Intervista a
Paolo Mieli
Un uomo che non si
accontenta dell'evidenza
La carriera giornalistica di Paolo Mieli è stata davvero
prestigiosa e oggi, dopo il ruolo di direttore del più
importante quotidiano italiano, il Corriere
della Sera, ha la direzione di tutto
il settore giornalistico della Rizzoli. Ma questo impegno
non ha di certo spento la sua curiosità intellettuale,
la passione e la competenza di storico.
Col garbo e la disponibilità che lo contraddistinguono,
parla con noi del suo impegno professionale e del suo
ultimo libro, Le storie la storia.
La
storia è un centro di interesse per lei in quanto
giornalista o oggi pensa di occuparsene con una diversa
finalità?
È un modo il mio di parlare
del presente, allontanandosene. Invece di tenere lo
sguardo fisso sempre sui protagonisti e i fatti
dell'oggi, cercare analogie da approfondire sul
passato, anche sul passato molto remoto.
Mi sembra un atteggiamento intellettualmente
proficuo, e il pubblico ha colto questa doppia
possibilità di lettura del mio libro. Infatti le
storie possono anche essere lette in sé, come le
vicende di Alcibiade, di Seneca, di Cicerone, di
uomini del Medioevo, di qualche papa rinascimentale,
oppure possono essere lette "in chiave".
Elemento centrale per me è questa libertà del
lettore di trovare un suo percorso e di scegliere
personalmente come leggere questo libro.
Quali sono i
suoi maestri?
I miei maestri, dichiarati
anche esplicitamente nel libro, sono stati due grandi
storici, entrambi scomparsi da poco: Renzo De Felice
e Rosario Romeo. Due storici diversi fra loro. Romeo
è stato un grande studioso del Risorgimento e di
Cavour a cui ha dedicato un'ampia biografia. De
Felice, dopo aver fatto studi in gioventù
sull'Illuminismo e sui giacobini italiani nello
scorcio tra la fine del Settecento e l'inizio
dell'Ottocento, ha studiato molto il fascismo e ha
dedicato a Mussolini la sua importante e monumentale
biografia. Questi sono stati i miei maestri non solo
per la scelta degli argomenti, ma anche per il metodo
di ricerca che mi hanno insegnato.
Parliamo
appunto di metodo storiografico.
I l metodo è molto semplice:
si tratta di prendere la versione ufficiale dei fatti
(questo criterio mi è servito molto anche per il
giornalismo) e di andare a vederne quanto meno i
risvolti, i conti che non tornano, e poi porsi delle
domande. Se le cose non fossero andate davvero così?
Se quelli che vengono considerati i
"buoni", fossero un po' meno buoni di
quanto ci appaiono? E i cattivi fossero stati meno
cattivi di quanto ci è stato fatto credere? Queste
domande fondamentali sul capovolgimento hanno
ispirato sempre i miei interessi e hanno portato a
risultati molto curiosi nel rifare la storia.
Pensa di
proseguire in questo tipo di produzione?
S ì, penso di continuare a
scriverne, per lo meno giornalisticamente. Questo
libro nasce da una serie di saggi che ho pubblicato
su La Stampa,
e che sto continuando a scrivere su quel quotidiano:
penso di fare di questa parte della mia identità e
della mia professione qualcosa di definitivo.
All'interno
della Rizzoli lei ha una funzione oggi molto importante,
quali innovazioni intende introdurre?
L a mia responsabilità
attuale, all'interno della Rizzoli, è dirigere tutta
la parte giornalistica. Noi abbiamo alcuni importanti
quotidiani, sia in Italia che all'estero. Oltre al Corriere
della Sera e a La
Gazzetta dello Sport, abbiamo El
Mundo, che è il secondo
quotidiano spagnolo. Abbiamo anche molti periodici:
una trentina in Italia e poi alcuni in Spagna, in
Germania, altri in Turchia, uno addirittura nel
Vietnam. Mi piacerebbe, però questo è un po'
prematuro, aggiungere periodici per i libri.
Per questo tengo molto al mio ultimo libro (per altro
come avviene per ogni autore): mi interessa anche
come test per capire se è un genere che può avere
fortuna e può giustificare dei prodotti editoriali
specifici.
Quale è stata
la risposta dei lettori?
