VOI TUTTI SAPETE CHE NAMIR E' STATO
CENSURATO DALLA TIN.IT - CHE CI HA CHIUSO LA CONNESSIONE
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CONTESTATO E A CUI NON C'E' STATA DATA POSSIBILITA' DI
REPLICA. VOI TUTTI SAPETE CHE NAMIR E TUTTA LA REDAZIONE CERCA DA ANNI DI DARE LE GIUSTE INFORMAZIONE - FACENDO RASSEGNE STAMPA - OFFRENDO SPAZI ALTERNATIVI - E ARTICOLI COME QUELLI SULLA SARS QUANDO NESSUNO NE PARLAVA. OGGI PERO' NON POTEVAMO NON USCIRE CON LA CONDANNA DI PREVITI E UNA PARZIALE RASSEGNA STAMPA - IL RESTO LO TROVERETE IN RETE DOMANI - SEMPRE SE RIUSCIAMO A CONNETTERCI. NON POTEVAMO NON FAR INTERVENIRE MAX MAX - CON UN PEZZO IN PROPOSITO - CHE POTETE LEGGERE NEL SITO - HTTP://ARTENAMIR.INTERFREE.IT NON POTEVAMO ESSERE PRESENTI CON UNA VIGNETTA DI BIMBO99 DEDICATA ALLA GRANDE DONNA ILDA BOCCASSINI. SEMPRE SU HTTP://ARTENAMIR.INTERFREE.IT PER TUTTO QUESTO CI TROVIAMO IN DISAGIO - ANCHE ECONOMICO - MA SE E' LA VERITA' CHE BISOGNA PERSEGUIRE.... ANCHE CON DIFFICOLTA' CI SAREMO ! SE VUOI INVIARE UNA TUA SOTTOSCRIZIONE A NAMIR - BASTA UN BOLLETTINO POSTALE VERSATO SUL CONTO CORRENTE - A MD - CC/25519596 STRINGIAMO TUTTI - LA REDAZIONE. DA - LA REPUBBLICA Per il deputato di Forza
Italia e gli altri imputati (tranne Verde) MILANO - Un lungo
applauso, in aula, accoglie la sentenza del processo
Imi-Sir. Nel quale sono stati condannati Cesare Previti e
tutti gli altri imputati, tranne Filippo Verde. Il
verdetto della quarta sezione penale del tribunale di
Milano è arrivato dopo otto ore di camera di consiglio.
Il deputato di Forza Italia è stato condannato a 11 anni
di reclusione. Agli altri avvocati imputati, Attilio
Pacifico e Giovanni Acampora, sono state inflitte
rispettivamente pene di undici anni e cinque anni e sei
mesi. Verdetto di colpevolezza anche per i giudici
Vittorio Metta e Renato Squillante, che hanno ricevuto
rispettivamente condanne a tredici e otto anni e mezzo di
carcere. Assolto invece l'ex giudice Filippo Verde, per
il quale l'accusa aveva chiesto 10 anni di carcere. Con l'eccezione di Verde,
dunque sono state accolte le tesi e, in sostanza, le
richieste di pena dell'accusa. Che aveva chiesto per
Cesare Previti 13 anni di reclusione. Secondo il pm Ilda
Boccassini, infatti, tutti gli imputati hanno concorso ad
"aggiustare" a favore della Sir la controversia
legale con l'Imi che nel 1992 aveva fruttato alla
società di Nino Rovelli, ora deceduto. Il figlio di
Rovelli, Felice, anch'egli imputato, è stato condannato
a sei anni, quasi mille miliardi di risarcimento. ------------------------------------- DA - LA REPUBBLICA Uno studio legale tra i
più noti (e chiacchierati) di Roma A RENA', te stai a
scorda' questa. "Questa" è una busta
gialla piena di vecchie lire; "Rena'" è il
giudice Renato Squillante, all'epoca capo dei Gip del
Tribunale di Roma, sede giudiziaria allora conosciuta
come "il porto delle nebbie". Chi porge la
busta all'amico, è Cesare Previti, Cesarone per gli
amici, potente e conosciuto avvocato, calabrese di
nascita ma romano d'adozione e gran tifoso laziale. E chi
racconta la scena è Stefania Ariosto, la teste Omega del
filone "toghe sporche" di Mani Pulite, la quale afferma
davanti ai magistrati di avere direttamente assistito
all'episodio dopo una serata trascorsa, nel 1995, al
Circolo Canottieri Lazio. Lo studio legale Previti,
via Cicerone, quartiere Prati, è uno dei più noti e
importanti della capitale ma anche uno dei più
chiacchierati. Lui, al massimo si autoaccusa di evasione
fiscale. Non punibile, perché condonata. E fa intendere
che con i suoi soldi, in fondo, ci fa quello che gli
pare. Per il resto - così dice in aula al processo
Imi-Sir - non c'è prova che abbia corrotto qualcuno. Ma
i giudici dicono che invece le prove ci sono. -------------------------------------------------- DA - LA REPUBBLICA SCHEDA CON la condanna di tutti
gli imputati (tranne l'ex giudice Filippo Verde, assolto)
si chiude il processo di primo grado Imi-Sir/Lodo
Mondandori. Queste le decisioni prese dai giudici della
quarta sezione penale del Tribunale di Milano. I Rovelli. Felice
Rovelli, è stata condannato a 5 anni e 6 mesi. Suo
padre Nino aveva avviato la causa all'Imi che fruttò
(quando già era scomparso) 972 miliardi di vecchie lire
alla Sir. Secondo il processo di primo grado che si è
concluso oggi, quella sentenza fu il frutto di una
corruzione. Il tribunale di Milano ha condannato anche la
vedova di Nino e madre di Felice, Primarosa
Battistella: 4 anni e sei mesi. ----------------------------------- DA - LA REPUBBLICA Il presidente del
Consiglio dopo la condanna dell'avvocato ROMA - Di
"persecuzione giudiziaria" parla Cesare
Previti, di "persecuzione giudiziaria" parla
Silvio Berlusconi. Pssano pochi minuti dalla lettura
della sentenza di condanna a 11 dell'avvocato romano e il
terremoto arriva fino nei più alti centri di potere.
