DA - LA REPUBBLICA
Bossi minaccia
la crisi
su immigrati e riforme
Il Senatur:
"A restare al governo ci perdiamo"
ROMA - Alza la
voce Umberto Bossi. Una sfida a tutto tondo al
Presidente del Senato Marcello Pera, che ha invitato la Lega ad
abbassare i toni sul tema dell'immigrazione.
"Sulle cose del popolo noi alziamo la voce,
eccome - ha tuonato Bossi -. Non ci facciamo
impressionare da Pera, da Pira...". la Lega, ha
aggiunto, "sa bene come stanno le cose. Noi la
pensiamo così. La gente, giustamente, si sta
incazzando".
Attacca, il leader del Carroccio. Prima il governo,
un governo di "chiacchieroni",
"impotente", che rischia la crisi se non fa
ciò la Lega chiede, poi il ministro dell'Interno
Beppe Pisanu, "un un vero e proprio punching
ball che fa finta di niente. Un democristiano".
E, in modo più soft, lo stesso Silvio Berlusconi che
sa, ha detto Bossi senza mai citarlo direttamente,
"che di impotenza si muore".
Parla a Noventa
Vicentina il Senatur, e il comizio si trasforma in
un'offensiva inusitata e mai così pesante nei
confronti degli alleati di governo. E' pungente il
leader del Carrocio. Ricorda che "ci sono tre
cose per cui la Lega puo fare la crisi di
governo". E le scandisce una per una: pensioni,
devoluzione e immigrazione clandestina. E minaccia:
"Se non verranno prese decisioni su questi tre
punti, sarà difficile per la Lega rimanere al
governo". Rimanere, ha aggiunto, "ci
farebbe solo perdere voti". Al ministro Pisanu
non risparmia nulla: "La gente - dice - vuole
che i ministri abbiano gli attributi, non dico tre ma
almeno due". E insiste: "Mandi le navi per
fermare gli immigrati". Proprio quella soluzione
che oggi, Marcello Pera, ha bocciato decisamente.
Ed ancora giudizi assai poco positivi sull'operato
del governo. "Quello di sinistra - tuona Bossi -
era una banda di ladri, almeno questo siamo riusciti
a non farlo rubare". E il fuoco d'artificio si
conclude con una bordata finale: Noi - afferma Bossi
- a restare al governo ci perdiamo... se le riforme
non ci sono, valuteremo...".
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DA - LA REPUBBLICA
Congelare il
processo
non salva il premier
Ciampi ha voluto tutelare l'onore del nostro
Paese
Ma la legge appena approvata sta dividendo tutti
di EUGENIO SCALFARI
TRE argomenti, tra
loro strettamente connessi, dominano e
presumibilmente domineranno la scena politica
italiana ed europea dei prossimi mesi: la legge
entrata proprio oggi in vigore che sospende la
processabilità penale nei confronti di Silvio
Berlusconi (e delle altre quattro maggiori cariche
istituzionali), il semestre europeo di presidenza
italiana, la nuova Costituzione europea che durante
il predetto semestre (1/7-31/12 2003) sarà discussa
e forse modificata e approvata dalla conferenza
intergovernativa che avrà inizio a Roma a partire
dal prossimo ottobre.
Aggiungiamo che nello stesso arco di tempo si capirà
se tra Israele e Palestina prenderà corpo o
tramonterà ancora una volta l'ipotesi della pacifica
convivenza e della nascita d'uno Stato palestinese.
Infine, alle soglie del 2004, diventerà chiara la
natura dei rapporti interatlantici, il ruolo degli
Usa e quello dell'Unione europea, la prevalenza
dell'imperium americano figlio di Marte o del modello
policentrico proposto dagli europei, figli di Venere
secondo la "vulgata" semplificatoria che va
di moda con dubbia fortuna sulle due sponde
dell'Atlantico.
Stiamo dunque per vivere un semestre-chiave nella
storia del mondo? La risposta è sì, saranno mesi
importanti con ricaschi forti sulla vita anche
privata delle persone, oltre che degli Stati e dei
governi che li guidano.
