Dossier Morire di carcere: settembre - ottobre 2007 Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti
per cause non chiare, episodi di overdose
di ristretti orizzonti Continua il monitoraggio sulle morti di carcere, che tra i mesi di settembre e ottobre 2007 registra 17 nuovi casi: 10 suicidi, 4 morti per cause da accertare, 2 per malattia e 1 per overdose.
Morte per cause da accertare: 3 settembre 2007, Carcere di Ancona R.D., detenuto marocchino di 25 anni, muore dopo
cinque giorni di ricovero nella rianimazione
dellospedale di Ancona. Luomo sarebbe stato
colpito da una intossicazione, dovuta probabilmente
allassunzione di farmaci, nel carcere di Montacuto
in cui era rinchiuso per reati comuni. Sconvolti, il
fratello e la sorella chiedono che la magistratura faccia
luce sullaccaduto, e tramite lavvocato Jacopo
Casini Ropa presenteranno un esposto alla procura di
Ancona. Il detenuto avrebbe dovuto essere scarcerato
domenica scorsa, dopo aver scontato una condanna a otto
mesi e mezzo di carcere per il furto di unauto. La
pena iniziale di dieci mesi gli era stata ridotta,
perché il giudice di sorveglianza aveva accolto
unistanza di liberazione anticipata. La scorsa
settimana però, R.D. era stato sottoposto ad un ricovero
durgenza per un malore, forse connesso a farmaci
che aveva assunto in cella. A chiarire i motivi della
morte sarà lautopsia. (Corriere Adriatico, 5
settembre 2007) Morte per cause da accertare: 4 settembre 2007, Questura di Milano Antonio DApote, 49 anni, muore nella
camera di sicurezza della Questura di Milano,
dove era stato rinchiuso subito dopo larresto:
viene ritrovato già cianotico dagli agenti, che sono
andati a controllare perché non avevano sentito risposta
allappello e spira prima dellarrivo dei
soccorsi. È il secondo caso nel giro di due mesi: il 10
luglio scorso era toccato a Mohammed Darid, 32 anni,
marocchino, arrestato la sera prima dagli agenti della
Polfer in stazione Centrale per spaccio di stupefacenti e
trovato senza vita dentro la cella di sicurezza alle 9
del mattino. Non cerano segni di violenza sul suo
corpo, stabilì il medico legale. Arresto
cardiocircolatorio, sancì lautopsia. La stessa
scena si è ripetuta intorno alle 6 di ieri.
DApote, sorvegliato speciale con obbligo di
soggiorno in casa, una fedina penale zeppa di precedenti
per spaccio, furto e rapina, problemi di
tossicodipendenza, era stato pizzicato per strada alle
3.30 da due agenti delle Volanti, mentre chiacchierava
con una ragazza. Aveva provato a reagire, prima e dopo le
manette, probabilmente sotto leffetto di
stupefacenti, e aveva continuato ad andare in
escandescenze anche dopo larrivo in via
Fatebenefratelli e lingresso in cella di sicurezza.
Visto anche prendere a testate il muro da alcuni
testimoni, DApote si era poi disteso pancia a
terra. Intorno alle 6.15, secondo la versione fornita
dalla Questura, gli agenti di sorveglianza lo hanno
chiamato una prima volta, pensando che dormisse, per
andare a firmare il verbale darresto. Poi una
seconda, non sentendo risposta. Alla terza sono entrati
ma luomo già non respirava più. La chiamata al
118 è partita alle 6.35: quando i soccorritori sono
arrivati, però, DApote era, già morto. Arresto
cardiocircolatorio, è il primo responso. La cella è
stata immediatamente messa sotto sequestro dalla stessa
polizia e messa a disposizione del pm di turno, Laura
Pedio. Abbiamo immediatamente avvisato la
magistratura - spiega il questore di Milano Vincenzo
Indoli - vogliamo fugare qualsiasi dubbio. E un fatto
sicuramente non piacevole, che ci angoscia. Ma ogni notte
entrano nelle nostre celle di sicurezza 10-15 persone, e
capita che alcuni di loro non siano in buone condizioni
di salute, o tossicodipendenti, come in questo caso o
quello del cittadino marocchino. Le celle sono state
ristrutturate da poco, e visitate pure da ispettori della
Ue: e tengo a precisare che la permanenza dei detenuti è
solo per poche ore, il nuovo caso in meno di 50
giorni inquieta anche i palazzi della politica milanese.
