LA NOTIZIA 1 febbraio 2003

Bilancio Auditel del 2002, Italia 1 supera Raidue
Baldassarre: "E' stato un anno difficile ma siamo in recupero"
Canale 5 batte Raiuno
nella sfida della prima serata

La tv pubblica tiene nell'arco della giornata, perde dopo le 22
Mediaset: "Questo è il miglior anno della nostra storia"

LA FACCENDA era chiara a tutti - chi di noi continua a vedere la RAI dichiaratamente di destra ? e la destra che affermava di avere cultura quale capacita' sa mettere in campo attraverso quei tg1 - tg2 - che parlano per ore della moda ?

malgrado tutto cio' ecco un bel libro sull'auditel - come funziona e quali errori.

LA FAVOLA DELL'AUDITEL


Roberta Gisotti

EDITORI RIUNITI

Un libro finalmente coraggioso e ben documentato questo "La favola sull’Auditel" (Editori Riuniti) su uno degli eterni "affaire" poco chiari e irrisolti della vita nazionale e del nostro sistema di telecomunicazioni. In quanti si saranno chiesti, magar in cuor loro, in questi anni, se i rilevamenti sull’ascolto televisivo dell’Auditel fossero o meno, e se sì fino a che punto, credibili. La Gisotti, giornalista di Radio Vaticano, non ha mai nascosto il suo completo scetticismo in materia. Nel libro motiva ogni sua perplessità, legandola a fatti precisi e a dichiarazioni di stessi "telespettatori campione" muniti in casa del misteriosissimo meter. Alla fine si giunge, attraverso anche una serie di ragionamenti e di citazioni da interventi in pubblico di personaggi del settore e da articoli di stampa (non molti, ma accesi) usciti in questi anni, che forse questo sistema di rilevamenti statistici andrebbe rifondato. Fa acqua da tutte le parti. Serve solo alle sei televisioni pubbliche e private più importanti per conservare i loro introiti pubblicitari a dispetto di altri potenziali concorrenti o aspiranti tali. Eppure nessuno vuole saperne di intervenire in merito e di sollecitare la soppressione di un servizio non certo utile alla maggioranza degli italiani e per giunta pagato da Rai e Mediaset e dalle grandi agenzie pubblicitarie. Siamo alle solite: strumenti democratici che dovrebbero servire a tutti vanno a curare solo molto poco nobili interessi oligarchici. Prefazione di Giulietto Chiesa. Da leggere e diffondere, nell’interesse generale.

la notizia : 3 febbraio 2003

La tragedia in fase di atterraggio, la navetta si è disintegrata
Bush: "Ma il nostro viaggio nello spazio continuerà"
Texas, esplode lo Shuttle
Morti i sette astronauti
La Nasa: "Programma sospeso fino al chiarimento delle cause"
Escluso l'attentato: "Erano troppo in alto per essere colpiti"

il libro che vi consigliamo

GORDON COOPER
UN ASTRONAUTA "FUORI DAL MONDO"

Gordon Cooper, uno degli astronauti della Mercury Sette, ha fatto parte della élite di piloti militari ed è stato anche l’ultimo americano a volare da solo nello spazio. Durante quel viaggio, risalente a quasi 40 anni fa, non riscontrò la presenza di intelligenza extraterrestre, ma scoprì un profondo senso di fede personale. Ultimamente Cooper ha dichiarato che tutte le storie riguardanti suoi presunti incontri con ET erano false, ma ha confermato di avere vissuto un’"esperienza fuori dal mondo" mentre era in volo su un aereo nel periodo della Guerra Fredda con la Russia. "Vedevamo quei velivoli, molto più alti e veloci di noi, e non potevamo raggiungerli con i nostri aerei. Non sapevamo a quale livello di avionica si trovasse allora la Russia, quindi poteva trattarsi di un aereo avanzato che stavano costruendo, o di un UFO". Dall’epoca di quel volo Cooper ha cominciato a credere fermamente nell’intelligenza extraterrestre. Il suo nuovo libro, Leap of Faith, an Astronaut’s Journey into the Unknow, racconta la sua esperienza. Cooper aggiunge che aver visto la Terra dall’alto ha cambiato la sua vita. "Credo che sia una delle esperienze più sconvolgenti che abbia mai vissuto. Ti rendi conto di essere una piccolissima parte di questo enorme universo creato da Dio e ti senti minuscolo".