Il ruolo del governo italiano e della sua presidenza
semestrale dell'Unione avrà un peso determinante
sulle vicende che si svolgeranno nell'arco di tempo
considerato? La risposta è no: un singolo governo in
genere, quello italiano guidato da Silvio Berlusconi
in particolare, sarà piuttosto trascinato che
trascinatore di eventi che si collocano a livelli
decisamente superiori alla nostra portata. Per il
governo italiano, come saggiamente ha detto
l'ambasciatore Vattani interrogato dalle Commissioni
esteri del Parlamento, il problema sarà
semplicemente quello di far bella o cattiva figura
durante il semestre della nostra presidenza. Se ci
riuscissimo sarebbe già qualche cosa.
Si capisce la preoccupazione di Carlo Azeglio Ciampi
di tutelare nei limiti del possibile l'onorabilità
del presidente del Consiglio nel momento in cui sta
per assumere la presidenza dell'Unione. Ai fini di
quella bella o cattiva figura di cui parlava
l'ambasciatore, non sarebbe stato un buon viatico un
Berlusconi a carico del quale il pubblico ministero
del Tribunale di Milano avesse potuto chiedere la
condanna a parecchi anni di reclusione per
l'infamante reato di corruzione in atti giudiziari
del quale è accusato insieme a Cesare Previti e ad
un gruppo di magistrati e avvocati.
Quest'ipotesi, e quella ancor più preoccupante d'una
sentenza di condanna sia pure soltanto di primo
grado, sono state evitate di strettissima misura e
Ciampi - a detta di tutti e delle stesse fonti del
Quirinale - ne è stato uno degli artefici più
tenaci e autorevoli. Ma infuria la polemica sulla
correttezza costituzionale della soluzione adottata.
I costituzionalisti sono divisi, le forze politiche
sono divise e così pure l'opinione pubblica.
In casi come questo
ciascuno resta sulle proprie convinzioni con dovizia
di contrapposti argomenti. Io, per me, come quidam de
populo, sono del parere che il capo dello Stato ha
trovato il modo di far passare per la cruna d'un ago
il cammello della non processabilità del presidente
del Consiglio per tutta la durata del suo mandato.
Dirà poi la Corte costituzionale, se come sembra
sarà investita del problema, la parola definitiva in
materia.
Ma non m'inoltro in un dibattito di così specifica
natura, per il quale mi manca la competenza e i cui
termini sono del resto ampiamente noti. Piuttosto
pongo due domande: è riuscito Ciampi a salvare
l'onorabilità del presidente del Consiglio
attraverso la legge sulla non processabilità? Quale
prezzo ha dovuto pagare lo stesso Ciampi per ottenere
quel risultato? Alla prima domanda rispondo: no, non
è riuscito né poteva riuscirvi.
L'onorabilità del nostro "premier" è
grandemente scemata da tempo a causa della sua
pervicace condotta processuale che per un uomo
investito di così alte responsabilità avrebbe
dovuto essere improntata al criterio di ottenere al
più presto possibile un chiaro pronunciamento
giudiziario e non già, come invece ha con ogni
espediente tentato, di allungare all'infinito e con
infiniti quanto disdicevoli mezzi, la durata del
processo per avvicinarlo alla scadenza dei termini di
prescrizione.
Né poteva Ciampi cancellare la natura stessa di quel
processo - corruzione in atti giudiziari - che in
qualunque altro paese avrebbe indotto l'imputato a
separare le proprie responsabilità dalla carica che
rivestiva, anziché aggrapparsi ad essa con tutte le
forze e tutti i mezzi.
L'esempio di Helmut Kohl, che abbandonò tutti gli
incarichi Cdu nel momento in cui fu accusato non già
di corruzione in atti giudiziari ma dell'assai meno
grave reato di implicazione nel finanziamento
illecito del suo partito, fornisce un modello
efficace per la tutela dell'onorabilità di un uomo
politico. A Helmut Kohl non fu offerto nessuno scudo
di non processabilità: era, prima ancora che un
problema giudiziario, un problema etico e quindi
politico che l'ex Cancelliere ed il suo partito
risolsero con criteri politici.
