IL PENSIERO

 

"Non serve dire che per i prossimi cinquant'anni possiamo cavarcela. Il baratro è lì di fronte e non bisogna aspettare di caderci dentro"

Un sistema per furbi

In Italia, secondo i dati che ci sono stati forniti, il totale delle pensioni ammonterebbe fino al 45 per cento del monte salari: una cifra che lascia sbalorditi i miei colleghi americani.

Primo assurdo: le pensiohi d'anzianità, un assurdo che esiste solo, in Italia. Io ho detto decine di volte che le pensioni di anzianità sono un furto legale, perchè lo Stato lo permette.

Un sistema in cui i furbi ricevono molto di più di quello che hanno pagato e pagano gli altri. Per di più furto a danno dei poveri e a vantaggio dei ricchi perchè sono i ricchi che vanno in pensione d'anzianità: l'ho dimostrato facendo vedere che la pensione media di anzianità è molto piu' grande della pensione media, di vecchiaia. Siccome le pensioni sono proporzionali al reddito questo vuol dire che il reddito di chi è in pensione,di anzianità è parecchio più alto di chi è in pensione di vecchiaia.

Poi c'è un secondo elemento: l'entità gigantesca delle pensioni italiane. In America il sistema è semplice. Si è partiti dall'idea, applicata interamente, che la pensione rimpiazza il 50 per cento del reddito medio della persona. Ovvero la media dei 35 anni migliori di guadagno della persona. Quindi si prendono i 35 anni migliori, 35 anni reali cioè indicizzati per prezzi e salari. E quella è la base che è rimpiazzata al 50 per cento con un elemento redistributivo per cui i più poveri ricevono di più - fino al 90 per cento - e i più ricchi ricevono di meno, fino al 15 cento.

Quindi c'è un forte elemento, distributivo e in più in America abbiamo un sistema del tutto razionale per cui i contributi alla Sicurezza Sociale hanno un tetto cioè la gente contribuisce fino a un certo ammontare che oggi è circa 70 mila dollari e non oltre.

Naturalmente la pensione è legata al fatto che hanno pagato soltanto su quella parte e quindi le pensioni per la gente agiata, più ricca, sono inferiori rispetto a quelle per i piu poveri, cosa che è giustificata dall'idea che la gente più ricca è più in grado di racimolare o di mettere insieme il patrimonio necessario per mantenersi nella vecchiaia.

In Italia, fino a pochissimo tempo fa, la pensione era basata sul concetto del 2 per cento per anno di contributi. Già, ma su quale base? Sul salario finale! Salario finale che era tipicamente molto più elevato dei salario medio, soprattutto perchè il salario finale si prestava a famosi trucchi per cui si sa che qualunque ufficiale dell'Esercito andava in pensione come generale.

Ecco perchè in Italia la pensione essendo fino all'80 per cento del reddito terminale è più dei 100 per cento del reddito medio. Ecco, le pensioni sono doppie di quelle americane, perchè noi paghiamo il 12 e voi dovete pagare almeno il 24% per avere questo tipo di trattamento.

Oggi questa situazione sta migliorando, passando da un anno a cinque, e si pensa di passare a un sistema simile a quello americano, usando la media di tutti gli anni: questo è il cosiddetto sistema contributivo mentre quello basato sugli ultimi anni si chiama retributivo.

Come lo scoiattolo

A me, come americano che guarda l'Italia con affetto ma distaccato, riesce incomprensibile il fatto che il Sindacato si stia battendo per mantenere il sistema retributivo che è un sistema che va a favore dei ricchi più ricchi e contro i poveri più poveri... Chi sono gli individui il cui reddito cresce?

Sono la gente che ha studiato, la gente che è più intelligente, la gente che ha migliori lavori: sappiamo da infiniti studi economici e demografici che c'è un'enorme correlazione tra crescita e reddito medio.

