation". Insomma verrebbe da dire: si sta consumando, in Europa, la vendetta fiscale degli Stati, che vogliono recuperare in questo campo i privilegi perduti della loro storica sovranità politica e parlamentare.

Da quanto lei dice si delinea a poco a poco l'immagine di un Leviatano azzoppato che, non riuscendo più a tassare la parte di ricchezza divenuta apolide e sfuggente, incrudelisce su quella che, ubicata sul territorio e prodotta in chiaro, non è in grado di sfuggire al fisco. Abbiamo dunque capito come nasce la persecuzione fiscale del cittadino onesto e lavoratore. Ebbene, ammettendo che uno Stato ridotto a fare queste cose sia da considerare poco più che un relitto, che cosa mettiamo al suo posto?

Lo Stato, naturalmente. Non penso affatto che dall'oggi al domani si possa fare del mondo un solo paese. E' soltanto la vecchia concezione di Stato che deve cadere. Lo Stato in quanto tale non è finito: continuerà. Non può non continuare. Però con un ruolo del tutto nuovo...

Ne facciamo un corpo intermedio fra qualche organizzazione sovraordinata e gli enti locali? Con fini intermedi, poteri intermedi e quant'altro, sempre intermedio?

No, grazie! Bisogna definitivamente superare lo schema hegeliano. Lo Stato deve subire un processo di laicizzazione e destoricizzazione. In altre parole: non è più a se stesso - al suo mito, alla sua storia, al suo futuro - che deve rispondere. Va calato nella (limitata) dimensione temporale della vita dei suoi cittadini. Ciò comporta una sua riorganizzazione, sulla base di un dare-avere completamente diverso. I cittadini si aspettano altro, ormai, dallo Stato. Tutti gli obiettivi politici vanno riselezionati, e le limitate risorse a disposizione sono da concentrare: prima al servizio della permanenza dello Stato, subito dopo al raggiungimento dei nuovi fini che gli verranno assegnati nello spirito e nella pratica di un nuovo patto (foedus) tra i cittadini. Ecco dove rispunta Kant. E dove cominciamo a parlare di federalismo.

Un patto per arginare gli effetti della globalizzazione?

Un patto che consenta ai cittadini di avere dallo Stato ciò che si aspettano, corrispondendo alla loro scelta di stare insieme in un'epoca come quella che sta cominciando. Primo obiettivo, direi, lo sviluppo del capitale umano. Globalizzazione significa un progressivo aumento dei requisiti conoscitivi, tecnologici ed economici per restare competitivi. La Cina o l'India già non producono più solo beni poveri; presto metteranno sul mercato computer e altri "gizmo" tecnologici. Tutto si complicherà con l'entrata in scena del-l'America del Sud, ormai prossima al decollo. Ciò aumenterà la categoria dei non qualificati nei paesi ora ricchi, tra cui l'Italia: anche ingegneri pur bravissimi che operano nei settori più sofisticati potranno trovarsi in difficoltà, se il loro computer o aereo verrà prodotto da un altro a metà prezzo o se qualcuno costruirà, in un luogo finallora giudicato improbabile, una nuova generazione di macchine. Perché la crisi competitiva dell'Occidente sta appunto in questo: che la globalizzazione aumenta parossisticamente la dinamicità dell'economia e la selettività degli accessi al mercato.

Si potrebbe dire che nell'economia globalizzata le opportunità aumentano ma i modi di coglierle diminuiscono. E a non essere più capaci di coglierle potremmo essere proprio noi, incapaci di affrontare i rischi e le difficoltà di una competizione aperta.

Sì. Il potenziale di povertà accumulato dall'inerzia del modello occidentale potrebbe rapidamente trasformarsi in povertà reale nel momento in cui fosse sottoposto a un giudizio di produttività e profitto da parte del nuovo capitale emergente. Ci sarà, in definitiva, una guerra spietata tra parti avanzate e parti arretrate del sistema economico senza frontiere. E già sta avvenendo la selezione della quota di popolazione industriale meno competente.

Tornando al possibile ruolo che può svolgere lo Stato per fronteggiare questa situazione, si potrebbe dire che una strada praticabile sia quella dello sviluppo del capitale umano. Questo, quindi, potrebbe essere il servizio primario che i cittadini si rendono tra loro mediante lo Stato. Quali sono i metodi più aggiornati per conseguire questo obiettivo?