Del resto, entro breve tempo, il processo contro i
coimputati del nostro "premier" dovrebbe
arrivare a conclusione in primo grado; l'eventuale
sentenza di condanna sarà sotto gli occhi di tutta
l'opinione pubblica europea ed avrà inevitabilmente
lo stesso effetto di immagine che avrebbe avuto se
Berlusconi non fosse uscito dal processo per il rotto
della cuffia. L'onorabilità del "premier"
italiano e le sue credibilità e autorevolezza
saranno quel che saranno dopo quell'eventuale
sentenza, con l'aggravante d'un sotterfugio
parlamentare perpetrato nel tentativo impossibile di
nascondere un reato di quelle proporzioni.
Concludo su questo punto: il cammello della non
processabilità è passato dalla cruna dell'ago, ma
un'operazione così ardua non è servita a nulla,
sicché è stato sostanzialmente inutile cimentarsi
con essa. Diverso sarebbe stato se almeno la legge in
questione avesse contemplato l'obbligo per gli
imputati non processabili di sottoporsi
immediatamente al processo non appena scaduto il loro
mandato in corso, senza cercare ulteriore riparo
concorrendo ad altra carica che comporti non
processabilità. Una norma del genere, dando una data
certa alla sospensione del processo, avrebbe fugato
ogni dubbio sulla sua costituzionalità. In assenza
di che il dubbio del vulnus al principio
dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla
legge rimane e pesa.
E qui si pone la seconda domanda: quale prezzo ha
pagato Ciampi?
Appartengo, da quando l'ho conosciuto, più di
trent'anni fa, al novero dei suoi estimatori per
l'integrità morale, il senso del dovere, il rispetto
profondo per lo Stato e per le istituzioni. Ma non
soltanto: anche per i cittadini, gli individui che
dello Stato sono parte e, nel loro insieme, ne sono i
sovrani con le loro speranze, i loro bisogni, le loro
scelte.
Conosco quindi molto bene il suo scrupolo e la
solitudine che comporta assumere decisioni che
portano con loro ragioni valide ma anche
contraddizioni palesi. Questa di aver sostenuto la
non processabilità, aver posto limiti importanti
alla legge come alcuni l'avrebbero voluta (penso
all'estensione della norma ai ministri e ai
coimputati); aver ritenuto corretta una legge
ordinaria; essersi posto in contrasto con settori
importanti della pubblica opinione, che tra l'altro
annoverano i suoi più schietti sostenitori; ebbene,
questa dev'essere stata una scelta che gli è costata
molto di dover fare.
Certamente l'ha fatta non per proprio interesse,
poiché non ne ha alcuno in merito a problemi di
processabilità, ma ritenendo di tutelare l'interesse
della nazione.
Temo però che in questo caso abbia commesso un
errore poiché è partito da una valutazione degli
uomini effettuata con il proprio metro. Ha
probabilmente pensato che riportando un minimo di
calma e di tregua nell'incandescente scontro
politico, il nostro "premier" avrebbe avuto
modo di considerare con maggior senso di
responsabilità i suoi doveri e i suoi obiettivi di
uomo di governo. Non ha tenuto conto del carattere di
Silvio Berlusconi e più ancora della natura profonda
del potere che ha conquistato e che tende ad
allargare e a consolidare sfidando gli anni e i
decenni, monopolizzando ogni strumento appropriato a
manipolare il consenso, devastando gli istituti di
garanzia a cominciare dalla stessa presidenza della
Repubblica, dalla magistratura, dalla Corte
Costituzionale e dalla Suprema Corte di Cassazione.
Sulla Stampa del 19 scorso il suo principale
consigliere politico, Giuliano Ferrara, ha descritto
e lodato quella che avevo chiamato in mio articolo di
domenica scorsa la bulimia berlusconiana. Il ritratto
che risulta dallo scritto di Ferrara ha qualche cosa
di terrorizzante poiché descrive un potere totale
senza limiti né regole. Parla anche del quadro
internazionale per sostenere che Berlusconi mira a
fare entrare la "sua" Italia nella
ristretta oligarchia del potere mondiale che fa capo
all'America di Bush.
Questa è l'Europa che noi vogliamo, scrive Ferrara,
e se l'Europa non ci starà questa strada la
percorreremo da soli.