Quindi i sindacati stanno difendendo a spada tratta qualcosa che va contro gli interessi dei loro lavoratori, che va negli interessi di alcuni pensionati e comunque non si capisce perchè tanto accanimento quando nessuno parla di ridurre le pensioni passate.

Per il futuro perchè non appoggiare un sistema che è più democratico, un sistema che aiuta la gente più povera?

Fermiamoci, un momento a pensare al concetto fondamentale di che cos'è un sistema pensionistico. C'e un periodo nel quale l'individuo è ancora vitale e quindi ha bisogno di consumare, ma non è più in grado di guadagnare o perlomeno non è più in grado di guadagnare adeguatamente.

Quindi l'individuo razionale, come lo scoiattolo, deve pensare all'inverno, deve mettere da parte per avere di che nutrirsi nella stagione in cui non è più in grado di lavorare.

Si potrebbe dire che ogni individuo razionale deve pensare per conto suo a risparmiare e a mettere da parte per costruirsi un capitale. Tuttavia, si è deciso socialmente che è appropriato che lo Stato intervenga forzando l'individuo a comportarsi come dovrebbe comportarsi se fosse razionale: cioè con un sistema di risparmio obbligatorio il quale ha per effetto di garantire all'uomo di sopravvivere e alla società di non dovere contemplare vecchi che muoiono di fame. Forzare l'individuo a pensare a se stesso, questa è l'origine dei sistema.

 

L'economia "aperta" e la "bolla speculativa"

pagina a cura di Mirella Carignani

 

Le nuove tecnologie hanno creato uno scenario nel quale lo scambio di merci e servizi può avvenire senza alcun limite, le informazioni circolano velocissime e i capitali vengono spostati da un settore all'altro con altrettanta rapidità. Allo stesso tempo euforie o crolli si inseguono con un ritmo incessante nelle varie piazze borsistiche. Per Franco Modigliani la rivoluzione dell'informazione basata sulla rapidità degli scambi ha innescato un processo di profonda metamorfosi del sistema economico che ci sta portando verso un'economia "totalmente aperta". In un mondo reso sempre puù piccolo dalla rivoluzione tecnologica, l'iniziativa economica diviene sempre più libera.

La tecnologia avanzata è per Modigliani al servizio di una grande speranza: la progressiva abolizione dei tassi d'interesse nazionali (tasso unico stabilito sui mercati mondiali), l'equiparazione del costo del denaro e, soprattutto il permesso, da parte degli ordinamenti giuridici, del libero movimento dei capitali in un unico mercato mondiale dei capitali con cambi totalmente fissi su mercati totalmente aperti con grandi vantaggi sul piano della conoscenza dei fenomeni e quindi dell'impiego delle risorse.

Se lo sviluppo dell'economia è nuovo, nulla di nuovo accade per Modigliani (coautore con Miller del teorema che nel 1985 lo insignì del Nobel secondo il quale il valore di un'impresa è indipendente dalla sua struttura finanziaria) nei fondamenti fondamenti dell'economia: "le nuove analisi continuano a presumere che l'uomo si comporti razionalmente e quindi tenda alla massimizzazione dei profitti e alla minimizzazione dei costi. Questo principio sta alla base della scienza economica fin dai tempi di Adamo Smith, rimane invariato anche rispetto ai nuovi modelli dell'economia internazionale, rimarrà invariato fino alla fine dei tempi".

Modigliani si dice sicuro di vivere in un'epoca affascinante in cui le cose si muovono velocemente, al di là di ogni immaginazione. Internet è una maniera comoda, efficiente di fare scambi di ogni tipo. Tuttavia è convinto che se in generale i titoli di ogni settore si sono gonfiati in modo assolutamente insostenibile", i titoli Internet lo sono ancora di più. Le sue previsioni sono che da qui a cinque anni solo un piccolo numero di questi titoli high-tech avrà avuto successo, un piccolo numero avrà giustificato il suo prezzo attuale mentre la maggior parte varrà molto poco o niente. Giocare sul mercato di Internet è dunque estremamente rischioso perché la rapidità dei cambiamenti e l'impossibilità di prevedere l'incidenza sul valore di un'impresa da parte dei concorrenti impedisce ogni previsione di successo di un titolo.