Un tempo gli Stati investivano sul loro capitale umano attraverso strumenti come la scolarizzazione di tipo tradizionale e più ancora con la leva militare di massa. Estratte tramite la leva dallo sprofondo delle immote società agrarie, grandi masse di contadini compivano così in un brevissimo arco di tempo un salto di secoli e secoli. Tra l'altro, anche la struttura organizzativa delle grandi fabbriche è stata modellata, nell'età industriale, sull'esempio militare, e il fantaccino dell'esercito è stato poi, per decenni, un ottimo operaio di fabbrica. Adesso questi strumenti non funzionano più e la scuola da sola certamente non basta.

E che cosa può sostituirli?

Oggi lo Stato dispone di mezzi enormemente più potenti che finora non sono mai stati utilizzati a questo scopo: i network televisivi pubblici. In questa prospettiva essi sono l'equivalente moderno degli eserciti. Ed è francamente intollerabile che nell'età della disoccupazione un mezzo di comunicazione di enorme potenzialità come la televisione pubblica sia finalizzato quasi soltanto all'intrattenimento e allo stordimento delle masse. Una naturale estensione dell'idea della formazione come bene sociale primario sarebbe poi l'investimento pubblico massiccio anche in reti informatiche che sviluppassero e integrassero i network televisivi. Ora non mi chieda in che modo dovrebbero essere organizzati i corsi, ma certo dovrebbero insegnare ai giovani di tutto; dalle lingue straniere a come si fonda, poniamo, una piccola società per entrare nel mondo del lavoro. L'altro obiettivo primario di uno Stato così rifondato dovrebbe essere la salvaguardia e il ripristino dell'ambiente. Ma lo spazio non ci consente di trattare anche questo argomento.

Restiamo ancora sull'argomento televisivo. Davvero lei crede che il videoschermo potrebbe risolvere il problema della formazione urgente del personale, posto dalla globalizzazione?

Attualmente i network televisivi pubblici vi rimangono sostanzialmente estranei. Ai programmi informativi offrono infatti prodotti e dedicano spazi mediamente modestissimi, sia in termini di quantità sia in termini di qualità. Basta accendere un televisore per rendersi conto del ruolo marginale che viene destinato all'istruzione: ver#e e proprie lezioni scolastiche o accademiche sono, di norma, trasmesse in fasce d'orario secondario o a notte fonda, producendo così un effetto del tutto surreale. Si tratta di programmi assolutamente inadeguati e addirittura controproducenti (giacché risultano noiosi, se confrontati con altri spettacoli offerti). Tuttavia la loro qualità ed efficacia può essere fortemente migliorata. Prendiamo come esempio il cinema. Esso non comincia con i fratelli Lumière, che filmano un evento vero (il treno che entra nella stazione). Il cinema, come travolgente fenomeno sociale, nasce dopo: quando si capisce che si può creare l'evento da filmare. La televisione, per quanto concerne la formazione, non ha ancora preso atto di questo passaggio, ovvero di riformulare in termini creativi la tecnica di istruzione delle masse.

Resta in sospeso un'altra questione di fondo per lo Stato: il fisco. Come restituire allo Stato un equo ma reale potere di esazione?

Gi attuali sistemi fiscali debbono cambiare. Dopo lo spezzettamento della catena Stato-territorio-ricchezza non possono far finta che tutto sia come prima, immergendosi nell'illusione di monitoraggi di polizia o sovrapponendo, alle trasformazioni reali, finzioni giuridiche che rispecchiano ancora una visione statica e non dinamica dell'economia. In Italia la situazione è resa particolarmente complessa dalla presenza di una regulation comunitaria (peraltro insufficiente) che si scontra con un grande network di trattati bilaterali imperniati sull'egoismo fiscale di singoli Stati. Lo Stato è entrato in crisi come macchina capace di fare giustizia, di battere moneta e di imporre tasse: infatti la giurisdizione nazionale viene progressivamente sostituita dagli arbitrati internazionali, la moneta nazionale viene sostituita, per ora, dal dollaro; ma le imposte ancora non sono sostituite da niente. Non potendo inseguire ovunque la ricchezza, né cablare il territorio finanziario del mondo, i sistemi fiscali attuali hanno una prima possibilità: articolarsi in modo da premere meglio su ciò che non può uscire dai confini, e ridurre invece i vecchi punti di pressione su ciò che altrimenti potrebbe uscire...