Il quadro è raccapricciante. Credo che Ciampi
conosca queste "tentazioni" dell'uomo che
gli elettori portarono alla vittoria nel maggio di
due anni fa.
Forse spera che prevalga una sua parte migliore e che
la bulimia berlusconiana si attenui o addirittura
scompaia. Mi permetto di dire che questo è l'errore:
se Berlusconi non fosse quello che è non avrebbe
vinto le partite che ha giocato negli affari come in
politica, perciò continuerà così, rilanciando e
sempre rilanciando. Forse, continuando a inoltrarsi
su questo terreno, inciamperà e cadrà; oppure no,
come si fa a predire il futuro? Personalmente credo
che dopo questa controversa vicenda, il presidente
della Repubblica debba deporre il metodo che gli è
tanto caro e che ha dato anche alcuni risultati: il
metodo, voglio dire, della moral suasion, dell'opera
discreta di convincere a scegliere il meno peggio.
La moral suasion poteva valere all'inizio del governo
berlusconiano. Dopo due anni e con ancora tre anni al
compimento della legislatura, i compromessi al
ribasso presentano un saldo netto negativo, tanto
più in presenza d'una pubblica opinione che ha
riscoperto il gusto di partecipare, di far sentire la
propria voce e la propria forza.
La più alta magistratura costituzionale ha anche
altri metodi per esercitare i suoi compiti: giudicare
gli atti sottoposti al suo vaglio e alla sua firma
senza influire preventivamente sulla loro formazione;
approvarli se conformi alle regole, bocciarli se non
conformi. Fa' quel che devi, accada quel che può,
dice la più aurea massima dell'etica pubblica. Non
spetta al Quirinale curare la bulimia politica di
Berlusconi. Gli spetta invece di custodire il dettato
costituzionale, difendere e rafforzare il sistema
delle garanzie, portare allo scoperto i privilegi.
Accada quel che può.
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DA - LA REPUBBLICA
Così pregano
gli italiani
Religiosi sì, ma senza certezze
Siamo aperti ad altre confessioni
il 25% giudica verosimile la reincarnazione
di FABIO BORDIGNON
Cresce, tra gli
italiani, l'importanza della dimensione religiosa, la
maggioranza delle persone continua a definirsi
cattolica, e appare contenuta la riduzione del numero
di praticanti. Ma è un senso religioso diverso
rispetto al passato: sempre più personalizzato,
aperto verso l'esterno, che non vincola i
comportamenti individuali alle indicazioni della
Chiesa. E' quanto emerge da un'accurata indagine
realizzata da Eurisko, per Repubblica, sul tema della
religiosità in Italia.
L'87% degli intervistati afferma di riconoscersi
nella religione cattolica: un dato sostanzialmente
allineato rispetto a quello raccolto, nove anni fa,
da una indagine dell'Università Cattolica di Milano.
Le altre fedi continuano a giocare un ruolo marginale
(5%), e i non credenti ammontano appena al 6%. Rimane
elevato, allo stesso tempo, il numero dei praticanti.
Quello degli assidui, di chi, cioè, si reca in
Chiesa ogni domenica, si è contratto, negli ultimi
vent'anni, di circa sette punti: dal 36 al 29%. Allo
stesso tempo, altri comportamenti religiosi fanno
registrare percentuali piuttosto alte: il 56% segue,
in tv, programmi con contenuto religioso; un terzo
delle persone ha consultato, nel corso dell'ultimo
anno, libri o riviste della stessa natura (35%), e
una quota appena inferiore ha letto la Bibbia oppure
il Vangelo (32%). Ma a colpire è soprattutto il dato
sull'importanza attribuita alla religione.
Ben il 23% la ritiene
fondamentale per la propria vita, un altro 38% la
valuta comunque importante: due dati che, sommati
assieme, fanno segnare un incremento di ben 16 punti
percentuali rispetto al '94. Si allarga,
parallelamente, anche il ricorso alla preghiera. Ben
il 50% degli italiani dichiara di pregare una o più
volte al giorno, e, anche in questo caso, l'impennata
rispetto alla precedente indagine appare consistente
(+10%). L'atto della preghiera assume, tuttavia, una
connotazione utilitarista, se consideriamo che i tre
quarti di chi vi ricorre lo fa (anche) per ottenere
grazie o benefici materiali tra questi, peraltro, il
78% afferma di avere ottenuto risultati concreti.