LA NOTIZIA DI OGGI 5 FEBBRAIO 2003

Sì alla sospensione condizionata dell'esecuzione di 3 anni della pena
Forti polemiche, la Lega si presenta con il lutto al braccio
Indultino, via libera
da parte della Camera
Lo sconto per i reati contro la pubblica
amministrazione, ma non a reati di mafia e terrorismo

IL LIBRO CHE VI CONSIGLIAMO DI LEGGERE

Repressione o recupero?

Un libro di Vincenzo Guagliardo

Dei dolori e delle pene
Saggio abolizionista e sull'obiezione di coscienza
edizioni "Sensibili alle Foglie"

Già Brecht aveva richiamato l'attenzione sulla sottile differenza tra chi le "banche le fonda e chi le sfonda", cogliendo una verità che risuonerà più volte nelle rivolte sociali e politiche del Novecento: criminale è chi condanna gran parte degli uomini all'alternativa tra la miseria dell'esclusione o l'esclusione dell'asservimento. 

Fu l'antiautoritarismo degli anni Sessanta e Settanta con la sua critica
radicale alle "istituzioni totali" che preparerà il terreno per quel
movimento che dai "dannati della terra" alla psichiatria democratica di
Basaglia, porterà prima alla riforma carceraria del '75 e poi alla chiusura dei manicomi.

Poi più nulla, anzi il contrario. Nel volgere al tramonto il secolo sembrò volersi rivoltare contro se stesso, quasi a vendicarsi delle aspettative sollevate e tradite; gli strumenti del sistema penale divennero altrettante armi per quella "controriforma" che invaderà l'immaginario collettivo di magistrati difensori della patria, pionieri di quella cultura della penalizzazione che ha colonizzato i territori del nuovo millennio.

Disagio giovanile, culture e comportamenti sociali, proteste e
contestazioni, droghe, immigrazione, persino il rapporto tra politica ed
economia... ormai più niente sfugge al ricatto degli articoli del codice
penale, novella carta costituzionale di un paese che ha smarrito a tal
punto il senso della misura e della civiltà da eleggere il carcere a luogo di residenza inevitabile per un numero crescente di persone.

L'ultimo libro di Vincenzo Guagliardo, Dei dolori e delle pene - Saggio
abolizionista e sull'obiezione di coscienza fa dalla constatazione di questa crisi del sistema penale, paragonabile solo a quella che colpì il sistema penitenziario alla metà dell'Ottocento quando il ricorso alla reclusione come pena divenne prevalente, lo strumento di una critica radicale al carcere e al sistema delle pene ben oltre gli orizzonti a cui ci ha abituato il filone abolizionista di provenienza nord-europea. 

E' un viaggio attraverso la sofferenza legale quello che ci propone,
attraverso il dolore che l'umanità infligge ad un gruppo particolare di
uomini, i criminali, in realtà infliggendolo a se stessa, alle proprie
caratteristiche di esseri sociali minate alla base dalla dominanza del
binomio merce-pena instaurato dall'avvento dello Stato moderno.

Quello del sistema penale non è solo un fallimento "relativo" a
quell'1-5 per cento di reati penalizzati, mentre assistiamo, negli Usa, ad un aumento negli ultimi dieci anni del 414 per cento dei crimini più gravi, alla faccia dell'asserito potere deterrente del carcere e della pena tanto
sbandierato; oppure all'assurdità di una cultura penale che ha prodotto
una popolazione carceraria che si aggira intorno a cifre da fine Ottocento: 50.000 persone detenute a cui vanno aggiunte le 15.000 in pene alternative alla detenzione (già nel 1870 su 27 milioni di italiani si
contavano in Italia 70.000 detenuti...). 

Questi numeri raccontano drammaticamente di un universo totalitario in
espansione, dimostrazione di uno sviluppo socio-economico che mentre
aumenta il disagio sociale si preoccupa unicamente dell'aumento delle
misure repressive, senza cioè più alcuna delle velleità "rieducative" a cui ci ha abituato la retorica penitenziaria bensì con il solo scopo di contenere e punire. 

