Storia di un processo infinito
fra udienze, leggi e girotondi
di MARCO BRACCONI
ROMA - E' la storia di un processo infinito.
Richieste di ricusazione, di remissione, di trasferimento
ad altra sede, di applicazione di leggi varate in tutta
fretta al Parlamento. Perfino di certificati di malattia.
Con il palese obiettivo, da parte dei principali imputati
(con Previti c'è anche l'attuale premier Silvio
Berlusconi, la cui posizione sarà "stralciata"
solo nel 2003) di non essere giudicati a Milano e, in
ogni caso, di rallentare i tempi.
Novembre 1999. La tormentata vita del dibattimento
Sme inizia il 26 novembre 1999. Silvio Berlusconi è
ancora il leader dell'opposizione. Il giudice per le
indagini preliminari Alessandro Rossato lo rinvia a
giudizio insieme a Cesare Previti e altre sei persone.
L'accusa è corruzione in atti giudiziari. Gli imputati
sono accusati di aver corrotto alcuni dei magistrati
romani che nel 1985 avevano deciso di bloccare la vendita
dell'industria alimentare Sme al gruppo di Carlo De
Benedetti, favorendo la cordata di Berlusconi, Barilla e
Ferrero. Il 9 marzo dello stesso anno inizia il processo
Novembre 2001. Subito schermaglie procedurali. Ma
il botta e risposta tra i giudici e Cesare Previti
diventeranno una guerra all'arma bianca due anni dopo. Il
25 novembre del 2001, il deputato di Forza Italia chiede
- in base alla nuova legge approvata dalla maggioranza di
centrodestra - di annullare tutte le prove contro di lui
acquisite per rogatoria dalla procura di Milano. Negli
stessi giorni si alzano i toni dello scontro con
Francesco Saverio Borrelli. "Previti si difende come
facevano gli imputati per terrorismo negli anni
'70", dice il magistrato. Pochi giorni dopo, si
consuma lo scontro tra i legali di Previti e il
Tribunale, al quale gli avvocati chiedono continui rinvii
per "legittimo impedimento parlamentare".
Così, tra sospensioni concesse e altre rifiutate, si
arriva al 27 dicembre 2001.
Dicembre 2001. Scoppia il "caso
Brambilla". Il giudice a latere nel processo Sme
attende il trasferimento al tribunale di sorveglianza.
L'8 gennaio 2002, il ministro della Giustizia Roberto
Castelli dice che "dovrà prendere immediatamente
possesso della nuova funzione". E la risposta al
chiarimento chiesto dal presidente della corte d'Appello
di Milano sul previsto cambio di mansione. Non a caso, il
giorno precedente, Previti aveva presentato una richiesta
di ricusazione nei confronti di Brambilla, giudicato
"radicalmente incompatibile con la permanenza in
quel collegio" in quanto già trasferito ad altro
incarico. "È la notte della democrazia", dice
Gerardo D'Ambrosio.
Brambilla alla fine resterà nel collegio giudicante, ma
la guerra continuerà per mesi. L'11 gennaio 2002 Previti
chiede - senza ottenerla - la sua ricusazione, e 19
gennaio telefona in diretta alla trasmissione Sciuscià
di Michele Santoro e accusa i giudici del processo:
"E' un dibattimento anomalo". A tal punto -
secondo il deputato forzista - che il Tribunale di Milano
non dovrebbe proprio giudicarlo.
Arriva dunque la richiesta di remissione. 800 pagine.
Destinatario, la Cassazione. Gli avvocati di Previti e
Berlusconi vogliono che l'Alta Corte decida se è il caso
di spostare dal capoluogo lombardo (per "legittima
suspicione") i processi del filone "toghe
sporche". La richiesta viene depositata il 26
febbraio 2002. La data è da cerchiare con il rosso,
perché saranno gli sviluppi di questa iniziativa a
condurre alla tanto contestata "legge Cirami".
Maggio 2002 .Il 31 maggio 2002 arriva infatti il
pronunciamento della Cassazione, che verifica il
"vuoto legislativo", giudica la questione
"rilevante" e passa la palla alla Corte
Costituzionale. I processi vanno avanti, ma si aprono le
maglie - dice subito il centrodestra - per una legge
sull'argomento.
Passano intanto i mesi, con Previti che torna ad
attaccare i giudici milanesi ("c'è un accordo
contro di me tra pm e Tribunale di Milano") e nuove
procure che entrano in azione. L'8 giugno 2002 i
carabinieri, su ordine dei magistrati di Perugia,
arrivano a Milano per sequestrare la cassetta
dell'intercettazione al bar Mandara del 2 marzo '96.