Più in generale, la crescita del senso religioso
tende ad abbinarsi, in misura crescente, ad una sua
declinazione in termini soggettivi e flessibili.
L'indagine offre numerosi indizi in questo senso.
Innanzitutto, una porzione non trascurabile di
intervistati manifesta perplessità su alcune verità
di fede. Se in relazione ad alcune di esse, come la
resurrezione di Cristo, si osserva un grado
significativo di adesione, altre paiono sollevare
maggiori dubbi. Più di quattro persone su dieci non
sono convinte dell'esistenza di una vita dopo la
morte (42%, il 27% tra i praticanti assidui), anche
se gli atteggiamenti divergono rispetto alle diverse
"dimensioni" dell'Aldilà: il 66% crede,
infatti, nel paradiso, ma solo il 50% nell'inferno.
Quasi il 60%, infine, esprime dei dubbi circa
l'infallibilità del Papa (un dato che si ferma al
42% tra i praticanti assidui, ma rimane poco lontano
da quello medio tra i saltuari). A questo tipo di
credenze, inoltre, tendono ad affiancarsene altre, di
tipo non "ortodosso", legate alla sfera
dell'occulto: il 17% crede nell'astrologia (e quasi
quattro intervistati su dieci le attribuiscono un
qualche fondamento); due su cinque credono nel
malocchio (19%), il 17% che alcune persone possano
comunicare con i morti. A trovare un certo credito
sono anche credenze tipiche di altre religioni (ed
estranee a quella cristiana): il 25%, per esempio,
giudica verosimili le teorie sulla reincarnazione.
Significativo, in generale, è il grado di apertura
verso altre confessioni, tanto che due persone su tre
giungono ad affermare che tutte le religioni "si
riferiscono allo stesso Dio". Per questo motivo,
se il 68% ritiene giusto inserire il riferimento alle
radici cristiane nella futura costituzione europea,
il 38% chiede che ciò venga fatto "nel rispetto
delle altre religioni". Un ulteriore elemento
che segnala l'affermarsi di una visione sempre più
"privata" e individuale dell'esperienza
religiosa riguarda gli insegnamenti della Chiesa.
Se un quarto delle persone interpellate ritiene
importanti le indicazioni della Chiesa in materia di
valori, famiglia e moralità, ben il 58% si limita ad
affermarne l'utilità, lasciando poi alle coscienze
individuali il compito di orientare le scelte delle
persone (va sottolineato come tale orientamento sia
condiviso dalla metà dei praticanti assidui).
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DA - L'UNITA'
L'INTERVISTA A MASSIMO D'ALEMA.
Vi racconto
l'Iraq che ho visto
Massimo D'Alema è appena tornato da Baghdad dove
alla guida di una delegazione dell'Internazionale
socialista ha incontrato i dirigenti della
ex-opposizione irachena. Gli chiediamo una
valutazione sull'esito della missione.
In questi giorni sei stato
testimone della situazione drammatica e paradossale
in cui si trova l'Iraq: la guerra è finita, eppure
ancora si spara e si uccide. Che impressione hai
ricavato?
«Paradossale non so. Drammatica certo. È un
paese in cui di colpo è venuta meno ogni autorità.
Baghdad ha 4 milioni di abitanti con enormi problemi
di sopravvivenza. Non si raccoglie più l'immondizia,
le macerie sono ovunque, ogni tanto manca la luce e
le scorte di cibo marciscono nei frigoriferi spenti.