Ma ben più grave è la crisi del sistema penale se la si confronta con
l'emergere di quella nuova figura di criminale che è il "collaboratore
di giustizia": "Questo esemplare di nuovo delinquente è la miglior prova
del corto-circuito al quale è giunta la storia della giustizia penale, è l'eco della fine d'ogni presunta coerenza nel rapporto fra reato e pena fino al punto in cui è il sistema penale a creare, prima ancora che finisca in carcere!, un nuovo criminale assolutamente privo di scrupoli, premiato dalla legge quando sarà arrestato, stipendiato magari dallo Stato e presentato come cittadino-modello...".

Ormai è l'Inquisizione che parla, attraverso la reclusione non si
combatte più la delinquenza ma bensì le si dà forma e la si usa: "tutto
un pensiero, dal giudice al letterato, presenta un risultato - la criminalizzazione dell'individuo - come un dato di partenza: la criminalità".

Riprendendo l'idea di Bruno Bettelheim dello "stato di massa
hitleriano", l'anima del carcere è per Guagliardo la tortura, essendo il
carcere quel "... raffinato derivato della tortura per ottenere una
personalità spezzata; in concreto: una volontà annichilita che fornisce
la 'verità' voluta, ovvero la verità giudiziaria."

Pietro Fumarola, curatore del libro, ci restituisce nelle sue "Note" il peso del condizionamento "giudiziario" che grava sulla vita politica e
sociale del paese riproponendo alcune delle riflessioni più acute di 
L. Ferrajoli (Crisi della giurisdizione, 1984), a proposito dei guasti culturali ed istituzionali prodotti dalla "rottura emergenziale".  La perdita del senso della differenza tra normalità ed eccezionalità porterà in breve tempo a che numerose funzioni di polizia vengano assorbite dalla magistratura che viene legittimata ad utilizzare direttamente "mansioni e strumenti investigativi che eravamo abituati a vedere - e talora deplorare - nella polizia". 

Si arriva così a "trasformare la funzione giudiziaria in funzione poliziesca". Una trasformazione che ha lasciato un segno indelebile sino al punto che, come afferma Fumarola: "l'identificazione tra consenso alla giustizia penale e quello ai partiti politici è ormai in Italia quasi un dato
strutturale e la giustizia-spettacolo ne è l'articolazione più funzionale"; tanto che la stessa "seconda repubblica è nata d'altronde proprio con caratteristiche giudiziario-spettacolari e premiali".

La denuncia di Guagliardo quindi non si ferma di fronte alla soglia del
carcere, inserendosi in quel filone che con Il carcere in Italia di Salierno, Liberare tutti i dannati della terra di Lotta continua, L'evasione impossibile di S. Notarnicola, I duri di G. Naria ed altri, ci ha fatto conoscere dal di dentro la realtà estrema dell'ingiustizia ordinaria. Ergastolano, già categoria criminale per antonomasia, il prigioniero politico Guagliardo è il prototipo del "criminale assoluto", mafioso o terrorista, su cui l'attuale cultura giuridica nostrana ha costruito le sue fortune. 

Proprio per questo il suo urlo di dolore non è solo quello di una "nazione" ferita, affranta, vinta che accusa la società del crimine peggiore che si possa commettere: quello contro il genere umano. Il "popolo delle carceri", drappello invisibile di quell'esercito in rotta di uomini battuti da una "modernità" che li sospinge ai margini della dignità e del lecito, attraverso le parole di Guagliardo sottolinea i limiti di una concezione stravolta del diritto che ci costringe a fare i conti con i frutti avvelenati di una società malata di giustizialismo. 

La stessa "cultura della riforma" ne esce malconcia alla luce delle nuove forme di violenza e di arbitrio che vanno ogni volta inevitabilmente ad aggiungersi alle vecchie.  E' il caso della Gozzini; approvata nel 1986 come riforma della legge penitenziaria, fa perno su quella stessa premialità del trattamento introdotta nella cultura giuridica dallo stravolgimento emergenziale.