Il mercato come "bolla speculativa" http://www.sviluppoimpresa.com/risorse/391/489.html ? Semprerebbe proprio di sì. Per Modigliani la situazione è questa: l'acquirente guadagna per via dell'aumento del prezzo, ma per poter giustificare un alto rapporto prezzi al rendimento è necessario che la crescita sia forte e duratura. Fino a quando il trend è positivo gli investitori tendono a correre a comprare il titolo che, in questo modo, continua a crescere. Tuttavia in questo meccanismo "il rapporto fra prezzo e rendimento diventa sempre più incredibile, immantenibile, non giustificato dall'essenza della situazione e la bolla scoppia quando la gente si rende conto che non è più possibile comprare". A questo punto si vende e accade il crollo perché nessuno vuole più tenere titoli che non hanno la possibilità di crescere.

Insomma, la bolla scoppia quando gli investitori si rendono conto che è una bolla. Ma quanto ci vorrà per rendersene conto

 

ADESSO VI RACCONTO IL SOGNO AMERICANO

 

Passando dal sistema a ripartizione al sistema a capitalizzazione si può costruire un ingente patrimonio, usando i contributi non per pagare le pensioni - e quindi il consumo - ma per accumulare il capitale. Ecco quali regole, secondo il premio Nobel, dovrebbe seguire l'Italia

Cominciamo col dire che un paese, come l'Italia, in cui la spesa pensionistica è così gigantesca non è un paese in cui le cose vanno bene. Tuttavia, dobbiamo renderci conto che parliamo di un problema - il sistema pensioni - che per natura ha tempi lunghissimi perchè dipende dall'andamento demografico che si conta in decenni, se non in secoli.

E abbiamo a che fare con la produttività, col rendimento degli strumenti finanziari che si evolvono lentamente, nel tempo. Sessant'anni è il periodo durante il quale il funzionamento di un sistema a retribuzione, un sistema pay as you go - diciamo - diventa largamente inusabile perchè i movimenti sono tali da rendere il rapporto tra pensioni, promesse e contributi altamente insoddisfacente.

Io posso parlare concretamente di una situazione che ho studiato approfonditamente, che è quella americana. Quella italiana non siamo riusciti a studiarla fino in fondo perchè non si riesce ad avere una precisa informazione.

Come al solito, l'America è un paese attendibile. La Sicurezza Sociale ha prodotto proiezioni annuali per una ventina d'anni e quinquennali fino alla fine dei secolo prossimo, che sono la base sulla quale si può fare un piano concreto. Ora in questo paese di cui abbiamo i dati, la situazione si riassume in questi termini (che più o meno valgono anche per l'Italia, pur mancando i dettagli): se non si fa niente, il costo delle pensioni, il cosiddetto cost rate cioè a dire il rapporto pensioni- monte salari, passa dal circa 11 per cento di oggi al 18 per cento del terzo, quarto dei secolo prossimo.

Notate la cifra : 11 di oggi, 18 alla fine. Questa cifra per l'Italia va moltiplicata per 3 o per 4: in Italia i contributi non sono l'11 ma sono circa il 40%.

Fino al 2050...

Davanti a questa situazione che cosa si può fare? Si può dire che tutto va bene, che in America abbiamo riserve che in Italia non esistono, riserve ingenti che sono state messe insieme attraverso un surplus della Sicurezza Sociale, per cui possiamo arrivare fino all'anno 2030 semplicemente cannibalizzando questa somma che è stata accumulata.

E che usando poi il surplus che si prevede durerà una quindicina d'anni e aggiungendolo al capitale già accumulato è possibile arrivare circa all'anno 2050. Già, ma nel 2050 sarà il patatrac perchè ci arriviamo con un grosso deficit che andrà riempito in qualche maniera.