Meglio un onere modesto ma reale, dice lei? Meglio il venti per cento di qualcosa che il cinquanta di niente?

Sì. I sistemi fiscali sono obbligati a trovare un nuovo baricentro sul territorio nazionale. Come? Mediante lo sviluppo dell'imposizione locale e lo spostamento dell'imposta dal reddito ai consumi, cioè dalle persone alle cose. Inutile ostinarsi a voler colpire la ricchezza (spesso sulla base di pure e semplici presunzioni) dove e quando viene prodotta. Meglio badare a dove e quando venga, sul territorio, consumata. La realtà dell'imposizione costituirà il punto chiave del rischieramento del sistema fiscale. Fino al momento in cui nuove entità politiche sovranazionali potranno pretendere l'applicazione di imposte globali.

 

Giulio Tremonti
Professore ordinario di Diritto tributario all'Università di Pavia, deputato
Una rivoluzione economica, e io l'avevo detto

dal corriere della sera.

«La ricchezza non si dirada ai margini del mondo reale: qui piuttosto si trasforma e riappare, in forme diverse. Lo sviluppo economico non è infatti più associato all'incremento nel consumo di materie prime. Dal know-how alle griffes, dai network alla dematerializzazione dei titoli di credito, dal software all'oggetto del franchising si assiste all'apparire incessante di nuovi beni immateriali e alla rarefazione o alla caduta di valore di alcuni beni materiali, in un processo che dipende essenzialmente da tre fattori: a) dal passaggio da una società dei patrimoni a una società delle conoscenze: in un mondo dominato da complessità crescenti, non conta tanto quello che si ha, quanto quello che si sa, mezzo per aver molto di più. Il valore delle conoscenze è del resto enormemente amplificato dalla possibilità di trasmetterle in termini economicamente utili: dai portafogli di clienti potenziali, alle serie statistiche, ai dati di mercato istantanei, molte informazioni non circolano perché hanno un valore, ma hanno un valore perché circolano; b) dalla finanziarizzazione dell'economia. Per secoli gli scambi sono avvenuti rasente il suolo e il deficit di finanza è stato un limite dello sviluppo economico. Ora è l'opposto: per ogni transizione reale se ne contano almeno dieci finanziarie. La finanza ha pervaso l'economia, trasmettendole sollecitazioni continue; c) dall'internazionalizzazione crescente dei rapporti e delle ragioni di scambio. In Europa, la caduta delle barriere interne avrà effetti, più che sulla produzione, sulla distribuzione e farà perciò crescere il valore dei servizi capaci di mobilizzare i beni su mercati destinati a integrarsi. Ma, soprattutto, si tratta di un fenomeno mondiale. Questi fattori agiscono fortemente sulla struttura e sulla composizione della ricchezza [...] i contratti non serviranno più solo per scambiare la ricchezza materiale, ma per creare ricchezza attraverso combinazioni nuove di servizi. Continua dunque e anzi si sviluppa la magia del Faust di Goethe, lo scambio dell'oro contro la carta, il passaggio di valore delle cose materiali a quelle immateriali». In realtà, questa è un'autocitazione. E' un mio articolo, pubblicato sul "Corriere della Sera" il 27 luglio 1988. Ciò vuole dire: 12 anni fa. Noto solo che, da allora, lo "scenario" si è realizzato, con una accelerazione progressiva a partire dall'anno successivo, a partire dal 1989. Per tre ragioni: perché ha vinto e si è diffusa l'ideologia liberale; perché il mondo si è integrato superando la divisione a metà, imposta per mezzo secolo dall'artificialità politica della separazione tra mondo libero e mondo comunista; perché sono state liberate tecnologie fondamentali, prima chiuse negli scrigni militari.