Dopo le parole di Previti tocca al portavoce di Forza
Italia Sandro Bondi parlare di "brutto giorno per la
giustizia italiana". Poi parla il presidente del
Consiglio. E le sue parole sono macigni: "La
politicizzazione di certa magistratura, volta a
condizionare la nostra vita politica, è un problema che
dovrà essere risolto per il bene del paese, delle sue
istituzione, dei cittadini italiani". Gli azzurri dunque si
stringono intorno a Previti. Non cambia la linea del
partito: difesa a oltranza dell'imputato e attacco
frontale ai giudici. Come ribadisce anche l'altro
esponente forzista Gaetano Pecorella, presidente della
commissione Giustizia della Camera e legale di
Berlusconi: "Undici anni per un'ipotesi di
corruzione è una pena che non credo sia stata mai
inflitta nella storia della giustizia italiana. La misura
della pena inflitta a Previti è il segno di quanto
questo processo sia fuori dal comune, fuori dalla
storia...". --------------------------------- DA - L'UNITA' Cesare Previti
condannato a undici anni di reclusione Martedì alle 23, dopo nove ore di camera di consiglio, i giudici del processo Imi-Sir/Lodo Mondadori hanno deciso: 11 anni di reclusione per limputato numero uno, Cesare Previti. La Pm Ilda Boccassini ne aveva richiesti 13. Tutti condannati, per corruzione giudiziaria anche gli altri imputati, ad eccezione del giudice Filippo Verde, prosciolto. Undici anni allavvocato Attilio Pacifico, otto anni e mezzo allex gip Renato Squillante, 13 anni, la pena più grave, per lex giudice Metta, 5 anni e 6 mesi all'avvocato Giovanni Acampora (già condannato a 6 anni per il Imi-Sir e qui imputato solo per Lodo Mondadori) 6 anni per Felice Rovelli mentre la madre, Primarosa Battistella è stata condannata a 4 anni e 6 mesi. Ma la sentenza ha anche toccato il portafoglio degli imputati, condannandoli a risarcire le parti lese, Imi (516 milioni di euro) e Cir (380 milioni di euro) pur esonerandoli dal pagamento di una provvisionale, ovvero di un anticipo sui risarcimenti dovuti. Ha anche condannato Acampora, Pacifico, Previti, Squillante e Metta allinterdizione perpetua dai pubblici uffici. Acampora, Pacifico, Previti, Squillante e Metta legalmente interdetti durante l'espiazione della pena. Battistella, Rovelli, Previti, Pacifico e Acampora incapaci di contrastare con la pubblica amministrazione per una durata pari alla pena inflitta. Pacifico, Previti e Acampora interdetti dall'esercizio della professione di avvocato per la durata di anni 5. Un bel guaio se la sentenza passasse in giudicato: Previti sarebbe costretto a fare il pensionato non potendo più esercitare, per un congruo periodo, nè la professione legale nè quella di parlamentare. Un lungo applauso ha accolto la sentenza nellaula gremita come mai era capitato in questi tre anni, quando al massimo, tra il pubblico, si vedevano tre o quattro pensionati e la famosa signora col pinocchietto in braccio, citata nellistanza di rimessione del processo, quella in cui, grazie alla legge Cirami si sperava di ottenere il trasferimento a Brescia, come un pericolo per la serenità e limparzialità dei giudici. Quasi che la magistratura milanese fosse composta da conclamati psicolabili. Ieri invece cerano facce da girotondi e girandole, giovani, donne, che hanno occupato ogni spazio, comprese le gabbie destinate agli imputati detenuti. Ilda Boccassini nella sua requisitoria aveva concesso attenuanti solo ai Rovelli: il tribunale ha appena limato le sue richieste ma ha rispettato la sua suddivisione dei dosaggi di pena. Lunica clamorosa sorpresa, lassoluzione di Verde, per il quale la pm aveva chiesto 10 anni. Secondo laccusa, nella vicenda Imi-Sir, Previti, Acampora e Pacifico si spartirono una tangente di 67 miliardi pagata dai Rovelli. Molto più modesto il giro di quattrini accertato attorno alla vicenda Lodo Mondadori: poco più di 3 miliardi partiti dal conto All Iberian della Fininvest e arrivati (400 milioni) al giudice Metta, dopo essere passati sui conti di Previti, Acampora e Pacifico. Deboli le prove a carico di Verde, che non hanno retto al vaglio dei giudici. Il processo infinito è giunto così al termine, quando ormai sembrava impossibile che i giudici potessero ritirarsi in camera di consiglio ed emettere una sentenza. Ancora ieri, ottantottesima udienza in 35 mesi di dibattimento, ci si chiedeva: quale altro cavillo troveranno, a quale appiglio si aggrapperanno questa volta? Nelle ultime settimane il processo aveva toccato il suo punto più basso e Previti laveva trasformato in una specie di film davventura in cui, solo contro tutti, aveva deciso di sfidare i giudici con tutta la forza che può avere larroganza del potere. Per quattro volte il presidente Carfì aveva convocato ludienza finale, ordine del giorno: la camera di consiglio per la deliberazione del tribunale. E per quattro volte aveva dovuto constatare che limputato principale aveva ricusato lintero collegio, che mancava il via libera della Corte dAppello, che di nuovo era stato ricusato: per lottava volta nellarco di questi tre anni. Proprio come nei film di Indiana Jones, solo che Previti e i suoi avvocati non hanno