Si può pensare a una visita medica per i detenuti
- osserva il presidente del consiglio comunale, Manfredi
Palmeri, di Forza Italia - o a un sistema di video
sorveglianza. Favorevoli al presidio medico ma
contrari alle telecamere Marco Granelli e Giovanni del
centrosinistra. ( Suicidio: 13 settembre 2007, carcere di
Bergamo Una detenuta tossicodipendente di 32 anni si suicida utilizzando il gas della bomboletta. Ne da notizia il Sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, con questa lettera indirizzata al Capo del Dap Ettore Ferrara. Caro Ferrara, ieri nel carcere di Bergamo una detenuta, tossicomane si è tolta, la vita. È un ulteriore tragico caso di suicidio realizzato - ancora una volta - con Parma a portata di mano: la bomboletta del gas che viene usata dai detenuti nelle celle per scaldare o cuocere il proprio vitto. Non sappiamo, così come tante volte non abbiamo saputo, quali fossero le reali intenzioni della donna: assumere sostanze capaci di alterare lo stato di coscienza o togliersi la vita. Dunque, nonostante gli sforzi compiuti dallAmministrazione penitenziaria per migliorare la qualità della vita nelle carceri italiane, lincidenza del numero dei suicidi sulla popolazione detenuta continua a mantenersi su livelli elevati, anche a fronte della sua riduzione seguita allindulto. Un dato che deve spingere a riflettere, e che ci impone di individuare con rapidità le modalità più idonee per far sì che il numero dei suicidi, ma anche quello degli episodi di autolesionismo, decresca significativamente, In tal senso, come noto, lAmministrazione penitenziaria ha già attivato la riorganizzazione e il rafforzamento dei servizi dì accoglienza e di prima assistenza al fine di contenere limpatto psicologico che comporta lingresso in carcere, soprattutto per coloro che vivono per la prima volta questa esperienza. Il quadro degli interventi da realizzare si presenta assai complesso anche in considerazione del fatto che, a seguito dellindulto, non si è ancora provveduto alla riforma di un sistema penale che in alcuni casi si presenta come inutilmente vessatorio e che contribuisce a incrementare la popolazione carceraria tra le 500 e le 1.000 unità al mese. È soprattutto in questa direzione che va ricercata la causa dellaumento dei suicidi o, comunque, la sua persistenza allinterno dei sistema penitenziario. È possibile però, da subito, intervenire limitando le opportunità a disposizione di quei detenuti che, in una condizione di disperazione, maturano il proposito di mettere fine alla propria esistenza. Come noto, infatti, uno degli strumenti maggiormente utilizzati allinterno degli istituti di pena per suicidarsi è la bomboletta del gas. Si rende, pertanto, necessario fare in modo che questi strumenti non possano essere utilizzati per altri scopi, o attraverso la loro sostituzione con piastre elettriche oppure con idonei accorgimenti tecnici tali da impedire episodi di autolesionismo estremo. Mi è del tutto evidente che, con ciò, non si incide in alcun modo su motivazioni e condizioni della scelta suicidarla, ma per lo meno se ne riducono i fattori che la possano facilitare. Insomma, non si lasciano in giro coltelli affilati quando ci sono intenzionati a usarli. Ti prego di valutare tempi e modi di realizzabilità di questa piccola grande riforma del nostro sistema penitenziario. Luigi Manconi, Sottosegretario alla Giustizia
Suicidio: 13 settembre 2007, Carcere di Livorno Detenuto albanese di 22 anni si impicca in cella. Cera quella bella e triste canzone di Fabrizio De André su Miché, un uomo che si toglieva la vita in carcere impiccandosi nella sua cella. Ma stavolta il dramma è diventato reale. Nella notte tra mercoledì e ieri la stessa tragica fine di Miché se lè scelta un giovane detenuto albanese che si trovava in carcere alle Sughere in attesa di giudizio. Verso le 4 del mattino ha preso un maglione e ha deciso di farla finita. I tentativi di rianimazione da parte della polizia penitenziaria e del personale del 118 non sono bastati a salvarlo. Che quella del giovane fosse una situazione psicologica difficile era già noto agli operatori del carcere. E poche ore prima del tragico evento - poco dopo la mezzanotte - il 22enne albanese aveva già tentato il suicidio con una cordicella trovata nella sua cella. Subito era partito lallarme e gli uomini della polizia penitenziaria era riusciti a salvarlo. Poi la decisione di metterlo in una cella isolata - in un reparto dove poteva essere controllato più attentamente - e dove non ci fossero oggetti pericolosi che il giovane avrebbe potuto usare per farsi del male. Ma questa cautela non è stata sufficiente. Il giovane è riuscito ad entrare in possesso di una maglia che ha usato per ricavare una corda. E poi verso le 4 del mattino ha tentato di nuovo lo stesso gesto. Quando è arrivato il controllo gli agenti della penitenziaria si sono accorti di ciò che stava accadendo. Hanno subito tentato di riportare il giovane a terra mentre si attendeva larrivo dei soccorsi. Al giovane è stato praticato un massaggio cardiaco e fatte alcune iniezioni di adrenalina. Poi i medici del 118 hanno anche tentato di rianimarlo usando il defibrillatore cardiaco. Ma per il giovane detenuto non cè stato niente da fare. E al medico non è rimasto altro da fare che constatarne il decesso. Sul fatto sarà probabilmente aperta uninchiesta per capire cosa sia accaduto realmente nella notte in cui il giovane si è tolto la vita. Alle Sughere sono arrivati anche i carabinieri per raccogliere elementi sullaccaduto. Sembra che il giovane detenuto albanese fosse arrivato da poche settimane a Livorno dal carcere di Prato. In passato, secondo quanto è trapelato, aveva già tentato due volte di togliersi la vita. E per questo era stato visitato e controllato da psicologi ed operatori delle due strutture carcerarie. Soltanto da due giorni il ragazzo era tornato tra i detenuti normali dopo essere stato tenuto in osservazione. Una storia estremamente drammatica che torna a far riflettere sulle condizioni di vita nelle carceri italiane. (Il Tirreno, 14 settembre 2007) Overdose: 16 settembre 2007, Carcere di Avellino Raffaele Iuorio, 32 anni, muore nel carcere di Ariano Irpino: solo qualche giorno prima era stato ricondotto in carcere, per aver disatteso lobbligo degli arresti domiciliari, è deceduto mentre veniva trasportato al pronto soccorso dellospedale di Ariano Irpino. Si era sentito male dopo cena e aveva chiesto aiuto, accusando forti dolori alladdome. Ma inutili si sono rivelati sia i soccorsi dei sanitari allinterno della struttura carceraria che di quelli del 118 immediatamente allertati. Il giovane non ha fatto in tempo a raggiungere neanche il nosocomio arianese. Adesso il cadavere giace nellobitorio in attesa che questa mattina, su richiesta della Procura della Repubblica di Ariano Irpino, si svolga su di esso lesame autoptico. In effetti il medico legale, Michele Gelormini, non ha potuto fare altro che constatare il decesso e indicare alla Procura la necessità di procedere ad una più approfondita indagine attraverso lautopsia. Il suo decesso, in effetti, è avvolto dal
mistero. Raffaele Iuorio, da tempo ai domiciliari, era
stato ricercato dai carabinieri, a seguito della
segnalazione della sua presenza nel comune di
Grottaminarda. I militi temevano che, a causa dei suoi
precedenti per detenzione e spaccio di sostanze
stupefacenti, potesse contattare giovani del posto. Di
qui il suo arresto e la sua traduzione nel carcere
arianese. Ma qui è rimasto solo poco più di un giorno,
a causa dellimprovviso malore e del conseguente
decesso. Cosa è realmente accaduto tra le mura del
carcere? Il giovane di Torella dei Lombardi ha accusato
un malore o ha ingerito qualcosa che ha causato la sua
morte? Si è suicidato? A questi interrogativi Avellino: il detenuto morto per infarto
aveva assunto droghe Il giovane di Torella dei Lombardi, morto nella notte tra sabato e domenica nel carcere di Ariano Irpino, aveva ingerito una quantità notevole di droga, che sarebbe stata la causa o la concausa del sopravvenuto arresto cardiocircolatorio. Questo il risultato dellautopsia sul suo corpo, anche se per la conferma definitiva occorre attendere il verdetto delle indagini tossicologiche. Il giovane, Raffaele Iuorio, si è sentito male alcune ore dopo larresto, pertanto lipotesi più probabile, sempre che la presenza di droga nel suo organismo venga confermata, è che labbia assunta prima di essere fermato dalle forze dellordine. (Irpinia News, 19 settembre 2007) Suicidio: 23 settembre 2007, Carcere di Asti Fulvio Polloni, 41 anni, si toglie la vita
impiccandosi con una coperta alle sbarre della cella.