E quindi la scelta, a quel punto, sarà di aumentare i contributi, dall'11-12 per cento di oggi a circa il 17 e mezzo/18, o tagliare i benefici di un terzo. Queste sono scelte orrende. E quando alcuni miei amici mi dicono "ma siamo a posto fino al 2050 che cosa vuoi preoccuparti" io rispondo: "Questa è una stupidaggine". Se tu sai oggi che nel 2050 devi aumentare i tributi dei 50 per cento devi far qualcosa anche per mantenere l'equità fra le generazioni perchè a partire da quell'anno la gente deve pagare 50 per cento di più mentre la gente prima ha pagato di meno. Quindi non serve dire che per i prossimi anni, anche cinquant'anni, possiamo cavarcela. Il baratro lo vediamo già da ora, non c'è bisogno di aspettare di caderci dentro.

Noi abbiamo mostrato che passando dal sistema a ripartizione al sistema a capitalizzazione possiamo gradualmente costruire un patrimonio, usando i contributi non per pagare le pensioni - e quindi per pagare il consumo - ma per accumulare un capitale.

E possiamo accumulare un capitale tale che a partire dal 2030 possiamo cominciare a tagliare leggermente i contributi, dell'uno per cento, e negli anni successivi tagliare un punto ogni anno.

Bisogna rassegnarsi però al fatto che i tempi sono lunghi, perchè per poter passare dal sistema pay as you go, a ripartizione, alla capitalizzazione occorre accumulare un capitale ingente: nel caso degli Stati Uniti troviamo che, a regime, il totale delle attività del nuovo fondo che rimpiazza la Sicurezza Sociale è circa tre volte il monte salari. Questa è una cifra ingente considerando che la ricchezza oggi è probabìlmente sei o sette volte il monte salari.

Quindi diciamo che il capitale che aggiungiamo è un capitale notevole ed è il rendimento di questo capitale che ci permette di far pagare alla gente meno del 6 per cento invece dei 18: è il rendimento di questo capitale accumulato che arricchisce il paese e riduce il costo.

Questo è il concetto generale. Questo principio generale vale anche per l'Italia: se voi accettate da oggi d'impegnarvi su una riforma che passi dal sistema a ripartizione al sistema a capitalizzazione si possono fare miracoli.

lo non vi so dire esattamente quanto pagherete mantenendo il sistema attuale: dai dati che ci sono stati forniti nell'anno 2050 il contributo necessario, il contributo di equilibrio per pagare le pensioni sarà do circa il 35 per cento.

Forse gli italiani non si rendono conto della pazzia di usare il 35 per cento, del salario per il sistema di pensionamento. In America noi crediamo di poterlo fare con circa il 6 per cento. E la stessa cosa si può fare anche in Italia. Ma vediamo le differenze tra Stati Uniti e Italia.

Come ho detto, al giorno d'oggi il pagamento per le pensioni rappresenta per noi circa l'11 per cento dei monte salari: i contributi sono il 12 e mezzo per cento, la differenza è parte di quel surplus che si va ancora accumulando per far fronte agli anni futuri, la raccolta è il 12 e mezzo ma il costo delle pensioni è circa l'11 per cento.

 

«Ci aspetta l'autunno del Cavaliere. Il governo Berlusconi con le sue azioni > non dà fiducia né agli imprenditori né ai consumatori. I condoni fiscali > sono una vergogna italiana. È un concetto marcio» > > Franco Modigliani, Premio Nobel per l'Economia,

11 agosto 2002

 

 

 

 

 

14 Aprile 1998

Europa, come promuovere investimenti e occupazione

IL DEBITO ITALIANO? NON FA PAURA

di FRANCO MODIGLIANI e GIORGIO LA MALFA

Italia e Belgio dovrebbero opporre un cortese ma fermo rifiuto alla richiesta insistente di
assumere nuovi impegni in materia di finanza pubblica, fra i quali in particolare quello di
realizzare «significativi e persistenti attivi di bilancio necessari per ridurre in modo
significativo il rapporto fra debito e reddito» come si legge nel rapporto della
Bundesbank e quello di destinare qualsiasi margine di bilancio che scaturisca da un
miglioramento della congiuntura alla riduzione del debito, come ha chiesto il ministro
tedesco del Tesoro Waigel.