"Pene più alte, discrezionalità totale, aumento della sofferenza psichica legata sia alle umiliazioni da pretesa collaborazione che all'incertezza della pena, raddoppiamento del numero dei prigionieri 'classici' dopo l'invenzione delle pene alternative portate dalla Gozzini!: questo è il caso del sistema penale italiano, un caso di 'perversione positivista' che è arrivato alla pretesa di cambiare la classe dirigente italiana; un'illusione certo, ma che è servita tuttavia a diminuire le libertà... L'intero movimento abolizionista dovrebbe assumere come esempio il caso italiano per riflettere su se stesso, per capire più in profondità l'anima del sistema penale, le sue perversioni. 

Questa riflessione potrebbe aiutare a inventare una politica dell'abolizionismo che in Italia dovrebbe anzitutto ottenere,
all'interno dell'attuale sistema, pene europee, meno carcere invisibile
dentro e fuori i penitenziari, meno diritto penale".
 

la notizia di oggi

L'annuncio dell'Istituto Roslin dove il mammifero era stato clonato nel 1996. Da tempo l'animale soffriva per una malattia polmonare
Edimburgo, eutanasia
per la pecora Dolly
La sua creazione in laboratorio aveva rivoluzionato la scienza

il libro che vi consgiliamo di leggere :

SYLVIE COYAUD

Il diario dell'uomo che creò Dolly

La storia veritiera, e tutt'altro che trionfalistica, di uno dei più straordinari esperimenti biologici
Un libro scientifico che spesso smentisce i manuali

Ian Wilmut, Keith Campbell e Colin Tudge, "The Second Creation. The age of biological control, by the scientists who cloned Dolly", Headlines Press, Londra, Farrar, Strauss and Giroux, New York, pagg. 362, s.i.p.