Chi si aspettava la libertà, la democrazia, il
benessere, la felicità universale oggi si sente
deluso. Poi c'è anche chi, legato al vecchio regime,
reagisce e tenta di riorganizzarsi. Qui vedo errori
madornali commessi dagli americani. Ad esempio lo
scioglimento dell'esercito. Come dire la bellezza di
quattrocentomila persone, molte delle quali ora si
ritrovano disoccupate ed umiliate. Situazione
pericolosa, visto che una parte di costoro ha
conservato le armi. Poi c'è la debaathizzazione
della società. Una scelta comprensibile, purché sia
attuata con saggezza. Ricordiamoci che quello di
Saddam era un regime di massa, con una sua base di
sostegno abbastanza ampia. Il Baath aveva centinaia
di migliaia di iscritti. Non possono essere tutti
emarginati indiscriminatamente. Insomma, c'è una
parte della popolazione che si sente direttamente
colpita e prova un senso di frustrazione. Un'altra
che è preoccupata perché non si sente
sufficientemente protagonista dei cambiamenti in
atto, e vede tradite le promesse di autogoverno».
Veniamo alla ragione del
viaggio: incontrare assieme a una delegazione
dell'Internazionale socialista (Is) i partiti e i
movimenti dell'ex-opposizione in vista di una
conferenza sul futuro democratico dell'Iraq che l'Is
conta di ospitare a Roma in luglio. Missione
compiuta?
«Direi di sì. Abbiamo ricevuto una grande
accoglienza. La nostra era la prima missione politica
del dopo-Saddam, ed è stato notato con soddisfazione
dai nostri interlocutori il fatto che noi fossimo lì
non ospiti della coalizione anglo-americana, ma delle
forze politiche irachene, e in particolare
dell'Unione patriottica del Kurdistan (Upk) che fa
parte dell'Is. Già la prima sera abbiamo partecipato
ad un ricevimento e preso contatto con 52 diverse
realtà politiche, religiose, singoli intellettuali.
La televisione locale ne ha mostrato le immagini. È
stato insomma un evento. Verso di noi abbiamo notato
grande interesse e una massima disponibilità a
venire a Roma per la conferenza, ostacoli tecnici a
parte (ad esempio il nullaosta americano). Questo
vale non soltanto per i gruppi di orientamento
progressista, ma anche ad esempio per lo Sciri
(Consiglio supremo della rivoluzione islamica in
Iraq), cioè il partito sciita più vicino al regime
iraniano. Informalmente, nei locali della Delegazione
diplomatica italiana, abbiamo anche incontrato membri
dell'autorità della coalizione, in particolare il
rappresentante inglese Sower, ex-consigliere
diplomatico di Tony Blair».
Tra i vari partiti nemici
della dittatura, prima della guerra c'erano
divergenze sull'opportunità e i modi dell'intervento
armato. Oggi le posizioni sembrano ravvicinarsi nel
segno di una critica al modo in cui gli Usa stanno
gestendo il dopo-Saddam. È così?
«Sulla guerra quelle divergenze restano. Sciiti
e comunisti ad esempio restano dell'idea che sia
stata uno sbaglio. Altri pensano che gli Usa abbiano
avuto comunque il grande merito di liberarli. Io non
ho cambiato opinione, ma certo, vista da vicina, la
dittatura di Saddam appare come un libro ancora tutto
da scrivere, di inimmaginabili orrori. Comunque, il
tema ora è un altro. Alcuni dei nostri interlocutori
sostengono questa tesi: gli americani hanno fatto
quello che dovevano, è meglio che restino altrimenti
sarebbe il caos, però ora bisogna costruire una
democrazia e a questo scopo l'Europa può aiutarci
più degli Usa. I più avveduti infatti sono critici
verso gli americani, che non mantengono l'impegno
all'autogoverno iracheno. Vorrebbero che un organismo
ad interim iracheno affiancasse la coalizione nella
gestione del potere. Io credo che gli americani ne
trarrebbero essi stessi vantaggio. Faccio un esempio.
È difficile per loro garantire la sicurezza. I
check-point, i presidi stradali, sono affidati a
soldati pesantemente armati, che non hanno alcuna
esperienza di ordine pubblico, sicurezza urbana.
Quando un corteo di disperati si mette a tirare
sassi, loro sanno solo fare due cose: sparare o
scappare. Poiché scappare non possono, sparano. È
già accaduto più volte, anche a Baghdad durante la
nostra permanenza».