A questa richiesta la risposta deve essere negativa per molte ragioni, alcune delle quali
comuni a Italia e Belgio, mentre altre riguardano solo il nostro Paese. Ognuna di esse è in
sé sufficiente; la loro molteplicità mostra che la richiesta è non solo ingiustificata ma
quasi assurda.

1. La richiesta di ulteriori condizioni è improponibile in quanto le procedure previste nel
Trattato di Maastricht per la scelta dei Paesi chiamati a far parte dell'euro sono state
seguite scrupolosamente. In particolare nell'articolo 109j paragrafo 1 è stabilito che la
Commissione europea valuti, in base a quattro criteri, «la realizzazione di un alto grado
di sostenibile convergenza... da parte di ciascuno Stato membro» e formuli una
raccomandazione al Consiglio europeo - che su di essa voterà il 2 maggio - su quali Paesi
debbano passare alla moneta unica. I risultati di questa valutazione sono stati comunicati
al Parlamento europeo il 25 marzo dal presidente della Commissione Santer, insieme con
la raccomandazione che 11 Paesi fra cui l'Italia, che «soddisfano le condizioni necessarie
per l'adozione della moneta unica», possano passare alla terza fase dell'Unione
monetaria europea. Se a questo punto la Germania pretendesse e ottenesse nuovi vincoli,
ciò vorrebbe dire che l'autorità per compiere l'esame sul grado di convergenza dei Paesi
europei, apparentemente attribuita a Bruxelles, in realtà risiede altrove. Naturalmente la
Germania può decidere liberamente come votare nel Consiglio europeo, ma questo
mostrerebbe che non sono Italia e Belgio ad avere mancato di rispettare le condizioni per
la partecipazione alla moneta unica, ma la Germania a cambiare le carte in tavola.

2. Vi è una differenza sostanziale fra i quattro criteri di convergenza stabiliti nel trattato
per il passaggio all'euro. I primi tre sono del tutto appropriati: è giusto premettere alla
creazione di una moneta unica l'accertamento che gli andamenti dei prezzi e dei tassi
dell'interesse siano più o meno in linea fra loro, così come è opportuno valutare nel
periodo che precede la nascita del'Unione se le condizioni dei vari Paesi garantiscano la
stabilità dei rapporti di cambio. Invece, dal momento che la Banca centrale europea non
potrà finanziare monetariamente i fabbisogni degli Stati membri, i parametri relativi alla
finanza pubblica - e soprattutto il rapporto fra debito e Pil - mancano quasi interamente
di giustificazione economica. Per motivare comunque l'insistenza su questo aspetto del
problema, il rapporto della Bundesbank esprime la preoccupazione che si possa creare un
conflitto in seno all'esecutivo della Banca centrale fra la linea di rigore monetario
delineata nell'articolo 105 e le posizioni dei membri dell'esecutivo della Banca provenienti
da Paesi fortemente indebitati. L'osservazione è assai debole, a meno di non pensare che
l'impegno alla assoluta indipendenza dei dirigenti della Banca dai Paesi di provenienza, di
cui all'articolo 107, sia scritto sull'acqua.