I l libro ha avuto un'ottima
accoglienza, è già alla quarta edizione in due
mesi, sono soddisfattissimo. In parte però questo
successo è dovuto al mio essere un personaggio
pubblico. Ci sono infatti molte persone che mi
conoscono e hanno seguito le cose che andavo dicendo
e scrivendo in questi anni. Adesso voglio capire, e
lo sto facendo in diversi incontri in tutta Italia,
quanta è la partecipazione specifica del pubblico
nel merito delle cose che ho scritto e quanta la
curiosità invece per l'autore e per il personaggio.
Intervista
a cura di Grazia Casagrande
ANTEPRIMA / IL
NUOVO LIBRO DI PAOLO MIELI
Paolo Mieli: vi racconto la mia
Storia
Polemiche sull'antifascismo e la Shoah. Incomprensioni
sul Risorgimento... Perché? Il giornalista-storico
spiega le nostre, mai risolte, contraddizioni ideologiche
di Mirella Serri
Risorgimento,
fascismo, comunismo: non passa giorno che in italia non
si abbia un'accesa discussione su questi temi e più in
generale sui 140 anni dello Stato unitario. Su
l'interpretazione di questo secolo e rotti, quasi
quotidianamente, sulle pagine dei maggiori giornali, su
riviste, in convegni e pubbliche manifestazioni, si
svolge un dibattito non sempre in guanti bianchi...». Di
questo si rammarica Paolo Mieli nell'introduzione del suo
nuovo libro in uscita da Rizzoli, "Storia e
politica". Il volume, che ha come sottotitolo
l'incendiaria triade "Risorgimento Fascismo e
Comunismo", riunisce saggi inediti e articoli
pubblicati negli ultimi tre anni sulla "Stampa"
dal cinquantaduenne ex direttore del quotidiano torinese
e del "Corriere della Sera".
Mieli, attualmente direttore editoriale della
Rizzoli-Corriere della Sera, ha sempre coltivato uno
speciale interesse per la storia. Prima di imboccare
definitivamente la strada di una brillante carriera
giornalistica, è stato allievo e poi assistente
all'Università di Roma di Renzo De Felice. Una scuola
non di poco conto a cui si aggiunge un altro importante
maestro, lo storico del Risorgimento, Rosario Romeo. Da
questi docenti Mieli ha ereditato il metodo e la
vocazione alla scoperta. Così in questo nuovo libro
Mieli ha attraversato le avventure di intellettuali del
mondo classico, come Socrate e Platone; Destra e Sinistra
nell'Italia di Crispi e Giolitti; si è occupato di
Goethe e di Talleyrand, di Gustav Herling, di Guido
Piovene, di Eugenio Colorni. Sono stati proprio molti di
questi articoli a trama larga, testi che fanno trasparire
il presente, a evidenziare personaggi e situazioni, nodi
storiografici del Risorgimento, fascismo, comunismo,
antifascismo, a volte rimossi e occultati. E questo
passato "censurato" è diventato occasione di
conflitto e di guerriglia. A Mieli è stato rimproverato
un uso tutto "politico" della storia.
Mieli,
è così? Come mai ha scelto proprio questo discusso
binomio, storia e politica, come titolo del libro?
«Da più di duemila anni, politica e storia si sono
strettamente intrecciate. Senza che nessuno si sia mai
scandalizzato. Non credo sia venuto il momento di farlo
adesso. Il problema è un altro. In Italia quella che è
una naturale contaminazione, quando non viene praticata
dalla sinistra più ortodossa, genera sospetto. Basta
solo un esempio. Sono stati considerati politicamente
scorretti persino due storici come Angelo d'Orsi e Marco
Revelli (autori, rispettivamente, de "La cultura a
Torino tra le due guerre" e "Oltre il
Novecento"), presi di mira dalla loro stessa parte
politico-culturale, e cioè dalla sinistra. Le loro
colpe? D'Orsi metteva in luce alcune ambiguità
dell'azionismo piemontese nel periodo fascista, e Revelli
la contiguità in fatto di orrori e di nefandezze tra
nazismo e comunismo. Revelli ha protestato sul
"Manifesto" contro la demonizzazione, ovvero
contro la costruzione di una falsa posizione
dell'avversario in modo da poterlo dequalificare e
stroncare. Mi dispiace che Revelli si indigni solo quando
accade a lui di essere messo sotto torchio e invece non
si accorga che il meccanismo funziona allo stesso modo
quando vengono presi di mira storici che non sono delle
sue stesse opinioni politiche come, per esempio, Ernesto
Galli della Loggia. Certo è che quando ho cominciato a
pubblicare i miei articoli di storia non mi aspettavo
questo clima di sospetto e la mischia che ne è
derivata».