Luomo era detenuto da alcuni mesi per presunti
maltrattamenti in famiglia, ai danni della convivente. A
Tortona, nel 2003, aveva forzato un posto di blocco,
speronando lauto dei carabinieri. Nella serata di
martedì, la decisione di farla finita. Polloni, secondo
i primi e ancora sommari accertamenti, avrebbe maturato
la scelta del suicidio nelle ultime ore: nulla faceva
presagire il suo gesto. Gli agenti di polizia
penitenziaria hanno comunicato la notizia del
ritrovamento del corpo alla procura, che potrebbe
disporre ulteriori accertamenti. ( Morte per cause da accertare: 26 settembre 2007, Carcere di Alessandria Jamal Khalid, 22 anni, marocchino, muore in
cella. Il corpo del detenuto è stato ritrovato dopo
qualche ora durante un giro di ispezione degli agenti
della polizia penitenziaria. È stato chiamato il 118 ma
ogni soccorso è stato inutile. Jamal Khalid, di origine
marocchina, probabilmente ha seguito i precetti del
Ramadan che limita lassunzione del cibo. Forse
aveva il fisico debilitato. Secondo i primi accertamenti
potrebbe non aver digerito ed essere rimasto soffocato
nella notte. Il corpo del ragazzo è stato portato alla
camera mortuaria dellospedale di Alessandria. La
salma è a disposizione della Procura. ( Malattia: 3 ottobre 2007, carcere di
Livorno Abeslam Slah, 34 anni, marocchino, muore in
carcere per infarto. Steso sulla sua brandina sul fianco,
con gli occhi chiusi e il volto allingiù sul
cuscino, sembrava davvero che dormisse. E invece quel
giaciglio nella sua cella, divisa con tre compagni, per
Abeslam Slah, 34enne marocchino, era un letto di morte.
È il terzo detenuto trovato senza vita nel carcere
livornese in un mese. Alzati, altrimenti non fai in tempo a
prendere il cambio lenzuola, gli ha detto ieri
mattina un compagno di cella. Ma Slah non rispondeva.
Allora, è scattato lallarme e sul posto si sono
precipitate le guardie. E guardandolo con occhio più
attento, è emerso che il giovane aveva dei rigurgiti e
dellurina addosso. Evidentemente, in preda a un
malore, aveva vomitato, avendo perso il controllo delle
funzioni fisiologiche. In base alle prime ricostruzioni,
luomo potrebbe essersi sentito male in nottata: lo
fa pensare il fatto che ieri mattina, quando è stato
trovato, il suo corpo era già irrigidito. Motivo della
morte sembra un malore o un infarto, così come emerso da
una prima analisi del medico legale. Il giovane è dunque
morto nella notte, ma fino alla mattina nessuno si è
accorto di nulla. Nemmeno i suoi compagni di stanza.
Anche perché il ragazzo era amante del riposo mattutino
ed era solito alzarsi tardi. Così allora della
colazione, vedendolo apparentemente addormentato, nessuno
lha disturbato. Dopo, allora del cambio delle
lenzuola, i compagni lhanno chiamato, senza avere
risposta. Sono in corso indagini mediche per capire come
e perché il giovane sia morto: la sera prima, infatti,
aveva giocato e scherzato fino a mezzanotte con gli
altri, senza alcun problema. Sembrerebbe comunque un
malore: nessun indizio fa pensare ad altre motivazioni.
Il giovane era nel carcere livornese da pochi giorni,
trasferito da Porto Azzurro, dove era detenuto per
detenzione di droga, per reati commessi a Oltrarno
(Firenze). Era stato portato a Livorno poiché il primo
cera stata unudienza del processo a Firenze e
doveva essere riportato a Porto Azzurro. (Il Tirreno,
5 ottobre 2007) Morte per cause da accertare: 15 ottobre
2007, carcere di Perugia Aldo Bianzino, 44 anni, viene ritrovato morto in
cella allalba di domenica 15 ottobre, nel carcere
di Capanne, Perugia. Di sicuro si sa che era stato
arrestato il venerdì prima, assieme a Roberta, la madre
del più giovane dei suoi tre figli. È successo nel
casale sopra Pietralunga, tra Città di Castello, Gubbio
e Umbertide. Prima la perquisizione alle 7 del mattino, con
il cane antidroga che non trova nulla nel casale. Ma poi,
dietro un cespuglio spuntano alcune piante di marijuana.
I giornali locali riportano cifre consistenti. Un
centinaio di piante ma forse hanno fatto la somma con le
piante maschio trovate in fosso secche e inutilizzabili.