3. Il rapporto della Bundesbank suggerisce inoltre che i Paesi ad alto debito sono più
soggetti al rischio di crisi finanziarie. È evidente che una situazione di basso debito
pubblico è più tranquillizzante, ma non c'è alcuna evidenza specifica di una correlazione
fra il pericolo di crisi finanziarie e l'esistenza di un indebitamento pubblico che superi il
fatidico limite del 60%. Vi sono numerosi esempi di Paesi con un debito pubblico più
elevato del Pil, come il Belgio, gli Stati Uniti e in passato la Gran Bretagna, nei quali non
vi sono state crisi più importanti di quelle verificatesi in Paesi con un debito pubblico più
contenuto. In realtà il 60% è un numero che non ha alcuna base oggettiva per essere
preso come riferimento o come obiettivo di una politica. Il sospetto è che esso sia stato
scelto perché in quel momento esso era rispettato da Francia e Germania e non
dall'Italia, la quale con quasi assoluta certezza non avrebbe potuto raggiungerlo in tempo
e sarebbe quindi restata fuori, almeno in una prima fase, dall'Unione monetaria. Del
resto l'Italia lo accettò quando venne accolta una proposta più equilibrata di fare
riferimento altresì alla tendenza stabile alla riduzione. La Commissione ha dato il suo
giudizio e non vi è ragione di tornarvi sopra.

Noi non mettiamo in dubbio che un elevato valore di questo rapporto rappresenti un
problema, ma esso riguarda essenzialmente il Paese cui il debito fa capo e non gli altri
Paesi dell'Unione. Esso, e non gli altri, dovrà raccogliere, mediante le imposte, il gettito
necessario a pagare l'interesse sul debito. Esso, e non gli altri, dovrà tener conto delle
difficoltà del rinnovo dei titoli in scadenza e limitare di conseguenza la spesa pubblica
non per interessi. Un Paese fortemente indebitato può a giusto titolo rimproverare le
generazioni precedenti per avere finanziato le spese pubbliche con il debito e non con le
imposte, e avere quindi reso più povere la generazione presente e quelle successive. Ma
tutto questo riguarda quel Paese e spetta solo a esso di decidere se sia il caso di porre in
atto una politica di duri sacrifici al fine di risarcire i figli dei danni fatti dai loro antenati.
Il presidente dell'Istituto monetario europeo, Duisenberg, ha detto giustamente che il
debito pubblico è l'accumulazione degli errori del passato. Esso grava sul Paese che li ha
commessi, non sul funzionamento dell'Unione monetaria. Diverso è invece il problema
della quota del debito a breve sul totale: l'Italia ha già fatto molto in questa direzione ma
potrebbe, pur non accettando di sottoscrivere espliciti vincoli, impegnarsi a continuare
lungo questa strada.

4. La ragione che suggerisce di limitare il deficit dello Stato è di impedire che esso riduca
il risparmio nazionale che a sua volta è il flusso necessario a finanziare gli investimenti: il
contributo di ciascun Paese alla capacità di investire della Comunità non è misurato dal
suo deficit e ancor meno dal rapporto debito-Pil, ma dal suo risparmio complessivo. Il
risparmio nazionale italiano è fra i più alti nell'Unione Europea. Toccherebbe semmai ad
altri Paesi e non all'Italia di restringere i propri consumi e incrementare il risparmio.

5. Come è noto, un surplus di bilancio ha in sé un effetto deflazionistico, a meno che esso
non sia accompagnato da una corrispondente modificazione della politica monetaria in
senso espansionistico in modo da produrre un aumento degli investimenti capace di
assorbire l'aumento del risparmio. Poiché l'orientamento attuale della politica monetaria
europea è piuttosto restrittivo, come si vede dall'elevatissimo livello della disoccupazione,
un periodo di forti surplus dell'Italia e del Belgio non produrrebbe effetti utili. Al
contrario, esso provocherebbe un'accentuata deflazione in questi due Paesi, che a sua
volta si ripercuoterebbe sul resto della Comunità.

6. Le condizioni finanziarie di un Paese, come quelle di qualunque ente privato, vanno
giudicate in base non al debito, ma al patrimonio netto. Nel caso dell'Italia la richiesta di
puntare a raggiungere e mantenere un attivo di bilancio ignora l'esistenza di un
patrimonio pubblico che può essere stimato (secondo un recente studio di Franco
Modigliani e Fiorella Padoa-Schioppa pubblicato dal Mulino) in un ammontare molto
vicino al debito stesso. Il suggerimento che potrebbe essere dato e sul quale siamo da
sempre d'accordo è che l'Italia acceleri e ampli il programma delle dismissioni del
patrimonio pubblico.

