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DA - LA REPUBBLICA

Per il deputato di Forza Italia e gli altri imputati (tranne Verde)
accolte in sostanza le richieste della pubblica accusa
Imi-Sir, Previti condannato
a 11 anni di carcer
e
La sentenza accolta da un lungo applauso in un'aula gremita
Previti: "E' una persecuzione". Pisapia: Processo ineccepibile"

MILANO - Un lungo applauso, in aula, accoglie la sentenza del processo Imi-Sir. Nel quale sono stati condannati Cesare Previti e tutti gli altri imputati, tranne Filippo Verde. Il verdetto della quarta sezione penale del tribunale di Milano è arrivato dopo otto ore di camera di consiglio. Il deputato di Forza Italia è stato condannato a 11 anni di reclusione. Agli altri avvocati imputati, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora, sono state inflitte rispettivamente pene di undici anni e cinque anni e sei mesi. Verdetto di colpevolezza anche per i giudici Vittorio Metta e Renato Squillante, che hanno ricevuto rispettivamente condanne a tredici e otto anni e mezzo di carcere. Assolto invece l'ex giudice Filippo Verde, per il quale l'accusa aveva chiesto 10 anni di carcere.

Tutti gli imputati sono stati anche interdetti dai pubblici uffici e in particolare i tre avvocati anche dall'esercizio della professione per 5 anni. Sono stati disposti dalla Corte anche risarcimenti in milioni di euro. Secondo i giudici la Imi ha diritto ad un risarcimento di 516 milioni di euro, la Cir ad un risarcimento di 380 milioni di euro. In un comunicato, la società del gruppo De Benedetti ha espresso "profonda soddisfazione nel vedere confermata la tesi accusatoria secondo la quale il controllo del gruppo Mondadori, che nel 1990 era saldamente nelle mani della Cir, le fu sottratto a seguito di una sentenza che oggi viene riconosciuta frutto di corruzione".

Con l'eccezione di Verde, dunque sono state accolte le tesi e, in sostanza, le richieste di pena dell'accusa. Che aveva chiesto per Cesare Previti 13 anni di reclusione. Secondo il pm Ilda Boccassini, infatti, tutti gli imputati hanno concorso ad "aggiustare" a favore della Sir la controversia legale con l'Imi che nel 1992 aveva fruttato alla società di Nino Rovelli, ora deceduto. Il figlio di Rovelli, Felice, anch'egli imputato, è stato condannato a sei anni, quasi mille miliardi di risarcimento.

E' certo il ricorso in appello: "Da domani ricominciamo a combattere", dice uno dei difensori di Cesare Previti, Giorgio Perroni. Ma intanto finisce il primo atto di uno dei dibattimenti più tormentati della storia. Fino all'ultimo i legali di Cesare Previti hanno chiesto la sospensione del processo, che per tre anni hanno in tutti i modi provato a spostare da Milano. L'ultima stop era stato chiesto ancora questa mattina, ma era stato negato dal presidente Carfì. Quindi è iniziata la camera di Consiglio, che rimasta riunita fino a sera prima di tornare in aula e proclamare la colpevolezza degli imputati.

Il verdetto è stato letto in un'aula letteralmente intasata di persone: giornalisti, fotografi, cameramen, e avvocati un pò ovunque, che hanno occupato ogni spazio, comprese le gabbie destinati agli imputati detenuti. Cesare Previti ha invece atteso nel suo studio legale di Roma, in via Cicerone. Fuori, anche lì, si è andata via via formando una folla di giornalisti, cineoperatori e fotografi. Alla lettura della sentenza scoppia un lungo applauso. E si attendono i commenti a caldo. Non arriva quello della pm Boccassini ("No gazie, nessun commento"), è già pronto quello, durissimo, di Previti.

"Hanno portato a termine quello che si erano prefissi di fare - dice l'ex ministro - e l' unica cosa che sussiste è la persecuzione giudiziaria che oggi ha raggiunto il suo culmine". Previti ribadisce che a suo parere i magistrati "hanno commesso abusi e omissioni, hanno costruito in laboratorio un teste falso, che è stato smentito in ogni sua delirante affermazione, hanno occultato prove a mio favore, nascosto verbali a discarico, distrutto le prove delle loro manipolazioni". Intanto il suo avvocato, Alessandro Sammarco, confermando l'intenzione di ricorrere in appello, aggiunge: "Di fronte a una ingiustizia si ha il dovere morale di reagire perchè in Italia cose di queste genere non accadano più".

Soddisfazione invece del legale di parte civile, l'avvocato Giuliano Pisapia, che parla di "sentenza giusta e processo ineccepibile. I giudici hanno confermato non solo l'esattezza dell'impianto accusatorio ma anche la loro assoluta serenità di giudizio". Contento anche il legale dell'unico imputato assolto Filippo Verde, secondo il quale "si è trovato un giudice che ha fatto giustizia rispetto alle accuse".

(29 aprile 2003)

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DA - LA REPUBBLICA

Uno studio legale tra i più noti (e chiacchierati) di Roma
Le case, i soldi, le barche. E la fama di "falco"
"Cesarone" Previti
tra lusso e potere
di MARCO BRACCONI

A RENA', te stai a scorda' questa. "Questa" è una busta gialla piena di vecchie lire; "Rena'" è il giudice Renato Squillante, all'epoca capo dei Gip del Tribunale di Roma, sede giudiziaria allora conosciuta come "il porto delle nebbie". Chi porge la busta all'amico, è Cesare Previti, Cesarone per gli amici, potente e conosciuto avvocato, calabrese di nascita ma romano d'adozione e gran tifoso laziale. E chi racconta la scena è Stefania Ariosto, la teste Omega del filone "toghe sporche" di Mani Pulite, la quale afferma davanti ai magistrati di avere direttamente assistito all'episodio dopo una serata trascorsa, nel 1995, al Circolo Canottieri Lazio.

Secondo la teste, e secondo i pm che cinque anni dopo lo porteranno al processo, "Cesarone" Previti è tra quelli che hanno corrotto i giudici romani. Con loro gioca a calcetto, appunto al Circolo Canottieri. Alcuni sono gli stessi che nel 1988, sostiene il pool Mani Pulite, Previti portò a New York, a sue spese, a festeggiare Bettino Craxi "uomo dell'anno". Alle mogli di tutti, racconta la Ariosto, Cesarone fa sontuosi regali. Ora comunque - è l'accusa che lo ha portato alla condanna di oggi - la vera partita da giocare con loro è quella dell'aggiustamento delle sentenze: la vendita della Sme, dell'Imi, della Mondadori.

Lo studio legale Previti, via Cicerone, quartiere Prati, è uno dei più noti e importanti della capitale ma anche uno dei più chiacchierati. Lui, al massimo si autoaccusa di evasione fiscale. Non punibile, perché condonata. E fa intendere che con i suoi soldi, in fondo, ci fa quello che gli pare. Per il resto - così dice in aula al processo Imi-Sir - non c'è prova che abbia corrotto qualcuno. Ma i giudici dicono che invece le prove ci sono.

E infatti la quarta sezione penale del Tribunale di Milano lo condanna a undici anni di carcere. E a un risarcimento da far tremare i polsi. Anche i suoi. Nell'ennesima richiesta di ricusazione, la penultima di una infinita serie, il ricco e potente avvocato Previti avverte: una sentenza di condanna può portare danni irreparabili alla mia immagine e anche al mio patrimonio. Che è di tutto rispetto.

Case, ville, barche. Le ricchezze di Previti sono molte e spesso esibite. Nella sfarzosa casa romana - si favoleggia - ha trasformato lo scantinato in una vasca per aragoste, che offre durante le cene in cui si pasteggia solo champagne, rigorosamente di marca Taittinger. Sul suo grande veliero, anni fa, si fa fotografare assieme agli amici: Berlusconi, per esempio, ma a quei tempi anche Dotti e la Ariosto. La foto, memorabile, fa il giro d'Italia. Segna il definitivo addio alle grisaglie democristiane. La seconda Repubblica veleggia sul Barbarossa, e i nuovi potenti indossano tutti la stessa maglietta a strisce orizzontali.