Di sicuro sappiamo che Roberta e Aldo sono stati portati
al commissariato di Città di Castello per le formalità
di rito e da lì trasferiti, con un mandato
darresto spiccato dallo stesso pm che si occupa
della morte di Aldo, al carcere di Capanne, struttura di
media sicurezza, dove non cè il regime duro
dellarticolo 41, come a Spoleto o Terni. Struttura
moderna, nuova, inaugurata da Castelli quandera
Guardasigilli di Berlusconi. Di sicuro si sa, lha detto la famiglia,
che il comportamento degli agenti di Città di Castello
sia stato corretto. Roberta e il suo compagno si sono
persi di vista solo allarrivo in carcere,
pomeriggio di venerdì 13. Di sicuro, un avvocato
dufficio li ha visti il giorno appresso, prima lui
poi lei. Aldo stava in condizioni normali, solo era
preoccupato per Roberta. Roberta che sarebbe stata
rilasciata la mattina dopo. Di sicuro si sa che il medico
legale avrebbe presto escluso lipotesi di una morte
per infarto. Anzi, avrebbe riscontrato quattro emorragie
cerebrali, almeno due costole rotte e lesioni a fegato e
milza. Di sicuro, e di strano, si sa che non cerano
segni esteriori. Tanto da lasciare perplessi i consulenti
incaricati della perizia. Di sicuro si sa che le ferite
al fegato non sono idonee a cagionare la morte, spiega a
Liberazione uno dei legali della famiglia. Di
sicuro sappiamo che è arrivato a Capanne in condizioni
di assoluta normalità e da lì non è uscito. Trauma non accidentale, non è morto perché
caduto dal letto a castello. Lesioni compatibili con
lomicidio, scrivono i giornali locali. Ci si chiede
se siano opera del caso oppure opera delluomo. Un
arrestato resta in isolamento fino a quando non lo vede
il giudice delle indagini preliminari. Dunque Aldo
Bianzino non dovrebbe aver avuto contatti con altri
detenuti. Una risposta importantissima verrà
dallanalisi dellencefalo - continua
lavvocato - ora messo sotto formalina in attesa che
raggiunga una certa rigidità, che 0 materiale si
fissi, come dicono gli specialisti. Intanto, però, i familiari non hanno ancora
potuto vedere il corpo, né sanno quando sarà possibile
organizzare i funerali. Di sicuro si sa che Aldo era
particolarmente mite, ghandiano, pacifista,
totalmente incensurato. La notizia piomba nella piccola
comunità spirituale di cui Roberta e Aldo, che era
arrivato dal Piemonte una ventina danni fa,
passando per lIndia, fanno parte. E piomba in un
giorno di festa religiosa trovando tutti increduli. Aldo
che era magro, etereo, alto, con certi occhi azzurri
dietro le lenti. La mitezza in persona,
racconta una voce a Liberazione. Così rispettoso e
riservato da metterti in soggezione, quasi a farti dire
ho paura di entrare nella sua sfera. Infarto?
Come può essere? Lhanno pestato, ma perché
dovrebbero averlo menato? Il dubbio sottile passava tra
una mente e laltra, continua il racconto
dellincredulità di quella domenica. Chi lo conosceva dall84 lo immagina
calmo dentro quella cella, in
preghiera, a chiedersi il perché di quella
condizione. Persona riservata colta, segnato da
unesperienza spirituale con un maestro induista
che non indottrina, non chiede proselitismo, non
chiede di stare fuori dal mondo, che non impone precetti
rigidi ma solo il principio quasi benedettino di pregare
e lavorare, i comandamenti di verità, semplicità e
amore. Era questo ad aver portato Aldo in Umbria alla
ricerca di una dimensione diversa più vicina alla
natura, in una comunità a maglie larghe, che a
volte il mondo frantuma perché ognuno di noi si deve
affaticare nel mondo. Ma lo stile cercato è quello
di vivere più semplicemente possibile, con tutte
le difficoltà di questo mondo che, lo si voglia o no, si
ripercuotono sempre anche su di noi. Di sicuro si sa che due poliziotti sono tornati
a casa di Roberta, sconvolti, quasi a scusarsi per averlo
condotto in galera. Roberta è più scossa di loro. Di
sicuro si sa che era un bravo falegname, suonava
larmonium e cantava il canto rituale di devozione.
Di sicuro si sa che a giugno del 2006 è morta suicida
unitaliana di 44 anni nel centro clinico del
penitenziario, nel vecchio carcere, e che qualche giorno
dopo i Nas hanno scoperto medicinali e materiali scaduti
nello stesso centro dopo la morte di un detenuto tunisino
di Capanne che aveva appena subito un intervento
chirurgico. Di squadrette, finora, non ha parlato
nessuno. Di sicuro si sa che il proibizionismo ha ucciso
ancora. (Liberazione, 23 ottobre 2007) Perugia: il mistero di Aldo Una domenica come unaltra un uomo di 44
anni viene trovato morto nel carcere di Perugia.
Cè stato trasferito due notti prima, venerdì 12
ottobre, dopo che la polizia lo ha arrestato con la sua
compagna. Gli avrebbero trovato in casa, la famiglia di
Aldo Bianzino abita nella campagna di Città di Castello,
una piccola piantagione con diversi fusti di marijuana. I due vengono trasferiti a Perugia e da lì al
carcere. Sabato il legale dufficio incontra Aldo
alle 14 e riferisce a Roberta, la compagna, che Bianzino
sta bene e si preoccupa per lei. Ma la mattina seguente
Daniela, unamica di famiglia, viene avvisata di
correre la carcere in tutta fretta. Cè un
problema, le dicono. Il problema è che Aldo non
respira più e Roberta, in evidente stato di choc, non ha
nemmeno potuto vedere il suo corpo. Le indagini autoptiche (ancora in corso)
cominciano a confermare, qualche giorno dopo, quel che
tutti già pensano nella piccola comunità di amici di
Aldo e Roberta. Le voci raccolte dalla stampa locale
parlano di lesioni massive al cervello e alladdome,
forse, un paio di costole rotte anche se allesterno
il corpo di Aldo non evidenzierebbe ematomi o contusioni.
Ce nè abbastanza però per far saltare la prima
lettura del decesso, liquidato come un problema cardiaco. La storia di Aldo Bianzino ha contorni dunque
che è poco definire oscuri e la procura di Perugia ha
deciso di aprire unindagine sul decesso affidata
nelle mani dello stesso pubblico ministero, il magistrato
Giuseppe Petrazzini, titolare dellinchiesta che
aveva portato allarresto di Aldo e di Roberta. Che
sta aspettando i risultati definitivi dellautopsia. Tutto comincia dieci giorni fa. Aldo è nella
sua casa di Capanne, una frazione di Pietralunga, poco
distante da Città di Castello, quando uomini della
squadra mobile della cittadina umbra perquisiscono
giardino e casa e lo portano in carcere a Perugia con
laccusa di detenzione illegale di stupefacenti.