Per questo insieme di ragioni, l'Italia non deve assumere altri impegni, oltre quelli già
gravosi che si è assunta con il cosiddetto «patto di stabilità». Anzi, come abbiamo
argomentato nell'articolo «Più lavoro? Una strada c'è» («Corriere della Sera», 3 gennaio
'98), essa dovrebbe insistere per determinare un nuovo orientamento della politica
economica dell'Europa fortemente indirizzato verso l'espansione degli investimenti. Non è
sacrificando ulteriormente l'occupazione che si costruirà una solida moneta unica
europea.

 

Passa la sanatoria? Risarcite gli onesti
di Franco Modigliani* e Francesco Franco**

dal Corriere http://www.corriere.it - 19 dicembre 2002


Siamo profondamente convinti che tantissimi italiani considerino che il condono fiscale in generale, ed un condono di tali proporzioni in particolare, sia una manovra assolutamente immorale. Una manovra che non solo mortifica il nostro Paese agli occhi di quei Paesi civili abituati al rispetto della legalità ma che inoltre sia foriera di futuri effetti controproducenti. È una misura immorale perché premia gli evasori riconoscendo loro aliquote più basse di quelle imposte ai contribuenti onesti. Mortifica il Paese perché mette in luce come l’amministrazione non sia capace di far rispettare le leggi dello Stato. È controproducente perché premia gli evasori e quindi incoraggia l’illegalità presente e futura. Gli onesti che hanno pagato tutto possono adesso solo pensare che sono stati poco furbi. Così si incoraggia solo il flagello dell’evasione. Vogliamo suggerire che queste conseguenze negative potrebbero essere evitate mediante una semplice modifica della Costituzione che stabilisca il principio di incostituzionalità nell’applicare retroattivamente ai cittadini aliquote differenziate. Questa clausola avrebbe un esito semplice ed efficace. Supponiamo che il Parlamento approvi un condono che permetta agli evasori di liquidare il loro debito verso il Fisco con uno sconto diciamo del 40%, e cioè con una aliquota effettiva pari al 60% della legge originaria.
Questa decisione deve essere interpretata come una riduzione dell’aliquota del 40% per tutti. Pertanto i contribuenti onesti che hanno pagato il 100% hanno di fatto pagato troppo ed hanno diritto ad un rimborso, probabilmente attraverso sconti su saldi futuri, del 40% di quanto hanno pagato, inclusi gli interessi. Il provvedimento allevia la mortificazione perché troverebbe probabilmente un maggior consenso nei Paesi che tutelano i diritti civili. Lo stesso emendamento toglie, seppur parzialmente, lo stigma di immoralità perché gli evasori non ricevono un premio per la loro disonesta furbizia, infatti si beneficia del condono anche se si è onesti! L’esito finale è ovviamente l’eliminazione dei condoni: diventano poco redditizi.

*Institute Professor Emeritus, Massachusetts Institute of Technology
**Phd Candidate, Massachusetts Institute of Technology

Mercoledì 18 Febbraio 1998

 

 

Commenti e dibattiti
Il premio Nobel Franco Modigliani ha insistito ieri a Londra sulla centralità dell’occupazione per il futuro dell’Europa
Ricette immediate per il lavoro
Necessarie misure di stimolo della domanda, anche grazie a un euro debole

LONDRA - Chi crede che l’euro nascerà forte, alzi la mano. Ora, chi crede che nascerà debole. La platea di un migliaio di banchieri, gestori di fondi e agenti di cambio della City si divide a metà. E ora, chi crede che sarebbe meglio che l’euro nascesse forte, alzi la mano. Pochi, sparuti consensi. Chi crede che l’euro dovrebbe nascere debole? Una selva di mani.