E hanno tanti soldi. Nel caso di Previti i magistrati dicono di averli trovati in Svizzera. E alle Bahamas. Normale frutto della mia attività di avvocato, spiega lui. Non tanto normale, secondo i giudici. "Processano la mia faccia, il mio modo di vivere", si arrabbia Cesarone ancora alla vigilia della sentenza, e chi lo difende, compreso l'attuale premier, conferma che è vittima di un pregiudizio lombrosiano. Insomma, che ha una faccia un po' così, e per colpa di questa faccia lo condannano. E' la "grave inimicizia", sommata alla teoria del complotto, di cui parlano i suoi avvocati nelle innumerevoli istanze con cui provano a far spostare da Milano il processo Imi-Sir.

Lombroso o no, Cesarone Previti la sua aria da falco non fa nulla per smentirla. Ai tempi d'oro della sua carriera politica, quando era ancora uno dei big di Forza Italia, annunciava "non faremo prigionieri". Era il 1996. Ma vincerà Prodi. Quattro anni dopo, in una intervista alla Stampa che si affretterà subito dopo a smentire, ripeterà: "Dopo le politiche facciamo piazza pulita".

Al Foglio, qualche mese fa, ha rivelato che è tutta una montatura. Non le inchieste, né i processi, ma la sua fama di "cattivo". Però Scalfaro, quando Gianni Letta gli presenta la lista dei ministri (sono i tempi del Berlusconi I), non ne vuole sapere di vederlo giurare da Guardasigilli. Allora Cesarone viene dirottato alla Difesa. E in una delle prime interviste ricorda che lui, il militare, lo ha fatto.

Quel governo dura pochi mesi. Per il Polo inizia la traversata nel deserto. Tocca a Dini, poi a Prodi. Quando Berlusconi torna a Palazzo Chigi, in tanti risorgono. Non lui. Che è stato capo di Forza Italia, senatore e ministro, ma col tempo finisce per diventare, più semplicemente, l'"imputato" Previti. Resta onorevole. La Camera se lo ricorderà nel 2000, quando respingerà la richiesta di arresto nei suoi confronti. Ma è ancora ricco e potente, tanto potente - dice l'ex ministro Filippo Mancuso, che lo detesta - da poter "ricattare" Silvio Berlusconi. Chissà se è vero.

Di certo però l'onorevole Previti non è propriamente un "ex" potente. Anzi. Proprio Mancuso ne ha saputo qualcosa, solo un anno fa, quando ha visto che gli soffiavano da sotto il naso il posto alla Consulta che il Cavaliere gli aveva promesso. All'alta Corte è andato a finire un avvocato di casa in via Cicerone. Un amico di Cesarone. Per un perseguitato, come si definisce Cesare Previti da Reggio Calabria, classe 1934, non c'è male.

(29 aprile 2003)

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DA - LA REPUBBLICA

SCHEDA
Imi-Sir le condanne
per gli imputati

CON la condanna di tutti gli imputati (tranne l'ex giudice Filippo Verde, assolto) si chiude il processo di primo grado Imi-Sir/Lodo Mondandori. Queste le decisioni prese dai giudici della quarta sezione penale del Tribunale di Milano.

Gli avvocati imputati: con la sentenza di colpevolezza seguita all'accusa di "concorso in corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio in atti giudiziari", Cesare Previti è stato condannato a 11 anni di carcere. Per lui è stata anche decisa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dalla professione di avvocato per 5 anni. Così anche per gli altri due avvocati messi sotto processo per le stesse accuse, Attilio Pacifico, condannato a 8 anni e sei mesi, e Giovanni Acampora, al quale è stata inflitta una pena di 5 anni e sei mesi.

I giudici imputati: la quarta sezione penale ha inflitto la condanna più pesante (13 anni) a Vittorio Metta, che nel 1991 in Corte d'Appello emise la sentenza con la quale fu annullato il lodo arbitrale dell'anno precedente che aveva stabilito il passaggio di Segrate a De Benedetti. Secondo i giudici, dunque, quella sentenza fu "aggiustata" come ha sostenuto l'accusa nel processo. Renato Squillante, ex capo dei Gip di Roma, che secondo la testimonianza di Stefania Ariosto ha incassato denaro da Previti, è stato condannato invece a 8 anni e sei mesi. Tutti, anche in questo caso sono stati dichiarati interdetti dai pubblici uffici.

I Rovelli. Felice Rovelli, è stata condannato a 5 anni e 6 mesi. Suo padre Nino aveva avviato la causa all'Imi che fruttò (quando già era scomparso) 972 miliardi di vecchie lire alla Sir. Secondo il processo di primo grado che si è concluso oggi, quella sentenza fu il frutto di una corruzione. Il tribunale di Milano ha condannato anche la vedova di Nino e madre di Felice, Primarosa Battistella: 4 anni e sei mesi.

I risarcimenti. I giudici hanno condannato gli imputati a risarcire, in solido, 516 milioni di euro all'Imi e 380 milioni di euro alla Cir. 1 milione e 290 mila euro andranno invece risarciti alla presidenza del Consiglio.

(29 aprile 2003)

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DA - LA REPUBBLICA

Il presidente del Consiglio dopo la condanna dell'avvocato
"Risolvere il problema dei magistrati politicizzati"
Berlusconi difende Previti
"Persecuzione giudiziaria"
L'opposizione: "Nessuno strumentalizzi la sentenza"

ROMA - Di "persecuzione giudiziaria" parla Cesare Previti, di "persecuzione giudiziaria" parla Silvio Berlusconi. Pssano pochi minuti dalla lettura della sentenza di condanna a 11 dell'avvocato romano e il terremoto arriva fino nei più alti centri di potere. Dopo le parole di Previti tocca al portavoce di Forza Italia Sandro Bondi parlare di "brutto giorno per la giustizia italiana". Poi parla il presidente del Consiglio. E le sue parole sono macigni: "La politicizzazione di certa magistratura, volta a condizionare la nostra vita politica, è un problema che dovrà essere risolto per il bene del paese, delle sue istituzione, dei cittadini italiani".

In una nota Berlusconi ribadisce che "già prima di questa sentenza la persecuzione politico-giudiziaria nei confronti dell'onorevole Previti era stata certificata da un voto del precedente Parlamento, a maggioranza di sinistra. La condanna odierna non fa che confermare questa persecuzione già resa evidente dalle vicende dell'inchiesta, delle indagini preliminari e dell'intero processo". E conclude: "All'onorevole Previti va la solidarietà mia personale e di Forza Italia".

Gli azzurri dunque si stringono intorno a Previti. Non cambia la linea del partito: difesa a oltranza dell'imputato e attacco frontale ai giudici. Come ribadisce anche l'altro esponente forzista Gaetano Pecorella, presidente della commissione Giustizia della Camera e legale di Berlusconi: "Undici anni per un'ipotesi di corruzione è una pena che non credo sia stata mai inflitta nella storia della giustizia italiana. La misura della pena inflitta a Previti è il segno di quanto questo processo sia fuori dal comune, fuori dalla storia...".

Più pacati i commenti degli alleati di governo. "Sentenza del tutto annunciata. Attenderei con tranquillità l'appello", dice il presidente dei senatori dell'Udc Francesco D'Onofrio. "Questa sentenza era scritta negli astri. Non c'è nessuna sorpresa. D'altronde, nessun bookmaker avrebbe mai accettato una scommessa a favore della condanna, essendo il risultato di oggi assolutamente scontato", ribadisce Ignazio La Russa, capogruppo di An alla Camera.

Fair play e cautela politica dall'opposizione. Il responsabile della giustizia della Margherita Giuseppe Fanfani invita "tutti i politici a non strumentalizzare in alcun modo la decisione e ad averne rispetto nella distanza dei ruoli e del potere dello Stato". "Non commentiamo la sentenza. Il cittadino Previti, come qualunque altro imputato, potrà ricorrere contro la sentenza di primo grado. Noi non abbiamo mai confuso responsabilità penali e responsabilità politiche - dice la responsabile Giustizia dei Ds Anna Finocchiaro - sotto il profilo politico il nostro giudizio sull'onorevole Previti è molto severo. Riteniamo i sui comportamenti assolutamente incompatibili con il ruolo istituzionale che ricopre".