 

DA PANORAMA SETTIMANALE

Sì, paghiamo troppe tasse (e vi spiego perché)

Per Giulio Tremonti, esperto numero uno dell'opposizione, è vero ciò che denunciano i commercialisti: la pressione fiscale non è al 45 per cento, come dice il governo, ma assai più alta. Lo confermano, per paradosso, proprio i risultati antievasione vantati dalle Finanze. E pensare che se si riducessero le aliquote l'economia ripartirebbe.

STEFANO BRUSADELLI - 13/8/1999

SHOCK FISCALE Giulio Tremonti, 51 anni, ex ministro delle Finanze nel governo Berlusconi del 1994 e autore del best-seller 'Le cento tasse degli italiani', uscito nel 1986.

Rompicapo d'agosto. I commercialisti denunciano che la pressione fiscale italiana è più alta di quella ufficiale. Il negozianti lamentano una caduta dei redditi dei consumatori. L'Istat comunica dati allarmanti sulla produzione industriale. Ma nello stesso tempo il ministro dell'Industria, Pierluigi Bersani, annuncia che la ripresa è in atto e il suo collega delle Finanze, Vincenzo Visco, diffonde cifre trionfalistiche sugli introiti fiscali lasciando immaginare che con il recupero dell'evasione la stagione della torchiatura volga al termine. Che vuol dire? A chi bisogna dar retta, al partito dei pessimisti o a quello degli ottimisti? Un grande esperto di tasse e di economia come Giulio Tremonti, autore di best-seller sulla giungla fiscale italiana ed ex ministro delle Finanze del governo del Polo nel Ô94, vede un unico filo rosso a collegare tutte queste affermazioni. Un filo niente affatto rassicurante. Anzi, a suo parere, addirittura allarmante.

Cominciamo dalla denuncia dei commercialisti: sostengono che la pressione fiscale reale nel Ô98 non è stata del 45,6 per cento, cifra ufficiale, bensì del 54,6, la più alta tra i paesi dell'euro. Dicono che nel pil c'è almeno un 12 per cento di sommerso che sfugge al fisco. Dunque, se il totale del reddito effettivamente tassato diminuisce, quel che è stato versato allo Stato è di più in percentuale.

Considero corretto il metodo seguito dai commercialisti.

Però il sommerso non c'è solo in Italia, e forse il 12 per cento è eccessivo.

Se la Banca d'Italia arriva ad ammettere che nel Sud il 50 per cento del lavoro è nero o grigio, l'area del sommerso è enorme. Questo è il Paese dove 1 milione di colf lavorano in nero.

Allora lei conferma che oltre metà di quel che viene prodotto alla luce del sole va al fisco.

Ma il problema non sta neppure nelle cifre statistiche. Se oggi in Italia c'è una drammatica questione fiscale non è solo per l'alto livello dell'imposizione, ma per la quantità e qualità dei servizi che il cittadino riceve in cambio. Per chi ha una concezione liberale, le tasse si pagano non perché lo stato c'è, ma perché lo stato faccia.

Con i nostri livelli di spesa sociale, è proprio sicuro che ciò che il cittadino riceve sia così poco?

Se voglio spedire un plico, devo ricorrere al corriere privato. Se voglio proteggere un capannone industriale, devo rivolgermi alla sorveglianza privata. Le cure dentistiche sono fuori mutua. Ecco il punto: a tutte le tasse che pago devo aggiungere anche questa forma di tassazione. Pago tutto due volte. E col riccometro il sistema diventerà ancora più iniquo.

Cos'ha contro il riccometro?

La soglia di reddito per avere le esenzioni è troppo bassa. E allora a che serve la progressività dell'imposizione, concepita per tutelare i più deboli, se poi anche redditi medio-bassi dovranno pagarsi i servizi?

È chiaro che questo fisco non le piace. Lei che cosa propone?

Di ridurre le aliquote. Per arrivare a due sole al posto delle attuali cinque. Una del 23 per cento fino a 200 milioni, una del 33 per cento sopra. E con una 'no tax area' più generosa dell'attuale.

Sarebbe contenta la Confcommercio, che denuncia una diminuzione del 4,4 nel potere d'acquisto degli italiani tra il Ô91 e il Ô98. Ma come la mettiamo con il rischio che un crollo del gettito ci metta fuori dal patto di stabilità di Maastricht?

Rispondo che il gettito non diminuirebbe.

