L'ULTIMA INTERVISTA E' CONTRO SILVIO BERLUSCONI

L'amarezza del premio Nobel dopo il discorso di Berlusconi
"Nessuna guerra personale, ma non doveva difendere Mussolini"
Modigliani: "Con quello show
il premier ha disonorato il Paese"


di EUGENIO OCCORSIO

ROMA - "Ah certo, in Italia ora ci sono molti meno comunisti. Ma ci sono molti più Berlusconi. Questo è il problema". Franco Modigliani, classe 1918, la storia del fascismo e del "buon" Mussolini l'ha vissuta sulla sua pelle. Ebreo di Roma, dovette lasciare l'Italia nel luglio 1939, appena laureato, per sfuggire alle leggi razziali portando con sé la moglie Serena, per sposare la quale era stato costretto ad andare a Parigi. Negli Stati Uniti si è costruito una folgorante carriera di economista e studioso che l'ha portato a vincere il premio Nobel nel 1985 per le sue "pionieristiche analisi sui risparmi e sui mercati finanziari", come si legge nella motivazione dell'Accademia di Svezia. Tuttora è professore emerito di economia al Massachusetts Institute of Technology di Boston. Insomma, nessuno più di lui può permettersi di parlare chiaro e in assoluta libertà sui destini di un'Italia che, da lontano, ha sempre seguito "con immenso amore". Pesa con calma le parole, ma da ogni singola frase traspare un senso di sconforto per l'arroganza e la protervia dell'attuale classe dirigente. "Berlusconi non onora l'Italia e non la difende, come dice sempre, onorando e difendendo Mussolini. Così, all'opposto, la disonora".

Il capo della Anti Defamation League ieri sul nostro giornale ha difeso il premio che gli ebrei d'America hanno dato a Berlusconi, e ha esplicitamente accusato proprio lei di muovere da dieci anni una guerra personale e pregiudiziale contro il nostro premier?

"Io cos'avrei fatto? Una guerra di dieci anni? Forse avrei dovuto farla davvero con tutti gli errori che ha fatto?E invece l'ho difeso in tante occasioni: quando voleva abolire l'articolo 18, quando vuole riformare le pensioni d'anzianità, quando deve fronteggiare certi scioperi che mi sembrano irrazionali. Certo, altre volte, molte volte, l'ho criticato, per i suoi atteggiamenti come appunto per la storia del Duce, ma soprattutto per le tante opportunità mancate in economia. I condoni fiscali, e peggio che mai edilizi, per esempio, mi sembrano una cosa immorale e indegna di un paese civile. Ma una cosa dev'essere chiara: io non faccio battaglie personali contro nessuno. Perché dovrei? Non è nel mio stile".

Però insomma la lettera sul New York Times era piuttosto esplicita?


"Vorrei chiarire il mio pensiero: la nostra lettera (con Modigliani hanno firmato gli altri Nobel Paul Samuelson e Robert Solow, ndr) era una protesta fatta da cittadini americani contro un'istituzione americana, la Anti Defamation League. Non mi è piaciuto il vostro titolo "Tre Nobel contro Berlusconi". Cerchi di capirmi: la League ha commesso un grave errore nel dare questo premio a chi aveva difeso Mussolini, ma non volevamo entrare nel merito delle questioni italiane. Abbiamo detto a questi signori di stare più attenti quando danno i premi. Poteva essere Berlusconi come chiunque altro".

Però ammetterà che non è passata inosservata la sua protesta, in fondo lei è nato in Italia.


"Ma ora sono americano. Abbiamo già tante cose di cui imbarazzarci e vergognarci noi in America, a partire dalla guerra assassina e assurda in Iraq. Berlusconi è un problema che dovete risolvervi voi italiani".

Professore, ieri il presidente del Consiglio ha anche invitato a investire in Italia perché sarebbe il mercato più flessibile d'Europa. E' vero?


"Macché, altra stupidaggine. E' uno dei meno flessibili. Certo, le cose sono un po' migliorate negli ultimi anni, ma questo è avvenuto grazie a misure che erano state prese dal precedente governo di centrosinistra. Malgrado questi avanzamenti, il mercato del lavoro resta rigido. Anche per questo, venire a investire in Italia resta un rischio".

(25 settembre 2003)

Il premio Nobel per l'economia, che da anni vive negli Stati Uniti, racconta il suo rapporto con la patria d'origine Modigliani: italiani, non fate i furbi

«Il peggiore dei peggiori è stato Craxi Ma anche Andreotti...»