Accuse pesanti: nella conferenza stampa delle forze
dellordine si parla di 110 piantine di hashish, una
metà in giardino e una parte già raccolta, insieme a 15
involucri contenenti erba. Rivelazioni che lasciano
increduli quanti conoscevano Aldo da tempo e che non
ritengono possibile che luomo coltivasse hashish
per poi rivenderlo. Bianzino avrebbe dovuto incontrare il gip che
segue le indagini il lunedì successivo per la conferma
dellarresto. Ma allappuntamento col gip non
arriva. E non è chiaro se in cella fosse solo o in
compagnia di un altro detenuto. Ufficialmente era
solo - dice lavvocato incaricato dalla famiglia
Massimo Zaganelli - perché la procedura richiede
lisolamento prima dellincontro col gip. Sulla salute dei due indagati al momento
dellarresto Zaganelli non ha dubbi: Furono
portati in carcere in perfetta salute e durante il
viaggio non fu torto loro un capello. I dubbi
iniziano dopo: Per quel che sappiamo il decesso è
riconducibile a un trauma ma non a un trauma
accidentale che rimanda quindi alla
responsabilità di terzi. Lavvocato resta
prudente: Non è bene in questi casi fare due più
due quattro e abbiamo piena fiducia nella magistratura
che, ne siamo certi, sta facendo il suo lavoro. Lavoro intanto che aspetta i risultati
definitivi delle prove autoptiche sulla materia cerebrale
di Aldo: lentità cioè del trauma al cervello. La
famiglia non potrà rivedere il corpo di Aldo prima di
fine settimana. Il mistero per giorni è rimasto
confinato nelle cronache locali dei pochi giornali che,
come la Nazione, hanno provato a ricostruire la storia di
Bianzino. E sono molti gli interrogativi al momento senza
risposta considerando che, dal giorno della conferenza
stampa della polizia, non sono state rilasciate
dichiarazioni ufficiali e ancora resta ancora da chiarire
se, al momento della morte, Bianzino fosse solo nella
cella dove è stato trovato. Nella frazione di
Pietralunga il clima è sempre più teso e il dolore
degli amici si mischia allo sgomento della famiglia che
resta ancora in attesa di potere vedere la salma. Nel frattempo amici e parenti si stanno
adoperando per assicurare a Aldo una cerimonia funebre
che però non ha ancora una data certa. Ma la notizia è
circolata rapidamente tra gli amici di Aldo, molti dei
quali vicini allesperienza spirituale maturata da
Bianzino attraverso la filosofia indiana e una lunga
frequentazione con una comunità allargata di amici
incontrata nel suo percorso interiore. Un aiuto gradito visto che sono molte le persone
vicine a Roberta a lamentare una scarsa solidarietà in
paese, forse anche per le abitudini diverse di un uomo
che da tempi aveva scelto una vita appartata e basata
sulla meditazione. I radicali e gli anti proibizionisti
locali però si sono già mossi. E così il sindaco di
Pietralunga Luca Sborzacchi. E del caso si sta occupando
anche losservatorio che fa capo a Heidi Giuliani. (Il
Manifesto, 23 ottobre 2007) La morte Aldo Bianzino: un suicidio o un
omicidio? Domenica scorsa Aldo Bianzino, 44enne di
Pietralunga, arrestato per detenzione illegale di
stupefacenti, è morto in carcere. La vicenda ha contorni
che è poco definire oscuri e la Procura di Perugia ha
deciso di aprire unindagine sulle cause del decesso
del detenuto. È quanto ricorda, in una nota il capogruppo di
Rifondazione comunista Stefano Vinti preoccupato perché
fatti come questi rischiano di assumere un tono
scontato, quasi di normalità. È del tutto evidente - evidenzia il
capogruppo del Prc-Se - che la magistratura farà il suo
lavoro, ma lepisodio ci lascia inquieti perché il
medico legale avrebbe già escluso lipotesi di una
morte per infarto. Inoltre - aggiunge - un arrestato
resta in isolamento fino a quando non lo vede il giudice
delle indagini preliminari, senza entrare in contatto con
altri detenuti. Ora - dice - attendiamo i reperti istologici e
gli esami tossicologici per capire come è morto il
detenuto.Vinti chiede, quindi, di sapere se
la morte in carcere di Aldo Bianzino sia opera del caso o
opera delluomo. Questo - commenta - perché il
carcere resta ancora oggi una realtà chiusa e la
chiusura aumenta quando succede un fatto grave come
quello di un decesso. Il sistema delle nostre carceri
purtroppo lo conosciamo. La vita delle persone che vi entrano -
sottolinea - sembra valere immediatamente di meno. Per
questo abbiamo sostenuto con forza listituzione
nella nostra regione del Garante delle carceri avvenuta
con legge regionale il 18 ottobre dello scorso anno. È
stata una scelta che abbiamo definito di civiltà perché
convinti che la Regione dellUmbria non possa
disinteressarsi dei problemi nelle nostre carceri. A distanza di un anno, però, - spiega - occorre
che lintera comunità politica regionale riconosca
la necessità della nomina del garante, con la duplice
funzione di controllo, per le competenze proprie
dellamministrazione regionale, e di moral suasion,
per le competenze del ministero della Giustizia, al fine
di imboccare un percorso virtuoso per la piena
affermazione, senza se e senza ma, del pieno
riconoscimento della dignità umana. La morte di Aldo, - aggiunge Vinti -
incarcerato per possesso di marijuana, non può diventare
improvvisamente un fatto normale, proprio oggi che
apprendiamo dal decimo rapporto Sos Impresa
(Confesercenti) che lazienda italiana con il
maggior fatturato è la mafia. Vinti, in
conclusione, fa sapere che è contro questa assurda
normalità che Rifondazione comunista dellUmbria si
pone, mettendo linformazione e la trasparenza al
centro dei percorsi di cambiamento della cultura
penitenziaria. Chiediamo chiarezza sulla morte di Aldo
Bianzino, chiediamo la verità, chiediamo una spiegazione
coerente con quello che è accaduto. (Ansa, 24
ottobre 2007) La morte di Aldo Bianzino: interrogazioni
al Senato Se fossero accertate le gravissime lesioni
che sarebbero state riscontrate sul corpo di Aldo
Bianzino, deceduto nel carcere di Perugia in circostanze
oscure, saremmo di fronte a un fatto di inaudita