"Rispetto, con una formula di rito che è propria di un sistema di garanzie democratiche come il nostro, la sentenza, di primo grado e quindi non definitiva, che è stata emessa", dice il presidente dello Sdi Enrico Boselli. "Con questa sentenza - precisa il leader socialista - non c'è nessuna festa da celebrare da parte dell'opposizione. Non abbiamo mai neppure preso in considerazione che vi possa essere una scorciatoia giudiziaria per sconfiggere l'attuale governo, ma ci siamo sempre attestati nel difendere l'autonomia dei giudici e lo scrupoloso rispetto delle garanzie del cittadino". "Non è però - aggiunge Boselli - neppure il giorno del martirio di una vittima predestinata su cui la maggioranza e il governo possano imbastire una ulteriore campagna di delegittimazione della giustizia italiana".

(29 aprile 2003)

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DA - L'UNITA'

Cesare Previti condannato a undici anni di reclusione
di Susanna Ripamonti

Martedì alle 23, dopo nove ore di camera di consiglio, i giudici del processo Imi-Sir/Lodo Mondadori hanno deciso: 11 anni di reclusione per l’imputato numero uno, Cesare Previti. La Pm Ilda Boccassini ne aveva richiesti 13.

Tutti condannati, per corruzione giudiziaria anche gli altri imputati, ad eccezione del giudice Filippo Verde, prosciolto. Undici anni all’avvocato Attilio Pacifico, otto anni e mezzo all’ex gip Renato Squillante, 13 anni, la pena più grave, per l’ex giudice Metta, 5 anni e 6 mesi all'avvocato Giovanni Acampora (già condannato a 6 anni per il Imi-Sir e qui imputato solo per Lodo Mondadori) 6 anni per Felice Rovelli mentre la madre, Primarosa Battistella è stata condannata a 4 anni e 6 mesi. Ma la sentenza ha anche toccato il portafoglio degli imputati, condannandoli a risarcire le parti lese, Imi (516 milioni di euro) e Cir (380 milioni di euro) pur esonerandoli dal pagamento di una provvisionale, ovvero di un anticipo sui risarcimenti dovuti. Ha anche condannato Acampora, Pacifico, Previti, Squillante e Metta all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Acampora, Pacifico, Previti, Squillante e Metta legalmente interdetti durante l'espiazione della pena. Battistella, Rovelli, Previti, Pacifico e Acampora incapaci di contrastare con la pubblica amministrazione per una durata pari alla pena inflitta. Pacifico, Previti e Acampora interdetti dall'esercizio della professione di avvocato per la durata di anni 5.

Un bel guaio se la sentenza passasse in giudicato: Previti sarebbe costretto a fare il pensionato non potendo più esercitare, per un congruo periodo, nè la professione legale nè quella di parlamentare.

Un lungo applauso ha accolto la sentenza nell’aula gremita come mai era capitato in questi tre anni, quando al massimo, tra il pubblico, si vedevano tre o quattro pensionati e la famosa signora col pinocchietto in braccio, citata nell’istanza di rimessione del processo, quella in cui, grazie alla legge Cirami si sperava di ottenere il trasferimento a Brescia, come un pericolo per la serenità e l’imparzialità dei giudici. Quasi che la magistratura milanese fosse composta da conclamati psicolabili. Ieri invece c’erano facce da girotondi e girandole, giovani, donne, che hanno occupato ogni spazio, comprese le gabbie destinate agli imputati detenuti.

Ilda Boccassini nella sua requisitoria aveva concesso attenuanti solo ai Rovelli: il tribunale ha appena limato le sue richieste ma ha rispettato la sua suddivisione dei dosaggi di pena. L’unica clamorosa sorpresa, l’assoluzione di Verde, per il quale la pm aveva chiesto 10 anni. Secondo l’accusa, nella vicenda Imi-Sir, Previti, Acampora e Pacifico si spartirono una tangente di 67 miliardi pagata dai Rovelli. Molto più modesto il giro di quattrini accertato attorno alla vicenda Lodo Mondadori: poco più di 3 miliardi partiti dal conto All Iberian della Fininvest e arrivati (400 milioni) al giudice Metta, dopo essere passati sui conti di Previti, Acampora e Pacifico. Deboli le prove a carico di Verde, che non hanno retto al vaglio dei giudici.

Il processo infinito è giunto così al termine, quando ormai sembrava impossibile che i giudici potessero ritirarsi in camera di consiglio ed emettere una sentenza. Ancora ieri, ottantottesima udienza in 35 mesi di dibattimento, ci si chiedeva: quale altro cavillo troveranno, a quale appiglio si aggrapperanno questa volta? Nelle ultime settimane il processo aveva toccato il suo punto più basso e Previti l’aveva trasformato in una specie di film d’avventura in cui, solo contro tutti, aveva deciso di sfidare i giudici con tutta la forza che può avere l’arroganza del potere. Per quattro volte il presidente Carfì aveva convocato l’udienza finale, ordine del giorno: la camera di consiglio per la deliberazione del tribunale.

E per quattro volte aveva dovuto constatare che l’imputato principale aveva ricusato l’intero collegio, che mancava il via libera della Corte d’Appello, che di nuovo era stato ricusato: per l’ottava volta nell’arco di questi tre anni. Proprio come nei film di Indiana Jones, solo che Previti e i suoi avvocati non hanno il fascino di Harrison Ford o di Sean Connery. All’ultimo momento, quando lame rotanti e pareti semoventi non lasciano più scampo, zac, avviene il miracolo o la beffa, o l’inganno: un bottone magico apre una botola, uno spiraglio e la fuga continua. Una fuga di cui forse, neppure i protagonisti capivano più il senso: Previti fino all’ultimo ha fatto appello al Parlamento perchè per legge lo liberasse dai suoi guai giudiziari. Ma alla fine deve aver capito che non ci sarebbe stata un’altra legge salva-corrotti alla vigilia delle elezioni e suo malgrado si è arreso.

Martedì, uno dei suoi avvocati, Alessandro Sammarco, ha provato ancora ad azionare il tasto magico, nella speranza di poter bloccare per l’ennesima volta la sentenza, ma ha toccato il bottone sbagliato. Ore 15,05 l’udienza si è aperta col consueto appello: avvocati tutti presenti, imputati tutti assenti. Il presidente annuncia che la Corte d’Appello ha respinto l’ultima ricusazione e anche l’ultima richiesta di nullità. Chiede alle difese se ci sono altre istanze e Sammarco, facendo riferimento a un provvedimento della Cassazione, chiede che la sentenza sia rinviata fino a quando la Suprema Corte non si sarà espressa sul loro ricorso contro l’inammissibilità dell’ultima ricusazione, l’ottava. Carfì lo interrompe: «Avvocato, si riferisce alla sentenza Vitalone?». Risposta: «No, il presidente era Malinconici». Carfì: «E il relatore e l’estensore della sentenza era Vitalone, la conosciamo avvocato».

E in effetti c’è un unico pronunciamento della Cassazione, contro parecchi altri che vanno in senso opposto, che da ragione ai legali di Previti. È appunto quella scritta da Claudio Vitalone, il magistrato romano recentemente reintegrato nelle sue funzioni, dopo essere stato prosciolto nel processo per l’omicidio Pecorelli. Carfì decide di seguire la giurisprudenza maggioritaria e conclude: «Ai sensi dell’articolo 526 comma 1 dispone procedersi....».

Una decisione non semplice quella di Carfì: il presidente si è comunque assunto la responsabilità di uno strappo. Ha scelto la strada di una giustizia sostanziale: se Previti fosse riuscito nel suo intento, se a furia di ricusazioni e cavilli procedurali fosse riuscito a evitare la sentenza, quanti imputati facoltosi, magari coinvolti in processi di mafia potrebbero scegliere la stessa via? E quante persone che hanno subito torti e che attendono giustizia dovrebbero rassegnarsi alla legge del più forte?

Carfì prima di ritirarsi in Camera di Consiglio avverte: la sentenza potrebbe esserci tra mezzora come fra tre ore o parecchie di più. Gli avvocati nei corridoi commentano: «È una sentenza già scritta, stiamo già preparando il ricorso. Volendo potrebbero emetterla in mezzora». Ma Carfì si fa attendere e il collegio ci mette più di sette ore per decidere di condannare Previti e i suoi sodali.