il fascino di Harrison Ford o di Sean Connery. Allultimo momento, quando lame rotanti e pareti semoventi non lasciano più scampo, zac, avviene il miracolo o la beffa, o linganno: un bottone magico apre una botola, uno spiraglio e la fuga continua. Una fuga di cui forse, neppure i protagonisti capivano più il senso: Previti fino allultimo ha fatto appello al Parlamento perchè per legge lo liberasse dai suoi guai giudiziari. Ma alla fine deve aver capito che non ci sarebbe stata unaltra legge salva-corrotti alla vigilia delle elezioni e suo malgrado si è arreso. Martedì, uno dei suoi avvocati, Alessandro Sammarco, ha provato ancora ad azionare il tasto magico, nella speranza di poter bloccare per lennesima volta la sentenza, ma ha toccato il bottone sbagliato. Ore 15,05 ludienza si è aperta col consueto appello: avvocati tutti presenti, imputati tutti assenti. Il presidente annuncia che la Corte dAppello ha respinto lultima ricusazione e anche lultima richiesta di nullità. Chiede alle difese se ci sono altre istanze e Sammarco, facendo riferimento a un provvedimento della Cassazione, chiede che la sentenza sia rinviata fino a quando la Suprema Corte non si sarà espressa sul loro ricorso contro linammissibilità dellultima ricusazione, lottava. Carfì lo interrompe: «Avvocato, si riferisce alla sentenza Vitalone?». Risposta: «No, il presidente era Malinconici». Carfì: «E il relatore e lestensore della sentenza era Vitalone, la conosciamo avvocato». E in effetti cè un unico pronunciamento della Cassazione, contro parecchi altri che vanno in senso opposto, che da ragione ai legali di Previti. È appunto quella scritta da Claudio Vitalone, il magistrato romano recentemente reintegrato nelle sue funzioni, dopo essere stato prosciolto nel processo per lomicidio Pecorelli. Carfì decide di seguire la giurisprudenza maggioritaria e conclude: «Ai sensi dellarticolo 526 comma 1 dispone procedersi....». Una decisione non semplice quella di Carfì: il presidente si è comunque assunto la responsabilità di uno strappo. Ha scelto la strada di una giustizia sostanziale: se Previti fosse riuscito nel suo intento, se a furia di ricusazioni e cavilli procedurali fosse riuscito a evitare la sentenza, quanti imputati facoltosi, magari coinvolti in processi di mafia potrebbero scegliere la stessa via? E quante persone che hanno subito torti e che attendono giustizia dovrebbero rassegnarsi alla legge del più forte? Carfì prima di ritirarsi in Camera di Consiglio avverte: la sentenza potrebbe esserci tra mezzora come fra tre ore o parecchie di più. Gli avvocati nei corridoi commentano: «È una sentenza già scritta, stiamo già preparando il ricorso. Volendo potrebbero emetterla in mezzora». Ma Carfì si fa attendere e il collegio ci mette più di sette ore per decidere di condannare Previti e i suoi sodali. Inizia la lunga attesa, nellaula ex centrale civile, prestata per un giorno alla quarta penale: i soliti pensionati, età media sessantanni attendono sonnacchiosi il giudizio finale. A metà pomeriggio arriva Antonio Di Pietro che non resiste alla tentazione di tornare sul luogo del delitto. Fotografi e cameramen sono tutti per lui in assenza di altri vip e lui si concede generosamente in esternazioni a getto continuo. In sintesi: «Come cittadino e come parlamentare oggi sono qui per assistere a un atto di giustizia. Anche io vorrei sapere tutto ciò che è successo, se ci sono giudici corrotti e che ruolo ha avuto l'uomo che oggi è presidente del consiglio». (Piccola imprecisione: Berlusconi non è imputato in questo processo: non è mai stato coinvolto nella vicenda Imi Sir ed è stato prosciolto per prescrizione nel processo per il Lodo Mondadori). ---------------------------------- DA - L'UNITA' Vendute e
comprate, la lunga storia delle sentenze Imi-Sir Un foglietto con gli estremi di un bonifico bancario: 240 milioni girati nel 1994 da Felice Rovelli all'avvocato romano Attilio Pacifico, braccio destro di Cesare Previti. Il giallo dell'Imi-Sir parte di lì, da quel bigliettino rinvenuto quasi per caso dagli agenti del Servizio centrale operativo della polizia, il 12 marzo 1996, nell'ufficio di Pacifico appena arrestato. O meglio: riparte di lì, perchè era cominciato 15 anni prima. Nei primi anni 80, quando Nino Rovelli - petroliere andreottiano, quello degli «assegni del Presidente» di cui parlò Mino Pecorelli poco prima di morire ammazzato - fece bancarotta con il suo impero, la Sir. E se la prese con l'Imi, la banca pubblica che a suo dire l'aveva mandato in rovina promettendogli finanziamenti e poi negandogli. Iniziò così una lunga e tortuosa partita giudiziaria che si sarebbe conclusa provvisoriamente nel 1994 per riaprirsi nel 1996, grazie a quel bigliettino. Una via crucis dalle infinite stazioni ricostruita, quasi minuto per minuto, da Ilda Boccassini in base ai documenti e alle deposizioni processuali. Primo grado. La prima sentenza lemette il tribunale civile di Roma, nel 1986, e dà ragione alla Sir: l'Imi le deve un risarcimento, da quantificare separatamente. Presiede il collegio il giudice Filippo Verde, amico di Previti e socio di Pacifico, che gli