gravità. Il senatore di Insieme con
lUnione Mauro Bulgarelli, ha presentato
uninterrogazione parlamentare sulla vicenda
avvenuta la scorsa settimana nellistituto di pena,
dove un uomo, arrestato con laccusa di coltivare
piante di cannabis presso la propria abitazione, è
improvvisamente deceduto nella notte tra il 13 e il 14
ottobre senza una valida motivazione. È sconcertante che a 24 ore
dallarresto, le cui circostanze sono peraltro da
chiarire, un uomo muoia in carcere per cause che
potrebbero essere non accidentali e far addirittura
ipotizzare un pestaggio. Così come - continua Bulgarelli
- è grave che a 10 giorni dalla morte i familiari non
abbiano ancora potuto vedere il corpo del loro congiunto
e la direzione del carcere non abbia fornito loro
spiegazioni su quanto accaduto e non si sappia nemmeno se
luomo fosse tenuto in isolamento o in compagnia di
altri detenuti. Il parlamentare sottolinea infine
la necessità di chiarire al più presto le cause del
decesso e soprattutto che vengano accertate tutte le
eventuali responsabilità, a partire da quelle della
direzione dellistituto di pena. (Ansa, 24
ottobre 2007) Interrogazione con carattere
durgenza al Ministro della Giustizia Premesso che, da notizie apprese dalla stampa,
nella notte di venerdì 12 ottobre è stato arrestato
nella propria abitazione, nel Comune di Petralunga (PG)
per violazione dellarticolo 73 del Dpr 9 ottobre
1990, n. 309, il signor Aldo Bianzino; dopo
larresto, lo stesso sarebbe stato condotto assieme
alla moglie nel commissariato di Città di Castello per
le formalità di rito e quindi trasferito nel carcere di
Capanne (PG); i due coniugi sarebbero stati divisi non
appena entrati in carcere, e sarebbero state riscontrate
da parte dellavvocato dufficio condizioni
normali di salute in entrambi; nella notte di sabato 13
ottobre il signor Aldo Bianzino è deceduto
allinterno della struttura penitenziaria; il signor
Bianzino, secondo le normali procedure, sarebbe stato
ristretto in cella da solo, prevedendo la prassi
lisolamento dellarrestato prima
dellincontro con il Giudice preliminare; le lesioni
riscontrate sul corpo del signor Aldo Bianzino, dopo il
suo decesso, configurerebbero la compatibilità con
lomicidio, in quanto il medico legale escluderebbe
la morte per infarto, riscontrando quattro commozioni
cerebrali, lesioni al fegato, due costole rotte. Si
chiede di sapere quali procedure urgenti il ministro in
indirizzo intenda avviare per fare completa chiarezza
sulla vicenda. (Senatori: Erminia Emprin Gilardini,
Giovanni Russo Spena, Haidi Gaggio Giuliani) Comunicato di Luigi Manconi,
Sottosegretario alla Giustizia Sto seguendo con attenzione e preoccupazione le
notizie relative alle indagini sulla morte,
nellistituto perugino di Capanne, di Aldo Bianzino,
deceduto nella notte tra il 13 e il 14 di ottobre, a poco
più di ventiquattro ore dallarresto. Ogni morte in
carcere è una duplice tragedia, perché quella morte, e
la perdita che comporta, avviene quando la persona si
trova sotto la responsabilità dello Stato e nella sua
tutela. Gli uffici centrali del Dipartimento
dellAmministrazione penitenziaria stanno
attivamente collaborando con il pubblico ministero,
affinché siano accertate le cause e le responsabilità
del decesso. Sia chiaro sin dora che il Ministero
della giustizia opererà affinché siano accertate nella
maniera più completa ed esauriente le circostanze di
quella morte, affinché non resti ombra alcuna sulla
dinamica e le eventuali responsabilità
dellaccaduto. Suicidio: 15 ottobre 2007, in località
protetta Bruno Piccolo, 29 anni, collaboratore di
giustizia, si uccide in un appartamento del Nord Italia,
dove era stato nascosto dalla Direzione distrettuale
antimafia per proteggerlo dalle continue minacce che
aveva ricevuto da quando aveva deciso di collaborare con
la giustizia. Era uno dei due testi che hanno incastrato gli
assassini di Francesco Fortugno. A fare la scoperta gli
uomini delle forze dellordine invitati a far visita
nellappartamento dai parenti del pentito
preoccupati perché il loro caro non rispondeva da ore al
telefono. La notizia del suicidio giunge proprio oggi in
cui ricorre il secondo anniversario della morte
dellex vicepresidente del consiglio regionale della
Calabria ucciso a Locri. (Ansa, 16 ottobre 2007) Locri: le pressioni della ndrangheta
sul pentito suicida Bruno Piccolo era nato a Locri l11 marzo
del 1978 e tutta la storia del suo pentimento e
soprattutto delle pressioni subite dai capicosca dei
Cordì è narrata in decine e decine di pagine delle
varie ordinanze di custodia cautelare dei magistrati di
Reggio che indagano da due anni sul delitto Fortugno. Chi
era davvero Bruno Piccolo? Un ragazzo qualsiasi, non un picciotto di mafia
ma uno che frequentava nel suo bar Arcobaleno
gli uomini dei Cordì. Ascoltava, parlava, andava anche a
pranzi e cenette. La sua vita cambiò il 14 novembre
2005, un mese dopo lomicidio di Franco Fortugno,
quando venne arrestato con Antonio Dessì e Domenico
Novella per un traffico di armi. Lo spostano in varie
carceri, da Reggio Calabria a Sulmona, una struttura
nuova dove lo mettono al regime duro del 41 bis. Bruno
non regge molto, Bruno il barista cede quasi subito e i
primi di dicembre del 2005 inizia a vuotare il sacco. Lui - scrive Enrico Fierro, giornalista
dellUnità nel suo libro Ammazzati
lonorevole presentato stamattina a Locri -
non è un boss, non ha parenti o familiari con i cognomi
importanti delle cosche, non si può aspettare niente da
nessuno. La sua è una famiglia di persone perbene. È il
figlio di un operaio, un uomo onesto, morto in un
incidente sul lavoro. Il 6 dicembre 2005 inizia a parlare
e racconta come il bar che gestiva, proprio
allangolo sopra la sede del vescovado e a due passi
dallo stadio dove gioca il Locri, era via via diventato
una sorta dufficio dei Cordì. Della cosca fa lorganigramma ma al giudice
fa capire anche il perché della sua vicinanza a quei
picciotti senza scrupolo che frequentano il bar.