Possibile
che non l'avesse intuito?
«Quando ho lasciato la direzione del "Corriere
della Sera" avrei potuto continuare a occuparmi
attivamente di politica. Dopo aver fatto il giornalista
per trent'anni non mi ero stancato, ma il tipo di
dibattito che c'era in Italia non mi piaceva. Toni aspri,
duri. Pensavo che mi sarei ricavato un ambito più
riparato. Così, prendendo spunto da libri e saggi altrui
e seguendo il metodo che mi hanno insegnato i miei
maestri De Felice e Romeo, ho cercato di mostrare
problemi, di rilevare questioni fino a quel momento
ignorate. Ma le mie idee si sono sempre intersecate a
quelle di altri studiosi di svariate tendenze politiche e
culturali».
Però
anche sulle questioni storiografiche più lontane, come
sui Borbone, su Pio IX o Crispi, le sue interpretazioni
sono state viste come tentativi d'insidiare la storia
patria. Come se lo spiega?
«Io credo che l'incapacità di discutere in Italia senza
acrimonia, di stabilire aree di contiguità tra storia e
politica, venga da molto lontano. Il dibattito
storiografico sul Risorgimento fu del tutto sordo alle
ragioni dei vinti. E lo Stato unitario, tra i suoi primi
obiettivi ebbe quello di demonizzare il Regno delle Due
Sicilie. Ebbene, da noi, tra il 1861 e il '65, si
combattè una durissima guerra civile, contro il
brigantaggio, con il popolo di parte della penisola
ostile ai nuovi governanti. Ma la discussione
storiografica si è svolta solo tra coloro che
sostenevano le ragioni dell'élite che aveva fatto
l'Unità. E si evitò di misurarsi con le ragioni degli
sconfitti».
Non
avviene sempre così? La storia non è sempre data in
appalto ai vincitori?
«Certo che no. Basta un esempio: in quegli stessi anni
fu combattuta un'altra aspra guerra civile: quella
americana. Ebbene esiste un'ampia trattazione che ha
approfondito, sviscerato, osservato al microscopio tutte
le ragioni del Sud sconfitto. Da noi sono stati prodotti
libri, interventi, singole opere; ma non ampie storie
d'insieme, focalizzazioni che ci restituiscano il
complessivo senso storico».
Ma
cosa costava dar prova di tolleranza?
«Costava molto. In termini di sicurezza, per esempio.
C'era, sia nella Destra che nella Sinistra, la
consapevolezza di essere disancorate dalla realtà del
paese e iper-minoritarie. C'era il terrore che le masse
popolari rimaste estranee al processo unitario potessero
allearsi con i rispettivi oppositori: quelle cattoliche
potevano incontrarsi con la destra, la classe operaia con
la sinistra. Sotto questa specie di ricatto, sotto questa
spada di Damocle si svolgerà la vita politica italiana.
Anche il trasformismo nasce da questa insicurezza. Nel
1876 la destra storica al potere si divise e una parte di
essa, attraverso quella che fu battezzata la
"rivoluzione parlamentare", aprì le porte alla
sinistra di Agostino Depretis e, sei anni dopo, diede
vita a un'alleanza destra-sinistra. Insomma si trattò di
un indebolimento della giovane democrazia italiana che
non conoscerà l'alternanza tra destra e sinistra, che
invece caratterizza le altre democrazie occidentali. Da
allora in Italia, unico paese al mondo, i governi sono
stati contraddistinti da questa anomalia, da gruppi di
deputati che danno vita a maggioranze parlamentari
diverse da quelle che erano state promesse agli elettori.
Le elezioni servono a ratificare il cambiamento avvenuto.
Non è mai accaduto che una nuova maggioranza eletta
andasse al governo. Tutto è sempre proceduto per
aggiustamenti parlamentari. Salvo alcuni infarti del
sistema, ovvero l'avvento del fascismo, la fine della
dittatura, il 1992 con Tangentopoli. E naturalmente
questa instabilità ha reso il sistema e la nostra classe
politica insicura. Difficilissimo, dunque poter concepire
il racconto dei "vinti" (per esempio delle
masse popolari e in particolar modo di quelle meridionali
che non si erano identificate con lo Stato unitario) o
degli avversari».