regala telefonini, gli mette a disposizione una stanza d'albergo per le trasferte al tavolo verde, e soprattutto gli gestisce un conto in Svizzera (Master 811) dove ogni tanto versa qualche centinaio di milioni. Giudici a latere, Aida Campolongo, fedelissima di Verde; Paolo Zucchini, iscritto alla loggia P2, titolare di un conto a Montecarlo dove risulta almeno un versamento di Pacifico per 200 milioni (slegati però dalle cause). Del risarcimento si occupa nel 1989 un altro collegio, presieduto da un giudice al di sopra di ogni sospetto: Carlo Minniti. Studia le carte, ne conclude che i colleghi hanno sbagliato: medita di ribaltare il primo verdetto, intanto disporrà una perizia per vederci più chiaro. Alla vigilia dell'udienza decisiva, il 4 aprile, lo convoca il presidente della Corte d'appello, Carlo Sammarco, per sondare le sue intenzioni. Strana curiosità, visto che non è lui il capo di Minniti. Ma questi, ingenuamente, gli confida quel che farà. Il 4 aprile mattina tutto è pronto per l'udienza, senonchè il presidente Minniti riceve una telefonata dal ministero della Giustizia. Lo vogliono subito lì per una riunione, urgente e improrogabile, sull'edilizia carceraria, e da Via Arenula non sentono ragioni. Deve andare. Si fa sostituire da una collega, pregandola di prendere tempo in attesa del suo ritorno. La riunione ministeriale si rivela poi una bufala: dura un'oretta, non viene verbalizzata: aria fritta. Minniti si precipita in tribunale, e qui scopre che la collega non solo non ha rinviato, ma ha chiuso l'udienza sentenziando sul risarcimento: 670 miliardi, denaro pubblico. Chi è la collega sostituta che ha firmato l'incredibile sentenza? La Campolongo, fedelissima di Verde. E chi è il funzionario che ha convocato Minniti al ministero, per quella riunione-fantasma? Filippo Verde, nel frattempo promosso capo di gabinetto del ministro Giuliano Vassalli. Il primo ricorso
dellImi Terzo grado. L'Imi ricorre in Cassazione. E qui accade di tutto. Gli avvocati della Sir, pur possedendo tutte le carte della causa, chiedono alla cancelleria del Palazzaccio copia di ogni foglio. Migliaia e migliaia di pagine. Poi presentano una strana richiesta: controllare se, dal fascicolo, non sia per caso scomparsa la «procura speciale ad litem» della controparte. Cioè quel foglietto che gli avvocati allegano ai ricorsi, con la delega rilasciata dal cliente per rappresentarlo in giudizio. I giudici controllano così, pro forma, e invece scoprono che quegli avvocati hanno doti divinatorie: la procura è sparita. Partita chiusa, sostiene la Sir: niente procura, niente ricorso Imi. Definitiva la sentenza d'appello, quella firmata da Metta, con relativo risarcimento. L'Imi presenta due denunce per la sottrazione del documento, entrambe vengono archiviate dall'ufficio Gip, diretto da Renato Squillante (che per la prima denuncia si batte per un'archiviazione «per insussistenza del fatto», e non solo perchè ne erano rimasti ignoti gli autori). In Cassazione si tenta di salvare il salvabile. L'udienza davanti alla I sezione civile è fissata per il 29 gennaio 1992. Il presidente, Giancarlo Montanari Visco, è un giudice all'antica, tutto d'un pezzo: viene subito eliminato con una lettera anonima, che lo accusa falsamente di frequentare amici dei Rovelli. Si astiene e nomina un collega altrettanto perbene: Giuseppe Scanzano. Il quale manda gli atti alla Consulta, sollevando eccezione di incostituzionalità sulla norma che vieta di esaminare i ricorsi sprovvisti di procura ad litem; siamo nel febbraio del '90. In novembre, la Corte costituzionale risponde picche: niente procura, niente ricorso. Chi firma la sentenza che chiude la partita a favore dei Rovelli? Il giudice costituzionale Antonio Baldassarre, altro amico di Previti. La palla torna dunque alla Cassazione, dove un terzo presidente, Mario Corda, tenta un'ultima carta: modificare la giurisprudenza in punta di diritto e tentare di esaminare ugualmente il ricorso dell'Imi. Studia il fascicolo nei dettagli, e prepara per gli altri quattro giudici del collegio un appunto manoscritto. L'appunto, segretissimo, viene fotocopiato in quattro esemplari e recapitato in buste sigillate nelle caselle postali dei colleghi. Qualcuno, però, lo passa all'esterno: al solito corvo, che torna a farsi vivo con un altro anonimo, che infatti scrive subito a Corda e al primo presidente della Cassazione per avvertirli di possedere una copia del manoscritto. Corda potrebbe essere accusato di aver anticipato la sua decisione, e venire ricusato. Ma ormai la puzza di complotto intorno al caso Imi-Sir è tale che il presidente tiene duro, e prospetta al primo presidente una soluzione: scriverà una lettera di dimissioni, che il capo gli respingerà. Il capo dice di procedere. Poi, anzichè respingere le sue dimissioni, le accoglie. Chi è il primo presidente? Antonio Brancaccio, altro buon amico di Previti. Il debito di Rovelli La miniera d'oro. Il 13 gennaio '94 l'Imi liquida i 1000 miliardi alla Sir. Rovelli non c'è più: è morto il 31 dicembre 1990. Ma poco prima di spirare ha lasciato detto al figlio Felice e alla moglie Primarosa Battistella