Volevo - dice - vendicarmi del farmacista di Locri
e di quel giorno quando mio padre cadde
dallimpalcatura e lui non lo aiutò. Lo trattò
come un cane. Ma il fatto che Bruno il barista
potesse cedere alle pressioni degli inquirenti e quindi
pentirsi arrivò allorecchio dei capicosca, che in
quello stesso dicembre 2005 cominciarono a preoccuparsi. Ma Bruno ce la farà?, dicono tra di
loro i capi, e Vincenzo Cordì, che ha preso il posto di
comando della famiglia dopo la morte di Antonio Cordì
il ragioniere, fa sapere che a parlare con
Bruno ha mandato nel carcere di Sulmona Filippo Barreca,
uno dei capi ndrangheta di Reggio Calabria, lì
detenuto. Le donne e i boss si attivano, dunque, per far
desistere Bruno il barista e il 13 dicembre 2005 nella
sala colloqui di Sulmona arrivano madre e sorella.
Tremano per lui, temono vendette ma a Locri non succede
niente. Uno zio di Bruno tenta anche lui di farlo
desistere: attento Bruno - gli dice in carcere ed
ovviamente è intercettato dalle cimici - non fare
minchiate. Che stai combinando?. Il 19 dicembre
Vincenzo Cordì tenta lultima carta, gli scrive una
lettera: limportante in questi luoghi è
stare tranquilli, farsi la galera con onestà e parlare
poco. Una lettera dal chiaro significato. Ma è tutto
inutile, Bruno il barista parla e fa i nomi di quelli che
nel suo bar progettavano lassassinio di Fortugno. A
Locri la voce gira, dicono che Bruno se ne è andato di
testa e infatti tentano anche di farlo passare per pazzo,
riportano a galla una vecchia storia del 1998 quando
Bruno tentò di ammazzarsi. Una perizia pschiatrica lo
dichiara però normale ma gli avvocati difensori degli
arrestati lo incalzano, tentano di farlo passare per un
border line, uno squilibrato, un
cocainomane. Lui è però un pentito vero, conferma i nomi di
quelli implicati nel delitto Fortugno: sono stati
Salvatore Ritorto e Domenico Audino. Dice anche
quello che ha fatto quella domenica maledetta, il 16
ottobre 2005: era andato a Reggio con tre picciotti. A
fare che? A donne, risponde al magistrato.
Nulla dice di sapere, invece, sui mandanti. Risponde solo
che quellomicidio interessava a Ritorto. Si fa la galera, il processo col rito
abbreviato, a giugno la condanna a un anno e quattro mesi
e torna a vivere quasi da uomo libero in Abruzzo, in una
casetta vicina al mare a Francavilla (Chieti). Parla
spesso con il vescovo di Locri, mons. Giancarlo
Bregantini, fino a quando decide di dire basta con questa
vita. Dicono per una travagliata relazione sentimentale.
Sarà vero? Dicono che era assai depresso e lasciato
solo. Muore con una corda al collo e finisce così la sua
vita travagliata, da picciotto che non era picciotto, poi
pentito ed isolato da tutti. Troppo solo,
commenta sconsolato Bregantini. (Telereggio, 17
ottobre 2007) Suicidio di Bruno Piccolo: Amato dispone
una verifica Bruno Piccolo, che aveva 29 anni, si è
suicidato in una località protetta dove attualmente
viveva e lavorava secondo le procedure previste nel piano
di protezione. Proprietario di un bar nel centro di Locri, fu
lui, dopo il suo arresto avvenuto nel novembre del 2005
perché affiliato ad una cosca mafiosa, a consentire di
fare luce sullomicidio del vice presidente del
consiglio regionale della Calabria, Francesco Fortugno.
Con le sue rivelazioni gli inquirenti ricostruirono tutte
le fasi del delitto dellesponente politico
calabrese che Piccolo riferì di avere appreso dei
preparativi dellomicidio nel suo bar, frequentato
dagli uomini del clan. In relazione alla richiesta formulata dal
Presidente della Commissione Parlamentare di inchiesta
sulla criminalità mafiosa, Francesco Forgione, avente ad
oggetto la gestione del collaboratore di giustizia Bruno
Piccolo, il Ministro dellInterno per il tramite del
Capo della Polizia ha chiesto una verifica al Servizio
Centrale di Protezione. Da una prima ed immediata risposta fornita dal
predetto Servizio di Protezione emergerebbe quanto segue:
al collaboratore Bruno Piccolo è stato consentito, su
sua richiesta, di poter lavorare in un bar della
località protetta, secondo le procedure previste nel
piano provvisorio di protezione, ed in vista del futuro
reinserimento sociale; non vi è stato alcun controllo
effettuato presso tale bar da parte dellIspettorato
del lavoro che abbia riguardato la persona di Bruno
Piccolo; un unico controllo risulta operato
allinterno del bar dalla Guardia di Finanza e il
pronto intervento del Servizio Centrale di Protezione ha
determinato che gli esiti di tale controllo fossero
custoditi nel prescritto circuito riservato senza
divulgazione alcuna; la rottura del rapporto di lavoro è
stata piuttosto determinata da ragioni comportamentali
connesse a vicende di natura personale; il licenziamento
quindi non è da ricollegare ad alcuna attività di
controllo sul bar, ovvero a qualsivoglia disvelamento
della identità personale del collaboratore;
allatto del sopralluogo si è constatato il
funzionamento dellimpianto di erogazione
dellenergia elettrica e del gas, essendo stati
rinvenuti la luce ed il televisore accesi. (www.interno.it,
22 ottobre 2007) Suicidio: 16 ottobre 2007, Cpt di Modena Cittadino tunisino di 23 anni si uccide nel
Centro di Permanenza Temporanea per Immigrati di Modena,
dove è trattenuto. Il ministero
dellInterno ha predisposto un sopralluogo nella
struttura per oggi. Un funzionario del dipartimento delle
libertà civili e immigrazione del Viminale incontrerà