Inizia la lunga attesa, nell’aula ex centrale civile, prestata per un giorno alla quarta penale: i soliti pensionati, età media sessant’anni attendono sonnacchiosi il giudizio finale. A metà pomeriggio arriva Antonio Di Pietro che non resiste alla tentazione di tornare sul luogo del delitto. Fotografi e cameramen sono tutti per lui in assenza di altri vip e lui si concede generosamente in esternazioni a getto continuo. In sintesi: «Come cittadino e come parlamentare oggi sono qui per assistere a un atto di giustizia. Anche io vorrei sapere tutto ciò che è successo, se ci sono giudici corrotti e che ruolo ha avuto l'uomo che oggi è presidente del consiglio». (Piccola imprecisione: Berlusconi non è imputato in questo processo: non è mai stato coinvolto nella vicenda Imi Sir ed è stato prosciolto per prescrizione nel processo per il Lodo Mondadori).

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DA - L'UNITA'

Vendute e comprate, la lunga storia delle sentenze Imi-Sir
di Marco Travaglio

Un foglietto con gli estremi di un bonifico bancario: 240 milioni girati nel 1994 da Felice Rovelli all'avvocato romano Attilio Pacifico, braccio destro di Cesare Previti. Il giallo dell'Imi-Sir parte di lì, da quel bigliettino rinvenuto quasi per caso dagli agenti del Servizio centrale operativo della polizia, il 12 marzo 1996, nell'ufficio di Pacifico appena arrestato. O meglio: riparte di lì, perchè era cominciato 15 anni prima. Nei primi anni ‘80, quando Nino Rovelli - petroliere andreottiano, quello degli «assegni del Presidente» di cui parlò Mino Pecorelli poco prima di morire ammazzato - fece bancarotta con il suo impero, la Sir. E se la prese con l'Imi, la banca pubblica che a suo dire l'aveva mandato in rovina promettendogli finanziamenti e poi negandogli. Iniziò così una lunga e tortuosa partita giudiziaria che si sarebbe conclusa provvisoriamente nel 1994 per riaprirsi nel 1996, grazie a quel bigliettino. Una via crucis dalle infinite stazioni ricostruita, quasi minuto per minuto, da Ilda Boccassini in base ai documenti e alle deposizioni processuali.

Primo grado. La prima sentenza l’emette il tribunale civile di Roma, nel 1986, e dà ragione alla Sir: l'Imi le deve un risarcimento, da quantificare separatamente. Presiede il collegio il giudice Filippo Verde, amico di Previti e socio di Pacifico, che gli regala telefonini, gli mette a disposizione una stanza d'albergo per le trasferte al tavolo verde, e soprattutto gli gestisce un conto in Svizzera (Master 811) dove ogni tanto versa qualche centinaio di milioni. Giudici a latere, Aida Campolongo, fedelissima di Verde; Paolo Zucchini, iscritto alla loggia P2, titolare di un conto a Montecarlo dove risulta almeno un versamento di Pacifico per 200 milioni (slegati però dalle cause). Del risarcimento si occupa nel 1989 un altro collegio, presieduto da un giudice al di sopra di ogni sospetto: Carlo Minniti. Studia le carte, ne conclude che i colleghi hanno sbagliato: medita di ribaltare il primo verdetto, intanto disporrà una perizia per vederci più chiaro. Alla vigilia dell'udienza decisiva, il 4 aprile, lo convoca il presidente della Corte d'appello, Carlo Sammarco, per sondare le sue intenzioni. Strana curiosità, visto che non è lui il capo di Minniti. Ma questi, ingenuamente, gli confida quel che farà. Il 4 aprile mattina tutto è pronto per l'udienza, senonchè il presidente Minniti riceve una telefonata dal ministero della Giustizia. Lo vogliono subito lì per una riunione, urgente e improrogabile, sull'edilizia carceraria, e da Via Arenula non sentono ragioni. Deve andare. Si fa sostituire da una collega, pregandola di prendere tempo in attesa del suo ritorno. La riunione ministeriale si rivela poi una bufala: dura un'oretta, non viene verbalizzata: aria fritta. Minniti si precipita in tribunale, e qui scopre che la collega non solo non ha rinviato, ma ha chiuso l'udienza sentenziando sul risarcimento: 670 miliardi, denaro pubblico. Chi è la collega sostituta che ha firmato l'incredibile sentenza? La Campolongo, fedelissima di Verde. E chi è il funzionario che ha convocato Minniti al ministero, per quella riunione-fantasma? Filippo Verde, nel frattempo promosso capo di gabinetto del ministro Giuliano Vassalli.

Il primo ricorso dell’Imi
Secondo grado. L'Imi ricorre in appello e in Cassazione, e questa le dà ragione, annullando la prima sentenza Verde con toni piuttosto categorici. Ma nel novembre 1990 la Corte d'appello di Roma, ignorando la Cassazione, torna a dare ragione alla Sir: 1000 miliardi alla Sir. Chi scrive la sentenza? Il giudice Vittorio Metta, amico di Acampora, autore della sentenza che annullava il lodo Mondadori (consegnando la casa editrice a Berlusconi), che di lì a poco andrà in pensione e subito otterrà una consulenza da 100 milioni all'anno come avvocato nello studio di un altro amico: Cesare Previti.

Terzo grado. L'Imi ricorre in Cassazione. E qui accade di tutto. Gli avvocati della Sir, pur possedendo tutte le carte della causa, chiedono alla cancelleria del Palazzaccio copia di ogni foglio. Migliaia e migliaia di pagine. Poi presentano una strana richiesta: controllare se, dal fascicolo, non sia per caso scomparsa la «procura speciale ad litem» della controparte. Cioè quel foglietto che gli avvocati allegano ai ricorsi, con la delega rilasciata dal cliente per rappresentarlo in giudizio. I giudici controllano così, pro forma, e invece scoprono che quegli avvocati hanno doti divinatorie: la procura è sparita. Partita chiusa, sostiene la Sir: niente procura, niente ricorso Imi. Definitiva la sentenza d'appello, quella firmata da Metta, con relativo risarcimento. L'Imi presenta due denunce per la sottrazione del documento, entrambe vengono archiviate dall'ufficio Gip, diretto da Renato Squillante (che per la prima denuncia si batte per un'archiviazione «per insussistenza del fatto», e non solo perchè ne erano rimasti ignoti gli autori). In Cassazione si tenta di salvare il salvabile. L'udienza davanti alla I sezione civile è fissata per il 29 gennaio 1992. Il presidente, Giancarlo Montanari Visco, è un giudice all'antica, tutto d'un pezzo: viene subito eliminato con una lettera anonima, che lo accusa falsamente di frequentare amici dei Rovelli. Si astiene e nomina un collega altrettanto perbene: Giuseppe Scanzano. Il quale manda gli atti alla Consulta, sollevando eccezione di incostituzionalità sulla norma che vieta di esaminare i ricorsi sprovvisti di procura ad litem; siamo nel febbraio del '90. In novembre, la Corte costituzionale risponde picche: niente procura, niente ricorso. Chi firma la sentenza che chiude la partita a favore dei Rovelli? Il giudice costituzionale Antonio Baldassarre, altro amico di Previti. La palla torna dunque alla Cassazione, dove un terzo presidente, Mario Corda, tenta un'ultima carta: modificare la giurisprudenza in punta di diritto e tentare di esaminare ugualmente il ricorso dell'Imi. Studia il fascicolo nei dettagli, e prepara per gli altri quattro giudici del collegio un appunto manoscritto. L'appunto, segretissimo, viene fotocopiato in quattro esemplari e recapitato in buste sigillate nelle caselle postali dei colleghi. Qualcuno, però, lo passa all'esterno: al solito corvo, che torna a farsi vivo con un altro anonimo, che infatti scrive subito a Corda e al primo presidente della Cassazione per avvertirli di possedere una copia del manoscritto. Corda potrebbe essere accusato di aver anticipato la sua decisione, e venire ricusato. Ma ormai la puzza di complotto intorno al caso Imi-Sir è tale che il presidente tiene duro, e prospetta al primo presidente una soluzione: scriverà una lettera di dimissioni, che il capo gli respingerà. Il capo dice di procedere. Poi, anzichè respingere le sue dimissioni, le accoglie. Chi è il primo presidente? Antonio Brancaccio, altro buon amico di Previti.