«Non ho mai rimpianto neanche la cucina: ho sposato una bolognese»

«Se non fosse ingabbiato in un sistema spaventoso, questo sarebbe il primo Paese al mondo. Davanti agli Usa»

di GIAN ANTONIO STELLA

«Onestamente, non ho mai rimpianto neanche la cucina». Possibile? «Sa, ho sposato una bolognese...». Pochi italiani, forse, amano l'Italia come l'ama Franco Modigliani. Un rapporto struggente, malinconico, forte come sanno essere struggenti, malinconici e forti solo gli amori contrastati. Cresciuti sul dolore, il tradimento, la diffidenza, la riconciliazione, la serenità ritrovata, la delusione. Mai avuto, Franco Modigliani, un'idea di patria dannunziana: «Conculcate le stirpi moribonde / ella fa dell'Italia dai tre mari / la grande Patria dalle quattro sponde». Mai. Quando nel 1985 andò a ritirare il Nobel per l'economia si emozionò al suono dell'inno americano. Al collo, però, portava il cordone di Cavaliere di Gran Croce.

Disse allora: «Nella mia vita non ho mai creduto nel nazionalismo, non ho mai detto "giusta o sbagliata è sempre la mia patria". Sono nato italiano ma ho lasciato l'Italia quando ho pensato che avesse preso una strada immorale, oggi sono fiero di sentirmi di nuovo italiano. Come mi sento insieme americano. Ho amato e amo l'America che mi ha accolto, anche se non l'ho mai interpretata come una adesione acritica». In realtà la sua vera «heimat», come dicono gli amici più cari e come conferma Paolo Peluffo, il portavoce di Carlo Azeglio Ciampi che ha ormai ultimato la biografia del grande economista italo-americano, prossima in uscita per Laterza, è Serena. La donna che sposò 59 anni fa e della quale, dopo due figli, quattro nipoti, un Nobel e un po' di lauree ad honorem, è innamorato come quando era un ragazzo della buona borghesia ebraica romana, figlio di un noto pediatra, studente modello. «Andavo al Visconti, in altre classi c'erano tra gli altri Guido Carli e Pietro Amendola. Che poi nel '35 vinse con me i "Littoriali" per la cultura. Economia. Devo molto al Visconti. C'erano grandi professori. Ero così preparato che la terza liceo, chissà per quale istinto, la saltai dando subito gli esami. Cosa che mi permise di guadagnare un anno. E di laurearmi appena in tempo prima che tutto

precipitasse».

La sua rottura con l'Italia avvenne nel '38?

«Sì. Quando arrivarono le leggi razziali avevo vent'anni e studiavo legge alla "Città universitaria". Il padre di Serena, che aveva fondato le Messaggerie Italiane, se ne andò subito. Lui l'aveva detto già nel '25, dopo il delitto Matteotti: "Andrà sempre peggio, bisogna prepararsi all'idea di partire". Nel '28 disse: basta. Sfidando la legge che prevedeva la pena di morte, era riuscito a far passare dei soldi in Svizzera. E portò tutta la famiglia a Parigi».

E lei?

«Io e Serena non è che fossimo proprio fidanzati, eravamo troppo giovani. Però... Le nostre famiglie erano amiche da sempre. Così amiche che io e lei ci giochiamo dicendo che ci amiamo da settant'anni ma siamo amici dal 1860. L'esordio fu un disastro. Era venuta da Bologna a trovare dei miei cugini che avevano un grande giardino. Giocammo ad "acchiapparella" o qualcosa del genere. Io l'avevo presa per la mano per correre più in fretta e l'avevo fatta cadere.

Aveva le prime calze di seta e si ruppero. Non le dico! Tornò a casa e disse a suo padre: "Pensa che quel cretino di Franco Modigliani gioca ancora come i bambini". Ci rivedemmo a Cortina d'Ampezzo. Poi di nuovo a Roma. E quel che doveva succedere successe. Nel '38, quando se ne andò, la raggiunsi a Parigi».

Vi sposaste lì?

«Sì. Davanti al console italiano. Lui era in camicia nera, noi no. Disse: "Saluto il Duce!". E noi: "Buongiorno". Un gran matrimonio. Tornammo a Roma, dove l'aria ormai si era fatta pesantissima, solo perché dovevo discutere la tesi. Ormai non avevo più nessuno, lì. Solo mio fratello. Mio padre era morto. Mia madre si era rifugiata in Israele. I genitori di Serena erano molto preoccupati. Temevano che restassimo bloccati».

E stavolta, per laurearsi, fu costretto a mettersela, la camicia nera?

«No. Tutti i professori ce l'avevano. Tutti. Io no. Non so come, ma andò bene. Discussa la tesi e avuto quello che volevo, tornammo subito a Parigi».

Eravate lì quel 14 giugno 1940 in cui arrivarono i tedeschi?

«No. Ce n'eravamo andati, per fortuna, nell'agosto del '39. Arrivando a New York esattamente il 28 agosto, tre giorni prima che Hitler invadesse la Polonia e scoppiasse la guerra. Per noi che ne eravamo fuggiti le notizie che arrivavano dall'Europa erano sconvolgenti. Ricordo i cinegiornali che mostravano le prime truppe naziste scendere lungo gli Champs Elysées... Serena era incinta. Nascondevo i giornali perché non li vedesse».