La pecora Dolly ha 4 anni, 6 figli fatti all'antica e un paio di biografie, però The Creation resterà attuale e utile finché si discuterà della liceità di fare ricerca con cellule prelevate da embrioni. Il libro è scritto a volte da Wilmut e Campbell insieme, a volte un capitolo per uno, e Colin Tudge, uno scrittore di divulgazione, cuce il tutto con pezze descrittive e raccordi cronologici. Bill Richtie l'altro protagonista, non interviene ma è molto citato.
Prima è riassunta la carriera dei due ricercatori, genetica veterinaria senza lustro per Wilmut che, finiti i fondi per una ricerca, si ritrova a fare un tedioso screening di embrioni animali. Un girovagare da capellone per Campbell, tecnico di laboratorio nelle Yemen poi di nuovo in Inghilterra con borse effimere da un'università all'altra. Leggendo lavori altrui, gli viene l'idea di far tornare indietro nel tempo i geni nel nucleo di una cellula specializzata di mammifero, di renderle di nuovo capaci di sviluppa cellule per i diversi tessuti dell'organismo, quasi fossero ancora ai primissimi giorni della divisione all'interno della membrana dell'ovulo fecondato.
Poi c'è il lavoro di ingegneria genetica per ottenere pecore che nel latte producano farmaci (il pharming, una crasi di pharmaceutics e farming, allevamento) e una spiegazione dei procedimenti successivi per ottenere Dolly, con una clonazione solo genomica visto che le due cellule iniziali provengono da individui diversi. Un lavoro che riprende le pratiche e le idee dei predecessori sullo sviluppo delle cellule embrionali e dei metodi con i quali hanno tentato di verificare la teoria su vari tipi di animali Spemann e Roux, Briggs e King, e Gurdon che finalmente riesce a clonare delle rane.
Dolly è dovuta alla disperazione: non è clonare che interessa il Roslin Institute e l'azienda che in parte lo finanzia, la Ppl, è il pharming. Wilmut Campbell e gli altri devono spicciarsi. Sono a malapena tollerati, chissà se i soldi basteranno, e quindi tanto vale usare cellule di mammella adulta, invece che embrionali, costano meno e ce ne sono tante. La Ppl vuol depositare dei brevetti, i ricercatori non possono parlare di quello che stanno facendo davanti al distributore di bibite con i colleghi, questi si offendono, loro sono frustrati, e il clima si fa sempre più teso. La percentuale di fallimenti è enorme, ripetono con insistenza i due autori, smentendo "l'era del controllo biologico" nel sottotitolo del libro: più di trecento scarti per ogni embrione abbastanza vitale da essere impiantato; dai quaranta impiantati nell'utero delle pecore portatrici nasce solo Dolly. E' costata anni di fatiche e un miliardi e mezzo di lire e nel latte non produce nemmeno un farmaco vendibile. Poco prima che esca l'articolo su "Nature" quindi, la direzione della Ppl informa che non ci saranno altri fondi per riprovarci. I mass media, incantati dalla pecora pronta a sgambettare verso l'obiettivo per una manciata di crocchette, non vogliono sapere che è l'unica sopravvissuta di una serie di morti e di mostri. Dalla comunità scientifica, incredula e seccata dal battage, arrivano i sospetti quasi insultanti di Zirmer e Sgaramella, poi smentiti da due gruppi d'indagine indipendenti, su un punto che gli autori stessi segnalavano nell'articolo di "Nature".
Wilmut è vanitoso, dice, prende gusto a intervenire in pubblico, davanti alla cinepresa è affabile quanto Dolly. Campbell invece se la dà a gambe. Nella riflessione finale sugli sviluppi e sulle terapie che Dolly promette e sui loro aspetti etici, entrambi si dichiarano contrari all clonazione di esseri umani. Per i troppi cadaveri, per la troppa macelleria necessaria a una nascita, e perché deluderà le aspettative.
Colpisce che due ricercatori diventati famosi facciano un quadro negativo della ricerca biotech legata ai mercati finanziari. In una postilla, Colin Tudge allude al fatto che Campbell e Wilmut lavorano oggi in luoghi diversi ma su ricerche simili e sono rivali nella gara alla brevettazione, quindi non si parlano più. Ma colpisce ancora di più quanto poco si sa di certi meccanismi fondamentali. Quelli che si vanno scoprendo sorprenderanno parecchio i lettori. Per esempio, i veri cloni non si somigliano. Nell'inserto fotografico, oltre a Dolly in posa che ricorda Elisabetta II nei ritratti ufficiali, si vedono Tweed e Taffy, due dei quattro arieti ottenuti con Cellule fetali di uno stesso embrione creato in vitro, geneticamente identici.
Uno ha le corna che crescono in avanti ben staccate dal cranio, a manici di cesta, e l'altro, all'indietro e così strette al cranio da dargli un'aria impomatata da Rodolfo Valentino. Uno ha le zampe anteriori dritte e grassottelle e l'altro le ha storte e ossute. Su un muso c'è una macchia bianca e sull'altro no. Al Roslin dicono che sono diversi anche per carattere: Cedric e Cyril caricano i fotografi se usano il flash. Tweed e Taffy no. Non solo influisce sui geni l'"ambiente materno", diverso per ogni pecora portatrice, ma "come troppi biologi ignorano", scrive Campbell - prima che l'ovulo fecondato interagisca con l'ambiente materno, durante la divisione iniziale in 2, 4, 8 cellule, i geni sì rimescolano e sebbene dal processo i cromosomi escano interi e debitamente appaiati, non sono uguali. Perché, non si sa. Non si sa perché le cellule si diversifichino, che cosa ne smorzi almeno temporaneamente la totipotenza in pluripotenza o multipotenza - la capacità di replicarsi e insieme di modificarsi - o spenga certi geni per sempre. Non si sa come avvenga il fenomeno che ha fatto scattare la scintilla in Campbell. Nel tumore del fegato per esempio non proliferano soltanto cellule "impazzite" di fegato, si trova di tutto: cellule di unghia, capello, cartilagine. Il libro è pieno di informazioni simili che smentiscono i manuali. Se i biologi sanno così poco, è facile capire che facciano pressione sui governi per poter lavorare sulle cellule embrionali o staminali, per saggiarne la totipotenza, pluripotenza e multipotenza, non solo per sete di fama e di soldi, che qui sembrano avvelenare la vita di tutti.
Anche se la scrittura è modesta,
The Second Creation è eccezionale nella saggistica divulgativa attuale, cola smaliziata: trasuda autenticità. Riferisce quello che accade in laboratorio con la stessa schiettezza di Jim Watson nella Doppia elica (Garzanti). Ma è meno trionfale. Wilmut e Campbell devono fare i conti con l'industria e la finanza e non ci sono preparati, si sono formati nell'epoca in cui avere rapporti con il business era mal visto. Hanno nostalgia del distributore di bibite davanti al quale tutti si parlavano.