Il debito di Rovelli
Così «salta» anche il quarto presidente. Minniti, Montanari Visco, Scanzano e ora Corda. Il sostituto, Vincenzo Salafia, decide di finirla lì, dichiara improcedibile il ricorso dell'Imi e il 27 maggio 1993 la condanna definitivamente a pagare 1000 miliardi alla Sir. Quattro giorni dopo, il 31 maggio, l'anonimo corvo recapita ai giudici, impegnati nella motivazione della sentenza, la procura speciale dell'Imi in originale, ma priva del margine sinistro e del lembo superiore (dove di solito si appongono i timbri di deposito). Il collegio si divide: due sono per riaprire il caso, due per lasciare le cose come stanno. Il presidente si schiera con i secondi: è troppo tardi. Al processo di Milano, emergerà che Corda, se fosse rimasto al suo posto, si sarebbe schierato con i primi e il ricorso dell'Imi sarebbe stato accolto.

La miniera d'oro. Il 13 gennaio '94 l'Imi liquida i 1000 miliardi alla Sir. Rovelli non c'è più: è morto il 31 dicembre 1990. Ma poco prima di spirare ha lasciato detto al figlio Felice e alla moglie Primarosa Battistella di saldare un mega-debito che ha contratto con Pacifico. Dopo il funerale, i due contattano lo sconosciuto avvocato. Da lui apprendono che anche altri due colleghi «avanzano» del denaro dal defunto: Previti 21 miliardi, Acampora 13 e lui, Pacifico, 33. Totale: 67 miliardi. Prove? Documenti scritti? Fatture? Nemmeno l'ombra. Tutto sulla parola. Ma gli eredi Rovelli pagano senza batter ciglio. Non subito: solo nel 1994, appena incassato il mega-risarcimento Imi (di cui quei 67 miliardi sono esattamente il 10%). Eppure i tre avvocati in quella causa non pare abbiano fatto nulla: i legali dell'Imi sono i professori Mario Are e Michele Giorgianni, anche loro pagati estero su estero (esentasse), ma molto meno dei tre «nullafacenti». «Abbiamo trovato i piccioli, un fiume di denaro, una miniera d'oro», dirà Ilda Boccassini nella requisitoria.

L'accusa. Secondo il pm, quei 67 miliardi erano il prezzo della corruzione, per almeno due sentenze comprate (la prima di primo grado e quella d'appello), per la «sparizione» del giudice Minniti dal Tribunale e della procura speciale in Cassazione. Anche perchè dai tabulati telefonici risultano telefonate fra Previti, Pacifico, gli eredi Rovelli e il giudice Squillante (che avrebbe dovuto occuparsi solo di penale, non di cause civili) nel biennio più caldo del caso Imi-Sir. E varie prove di un loro attivo e informale interessamento all'affare. Pacifico chiama un cancelliere per conoscere in diretta la composizione dei collegi e le loro variazioni (il cancelliere sarà premiato con qualche biglietto omaggio per la «Corrida» negli studi di Canale5). Squillante contatta l'avvocato Francesco Berlinguer per farlo incontrare con Felice Rovelli. Questi, poi, lo vede un paio di volte e gli offre 500 milioni in cambio di una missione segretissima: dovrà avvicinare una giudice del collegio di Cassazione, sardo come lui, e farsi anticipare il giudizio. Nello stesso periodo, Berlinguer parla spesso con lo studio Previti.

Una pioggia di denaro
Poi ci sono i passaggi di denaro. Oltre ai 67 miliardi, passati dai conti svizzeri dei Rovelli a quelli di Previti, Pacifico e Acampora, ci sono i quattrini per i giudici. Anzitutto Verde: fin dal 1991, a causa in corso, Pacifico gli apre il conto Master 811 e gli versa 500 milioni provenienti da una provvista di 1.8 miliardi giratagli da Previti; nel '94, mentre i Rovelli pagano i tre avvocati, Verde riceve altri 280 milioni. Quanto a Squillante riceve da Pacifico 133 milioni nel 1991; aveva addirittura uno dei suoi conti esteri (intestato alla Iberica Development) presso la Banca commerciale di Lugano, di cui è azionista la famiglia Rovelli: lì, sempre nel '94, riceve bonifici o contanti per 920 milioni.

Le difese. Previti, a proposito dei suoi 21 miliardi, parla inizialmente di «parcelle di una vita». Poi, interrogato dal pool nel 1997, cambia versione: «Quei soldi non erano per me, erano un mandato di pagamento che mi aveva affidato Rovelli: io trattenni soltanto 2 miliardi e girai gli altri 19 a professionisti di cui non posso fare il nome. Ma non sono magistrati nè pubblici ufficiali». Dalle rogatorie, però, risulta che i professionisti non esistono: anche quei 19 miliardi Previti li girò a se stesso, dalla Svizzera alla Bahamas. «Parlai di mandato di pagamento perchè temevo che il fisco si scatenasse nei miei confronti con effetti rovinosi», si difenderà in aula. Infatti su quei 21 miliardi, incassati estero su estero proprio nel '94, mentre giurava fedeltà alla Repubblica come ministro della Difesa (Berlusconi lo voleva alla Giustizia, ma Scalfaro sventò almeno quella minaccia), non aveva pagato una lira di tasse. Così ritornerà alla versione «vecchia parcella»: 3 miliardi promessi da Rovelli negli anni ‘70 in cambio di imprecisati servigi e consulenze e poi, con l'andar del tempo e degli interessi, lievitati fino a quella cifra iperbolica. E le telefonate con Squillante e Pacifico nel pomeriggio del 29 gennaio '92, giorno decisivo della causa Imi-Sir in Cassazione? «Erano per organizzare una partita di calcetto al circolo Canottieri Lazio».

Anche Pacifico accenna a un'antica parcella per imprecisate «consulenze valutarie» a Rovelli, quadruplicata da una indovinata speculazione sull'oro. Niente di scritto che dimostri che sia vero: tutto sulla parola. A parte una scrittura privata, affidata - anzichè a un notaio - al portiere di un hotel di Montecarlo. E andata dunque disgraziatamente perduta. Altro mistero: come dimostrano i suoi numerosi conti, Pacifico era un investitore pignolo e oculato. Ma una sola volta in vita sua divenne improvvisamente sprecone: dopo il versamento dei Rovelli, nel '94. Invece di far fruttare subito quei 33 miliardi con rendimento del 4%, li chiuse in cassaforte lasciandoli dormire senza guadagnarci una lira per sei mesi, una perdita secca di 600 milioni. Poi, all'improvviso, ricominciò a investire oculatamente tutti i quattrini che gli capitò di versare di lì in poi. Perchè quei 180 giorni di «parcheggio» autolesionistico, e proprio per la provvista Rovelli? Perchè - risponde l'accusa - quei soldi non erano tutti per lui: una parte la doveva spartire con i giudici corrotti.

I giudici Metta, Squillante e Verde negano di aver mai compravenduto sentenze. Squillante spiega i 9 miliardi che teneva in Svizzera con la straordinaria propensione al risparmio della sua famiglia. E i soldi avuti da Pacifico durante la causa Imi-Sir? Frutto di affari e investimenti in comune, di «compensazioni» di contante che Pacifico gli portava in Italia, ricevendo il corrispettivo via bonifico in Svizzera.

E i soldi da Pacifico a Verde? I 280 milioni del '94, spiegano concordi, erano la restituzione di un prestito che il giudice aveva concesso all'amico avvocato per saldare un improvviso debito di gioco al casinò di Montecarlo. Pacifico aveva il conto in rosso, e non sapeva dove attingere. Appena risalì, restituì. Strano: perchè nello stesso periodo anche Verde era in rosso, anzi ancora più in rosso di Pacifico. Tant'è che dovette operare in «scoperto di conto». Perchè non fece altrettanto Pacifico, in una situazione analoga?