Perse qualcuno nei campi di concentramento di Buchenwald, Treblinka o Birkenau?

«Parenti stretti no. Erano venuti via tutti. Mio fratello, l'unico che era rimasto, restò per mesi nascosto nella campagna romana, aiutato da una famiglia di contadini, per sfuggire alle retate naziste. Nei campi persi degli amici. Molti. Lionello della Seta, per esempio. E suo figlio, che aveva forse quindici anni. Non ho mai saputo neppure dove furono portati a morire. Neppure la sua famiglia, credo, lo ha mai saputo».

Ha mai pensato, in tutti questi anni, di tornare in Italia?

«Sì, subito dopo la guerra. Quando sembrò, per un breve momento, che grandi uomini come Ferruccio Parri fossero destinati ad avere un ruolo nell'Italia post-fascista. Allora sì, ci pensai. Ma poi, visto buttar giù Parri, nascere l'Uomo Qualunque, tornare l'Italia che non mi piaceva, recuperare i vecchi baroni universitari...».

Quelli che lei aveva visto in camicia nera?

«Quelli. Tornare in Italia voleva dire mettersi sotto le ali protettive di un professore. Fargli da cameriere, servirlo e sperare che un giorno... Ricordo un congresso a Washington, a guerra finita, con un famosissimo statistico italiano, Gini. Mi presentarono con parole molto lusinghiere, dicendo che ero giovane studioso molto promettente. Lui ascoltò distrattamente e mi mise alla prova: "Mi si è rotto l'orologio, me lo fa accomodare"?».

E lei?

«Gli risposi: "Lo farà molto meglio il portiere del suo albergo". Un episodio minimo. Ma mi fece ricordare tante cose. Era l'Italia che non sopportavo. Capii che il mio Paese non faceva più per me. Per dieci anni non volli rimetterci piede».

Mai pentito?

«Mai. Vengo spessissimo, mi vogliono bene, sono andato anche a Modigliana, un paesino che pare sia all'origine del nostro cognome. Ma non mi sono mai pentito di essere rimasto qui. In America ho avuto tutto. Apprezzo la qualità della vita americana, mi son fatto tanti amici, mi piace l'efficienza di questo sistema, ho studiato con grandi professori. Che non mi han mai chiesto di aggiustare orologi».

Cosa le piace, di questa patria italiana dove non ha voluto tornare?

«Io ho un enorme rispetto per gli italiani come produttori, risparmiatori, consumatori. Enorme. Le capacità imprenditoriali degli italiani sono uniche al mondo. Se avesse un sistema politico, amministrativo, sociale serio l'Italia sarebbe il primo Paese al mondo. Davanti a tutti. Anche agli Stati Uniti».

Solo che...

«Solo che è un Paese ingabbiato da un sistema spaventoso. Le istituzioni inefficienti, la burocrazia, il debito pubblico, la corruzione... Un Paese pieno di problemi. Oggi va un po' meglio. Prodi ha fatto molto e Ciampi è una persona di cui ho una stima enorme. Per me è, in questo momento, il miglior uomo di stato europeo. Ma è durissima, per loro. Decenni di governi a guida dicì sono stati massacranti. Hanno devastato il Paese».

Non salverebbe nessuno?

«De Gasperi fu certamente un grande statista. La Malfa un uomo lungimirante. Spadolini una brava persona, non so se sia stato un grande capo di governo. Carli fu un uomo notevole. Fu lui a battersi per primo perché la Banca d'Italia fosse separata dal Tesoro. Ma le dirò: gli economisti al governo sono stati spesso di valore. Penso ad Amato, Spaventa, Andreatta. Ma poi c'erano gli altri, un disastro...».

A chi pensa?

«Il peggiore dei peggiori, secondo me, è stato sicuramente Craxi. Ma anche Andreotti... Me lo ricordo una sera a cena alla Casa Bianca, ai tempi di Jimmy Carter. In quel momento avevo una buona opinione di lui. La cambiai del tutto. Oggi poi... Io non so quanto siano buone le prove giudiziarie contro di lui. So che le sue responsabilità nel rapporto mafia-politica sono enormi. Solo lui poteva imporre un mafioso come Salvo Lima al governo. Se ha dato o no il bacio a Riina non lo so. So che, per motivi personali, ha fatto il gioco della mafia. E' incredibile che l'Italia per anni sia stata governata da lui».

Eppure si giocava sulla battuta che nel Paese dei dritti anche Andreotti...

«Guardi: la pecca più grande degli italiani, il loro vizio peggiore, il difetto più imperdonabile è la furbizia. Non pagar le tasse o imbrogliare l'Inps per molti è normale. Se puoi lo fai. Ahi ahi... La sola cosa che mi consola è che hanno imparato a non fare i furbi come produttori. Perché nel resto del mondo non te lo perdonano. Ma una volta... Pensi che un giorno comprammo un servizio completo di piatti di Vietri: non ci arrivò mai. Dico: un servizio intero. Pagato. Che gran Paese, se non fossimo così furbi...».