Può sembrare strano che nel tempio della finanza piaccia così tanto l’idea di una valuta debole e che le previsioni siano così divaricate dai desideri, ma per Franco Modigliani, il professore del Mit e premio Nobel per l’economia, che aveva provocato i banchieri alla votazione, non c’è sorpresa. La platea l’ha semplicemente seguito nella sua perorazione perché al partito del 'prestigio monetario', quello che finora ha prevalso su istigazione tedesca, si contrapponga il partito dell’occupazione, quello che si preoccupa di far diminuire l’altissimo numero dei senza lavoro in Europa.

"In Europa, afferma Modigliani, c’è stata convergenza sull’inflazione e sui tassi d’interesse, ma non c’è convergenza su quella che dovrebbe essere l’anima dell’Unione monetaria, anzi le divisioni si sono accentuate nell’ultimo anno e possono compromettere il futuro dell’euro. "La disoccupazione europea - dice - non ha uguali nel resto del mondo ed è qualcosa di cui non si vuol sentire parlare e che si afferma dovrà essere affrontato singolarmente dai singoli Stati".

L’economista italo-americano ha rilanciato la sua proposta, oggetto di un recente articolo scritto a quattro mani con Giorgio La Malfa, perché vengano adottate, a livello europeo, misure di stimolo della domanda. "È vero - afferma Modigliani - che ci sono rigidità del mercato del lavoro e che queste vanno affrontate. Ci sono almeno una mezza dozzina di misure importanti da prendere sul lato dell’offerta, ma queste potranno esercitare il loro effetto solo nel lungo periodo. Nel breve periodo, per ridurre la disoccupazione c’è bisogno di un rilancio della domanda". Il professore fa distribuire un grafico in cui mostra la sovrapposizione del declino degli investimenti in Europa dal 1973 in poi e dell’aumento della disoccupazione.

Modigliani favorisce una politica espansiva da parte della futura Banca centrale europea "e se questo vorrà dire un euro più debole nei confronti del dollaro, ancora meglio. Darà slancio alle esportazioni. Si dev’essere disposti a rinunciare a un po’ di prestigio monetario se ci si preoccupa di ridurre la disoccupazione". Le osservazioni del premio Nobel per l’economia hanno trovato eco parziale in un panel di economisti della City chiamati a dibattere gli scenari per l’euro alla stessa conferenza sui mercati obbligazionari internazionali. "La disoccupazione europea - ha detto Neil McKinnon, della Citibank - è in larga parte da attribuirsi alla misure di politica monetaria e fiscale messe in atto per raggiungere gli obiettivi fissati dal Trattato di Maastrich". Perché l’Unione monetaria possa essere sostenibile, ha aggiunto Kim Schoenholtz, della Salomon Smith Barney, i Governi europei dovranno far qualcosa per risolvere il problema della disoccupazione.

La politica fiscale e la "rettitudine tardiva" di alcuni Paesi europei sono le preoccupazioni di altri. "Resta da provare - dice Steven Bell, della DeutscheMorgan Grenfell - che i Paesi che sono prudenti ora, sotto il profilo fiscale, continueranno a mantenersi sulla retta via nei prossimi anni". Secodo David Hale, del gruppo Zurich, nei prossimi cinque-dieci anni la mancanza di flessiblità nel mercato del lavoro e l’impossibilità di compiere aggiustamenti fiscali creeranno fortissime pressioni sulla politica monetaria. "Questo può condurre - sostiene Hale - a un’unione molto più politica o magari alla rottura dell’unione monetaria".

Se ormai sembra essere opinione corrente che l’euro partirà, e partirà a tempo il 1° gennaio 1999, comincia insomma ad affiorare, fra i partecipanti dei mercati finanziari internazionali, il dubbio che l’Uem possa saltare in un secondo tempo. Le differenze che sono state messe da parte nel cammino verso l’Unione monetaria potrebbero aumentare, soprattutto, secondo Roger Bootle, della Hsbc, in caso di recessione.

Alessandro Merli