Prima condanna, il 20 luglio 20001
Giustizia parallela. La risposta più probabile a questo groviglio di interrogativi è quella scritta il 20 luglio 2001 dal Tribunale di Milano, che ha condannato l'avvocato Giovanni Acampora a 6 anni di reclusione e a versare 1000 miliardi di provvisionale alla parte civile Imi, per corruzione in atti giudiziari. Nella motivazione, scritta dal giudice Marco Tremolada, si evidenziano «le plurime anomalie della sentenza Metta», e la straordinaria coincidenza di quei 67 miliardi che rappresentano il 10%: che non è un caso ma «il compenso dell'intermediazione per l'attività di corruzione prestata» da «tre avvocati che non hanno saputo giustificare il compenso, non avendo svolto alcun incarico lecito nella causa stessa o altro incarico in qualche modo documentato.... Gli intensi e anomali rapporti di questi tre avvocati, tra loro e con giudici e altri pubblici ufficiali che hanno partecipato alla vicenda processuale, rappresentano un ulteriore fortissimo indizio dell'attività di corruzione prestata, soprattutto se si tiene conto che questi giudici hanno ingentissimi patrimoni all'estero che non hanno saputo giustificare in modo esauriente e completo... Gli accertati episodi di condizionamento della causa a favore di Rovelli (ivi comprese le reiterate sostituzioni di giudici "sgraditi") rappresentano un ulteriore grave indizio della attività di corruzione sottostante... In quest'ottica il mondo descritto dalla teste Ariosto si è rivelato del tutto verosimile... e le sue dichiarazioni sono direttamente confermate da numerosi elementi obiettivi... Se Previti infatti garantiva rapporti sociali di elevato livello (viaggi, conoscenze con il potere politico, Pacifico gestiva una serie di rapporti personali forse meno appariscenti ma altrettanto importanti, sia con i magistrati, a loro volta con funzione di intermediari o di collettori (in particolare il giudice Squillante), sia con dipendenti del Palazzo di giustizia, sia infine con soggetti che garantivano canali di trasferimento del denaro all'estero o viceversa... Questa struttura di intermediazione aveva nel Squillante il suo "cavallo di Troia", perchè proprio grazie a Squillante, giudice influente all'interno del palazzo di giustizia di Roma, godeva di una capacità di infiltrazione tanto insospettabile quanto efficiente e in grado di espugnare qualsiasi settore di esercizio del potere giudiziario... Squillante era l'epicentro di un autentico "sistema" di gestione alternativa e illecita degli affari giudiziari. Perfino il coimputato Previti definisce l'amico Squillante come un giudice generoso, sempre pronto ad aiutare chiunque avesse un problema... Le tesi difensive degli altri due imputati (Previti e Pacifico, ndr) appaiono parimenti inverosimili (come quelle di Acampora, ndr), anche perchè entrambe contraddette da elementi documentali... In conclusione, non vi possono essere dubbi che, pur nell'ambito di una ricostruzione indiziaria dei fatti, venne operata la corruzione di alcuni pubblici ufficiali per ottenere, nella controversia Imi-Sir, un esito favorevole a Rovelli, tanto ingente quanto ingiustificato, come pure non vi possono essere dubbi che questa attività corruttiva per conto dei Rovelli venne svolta dagli avvocati Pacifico, Previti e Acampora, tanto che agli stessi, dopo il pagamento da parte dell'Imi, venne versato un compenso astronomico, del quale tuttavia nè gli eroganti nè i riceventi hanno saputo fornire una seria giustificazione».

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DA - L'UNITA'

"Cesarone", l'uomo che non doveva cadere mai
di Vincenzo Vasile

È un’icona per l’Italia dei condoni. Per quelli che non pagano le tasse. Come ha scelto di dichiarare - non importa se per necessità difensiva - a quella famosa udienza del processo di Milano. E le precisazioni ulteriori non servono a chiarire, ma ammiccano a tutto quel mondo per cui Cesare Previti è e rimane un mito: «No, non sono un evasore». Su quei miliardi - s’è vantato - saldò la sua coscienza di contribuente con un condono tombale. E poi, sottilizzando: «Non sono un evasore perché il fisco non mi contestò mai quella somma». Guai a chiedergli come avrebbe dovuto fare il fisco ad accorgersene, se i miliardi erano inguattati dentro a un bel po’ di conti esteri, intestati a nomi di - poca - fantasia, come «Oceano» per quell’amicone dell’avvocato Pacifico, quello che faceva, chissà?, «le compensazioni delle compensazioni», (altra battuta celebre, incomprensibile ai più, consegnata ai verbali d’aula).

Pazienza se non ci si capisce un’acca. Nella difesa di Previti al processo di Milano la logica non c’entra. Conta l'immenso repertorio di battute criptiche, conta la montagna di «garbugli» da «azzeccare» manzonianamente - Corti da ricusare, fumi di persecuzione da agitare, termini da far scadere - per meritarsi una continua «standing ovation» dal popolo di quelli che ammirano coloro che non pagano le tasse. E adorano chi gli insegna il trucco. E magari sfottono l’altra metà d’Italia con le trattenute in busta paga. Non è un caso che Alberto Sordi si ispirasse a lui per l’ultimo progetto che meditava, di un film che completasse la sua Storia-affresco della parte oscura degli Italiani. Gente che non paga le tasse. E quando parla, ci vuole l’interprete, per decodificare, sotto i baffi di una risata sorniona, il «messaggio».

Filippo Mancuso di «messaggi» se ne intende. A Cesare Previti attribuì un «simul stabunt, simul cadent» rivolto a Berlusconi. (Insieme staranno in piedi, e insieme rovineranno). Precisamente: l’avvocato forzista Michele Saponara, citato dall’ex guardasigilli, essendo «onestamente attento al divenire dell’eterna questione Berlusconi-Previti, mi dice di sapere per certo che la preoccupazione di quest’ultimo (Previti) intorno alle note procedure di Milano era giunta a un tale punto di esasperazione da inviare all’altro (Berlusconi) una missiva di certissimo contenuto ultimativo. Nella quale, Previti latineggiava l’allusivo avvertimento».

Simul? Insieme? O è vero il gossip che dice che Berlusconi e Forza Italia l’avrebbero deluso, e infine «scaricato»? Funzionerà quel motto di Mancuso come profezia, ora che «il divenire dell’eterna questione» sembra arrivato al capolinea?

L’interessato - se glie lo chiedessero - si può scommettere che risponderebbe con un sogghigno. Ce l’ha stampato nella faccia. In quella faccia che - dice - si trova «sotto processo» a Milano. E quando stira il labbro inferiore in quello che normalmente dovrebbe essere un sorriso, hai un bel dirti che Lombroso le sparava grosse, e Grace Kelly con un volto angelico ne fece più di Carlo in Francia. Ma il chiamiamolo sorriso di Cesare Previti si porta dietro un bruciante ricordo: di quando, nella campagna elettorale del 1996, illustrò il programma di governo suo personale e della coalizione proclamando: «Non faremo prigionieri».

Tutto in nome della «cultura politica del maggioritario»? No, la sua, di cultura - la sua: di Previti - affonda radici altrove. Come l’interessato ammette quelle volte che ha i suoi lampi di sincerità. Allorché, e capita sempre più spesso, «esce al naturale». Esempio giudiziario: della pubblica accusa al processo di Milano ha affermato che gli procura «un conato di vomito». Traduzione piuttosto drastica della teoria di Montesquieu sulla divisione dei poteri: il «giudiziario» che giudica; la politica che, se inquisita, vomita…

«Cesare - confida uno che in Forza Italia è arrivato dopo gli anni ruggenti - è ancora legato a quella stagione ruspante, muscolare, del glie la faremo vedere. Che non trova più molto "audience" in certi salotti finanziari e nell’elettorato di centrodestra, logorato più di quanto non appaia dall’appello di legalità e di ordine dei girotondi. Tendenze "antemarcia" che Berlusconi ha annunciato ai suoi di voler mettere conseguentemente sotto traccia». Anche se - prima che i guai di giustizia si addensassero - proprio quest’avvocato civilista di origine calabrese occupò la tormentata casella di «coordinatore nazionale» (nel 1994, e si chiamava segretario politico) del partito di maggioranza.

È, dunque, ben comprensibile come mai dalle colonne del "Corriere" - le prime due colonne a sinistra, quelle dell’editoriale, quelle che pesano - partisse qualche tempo fa (per rimanere sinora inascoltata) l’invocazione a «mettere gentilmente, fermamente alla porta» cotesto «modello di cittadino». Il quale, se si parla dei lontani anni Settanta, non fa troppo il misterioso: «Ero così di destra, ma così di destra, che persino Gianfranco Fini, quando mi incontra, mi chiama "il fascista"». Oppure: «Da ragazzo ero missino, come tutti i borghesi romani…». Proprio tutti?

La domanda che sorge spontanea è perché Berlusconi se lo sia tenuto appresso, un tipo così. Per le ragioni inconfessabili cui allude Mancuso, connesse al processo di Milano? O anche per fraterni e antichi legami? Oppure avrà ragione un’altra transfuga di Forza Italia, la palermitana Cristina Matranga, che più semplicemente spiegò alla "Stampa" il 29 settembre 1994: «Dicono che Previti sia l’avvocato degli affari illegali di Berlusconi? È vero…».