I vantaggi della flessbilità

di Carlo Gnetti

Dopo avere illustrato anche su Rassegna <../../../statosociale/articoli/modigliani/prima.htm> la proposta di riforma del sistema pensionistico, il professor Franco Modigliani accetta di rispondere ad alcune domande sull’attualità politico-sindacale italiana, pur precisando che alcune delle questioni trattate attengono alla politica interna del nostro paese, e pertanto, non essendo cittadino italiano, non si sente di esprimere giudizi dal suo osservatorio del Massachussets Institute of Technologies di Boston.

In primo luogo gli chiediamo cosa pensa riguardo al metodo della concertazione che oggi rischia di essere definitivamente accantonato. "La concertazione – osserva Modigliani – ha avuto un’importanza enorme, avendo permesso all’Italia di risollevarsi dalla crisi del ’93 e di superare i problemi legati all’instabilità della lira. Anche se è più importante in tempi tempestosi che in tempi tranquilli, è un metodo che si va estendendo in molte parti del mondo e che ha una funzione importante, in particolare quella di evitare gli effetti deleteri della rincorsa tra prezzi e salari. Non c’è quindi alcuna ragione per abolirla, anzi è sbagliato cercare di limitarla o di cancellarla".

Rassegna Eppure è proprio quello che intende fare il governo italiano.

Modigliani Non ho particolare simpatia per il governo italiano, che non è il mio. Credo che sia uno sbaglio muoversi verso un liberismo privo di senso. L’accordo evita i conflitti ed è utile in qualunque sistema. Ma il conflitto attuale è su punti molto particolari, non riguarda salari e prezzi. Ciò significa minore disponibilità, anche se non credo che voglia dire la fine di ogni collaborazione. Senza dubbio il governo intende ancora evitare lo scontro, ma occorre essere in due a volerlo.

Rassegna Il conflitto riguarda appunto la proposta di riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori da parte del governo. Proposta che, secondo i sindacati, colpisce un diritto fondamentale: quello al reintegro per i licenziamenti senza giusta causa.


Giusta causa e compenso economico
Modigliani Non si può equiparare il reintegro nell’azienda, stabilito da un giudice, a un diritto fondamentale. Il compenso per un licenziamento senza giusta causa è comprensibile, ma il reintegro non esiste da nessuna parte del mondo. In molte parti del mondo il licenziamento è previsto anche senza giusta causa, al contrario di quanto avviene in Italia e in altri paesi europei. Non vedo perché il compenso economico non sia sufficiente quando una persona viene allontanata da un’azienda con cui non è più in sintonia. Non credo che su questo aspetto valga la pena fare scioperi.

Rassegna Il diritto al reintegro ha avuto anche la funzione storica di impedire le discriminazioni politiche o sindacali all’interno delle aziende.

Modigliani Certo. Questo è comprensibile. Ma la giusta causa esclude il licenziamento per ragioni politiche.

Rassegna Non ritiene che l’attacco al sindacato, che finora ha garantito la coesione sociale sostituendosi anche ai partiti politici, nasconda la volontà di eliminare ogni ostacolo al liberismo dilagante?

Modigliani È vero che il sindacato ha avuto un ruolo politico, riempiendo il vuoto lasciato dall’inefficienza del sistema politico. Ma è bene che questa funzione sia limitata. Quando i governi sono soddisfacenti non è richiesto un ruolo politico attivo del sindacato, mentre al contrario, quando i governi non sono buoni, è inevitabile che il sindacato assuma un ruolo politico che non gli è proprio. Questo può essere all’origine di alcuni conflitti, perché non sempre il sindacato difende gli interessi generali. Ad esempio il discorso sulle pensioni di anzianità è falsato dal fatto che il sindacato è diventato rappresentante della popolazione anziana, dei pensionati, e quindi spinge per misure che non sono nell’interesse di tutti i lavoratori. Io ho sempre trovato che le pensioni d’anzianità siano una vergogna puramente italiana, perché i furbi sfruttano i poveracci, e ho dimostrato che chi va in pensione d’anzianità ha un reddito superiore rispetto alla media. In questo modo invece di ridursi le disuguaglianze aumentano, e a rimetterci sono i lavoratori nel loro complesso.

Rassegna In questi giorni si discute dell’asse Blair Berlusconi sulle questioni del mercato del lavoro e della flessibilità. Che cosa ne pensa?