di saldare un mega-debito che ha contratto con Pacifico. Dopo il funerale, i due contattano lo sconosciuto avvocato. Da lui apprendono che anche altri due colleghi «avanzano» del denaro dal defunto: Previti 21 miliardi, Acampora 13 e lui, Pacifico, 33. Totale: 67 miliardi. Prove? Documenti scritti? Fatture? Nemmeno l'ombra. Tutto sulla parola. Ma gli eredi Rovelli pagano senza batter ciglio. Non subito: solo nel 1994, appena incassato il mega-risarcimento Imi (di cui quei 67 miliardi sono esattamente il 10%). Eppure i tre avvocati in quella causa non pare abbiano fatto nulla: i legali dell'Imi sono i professori Mario Are e Michele Giorgianni, anche loro pagati estero su estero (esentasse), ma molto meno dei tre «nullafacenti». «Abbiamo trovato i piccioli, un fiume di denaro, una miniera d'oro», dirà Ilda Boccassini nella requisitoria. L'accusa. Secondo il pm, quei 67 miliardi erano il prezzo della corruzione, per almeno due sentenze comprate (la prima di primo grado e quella d'appello), per la «sparizione» del giudice Minniti dal Tribunale e della procura speciale in Cassazione. Anche perchè dai tabulati telefonici risultano telefonate fra Previti, Pacifico, gli eredi Rovelli e il giudice Squillante (che avrebbe dovuto occuparsi solo di penale, non di cause civili) nel biennio più caldo del caso Imi-Sir. E varie prove di un loro attivo e informale interessamento all'affare. Pacifico chiama un cancelliere per conoscere in diretta la composizione dei collegi e le loro variazioni (il cancelliere sarà premiato con qualche biglietto omaggio per la «Corrida» negli studi di Canale5). Squillante contatta l'avvocato Francesco Berlinguer per farlo incontrare con Felice Rovelli. Questi, poi, lo vede un paio di volte e gli offre 500 milioni in cambio di una missione segretissima: dovrà avvicinare una giudice del collegio di Cassazione, sardo come lui, e farsi anticipare il giudizio. Nello stesso periodo, Berlinguer parla spesso con lo studio Previti. Una pioggia di denaro Le difese. Previti, a proposito dei suoi 21 miliardi, parla inizialmente di «parcelle di una vita». Poi, interrogato dal pool nel 1997, cambia versione: «Quei soldi non erano per me, erano un mandato di pagamento che mi aveva affidato Rovelli: io trattenni soltanto 2 miliardi e girai gli altri 19 a professionisti di cui non posso fare il nome. Ma non sono magistrati nè pubblici ufficiali». Dalle rogatorie, però, risulta che i professionisti non esistono: anche quei 19 miliardi Previti li girò a se stesso, dalla Svizzera alla Bahamas. «Parlai di mandato di pagamento perchè temevo che il fisco si scatenasse nei miei confronti con effetti rovinosi», si difenderà in aula. Infatti su quei 21 miliardi, incassati estero su estero proprio nel '94, mentre giurava fedeltà alla Repubblica come ministro della Difesa (Berlusconi lo voleva alla Giustizia, ma Scalfaro sventò almeno quella minaccia), non aveva pagato una lira di tasse. Così ritornerà alla versione «vecchia parcella»: 3 miliardi promessi da Rovelli negli anni 70 in cambio di imprecisati servigi e consulenze e poi, con l'andar del tempo e degli interessi, lievitati fino a quella cifra iperbolica. E le telefonate con Squillante e Pacifico nel pomeriggio del 29 gennaio '92, giorno decisivo della causa Imi-Sir in Cassazione? «Erano per organizzare una partita di calcetto al circolo Canottieri Lazio». Anche Pacifico accenna a un'antica parcella per imprecisate «consulenze valutarie» a Rovelli, quadruplicata da una indovinata speculazione sull'oro. Niente di scritto che dimostri che sia vero: tutto sulla parola. A parte una scrittura privata, affidata - anzichè a un notaio - al portiere di un hotel di Montecarlo. E andata dunque disgraziatamente perduta. Altro mistero: come dimostrano i suoi numerosi conti, Pacifico era un investitore pignolo e oculato. Ma una sola volta in vita sua divenne improvvisamente sprecone: dopo il versamento dei Rovelli, nel '94. Invece di far fruttare subito quei 33 miliardi con rendimento del 4%, li chiuse in cassaforte lasciandoli dormire senza guadagnarci una lira per sei mesi, una perdita secca di 600 milioni. Poi, all'improvviso, ricominciò a investire oculatamente tutti i quattrini che gli capitò di versare di lì in poi. Perchè quei 180 giorni di «parcheggio» autolesionistico, e proprio per la provvista Rovelli? Perchè - risponde l'accusa - quei soldi non erano tutti per lui: una parte la doveva spartire con i giudici corrotti. I giudici Metta, Squillante e Verde negano di aver mai compravenduto sentenze. Squillante spiega i 9 miliardi che teneva in Svizzera con la straordinaria propensione al risparmio della sua famiglia. E i soldi avuti da Pacifico durante la causa Imi-Sir? Frutto di affari e investimenti in comune, di «compensazioni» di contante che Pacifico gli portava in Italia, ricevendo il corrispettivo via bonifico in Svizzera. E i soldi da Pacifico a Verde? I 280 milioni del '94, spiegano concordi, erano la restituzione di un prestito che il giudice aveva concesso all'amico avvocato per saldare un improvviso debito di gioco al casinò di Montecarlo. Pacifico aveva il conto in rosso, e non sapeva dove attingere. Appena risalì, restituì. Strano: perchè nello stesso periodo anche Verde era in rosso, anzi ancora più in rosso di Pacifico. Tant'è che dovette operare in «scoperto di conto». Perchè non fece altrettanto Pacifico, in una situazione analoga? Prima condanna, il 20