La memoria di Previti, abbastanza disponibile a rivangare il passato remoto in camicia nera (seppure, puntualmente smentito dai superstiti del Pli, un giorno millantò d’aver fatto parte in gioventù della Direzione liberale), trascolora invece riguardo ai tempi più recenti. Spesso lui tira in ballo la fatalità. Scartabellando archivi si rileva, per esempio, che per via di un fonema palatale - per effetto della somiglianza del suono di una "D" e di una "T" - il suo nome fu associato alla loggia P2. A differenza di Berlusconi, (tessera 1816, codice E. 19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, data di affiliazione: 26 gennaio 1978), Previti non risulta nella lista che fu trovata nella villa di Licio Gelli, a Castiglion Fibocchi. Ma davanti a Villa Wanda, residenza del Maestro Venerabile della loggia delle trame e dei misteri, alle ore 13,40 del 23 maggio 1988 una pattuglia della Digos annotò sul brogliaccio dei devoti visitatori un «avvocato Cesare Previdi, di Roma, senza documenti». Previdi, non Previti, si intende. Anche se c’è da dire che di «avvocati Previdi» non ne risulta neanche mezzo negli elenchi del Foro della capitale.

Si conoscono dagli anni Sessanta con Silvio, come un giorno ricordò lo stesso Previti, intervistato. Poi posticipò l’incontro, chissà perché, di un decennio. All’epoca di una complicata connection - madre di tutti gli affari - da cui Berlusconi intascò nientemeno che la villa di Arcore. Apparteneva ai marchesi Casati Stampa. Ma l’ultimo discendente maschio ebbe l’idea di tornare in anticipo nella sua casa romana al numero 9 di via Puccini, la sera del 30 agosto 1970, e imbracciando un fucile da caccia al cospetto d’una classica scena di adulterio, uccidere la moglie, Anna Fallarino e il picchiatore fascista Massimo Morenti, che i giornali dell’epoca definirono il «suo amante», e infine di togliersi la vita.

Il trentasettenne avvocato civilista Cesare Previti curò dapprima gli interessi degli eredi Fallarino, poi passò alla parte avversa, la marchesina minorenne Annamaria. Di cui diventò pro-tutore. Ricorderà, intervistato da Giorgio Bocca: «In quei giorni avevo avuto un lavoro dalla Edilnord di Silvio, e gli dissi: Berlusconi, lei deve farmi un grande piacere. Sì, e quale? Mi comperi la villa san Martino dei Casati Stampa ad Arcore. Ma, avvocato, che me ne faccio? Ho i miei affari in città. Venga a vederla. E alla fine lui mi fece una proposta tipicamente sua: Me la lasci provare, ci sono le vacanze di Pasqua… La provò e non se n’è più andato". La occupò, per nove anni fino all’80, senza fare alcun rogito, con la marchesina - residente nei Caraibi - che, ignara continuava a pagare le tasse, mentre l’imprenditore «parvenu» con la sua corte si installava nella villa portandovi pure uno stalliere mafioso, e la sottoponeva a radicali ristrutturazioni.

La villa diverrà la reggia e insieme il quartier generale berlusconiano. Mentre i primi passi del «miracolo italiano» di Berlusconi continueranno a portare per lungo tempo il segno della devota ed efficace assistenza della famiglia Previti. Sin dai primi passi di Silvio nel grande giro. Il padre, Umberto, commercialista missino di Reggio Calabria, romano d’adozione, risulta essere l’ultimo degli amministratori dell’Edilnord, la società sorta dal nulla in Svizzera, intestata alla cugina e alla zia di Silvio, e poi messa in liquidazione proprio dal padre di Cesare. E sarà sempre Umberto Previti a curare da quelle ceneri la nascita della Fininvest Roma e l’aumento del capitale sociale da 20 milioni a 50 miliardi. Cesare siede dapprima nel collegio sindacale della Fininvest srl. Si fa le ossa. Poi entra nei consigli di amministrazione della Standa, di Euromercato, di Mediolanum, assurge alla vicepresidenza della Fininvest Comunicazione e della Rti.

La resistibile ascesa coincide con una gran tessitura di pubbliche e private relazioni. In breve diviene il personaggio cruciale introdotto nella cerchia giusta, sempre a braccetto con influenti magistrati, intimo di Bettino Craxi, che in quel periodo con Berlusconi ha un reciproco e proficuo rapporto di sostegno. Ottiene la vicepresidenza della Selenia, industria bellica del gruppo pubblico Iri. Ristruttura una torre spagnola sull’Argentario. Compra uno yacht di 29 metri, il mitico Barbarossa. E spicca il volo. Figura da più di vent’anni nella hit parade dei contribuenti romani. Anche se poi si scoprirà che il grosso delle tasse non le paga, per sua stessa ammissione, spinto da necessità difensiva al cospetto delle accuse di corruzione. (Ma c’è chi vi vede anche una sfida e un’ammiccante rivendicazione verso tutto un mondo sensibile ai modelli dell’illegalismo diffuso).

Tasse che vanno, tasse che vengono. Gente che non le paga. Ma le fa pagare alla marchesina di turno. E a noi tutti. Come abbiamo visto, i primi passi del «cursus honorum» previtiano coincidevano,infatti, con quello strano rinvio alle calende greche del pagamento e del rogito per la villa di Arcore, che portò la marchesina Casati a sborsare l’importo delle tasse miliardarie dovute al fisco dall’acquirente. C’è da stupirsi se Oscar Luigi Scalfaro un tipo così non lo volle alla Giustizia, dove Berlusconi l’aveva piazzato nell’elenco originario del suo primo governo, quello del ’94? Ripiegò sulla Difesa, divenendo in questa maniera, seppur per breve tempo, il ministro dei Carabinieri. E proprio in quel periodo Previti ha detto ai giudici di Milano di aver risparmiato qualche miliarduccio, sottratto al fisco.

La storia successiva è nota, oggetto del processo. Molte delle scene raccontate nelle carte si svolgono proprio nei salotti dove regna Cesare Previti. Al Circolo canottieri Lazio, sul Lungotevere Flaminio, che è un po’ un suo feudo, avvenivano, secondo la superteste Ariosto, gli scambi di denaro con i magistrati. C’è quel siparietto da antologia con Renato che sbadatamente non ha preso la sua busta gonfia di banconote, e Cesare che lo richiama indietro: «A Rena’, te stai a scorda’ questa…». Battuta che fa il paio con un famoso «A Fra’, che te serve?», che veniva rivolto da un grande palazzinaro a un potente elemosiniere dc, quando sembrava che non dovesse mai finire la Prima Repubblica.
Traghettatore della Seconda, Previti - il metodo Previti - trasforma il mezzo in scopo, ed eleva a sistema quelle tecniche di evasione, quelle elusioni, quei raggiri di norme e codicilli, e le leggi ad hoc, e il calendario della Camera sfruttato per far saltare le udienze, e i mille illegalismi istituzionali. Non è un caso se «i luoghi di Previti» hanno fatto ancora fino a qualche tempo addietro da set per il film iper-realistico e soffocante che abbiamo vissuto. Lo studio legale di via Cicerone è il posto dove a un Antonio Di Pietro, stressato dalle inchieste e ricattato, venne offerto un ministero per farlo tacere. Ed è la sede dove grossi faldoni di «articolati» e di «emendamenti» di leggi concepite per cortocircuitare il sistema-giustizia vengono sfornati a getto continuo dagli sherpa per le commissioni parlamentari.

Uno dopo l’altro, gli espedienti, però, si sono risolti male, sia nel processo di Milano, sia - in fondo - in Parlamento. Non ha funzionato il previsto «tabula rasa» delle rogatorie internazionali. I giudici hanno interpretato con rigore le norme sul legittimo sospetto. Finiti i giochi di prestigio, la stella di Cesarone è via via impallidita, lanciando qualche bagliore assai poco rassicurante sull’impero di Arcore, che pure egli stesso aveva fornito di una reggia. Quel «modello di cittadino» è, in verità, per un decennio che - almeno cronologicamente - va a concludersi, il «modello» di certa Italia. Un paradigma di certa politica e di un blocco sociale, oggi non più solidissimo. Ma i due, quei due, crolleranno assieme? O divideranno le loro strade? Siamo così abituati a vederli in coppia, - il buon Mancuso parla di «una banda», e Previti nel tentativo di smentirlo gli ha ricordato di averne fatto parte - e non si riesce a immaginarli separati.