Modigliani Non conosco i termini dell’intesa fra Berlusconi e Blair, ma è certo che la flessibilità del mercato del lavoro in entrata e in uscita è molto importante per riassorbire la disoccupazione. I contratti che diventano indissolubili costituiscono un danno e hanno contribuito alla crescita della disoccupazione giovanile, in particolare delle donne. Anche questo è un fenomeno tutto italiano. In Germania addirittura avviene il contrario: la disoccupazione giovanile ha il tasso più basso. Quando le imprese non possono mandare via nessuno non assumono neppure, e in particolare non assumono i giovani. Quindi sono a favore dei contratti che permettono una maggiore flessibilità, inclusi i contratti di lavoro interinale. Questi ultimi hanno prodotto risultati ottimi ovunque, e buoni risultati anche in Italia. In Europa vi è una varietà di esperienze in materia di flessibilità, ma in generale si può dire che i paesi che hanno fatto grandi progressi nella lotta alla disoccupazione, come Irlanda, Spagna e Inghilterra, hanno spinto di più in direzione della liberalizzazione del mercato del lavoro. Fino a qualche anno fa l’Inghilterra aveva tassi del 10-11 per cento, simili a quelli italiani. Oggi la disoccupazione è scesa a livelli molto bassi.


Berlusconi e l’euro , Berlusconi e le tasse
Rassegna In realtà la domanda era più maliziosa: alcuni ritengono che l’intesa tra Blair e Berlusconi abbia un significato sostanzialmente filoamericano e antieuropeo.

Modigliani Questo non sono in grado di dirlo. Se flessibilità vuol dire imitare gli Stati Uniti non c’è niente di male. Anche oggi, tenuto conto dei fenomeni ciclici, la disoccupazione negli Stati Uniti è a livelli enormemente più bassi rispetto a quasi tutti i paesi europei. Qui il licenziamento non richiede causa ed è completamente rimesso alla libera scelta del datore di lavoro. Ma capisco che questa è un’esagerazione per la tradizione europea. Per quanto riguarda l’attacco all’Europa, o meglio all’euro, non ho un’idea precisa. Blair è a capo dell’Inghilterra, paese che non fa parte dell’euro, mentre Berlusconi continua a fare dichiarazioni a favore dell’euro. Non so se sia una falsità. Tuttavia in questo momento l’Italia è molto inserita nel sistema mentre l’Inghilterra ne è mezza fuori.

Rassegna Il governo ha avanzato una proposta di riforma fiscale che riprende in parte il modello americano. Ritiene giusta la critica avanzata dall’opposizione secondo cui viene colpito il principio costituzionale della progressività dell’imposta, favorendo i ceti più abbienti a danno dei redditi piccoli e medi, difesi dal sindacato e dalle sue politiche mirate alla ridistribuzione della ricchezza?

Modigliani Anch’io ho riserve sulla riforma fiscale, in particolare sull’idea di limitarsi a due scaglioni di reddito. Sono convinto della necessità di una progressività ragionevole, non esagerata, e da questo punto di vista due scaglioni mi sembrano inadeguati perché favoriscono le persone più ricche. Alla stesso modo sono contrario alla riforma dei sistemi di successione ereditaria. Anche qui occorre una tassazione ragionevole. Abolire la tassa significa alimentare una delle fonti principali attraverso cui vengono perpetuate le disuguaglianze economiche. Si è parlato di questa eventualità anche negli Stati Uniti, dove le tasse di successione sono molto alte, sebbene sia molto facile evaderle attraverso una serie di trucchi. Il presidente Bush è riuscito a far passare una misura di detassazione, che però è posposta di molti anni. Resta da vedere se quella misura verrà mai applicata.

(Rassegna sindacale, n. 9, marzo 2002)

Intervista con
Franco Modigliani

di Pietro Zullino <../AUTORI/AutoriWZ.html>

Se l'informazione è globale
anche il mercato è più aperto

Le nuove tecnologie hanno creato uno spazio planetario nel quale lo scambio di merci e servizi può avvenire senza alcun limite; cadono i confini nazionali e presto le politiche monetarie delle banche centrali non avranno più senso. Ne derivano grandi opportunità di investimento.

Com'è avvertita dai grandi economisti la mutazione telematica delle Borse e degli altri mercati finanziari? Come un sorprendente ma in fondo normale sviluppo del progresso tecnico o come un sobbalzo del tutto imprevisto e probabilmente foriero di novità insidiose? E la velocizzazione degli spostamenti di capitale, quali effetti potrà avere e sta già avendo sull'azione dei governi, sugli assetti legislativi, sugli equilibri di potere a livello nazionale e internazionale?
Ne parliamo con Franco Modigliani, vincitore nel 1985 del Premio Nobel per l'economia. Per miglior chiarezza di alcuni passi dell'intervista dobbiamo premettere che Modigliani, nato a Roma, si trasferì ventunenne negli Stati Uniti per sottrarsi alla persecuzione razziale voluta dal regime fascista. Completò con grande successo i suoi studi tra New York e Chicago, e dopo aver insegnato in varie università divenne professore al Massachusetts institute of technology di Boston. Per alcuni anni è stato consulente della Federal Reserve, la banca centrale americana. Tra i suoi contributi alla scienza economica: l'elaborazione della teoria del ciclo vitale in materia di risparmio e il teorema cosiddetto di Modigliani-Miller secondo cui la struttura finanziaria di un'impresa è irrilevante rispetto al suo comportamento sui mercati. Modigliani è autore di numerosi saggi tradotti in tutte le lingue. L'ultimo, uscito in questi giorni, è Il miracolo possibile. Un programma per l'economia italiana, scritto insieme con Mario Baldassarri e Fabio Castiglionesi.