luglio 20001 ----------------------------------- DA - L'UNITA' "Cesarone",
l'uomo che non doveva cadere mai È unicona per lItalia dei condoni. Per quelli che non pagano le tasse. Come ha scelto di dichiarare - non importa se per necessità difensiva - a quella famosa udienza del processo di Milano. E le precisazioni ulteriori non servono a chiarire, ma ammiccano a tutto quel mondo per cui Cesare Previti è e rimane un mito: «No, non sono un evasore». Su quei miliardi - sè vantato - saldò la sua coscienza di contribuente con un condono tombale. E poi, sottilizzando: «Non sono un evasore perché il fisco non mi contestò mai quella somma». Guai a chiedergli come avrebbe dovuto fare il fisco ad accorgersene, se i miliardi erano inguattati dentro a un bel po di conti esteri, intestati a nomi di - poca - fantasia, come «Oceano» per quellamicone dellavvocato Pacifico, quello che faceva, chissà?, «le compensazioni delle compensazioni», (altra battuta celebre, incomprensibile ai più, consegnata ai verbali daula). Pazienza se non ci si capisce unacca. Nella difesa di Previti al processo di Milano la logica non centra. Conta l'immenso repertorio di battute criptiche, conta la montagna di «garbugli» da «azzeccare» manzonianamente - Corti da ricusare, fumi di persecuzione da agitare, termini da far scadere - per meritarsi una continua «standing ovation» dal popolo di quelli che ammirano coloro che non pagano le tasse. E adorano chi gli insegna il trucco. E magari sfottono laltra metà dItalia con le trattenute in busta paga. Non è un caso che Alberto Sordi si ispirasse a lui per lultimo progetto che meditava, di un film che completasse la sua Storia-affresco della parte oscura degli Italiani. Gente che non paga le tasse. E quando parla, ci vuole linterprete, per decodificare, sotto i baffi di una risata sorniona, il «messaggio». Filippo Mancuso di «messaggi» se ne intende. A Cesare Previti attribuì un «simul stabunt, simul cadent» rivolto a Berlusconi. (Insieme staranno in piedi, e insieme rovineranno). Precisamente: lavvocato forzista Michele Saponara, citato dallex guardasigilli, essendo «onestamente attento al divenire delleterna questione Berlusconi-Previti, mi dice di sapere per certo che la preoccupazione di questultimo (Previti) intorno alle note procedure di Milano era giunta a un tale punto di esasperazione da inviare allaltro (Berlusconi) una missiva di certissimo contenuto ultimativo. Nella quale, Previti latineggiava lallusivo avvertimento». Simul? Insieme? O è vero il gossip che dice che Berlusconi e Forza Italia lavrebbero deluso, e infine «scaricato»? Funzionerà quel motto di Mancuso come profezia, ora che «il divenire delleterna questione» sembra arrivato al capolinea? Linteressato - se glie lo chiedessero - si può scommettere che risponderebbe con un sogghigno. Ce lha stampato nella faccia. In quella faccia che - dice - si trova «sotto processo» a Milano. E quando stira il labbro inferiore in quello che normalmente dovrebbe essere un sorriso, hai un bel dirti che Lombroso le sparava grosse, e Grace Kelly con un volto angelico ne fece più di Carlo in Francia. Ma il chiamiamolo sorriso di Cesare Previti si porta dietro un bruciante ricordo: di quando, nella campagna elettorale del 1996, illustrò il programma di governo suo personale e della coalizione proclamando: «Non faremo prigionieri». Tutto in nome della «cultura politica del maggioritario»? No, la sua, di cultura - la sua: di Previti - affonda radici altrove. Come linteressato ammette quelle volte che ha i suoi lampi di sincerità. Allorché, e capita sempre più spesso, «esce al naturale». Esempio giudiziario: della pubblica accusa al processo di Milano ha affermato che gli procura «un conato di vomito». Traduzione piuttosto drastica della teoria di Montesquieu sulla divisione dei poteri: il «giudiziario» che giudica; la politica che, se inquisita, vomita «Cesare - confida uno che in Forza Italia è arrivato dopo gli anni ruggenti - è ancora legato a quella stagione ruspante, muscolare, del glie la faremo vedere. Che non trova più molto "audience" in certi salotti finanziari e nellelettorato di centrodestra, logorato più di quanto non appaia dallappello di legalità e di ordine dei girotondi. Tendenze "antemarcia" che Berlusconi ha annunciato ai suoi di voler mettere conseguentemente sotto traccia». Anche se - prima che i guai di giustizia si addensassero - proprio questavvocato civilista di origine calabrese occupò la tormentata casella di «coordinatore nazionale» (nel 1994, e si chiamava segretario politico) del partito di maggioranza. È, dunque, ben comprensibile come mai dalle colonne del "Corriere" - le prime due colonne a sinistra, quelle delleditoriale, quelle che pesano - partisse qualche tempo fa (per rimanere sinora inascoltata) linvocazione a «mettere gentilmente, fermamente alla porta» cotesto «modello di cittadino». Il quale, se si parla dei lontani anni Settanta, non fa troppo il misterioso: «Ero così di destra, ma così di destra, che persino Gianfranco Fini, quando mi incontra, mi chiama "il fascista"». Oppure: «Da ragazzo ero missino, come tutti i borghesi romani ». Proprio tutti? La domanda che sorge spontanea è perché Berlusconi se lo sia tenuto appresso, un tipo così. Per le ragioni inconfessabili cui allude Mancuso, connesse al processo di Milano? O anche per fraterni e antichi legami? Oppure avrà ragione unaltra transfuga di Forza Italia, la palermitana Cristina Matranga, che più semplicemente spiegò alla "Stampa" il 29 settembre 1994: «Dicono che Previti sia lavvocato degli affari illegali di Berlusconi? È vero ». La memoria di Previti, abbastanza disponibile a rivangare il passato remoto in camicia nera (seppure, puntualmente smentito dai superstiti del Pli, un giorno millantò daver fatto parte in gioventù della Direzione liberale), trascolora invece riguardo ai tempi più recenti. Spesso lui tira in ballo la fatalità. Scartabellando archivi si rileva, per esempio, che per via di un fonema palatale - per effetto della somiglianza del suono di una "D" e di una "T" - il suo nome fu associato alla loggia P2. A differenza di Berlusconi, (tessera 1816, codice E. 19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, data di affiliazione: 26 gennaio 1978), Previti non risulta nella lista che fu trovata nella villa di Licio Gelli, a Castiglion Fibocchi. Ma davanti a Villa Wanda, residenza del Maestro Venerabile della loggia delle trame e dei misteri, alle ore 13,40 del 23 maggio 1988 una pattuglia della Digos annotò sul brogliaccio dei devoti visitatori un «avvocato Cesare Previdi, di Roma, senza documenti». Previdi, non Previti, si intende. Anche se cè da dire che di «avvocati Previdi» non ne risulta neanche mezzo negli elenchi del Foro della capitale. Si conoscono dagli anni Sessanta con Silvio, come un giorno ricordò lo stesso Previti, intervistato. Poi posticipò lincontro, chissà perché, di un decennio. Allepoca di una complicata connection - madre di tutti gli affari - da cui Berlusconi intascò nientemeno che la villa di Arcore. Apparteneva ai marchesi Casati Stampa. Ma lultimo discendente maschio ebbe lidea di tornare in anticipo nella sua casa romana al numero 9 di via Puccini, la sera del 30 agosto 1970, e imbracciando un fucile da caccia al cospetto duna classica scena di adulterio, uccidere la moglie, Anna Fallarino e il picchiatore fascista Massimo Morenti, che i giornali dellepoca definirono il «suo amante», e infine di togliersi la vita. Il trentasettenne avvocato civilista Cesare Previti curò dapprima gli interessi degli eredi Fallarino, poi passò alla parte avversa, la marchesina minorenne Annamaria. Di cui diventò pro-tutore. Ricorderà, intervistato da Giorgio Bocca: «In quei giorni avevo avuto un lavoro dalla Edilnord di Silvio, e gli dissi: Berlusconi, lei deve farmi un grande piacere. Sì, e quale? Mi comperi la villa san Martino dei Casati Stampa ad Arcore. Ma, avvocato, che me ne faccio? Ho i miei affari in città. Venga a vederla. E alla fine lui mi fece una proposta tipicamente sua: Me la lasci provare, ci sono le vacanze di Pasqua La provò e non se nè più andato". La occupò, per nove anni fino all80, senza fare alcun rogito, con la marchesina - residente nei Caraibi - che, ignara continuava a pagare le tasse, mentre limprenditore «parvenu» con la sua corte si installava nella villa portandovi pure uno stalliere mafioso, e la sottoponeva a radicali ristrutturazioni. La villa diverrà la reggia e insieme il quartier generale berlusconiano. Mentre i primi passi del «miracolo italiano» di Berlusconi continueranno a portare per lungo tempo il segno della devota ed efficace assistenza della famiglia Previti. Sin dai primi passi di Silvio nel grande giro. Il padre, Umberto, commercialista missino di Reggio Calabria, romano dadozione, risulta essere lultimo degli amministratori dellEdilnord, la società sorta dal nulla in Svizzera, intestata alla cugina e alla zia di Silvio, e poi messa in liquidazione proprio dal padre di Cesare. E sarà sempre Umberto Previti a curare da quelle ceneri la nascita della Fininvest Roma e laumento del capitale sociale da 20 milioni a 50 miliardi. Cesare siede dapprima nel collegio sindacale della Fininvest srl. Si fa le ossa. Poi entra nei consigli di amministrazione della Standa, di Euromercato, di Mediolanum, assurge alla vicepresidenza della Fininvest Comunicazione e della Rti. La resistibile ascesa coincide con una gran tessitura di pubbliche e private relazioni. In breve diviene il personaggio cruciale introdotto nella cerchia giusta, sempre a braccetto con influenti magistrati, intimo di Bettino Craxi, che in quel periodo con Berlusconi ha un reciproco e proficuo rapporto di sostegno. Ottiene la vicepresidenza della Selenia, industria bellica del gruppo pubblico Iri. Ristruttura una torre spagnola sullArgentario. Compra uno yacht di 29 metri, il mitico Barbarossa. E spicca il volo. Figura da più di ventanni nella hit parade dei contribuenti romani. Anche se poi si