L’uno rovinato da una sentenza. L’altro aggrappato alla zattera di palazzo Chigi. Magari pronto a ghermire un’altra reggia, il Quirinale, con qualche nuovo sherpa al fianco, pronto ad offrirgli altro, indispensabile, «know how» per sfangarla a forza di trucchi e di gelidi sorrisi.

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DA - L'UNITA'

Imi-Sir/Lodo Mondadori, il processo che pareva impossibile
di Antonio Cannata

Rinviata quattro volte, la sentenza del processo Imi-Sir arriva dopo 88 udienze. Il processo è partito dall'accusa di corruzione in atti giudiziari a carico dell' onorevole Cesare Previti, l'ex capo dei Gip di Roma, Renato Squillante, gli avvocati romani Attilio Pacifico e Giovanni Acampora, gli ex giudici romani Filippo Verde e Vittorio Metta, Felice Rovelli, figlio dell'ex presidente della Sir, e la vedova dell' industriale, Primarosa Battistella.

Sono due le tangenti finite nel mirino degli inquirenti. La prima di 67 miliardi di lire e relativa al giudizio Imi-Sir sarebbe stata versata dall'industriale Nino Rovelli. La somma sarebbe stata pagata, nell'arco di tre mesi durante il 1994, a Cesare Previti (21 miliardi), Attilio Pacifico (per 33 miliardi) e Giovanni Acampora (13 miliardi). Pari a 3 miliardi e 36 milioni di lire è, invece, la presunta tangente versata per il Lodo Mondadori

Secondo le ricostruzioni fatte dall'accusa sui complessi passaggi di denaro legati a questa somma, la tangente per il Lodo Mondadori sarebbe partita dai conti correnti riferiti alla società All Iberian per arrivare sul conto estero di Cesare Previti, il «Mercier».

Da qui un miliardo e mezzo avrebbe preso la via del conto corrente di Acampora, il «Careliza», dal quale 425 milioni rientrano nelle disponibilità di Cesare Previti che, sempre secondo le ricostruzioni dell'accusa, li avrebbe dirottati in seguito, dopo averli divisi un due tranche, sul conto corrente estero di Attilio Pacifico, il «Pavoncella». Da qui 400 milioni sarebbero stati fatti rientrare in Italia e consegnati da Attilio Pacifico all'ex giudice Vittorio Metta che del Lodo Mondadori fu il giudice relatore. Subito dopo la formulazione dell'accusa, cominciano le schermaglie procedurali: Previti e Pacifico chiedono a Carfì di 'astenersi' dal giudicare.

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DA - L'UNITA' - L'INTERVISTA.

«Da due anni si fanno leggi solo per gli imputati eccellenti»


ROMA «Un’occasione mancata». La legge sul patteggiamento allargato era stata pensata per abbreviare i tempi dei processi. Adesso, dopo i giochi di prestigio del centrodestra, le sue norme rischiano di produrre effetti opposti.
Anna Finocchiaro ripercorre l’iter del provvedimento approvato dalla Camera, il passaggio dal sì iniziale del centrosinistra al voto contrario di ieri. L’ennesimo regalo della maggioranza di governo a Cesare Previti? «Le regole che si vogliono introdurre sono sbagliate a prescindere dalla loro utilizzabilità o meno nei dibattimenti milanesi - spiega la responsabile Giustizia della Quercia - Introducono, infatti, meccanismi che non semplificano i procedimenti. Mentre il cancro che mina il sistema giudiziario è rappresentato proprio dai tempi biblici dei processi».


La destra accusa l’Ulivo di aver fatto macchina indietro ossessionata dal caso Previti...


Avevamo contribuito con molto impegno all’elaborazione del provvedimento sul patteggiamento. Il nostro obiettivo era quello di allargare l’utilizzo di un istituto che ha contribuito ad accelerare i tempi dei processi. Ma, alla fine, non abbiamo ritenuto condivisibile l’impuntatura della maggioranza sulla sospensione del dibattimento per un termine "non inferiore a 45 giorni"...


In un primo tempo, però, l’Ulivo aveva detto sì ad una sospensione di 30 giorni...


Anche quel termine, secondo me, era sbagliato. I Ds, alla Camera, hanno presentato un emendamento che riduceva a 10 i giorni di sospensione del processo. I 45 giorni di congelamento del dibattimento, voluti dal centrodestra, scatteranno quando un imputato vorrà riflettere sull’opportunità di presentare istanza di patteggiamento. Una fase troppo lunga prevista da una norma che è profondamente sbagliata, quindi: rallenta i tempi della giustizia, in alcuni dibattimenti può risolversi nella reiterazione dell’istanza da parte di più imputati con conseguenze paralizzanti, contraddice l’esigenza di eliminare dal Codice ogni strumento che possa essere utilizzato per allungare i procedimenti...


La norma renderà più facile le iniziative dilatorie dei difensori, nella sostanza?


I difensori, legittimamente, utilizzano tutti gli strumenti offerti dalla legge per tutelare i loro assistiti. Ma noi, come legislatori, dobbiamo provvedere ad eliminare gli ostacoli che rendono farraginoso il cammino della giustizia...


L’esperienza dei processi milanesi ha spinto l’opposizione a mettere in primo piano l’efficienza rispetto alle garanzie?


Si può celebrare un processo giusto e celere mantenendo salde le garanzie degli imputati. I due principi non sono contraddittori. La norma che è stata approvata ieri, tra l’altro, ha incontrato l’opposizione del centrosinistra non sulla base del fatto che gioverebbe o non gioverebbe a Previti. Una legge è buona o non buona in sé. Si approva perché la si ritiene giusta, perché concorre a definire un processo garantito, celere ed efficiente. Se ci troviamo davanti una regola sbagliata il problema di capire a chi giovi è secondario. Se è sbagliata non deve entrare nell’ordinamento, punto e basta.


Castelli afferma che il centrosinistra vota solo a favore delle leggi che servono per mandare in galera Berlusconi, Previti o Bossi...


Quello che afferma il ministro è privo di fondamento. La storia dimostra che noi non abbiamo approvato alcuna norma contro Berlusconi, Previti o Bossi perché siamo in minoranza e perché non vogliamo affatto capovolgere per via giudiziaria il responso delle urne. I fatti, tra l’altro, dimostrano che vige la dittatura della maggioranza e che per due anni non si sono fatte altre leggi se non quelle che favoriscono gli imputati eccellenti. Non possiamo arrivare al paradosso della mistificazione...


Perché il centrodestra ha proposto l’allungamento dei termini per il patteggiamento e la conseguente sospensione dei processi?


A me, ovviamente, l’accanimento di questi giorni è sembrato sospetto. Ma il metro che ha guidato il centrosinistra, al di là dei sospetti che ognuno può avere, è stato uno solo. Ripeto: una norma deve essere giusta o sbagliata per tutti, a prescindere se Previti o Berlusconi possano utilizzarla.


Il ministro della Giustizia annuncia di aver chiesto a Milano la documentazione sui fatti denunciati da Previti...


L’intervista rilasciata ieri da Castelli è contraddittoria e, spesso, priva di senso. Il ministro, tra l’altro, fa confusione tra responsabilità penale e responsabilità politica. Castelli non può pensare di sottrarre alla responsabilità penale il presidente del Consiglio, come non può pensare di sottrarre alla giustizia alcun cittadino italiano. Nessuno è libero dal vincolo della soggezione alla legge.


Castelli afferma che il tribunale di Milano è una sorta di zona franca...


Indirettamente è lui che vuole imporre zone franche sotto il profilo della responsabilità penale. Cosa significa "solo il popolo può giudicare Berlusconi"? Siamo al paradosso di Cristo e Barabba e del popolo che volle libero Barabba. È questa la democrazia che ha in mente Castelli? E che senso ha chiedere l’acquisizione di atti dei processi milanesi alla soglia di una sentenza? Il ministro dovrebbe astenersi dal promuovere queste iniziative o, comunque, dovrebbe valutare i tempi. Nessuno nega il diritto del Guardasigilli di esercitare le proprie prerogative. Ma l’esercizio di queste deve svolgersi dentro un sistema di relazioni tra istituzioni che è delicatissimo. Ci vuole modo e, soprattutto, ci vuole misura.

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