Professor Modigliani, che ne pensa della telematica applicata alle attività finanziarie? Il mondo rimpicciolito, notizie che circolano alla velocità della luce, decisioni che vanno a effetto subito, abolizione di vecchie procedure, abolizione di fatto dei fusi orari, giornate operative che durano ventiquattr'ore, capitali spostati da un settore all'altro in meno di un secondo, euforie o depressioni istantaneamente contagiose da piazza a piazza. Dove ci porta tutto questo?

Questa rivoluzione dell'informazione basata sulla rapidità ha senza dubbio innescato un processo di profonda metamorfosi del sistema economico, nel senso che stiamo marciando a grandi passi verso un'economia totalmente aperta. Per andare all'osso del significato di economia aperta: si tratta di un'economia in cui non c'è più il tasso d'interesse tedesco o francese, italiano o americano, ma un solo tasso stabilito sui mercati mondiali, per cui il costo del denaro è uguale per tutti. Proprio questo è il segno più evidente che il mondo diventa sempre più piccolo e, contestualmente, l'iniziativa economica sempre più libera. Qualcuno dirà che la direzione di marcia non può essere che questa, dal momento che comunicazioni sempre più rapide forzano a una libertà sempre più completa dei movimenti di capitale. Io dico: è vero. Ma attenzione: il fatto che linee telematiche permettano decisioni istantanee e trasferimenti di soldi in tempo reale, da solo vorrebbe dire poco. La condizione veramente essenziale è un'altra, è che gli ordinamenti giuridici ammettano il libero movimento dei capitali. Ebbene, per fortuna il libero movimento di capitali è oggi una realtà in vaste zone del mondo: negli Stati Uniti e Paesi limitrofi, nel mercato comune dell'Unione europea, anche in Italia quindi, e siamo già molto avanti lungo la strada che porta a un sistema in cui le leggi stabiliranno, oltre che la libertà e la rapidità dei movimenti consentite dalla telematica, un unico mercato mondiale dei capitali.

Lei configura uno scenario in cui le autorità tradizionalmente preposte alla vigilanza dei mercati, anzitutto di quello valutario, potrebbero perdere il controllo della situazione. Che ne sarà, ad esempio, delle Banche nazionali centrali?

Qui la risposta non è molto facile, perché, davvero, bisognerebbe poter sapere se ci sarà l'unificazione monetaria, in quali termini, e in che limiti. Pare che presto ci sarà relativamente a una zona abbastanza vasta, mi riferisco all'Unione europea, mentre prevederne una ancora più vasta (che cioè includesse gli Stati Uniti e una serie di altri Paesi) mi sembrerebbe per il momento azzardato. Proviamo comunque a supporre che almeno all'unificazione monetaria del vecchio continente si arrivi presto. Ebbene, dove c'è un sistema a moneta unica accade che la massa monetaria è regolata dalla Banca centrale europea. E' lei che decide i tassi d'interesse sui mercati internazionali, tassi che sono totalmente aperti. In questa situazione, alla Banca centrale di un singolo Paese resterebbe ben poco da fare. Ma, ripeto, cambi totalmente fissi su mercati totalmente aperti: questa la condizione imperativa perché si abbia un sistema valutario unificato.

Quali sono i vantaggi e i rischi connessi al cambiamento in corso? E che cosa si devono aspettare gli investitori, gli operatori e le autorità preposte?