Cronisti e analisti politici
segnalano due tipi di pericoli incombenti. La
situazione sfugge di mano agli americani e degenera
in una guerra di tutti contro tutti, arabi contro
curdi, sunniti contro sciiti. Oppure si precipita
verso una nuova oppressione, non più baathista ma
teocratica, di stampo sunnita o sciita. Timori
esagerati?
«Sono rischi reali. Sinora però lo sforzo delle
principali forze politiche muove da una piattaforma
comune. Vogliono rapidamente essere associati alla
gestione del potere, e sanno che possono riuscirci
solo se restano uniti. C'è una guerriglia
anti-americana, ma a quanto ci hanno spiegato è
condotta da gruppi legati al vecchio regime.
Ex-militari, funzionari di partito, e anche
estremisti sunniti. La cosa è solo apparentemente
contraddittoria, perché il regime baathista aveva le
sue roccaforti proprio negli ambienti sunniti. E
infatti non ci sono azioni armate contro gli
americani né nel nord curdo né nel sud sciita.
L'area di instabilità si trova fra Baghdad e Tikrit,
dove Saddam aveva il maggiore sostegno, una zona
tradizionalmente sunnita. Fra i curdi, dopo l'accordo
fra l'Upk e i democratici di Barzani, c'è armonia, e
tutti assicurano che vogliono autonomia federale ma
nell'ambito di un Iraq unito. Quanto agli sciiti,
Adil Abdul Mahadi, consigliere politico di Hakim,
capo dello Sciri, ha quasi ostentatamente insistito
sulla necessità di un Iraq multireligioso e
pluralista, assicurando che il loro obiettivo non è
fare come in Iran. Reggerà tutto ciò. Non lo so. E
proprio per questo è importante che non vada perso
questo spirito costituente, questo clima da Cln. È
questo il momento in cui vanno aiutati e
incoraggiati. La nostra missione aveva questo scopo.
È importante che le nuove forze politiche irachene
non abbiano rapporti solo con gli occupanti, ma
sentano intorno a sé una solidarietà internazionale
più ampia».
L'Onu può ancora fare
qualcosa?
«Sicuramente. Oil for food è ancora adesso il
principale sostegno economico del paese. Ma scade il
25 novembre ed è impensabile che prima di allora
l'Iraq sia già in grado di provvedere ai propri
bisogni. Il cinquanta per cento degli abitanti sono
disoccupati, e c'è un diffuso timore per l'impatto
sociale negativo che potrebbe avere un programma di
privatizzazioni selvagge eventualmente decise
dall'autorità americana in loco. Servono invece
trasformazioni graduali. L'Iraq è un paese
potenzialmente ricco. Una risorsa fondamentale, oltre
al petrolio, è l'acqua. I partiti iracheni vogliono
tornare il più presto possibile ad essere padroni in
casa loro. Qui sta il maggior punto di frizione con
gli Stati Uniti, che sono riusciti a far passare
all'Onu una versione riduttiva della partecipazione
irachena al potere: non governo provvisorio, ma
amministrazione ad interim».
Ecco, l'impressione è che
Bush dopo avere escluso l'Onu dalla gestione della
crisi, ora voglia quasi escludere gli iracheni dalla
gestione dell'Iraq? Si può arginare in qualche modo
questa ostinazione recidiva?
«Innanzitutto sarebbe sbagliato dire agli
americani: avete voluto fare la guerra, ora
arrangiatevi. No, proprio noi che siamo stati
contrari all'attacco, siamo venuti a Baghdad per
testimoniare che ci sta a cuore il futuro democratico
del paese. L'Italia può fare cose utili. Non
inviando soldati a partecipare ad un'occupazione
illegittima, ma fornendo aiuto umanitario e appoggio
alla ricostruzione. Del resto credo che gli Usa
comincino a rendersi conto che rischiano di
impantanarsi, che lo stillicidio di attentati e
imboscate è più difficile da affrontare che non la
guerra, dove la loro supremazia era soverchiante. Per
ora hanno contro di sé solo una minoranza di
elementi pro-Saddam. Ma se rompessero con gli sciiti
o con i curdi, per loro la situazione diventerebbe
ingestibile. Dobbiamo aiutare gli americani a
correggere i propri errori. La conferenza che
l'Internazionale socialista organizzerà a Roma
servirà anche a questo».
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