Perché ne è così sicuro?

Anzitutto la riduzione delle aliquote darebbe un impulso benefico all'economia. Poi farebbe emergere molto sommerso. Quindi l'aumento complessivo dell'imponibile compenserebbe ampiamente il calo delle aliquote.

Che cosa le fa pensare che gli evasori fiscali smettano di esserlo solo per la diminuzione delle aliquote?

Le aliquote di oggi sono causa e alibi dell'evasione. Lo sa bene anche il fisco, che le calibra su questo presupposto: poiché la metà del reddito gli sfugge, sull'altra metà bisogna far pagare il doppio. Con la conseguenza che chi può evade.

Insisto: se gli evasori continuassero a non pagare, come la metteremmo con il patto di stabilità?

Oltre ai due effetti virtuosi che ho già detto, ripresa economica ed emersione del nero, scatterebbe comunque una sorta di imposta alternativa. Se io ti faccio risparmiare cento lire di tasse, ci sono due possibilità. La prima è che tu le usi per comprare qualcosa, e allora, oltre a rimettere in moto i consumi, versi al fisco il 19 per cento di iva. La seconda è che le risparmi investendole, e in tal modo le tue cento lire vanno a finanziare gli investimenti e quindi la ripresa economica.

 

dal corriere della sera.

Giulio Tremonti: il controllo delle Fondazioni
appartiene alla democrazia non alla politica

«Non sarà la politica a controllare le fondazioni, ma la democrazia».

Lo ha assicurato il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, in una intervista al Corriere della Sera nella quale ha giustificato così il compito di Regioni, Comuni e Province di nominare il 70% dei consiglieri delle fondazioni. «Quello che abbiamo adesso è un meccanismo saltuario, erratico, diciamo pure di elargizione graziosa», ha affermato Tremonti, mentre «quello che abbiamo in mente è, nelle modalità operative, il modello americano: le Fondazioni scelgono pochi settori sui quali puntare e lì investono, senza distrazioni». Per il ministro «Il non profit? E’ più profit che non». Secondo Tremonti infatti le Fondazioni finora «sono apparse molto più attente agli equilibri bancari, finanziari e assicurativi che alle loro finalità istituzionali di utilità sociale». Per il ministro si tratta di «un’anomalia tutta italiana che va superata, eliminando gli intrecci tra mercato e non profit». E ha puntualizzato che «l' assetto attuale contiene un assurdo: le banche, essenza del capitalismo, possedute dalle Fondazioni, essenza di moralità; con un effetto d’ibridazione paradossale». Il ministro dell’Economia ha anche assicurato che le Fondazioni non giocheranno il ruolo di tappabuchi del deficit. Giulio Tremonti, ha spiegato che la riforma prevede l’investimento di almeno il 10% del patrimonio delle Fondazioni nello sviluppo del territorio. «Non abbiamo alcuna intenzione di fare man bassa della liquidità delle Fondazioni», ha sostenuto Tremonti, convinto che «il bilancio pubblico non ne ha bisogno». Per il ministro, in ogni caso, «tra investire in azioni o sottoscrivere obbligazioni finalizzate alle opere pubbliche, quest’ultima scelta presenterà un doppio vantaggio: un investimento più conservativo e un contributo allo sviluppo». Tremonti ha anche sottolineato che i Fondi Pensione saranno i nuovi protagonisti del mercato finanziario e «il primo passo sarà lo smobilizzo del Tfr futuro». Per il ministro la riforma dei fondi pensioni potrà essere anche un «motore delle privatizzazioni» e lo smobilizzo del Tfr futuro «è una priorità alla quale stiamo lavorando». «Se la riforma delle Fondazioni è strategica - ha affermato - quella dei fondi pensione è il vero passo verso un mercato finanziario strutturato. Saranno loro i nuovi protagonisti del mercato». «Il capitalismo americano - ha proseguito il ministro - è basato sull'etica protestante, sulle deduzioni fiscali, sui fondi pensione e sulle public company. Il capitalismo italiano sull' Inps sul Tfr ed è senza public company. Nessuno ha in mente di segare il primo pilastro, ma in società sempre più vecchie ma sempre più ricche può essere razionale creare un secondo pilastro. Appunto con i fondi pensione».