La telematica, come ho detto, crea una grande opportunità di avviarci a un vero mercato mondiale dei capitali, con grandi vantaggi sul piano della conoscenza dei fenomeni e quindi dell'impiego delle risorse (per un economista poi, la possibilità di studiare i problemi su una scala non locale ma globale rappresenta il massimo!). Contro questa grande opportunità si ergono tuttavia ostacoli e pericoli che possono insidiare la regolarità e l'affidabilità dei mercati, soprattutto nel periodo transitorio. Quando si passa da un sistema a Paesi separati a un sistema unico con tassi fissi, un sistema insomma come lo Sme (a proposito, speriamo che l'Italia possa rientrarvi presto), finché la transizione non è compiuta ci sono pericoli. L'abbiamo visto chiaramente in Italia, con le grandi fluttuazioni nei tassi di cambio e l'alta volatilità della moneta. Le conseguenze che una tale incertezza può avere, fino alla sfiducia internazionale verso il Paese che non riesce a tenere il passo, sono gravi. Alla fine del governo Ciampi si poteva ancora credere che l'Italia stesse per tornare nel gruppo dei Paesi di testa. Nell'anno del governo Berlusconi, invece, la finanza italiana è stata letteralmente massacrata dalle troppo disinvolte oscillazioni della lira. Nessuno voleva più investire. Si sa che i capitali fuggono: la gente si sbarazza di una moneta e allora quella moneta va giù. Ma ciò è potuto accadere perché si trattava di un periodo di transizione. In un sistema già unificato e a cambi fissi, non sarebbe successo. Fino a che ci saranno ancora Paesi singoli, potranno aversi disturbi in campo valutario, e disturbi grossi; dopo no. La tecnologia avanzata è in ogni caso al servizio di una grande speranza.

Secondo lei ci vorranno tempi brevi, medi o lunghi perché questa speranza divenga realtà?

Ebbene, per quanto riguarda il sistema europeo prevedo tempi piuttosto corti. La ragione fondamentale è che il sistema europeo è già oggi un sistema con un unico tasso d'interesse e con una sola Banca centrale, de facto la Bundesbank tedesca. Essendo di gran lunga la più forte, la Bundesbank detta legge a tutte le altre banche centrali nazionali. Quando si passerà alla moneta europea unica, ci sarà una Banca centrale europea in cui la Bundesbank avrà di sicuro un potere molto rilevante. Non però il potere di fare tutto quello che vuole. La Banca centrale non sarà più la banca che pensa ai tedeschi ma la banca che pensa agli europei e quindi ai tedeschi solo in quanto europei. Il che andrà nell'interesse di tutti ma specialmente dei non tedeschi... Si muovano dunque con rapidità i francesi, gli italiani e via elencando: gli conviene.

E' ipotizzabile una tenace resistenza anche solo passiva dei vecchi interessi costituiti, come le Banche centrali nazionali?

Quando si arriva a un sistema per cui il tasso d'interesse è unico per tutto un vastissimo mercato (anche se esistono ancora monete separate; e anche se esiste la moneta unica, poniamo l'Euro, ma la massa circolante d'un Paese continua a esser provveduta dalla Banca centrale di quel Paese); quando si arriva a un siffatto sistema cosa accade? Vediamo. Il tasso d'interesse è fissato esogenamente, cioè dall'esterno, cioè sui mercati internazionali, e quindi un po' tutti i prezzi sono formati, entro grossi termini, su quei mercati. Anche il cambio è fisso. Allora, fissato il cambio, fissato il tasso d'interesse, e fissato un goal di carattere economico o sociale (per esempio il pieno impiego), la domanda di moneta è determinata da parametri tutti esogeni. La banca centrale nazionale, lungi dall'esser libera come una volta era di decidere lei, dico per dire, la quantità di denaro circolante, non può fare altro che all'altro (ad esempio il prezzo della stessa azione è diverso sui due mercati) gli arbitrageurs fanno operazioni che muovono al ripristino dell'equilibrio. Nel puro arbitraggio c'è insomma una persona che simultaneamente compra e vende lo stesso titolo su due mercati dove i prezzi non sono allineati. Questa è un'operazione per così dire fisiologica e sempre stabilizzante, perché spinge i due prezzi verso un livello di equilibrio. Sotto questo profilo, l'informatizzazione dei mercati internazionali certo aiuterà, perché metterà gli arbitrageurs in condizione di notare immediatamente il formarsi d'una divaricazione dei prezzi e di operare in conseguenza prima che la forbice si allarghi troppo. E ciò creerà senz'altro dei problemi allo speculatore d'azzardo. Esiste però un altro tipo di azione speculatoria che provoca, invece, forti anomalie. Due prezzi di cose simili, ma non identiche, divergono, e si pensa che andranno ad allinearsi: gli speculatori d'azzardo tendono allora a vendere quello che, secondo loro, è sopravvalutato e a comprare quello che è sottovalutato. Questa è un'operazione ben diversa da quella descritta prima perché il momento nel quale la convergenza dei prezzi avverrà può essere lontano e incerto e pertanto lo speculatore corre il rischio che i due prezzi, prima di tornare in linea, divergano ancora di più, cioè che uno dei titoli continui a sopravvalutarsi e l'altro a svalutarsi. Questo è un problema particolarmente serio se l'operazione si basa su titoli derivati, quali opzioni o compravendita a termine per i quali la posizione è valutata (almeno nel sistema americano) quotidianamente (market to market) con l'obbligo di aumentare il deposito o di liquidare la posizione, anche al momento più sfavorevole.

E i controlli pubblici contro le speculazioni disoneste non saranno anch'essi più rapidi ed efficaci grazie alla telematica?