scoprirà che il grosso delle tasse non le paga, per sua stessa ammissione, spinto da necessità difensiva al cospetto delle accuse di corruzione. (Ma cè chi vi vede anche una sfida e unammiccante rivendicazione verso tutto un mondo sensibile ai modelli dellillegalismo diffuso). Tasse che vanno, tasse che vengono. Gente che non le paga. Ma le fa pagare alla marchesina di turno. E a noi tutti. Come abbiamo visto, i primi passi del «cursus honorum» previtiano coincidevano,infatti, con quello strano rinvio alle calende greche del pagamento e del rogito per la villa di Arcore, che portò la marchesina Casati a sborsare limporto delle tasse miliardarie dovute al fisco dallacquirente. Cè da stupirsi se Oscar Luigi Scalfaro un tipo così non lo volle alla Giustizia, dove Berlusconi laveva piazzato nellelenco originario del suo primo governo, quello del 94? Ripiegò sulla Difesa, divenendo in questa maniera, seppur per breve tempo, il ministro dei Carabinieri. E proprio in quel periodo Previti ha detto ai giudici di Milano di aver risparmiato qualche miliarduccio, sottratto al fisco. La storia successiva è
nota, oggetto del processo. Molte delle scene raccontate
nelle carte si svolgono proprio nei salotti dove regna
Cesare Previti. Al Circolo canottieri Lazio, sul
Lungotevere Flaminio, che è un po un suo feudo,
avvenivano, secondo la superteste Ariosto, gli scambi di
denaro con i magistrati. Cè quel siparietto da
antologia con Renato che sbadatamente non ha preso la sua
busta gonfia di banconote, e Cesare che lo richiama
indietro: «A Rena, te stai a scorda
questa
». Battuta che fa il paio con un famoso «A
Fra, che te serve?», che veniva rivolto da un
grande palazzinaro a un potente elemosiniere dc, quando
sembrava che non dovesse mai finire la Prima Repubblica. Uno dopo laltro, gli espedienti, però, si sono risolti male, sia nel processo di Milano, sia - in fondo - in Parlamento. Non ha funzionato il previsto «tabula rasa» delle rogatorie internazionali. I giudici hanno interpretato con rigore le norme sul legittimo sospetto. Finiti i giochi di prestigio, la stella di Cesarone è via via impallidita, lanciando qualche bagliore assai poco rassicurante sullimpero di Arcore, che pure egli stesso aveva fornito di una reggia. Quel «modello di cittadino» è, in verità, per un decennio che - almeno cronologicamente - va a concludersi, il «modello» di certa Italia. Un paradigma di certa politica e di un blocco sociale, oggi non più solidissimo. Ma i due, quei due, crolleranno assieme? O divideranno le loro strade? Siamo così abituati a vederli in coppia, - il buon Mancuso parla di «una banda», e Previti nel tentativo di smentirlo gli ha ricordato di averne fatto parte - e non si riesce a immaginarli separati. Luno rovinato da una sentenza. Laltro aggrappato alla zattera di palazzo Chigi. Magari pronto a ghermire unaltra reggia, il Quirinale, con qualche nuovo sherpa al fianco, pronto ad offrirgli altro, indispensabile, «know how» per sfangarla a forza di trucchi e di gelidi sorrisi. -------------------------------- DA - L'UNITA' Imi-Sir/Lodo
Mondadori, il processo che pareva impossibile Rinviata quattro volte, la sentenza del processo Imi-Sir arriva dopo 88 udienze. Il processo è partito dall'accusa di corruzione in atti giudiziari a carico dell' onorevole Cesare Previti, l'ex capo dei Gip di Roma, Renato Squillante, gli avvocati romani Attilio Pacifico e Giovanni Acampora, gli ex giudici romani Filippo Verde e Vittorio Metta, Felice Rovelli, figlio dell'ex presidente della Sir, e la vedova dell' industriale, Primarosa Battistella. Sono due le tangenti finite nel mirino degli inquirenti. La prima di 67 miliardi di lire e relativa al giudizio Imi-Sir sarebbe stata versata dall'industriale Nino Rovelli. La somma sarebbe stata pagata, nell'arco di tre mesi durante il 1994, a Cesare Previti (21 miliardi), Attilio Pacifico (per 33 miliardi) e Giovanni Acampora (13 miliardi). Pari a 3 miliardi e 36 milioni di lire è, invece, la presunta tangente versata per il Lodo Mondadori Secondo le ricostruzioni fatte dall'accusa sui complessi passaggi di denaro legati a questa somma, la tangente per il Lodo Mondadori sarebbe partita dai conti correnti riferiti alla società All Iberian per arrivare sul conto estero di Cesare Previti, il «Mercier». Da qui un miliardo e mezzo avrebbe preso la via del conto corrente di Acampora, il «Careliza», dal quale 425 milioni rientrano nelle disponibilità di Cesare Previti che, sempre secondo le ricostruzioni dell'accusa, li avrebbe dirottati in seguito, dopo averli divisi un due tranche, sul conto corrente estero di Attilio Pacifico, il «Pavoncella». Da qui 400 milioni sarebbero stati fatti rientrare in Italia e consegnati da Attilio Pacifico all'ex giudice Vittorio Metta che del Lodo Mondadori fu il giudice relatore. Subito dopo la formulazione dell'accusa, cominciano le schermaglie procedurali: Previti e Pacifico chiedono a Carfì di 'astenersi' dal giudicare. -------------------------------- DA - L'UNITA' - L'INTERVISTA. «Da due anni
si fanno leggi solo per gli imputati eccellenti»
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