Prendono anche gli appunti scritti a mano dal poliziotto
che ascoltò il colloquio tra Renato Squillante, ex capo
dei gip di Roma, e il pm amico Francesco Misiani.
Nel capoluogo umbro, infatti, è in corso l'inchiesta
sull'eventuale manomissione di questi nastri, nata
appunto dopo una denuncia di Cesare Previti. E a Milano
è un'altra occasione per una ulteriore richiesta di
sospensione, che verrà anch'essa respinta.
Così come un'altra, stavolta clamorosa, richiesta
dell'avvocato-deputato Previti al segretario di
Magistratura Democratica, Livio Pepino. Attraverso i suoi
legali, il deputato chiede "l'elenco contenente i
nominativi dei magistrati iscritti alla corrente
associativa di Md". Ne nascono polemiche a non
finire, e lo sdegnato rifiuto di Pepino
Agosto 2002. La legge Cirami sul legittimo
sospetto (vale a dire la normativa che precisa e amplia
le condizioni per le quali è doveroso spostare un
processo dalla sua sede naturale) viene approvata dal
Senato il 1 agosto 2002. In aula l'opposizione grida allo
scandalo. Fuori, i girotondini "assediano"
Palazzo Madama. Nanni Moretti e alcune migliaia di
persone gridano "vergogna"" e
"no" alla legge "salva Previti". Ma
il provvedimento, dopo altri tre tormentati passaggi in
aula, diventa legge il 5 novembre del 2002. Ciampi lo
firma due giorni dopo. Immediata la richiesta di
remissione sulla base delle nuove norme.
Gennaio 2003. Ma i processi - deciderà la
Cassazione il 28 gennaio 2003 - restano a Milano. E' una
sonora sconfitta, per Cesare Previti e Silvio Berlusconi.
Che però non si arrendono. Nella Casa delle libertà si
comincia a pensare ad una legge ad hoc che sospenda i
processi per le cariche istituzionali (che sarà poi
approvata). Ma è una soluzione solo per il premier. Non
per Previti. Del quale il presidente del Consiglio prende
in prima persona le difese. Il 18 aprile 2003 Berlusconi
si presenta in aula al processo Sme e sentenzia: "E'
un "perseguitato".
Maggio 2003. Intanto le posizioni dei due maggiori
imputati si separano. Il 16 maggio 2003 la corte decide
che Berlusconi sarà processato a parte. "Non era
possibile mantenere l'unità del processo - è scritto
nella motivazione - che non può continuare
nell'incertezza a causa degli impegni del premier".
Per gli altri, invece, il dibattimento va avanti. Il 23
maggio, dopo l'ennesima richiesta di ricusazione
(respinta), Ilda Boccasini inizia la requisitoria, che si
conclude il 30 maggio con la richiesta a 11 anni di
reclusione. Nel frattempo, però, l'avvocato-onorevole ha
lanciato un altro pesante attacco ai magistrati milanesi:
"Hanno il solo intento di distrugggere un cittadino
e la sua onorata carriera". Berlusconi, che è in
visita a San Pietroburgo, commenta la richiesta di
condanna: "Smodata e grottesca".
Del resto il presidente del Consiglio è stato anch'egli
impegnato in una aspra battaglia nel processo-stralcio.
Anche se ora il Lodo Schifani blocca il dibattimento che
lo riguarda. Nel giugno 2003, le dichiarazioni fatte in
aula proprio dal Cavaliere sono per Previti l'occasione
per una nuova richiesta in grado - se accolta - di
allungare i tempi. I suoi legali chiedono infatti che
vengano acquisite le parole pronunciate dal premier. Ma
la Corte respingerà anche questa pretesa.
Il resto, è storia recente. E si chiama fascicolo 9520.
Un incartamento della procura che la difesa vorrebbe -
contro il parere dei pm - acquisire agli atti. Su quelle
carte si consuma uno scontro senza precedenti, nel quale
entrano anche gli ispettori del ministro Castelli e
infine la procura di Brescia, che avvia una indagine su
Ilda Boccassini e Gherardo Colombo. E' l'ultima chance
per chiedere prima una nuova sospensione (non concessa),
poi la remissione in base - di nuovo - alla legge Cirami.
Novembre 2003. Il 13 novembre la procura di
Brescia chiede l'archiviazione per i due pm. E il 17
novembre la Cassazione respinge l'istanza della difesa di
"legittimo sospetto". Impossibile a questo
punto evitare la sentenza. A Cesare Previti non resta che
prendere la parola e pronunciare il suo ultimo attacco ai
giudici: "Non mi difendo, ma accuso". Poi, la
sentenza.