E' probabile. Non credo però che potranno mai essere evitati alcuni grossi crack simili a quelli che abbiamo visto negli ultimi tempi e che sono dovuti o a terribile imprudenza o a enorme disonestà.

Le trasformazioni in atto cambiano qualcosa nei concetti fondamentali della scienza economica? Un'economia del villaggio globale sarà diversa da quella che si è studiata fino a ieri?

La mia risposta è questa: esiste un mondo di economisti avanzati di cui io ambisco far parte che sta già elaborando tutte le implicazioni della rivoluzione telematica e spinge l'analisi economica in direzioni nuove. Ma più che una analisi diversa è richiesta l'analisi di cose che prima nessuno analizzava perché non esistevano o non erano materiali. La rielaborazione sta avvenendo a cura di grandi maestri. Ho di recente assistito a una meravigliosa conferenza del professor Robert Merton (che tra l'altro ha avuto un premio dell'Accademia dei Lincei, qualche anno fa). E' uno dei pochi grandi uomini capaci di parlare del ruolo futuro dei mercati e degli intermediari finanziari; un uomo che possiede già le risposte. Da dove le ha tirate fuori? Dal passato. Per caso, una delle basi di questa nuova scienza delle valutazioni mobiliari, e soprattutto dei titoli cosiddetti derivati, o secondari, è il teorema di Modigliani e Miller, il quale afferma che il valore dell'impresa intera, cioè il totale di azioni più obbligazioni, è indipendente da come l'impresa sia finanziata; questo fondamentale concetto sta ora alla base di tutte le nuove analisi, dei cosiddetti titoli derivati. Direi, dunque: lo sviluppo dell'economia è nuovo; nulla di nuovo, invece, nei suoi fondamenti: infatti le nuove analisi continuano a presumere che l'uomo si comporti razionalmente e quindi tenda alla massimizzazione dei profitti e alla minimizzazione dei costi. Questo principio sta alla base della scienza economica fin dai tempi di Adamo Smith, rimane invariato anche rispetto ai nuovi modelli dell'economia internazionale, rimarrà invariato fino alla fine dei tempi.

Un'incursione nel filosofico a questo punto è quasi d'obbligo. La telematica potrà, a lungo andare, rendere l'uomo migliore? Farà l'economia più morale?

No, secondo me la telematica è neutrale rispetto a questo. La telematica è uno strumento, e io penso che gli strumenti non abbiano a che vedere con l'etica, rendono l'azione umana più efficace, ma bisogna vedere l'uso che se ne fa. Uno può adoperare l'utensile per forgiare un oggetto, un'altro può darselo in testa. Con il computer si può contribuire al progresso del genere umano oppure fabbricare grossi imbrogli. Naturalmente, come abbiamo già detto, anche la vigilanza delle autorità nazionali e sovranazionali può avvalersi di strumenti telematici per imporre il rispetto di una regolamentazione a sua volta bene aggiornata. Per quanto riguarda la formazione del capitale umano che sarà responsabile della moralità di questo nuovo universo finanziario, qui in America esistono già delle business schools dove la gente impara il mestiere e dove si fa un grosso sforzo per far luce sui problemi legati all'etica. E' parte integrante dei programmi di studio la responsabilità etica di manager, agenti, fiduciari e così via.

In conclusione, che ne pensa dell'epoca che stiamo vivendo?

E' un'epoca affascinante in cui le cose si muovono così presto, al di là di ogni immaginazione. Ciò che si pensava sarebbe avvenuto in qualche decina di anni è avvenuto dall'oggi al domani. Mi secca di essere così vecchio. Ma forse potrò vederne ancora molte. Quando poi mi si chiede se l'uomo sarà capace di dominare tutta questa materia, io, che sono per natura ottimista, rispondo: come non credo alle scienziato malvagio che studia il modo di rovinare il mondo, così credo che più gli strumenti di nuova invenzione sono potenti, più forte è l'incentivo a usarli in maniera appropriata. L'umanità, in fondo, non si è ancora distrutta con la bomba atomica né pare abbia intenzione di farlo. Bisognerà certo tenere gli occhi aperti e internazionalizzare la vigilanza, cosa che del resto è parzialmente già in atto. Si deve andare avanti su questa strada tenendo d'occhio un paio di obiettivi. Anzitutto bisogna garantire la segretezza degli affari, contro i continui sforzi della malavita di penetrare nelle memorie dei computer per appropriarsi di informazioni confidenziali. Poi si devono impedire le indebite interferenze nelle operazioni altrui: interferenze che, a causa delle misure di sicurezza ancora imperfette, possono tradursi, si è visto, in comandi elettronici impropri, capaci di spostare somme da un conto a un altro, ordini da una piazza all'altra e via dicendo. Vi sono insomma minacce serie che debbono ancora essere sventate. E tuttavia non mi pare giustifichino timori misoneisti.

 

 

 

 

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