Insomma
la storia ufficiale ha messo da parte tutti quelli che
non vi si riconoscevano?
«Gli esempi li troviamo anche in epoche recenti. La
presenza determinante dei comunisti nell'alleanza
antifascista ha creato silenzi, vuoti di memoria che si
sono protratti ben oltre il periodo resistenziale. Nella
Resistenza era necessaria l'unità tra comunisti,
liberali, cattolici e tutte le altre forze democratiche
per combattere il fascismo e la reazione. Se i comunisti
erano l'ingrediente fondamentale dell'antifascismo, se
erano l'entità con cui allearsi contro la dittatura, chi
denunciava gli orrori del comunismo o dello stalinismo
veniva tacciato di voler rompere l'alleanza antifascista.
Così battersi contro il dispotismo comunista voleva dire
star dalla parte del fascismo. E, poi, chi erano i
custodi dell'alleanza antifascista? Erano intellettuali o
politici che magari erano stati fascisti fino al momento
in cui il regime era vincente e poi avevano partecipato
alla lotta antifascista quando la dittatura si era
rivelata perdente».
Eppure
ormai da anni si tirano fuori gli scheletri dagli armadi
e, anche a sinistra, si fanno i mea culpa, si riconosce
la realtà delle foibe e dei gulag.
«Certo, ma non abbastanza. Oggi molti dei protagonisti,
molti di coloro che sono repentinamente passati dal
fascismo al comunismo, sono ancora in vita. Emergono
difese a oltranza. E reticenze. Tante. Io mi chiedo:
possibile che chi è stato comunista non abbia mai visto
brutture, sentito episodi inquietanti? Perché nessuno si
prende le proprie responsabilità come ha fatto Norberto
Bobbio riconoscendo le sue compromissioni con la
dittatura? Quello che mi stupisce sono proprio i silenzi.
E quando si cerca di riempire uno spazio vuoto non c'è
il tentativo di confutare le tesi dell'altro. Ma la
volontà di squalificarlo. Oggi chi mette in luce le
ragioni dei vinti non solo trama complotti contro lo
Stato democratico, ma può addirittura essere bollato
come un negazionista che cancella l'Olocausto. Potrei
ripetere all'infinito che sono ebreo e che molti dei miei
parenti sono morti in campo di concentramento, ma la
volontà di chi impugna l'arma della delegittimazione non
si ferma certo davanti a queste affermazioni».
Non
molto tempo fa Barbara Spinelli sulle colonne della
"Stampa", ha esortato a rifuggire dall'uso
improprio e calunnioso della parola revisionista. È
d'accordo?
«Chi fa questo lavoro deve essere consapevole che non
esiste una verità rivelata. Quello dello storico è un
lavoro spietato. Che non sempre fa tornare i conti. Tutto
ciò che si costruisce e si conquista può esser messo in
discussione. Mi sono molto addolorato nel conoscere la
sgradevole verità sul ruolo di spia avuto da Ignazio
Silone. Lo conoscevo bene, lo stimavo moltissimo. Ma non
per questo mi sono sognato di attaccare o di confutare le
tesi degli storici basate su fatti veri, dimostrati.
Tutto deve essere sottoposto a revisione. Viviamo dal
dopoguerra a oggi in un continuo stato di emergenza, come
se una ricerca storica potesse portarci alla perdita del
nostro vivere democratico e civile. Lasciamo la cultura
dell'emergenza. Non esistono questioni che non possono
essere rivisitate».
Nel
suo libro precedente c'erano personaggi della classicità
che rimandavano direttamente a uomini politici
contemporanei. E in questo?
«Ci sono situazioni da decrittare. Nel primo capitolo,
dedicato a Ulisse, parlo del bisogno di disfarsi della
memoria. Solo facendo i conti con l'oblio, solo
abbeverandosi delle acque del fiume Lete ci si libera
della precedente esistenza e si torna in un nuovo corpo.
Non sarà proprio questa la chiave per fare i conti con
quella parte di storia dimenticata ed eliminare malintesi
e rancori?».
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