il vice prefetto vicario, il questore di Modena e Anna
Maria Lombardo, il responsabile del centro gestito dalla
Misericordia di Modena. Un Cpt, quello modenese, che fa parlare di sé
fin dalla sua apertura nel novembre 2002, e non solo per
il fatto che il presidente della Misericordia di Modena,
ente gestore del centro, sia il fratello di Carlo
Giovanardi, allora Ministro dei rapporti con il
Parlamento. La mattina del 25 dicembre 2004 una donna
rumena trattenuta al Cpt nonostante fosse incinta di nove
mesi, partoriva una bambina che avrebbe poi chiamato
Natalia in ricordo di quel giorno, senza che il personale
del centro avvertisse i servizi sociali della città di
Modena. A settembre 2006, una giovane cinese, ospite del
Cpt modenese, veniva ricoverata a Baggiovara per trauma
da percosse. W.F., 26 anni, doveva essere rilasciata
proprio il 22 settembre perché alla scadenza del suo
sessantesimo giorno di permanenza al Centro, non era
stata identificata. Non trovando gli operatori, la
ragazza, che non parlava italiano, aveva cominciato ad
agitarsi. A quel punto - secondo quanto raccontarono
allora le compagne del reparto femminile - sarebbe
intervenuto un agente di polizia, di turno al controllo
della struttura, che lavrebbe prima bloccata e poi
schiaffeggiata, per poi calciarla una volta caduta a
terra. Abbiamo assistito tutte alla scena, è
stata molto violenta, abbiamo sentito le sue urla
dichiararono allora le compagne alla stampa. La giovane,
trasportata allospedale di Baggiovara, e trattenuta
al pronto soccorso venne poi raggiunta dal direttore del
Cpt, Giovanni Gargano, insieme al vicedirettore, che
promisero di fare chiarezza sulla vicenda. Ma i
responsabili non sono mai stati puniti. E qualcosa di
simile è accaduto di nuovo recentemente. Lo scorso 2 settembre 2007 con il pestaggio di
un cittadino marocchino nel centro modenese. La vicenda
è persino finita in tribunale. Lhanno accusato di
resistenza a pubblico ufficiale, ma stranamente è lui
che riporta gravi contusioni sulle gambe e sul torace, un
occhio pesto ed ematomi su tutto il corpo.
Nelludienza di lunedì 9 in cui veniva chiesto
larresto e la custodia cautelare in carcere per il
cittadino straniero, gli agenti hanno sostenuto che una
volta portato nella sala di accettazione il detenuto si
sarebbe messo a colpire a testate la parete e un oggetto
in ferro lì presente, riportando così le contusioni. Ma
limputato, ha parlato di un pestaggio. È
stato preso dal tetto di peso, portato in una stanza e
poi pestato - dice lavvocato difensore Vainer
Burani -. Ha ricevuto un calcio in faccia allaltezza
dellocchio, come si vede dalla ferita e dal viso
tutto gonfio e poi è stato calciato sul braccio dove
cè il segno di uno scarpone, picchiato con i
manganelli sulle cosce e con calci sugli stinchi dove ha
una serie di contusioni. I referti medici in
seguito al ricovero al pronto soccorso riportano
trauma policontusivo per ferite e percosse, dolore
in sede cervicale, lombare, toracica e ascellare, dolore
su gomito sinistro, anca sinistra e gamba sinistra,
confermando il racconto del ragazzo. La prossima udienza
si terrà il 30 ottobre, ma lavvocato Burani teme
che la sua espulsione possa avvenire prima. È già
successo in casi simili, a Bologna, a Milano, a Torino. E intanto sulla gestione del centro pende
lufficializzazione del nome del vincitore del bando
per la gestione. Dalla sua apertura, nel 2002, il Cpt è
gestito dalla Misericordia di Modena, il cui presidente,
Daniele Giovanardi, è fratello di Carlo Giovanardi, che
nel 2004 era ministro per i rapporti con il Parlamento.
Ma la nuova gestione, secondo indiscrezioni, sarebbe
stata affidata alla Cooperativa Albatros 1973, che già
gestisce il Cpt di Caltanissetta. (Redattore Sociale,
16 ottobre 2007) Suicidio: 17 ottobre 2007, Cpt di Modena Cittadino marocchino di 28 anni si uccide nel
Centro di Permanenza Temporanea per Immigrati di Modena,
dove è trattenuto. Nel breve volgere di due
giorni, da domenica a ieri notte, ben due suicidi sono
avvenuti nel Centro di Permanenza Temporanea di Modena. I
due giovani suicidi il primo di origine tunisina ed il
secondo di origine marocchina si sono tolti la vita
impiccandosi. Come è noto, le persone che si trovano
ristrette al centro di permanenza temporaneo sono
destinate allallontanamento dallo Stato italiano e
subiscono una restrizione della libertà personale che
può raggiungere i 60 gg. non per effetto della
commissione di reati, come stabilisce lart. 13
Cost., che sancisce la inviolabilità della libertà
personale e i casi in cui la persona può esserne
privata, ma per la mera irregolare presenza sul
territorio, qualunque sia la causa pregressa che ha
determinato tale irregolarità. Si tratta di una condizione di privazione
difficilmente accettata dalle persone che la subiscono,
sia che provengano dal carcere, e che quindi hanno già
scontato la pena inflitta per i reati commessi, sia per
le persone che sono al Cpt per non essere muniti di
permesso di soggiorno o perché lo stesso è scaduto e
non è stato più rinnovato (anche solo per la perdita di
un lavoro). A ciò si accompagna quasi sempre il
fallimento del progetto migratorio che aveva accompagnato
labbandono del paese dorigine, con tutto ciò
che comporta di drammatico nel dover ritornare indietro.
In questi mesi la sensibilità e lattenzione per le
strutture di permanenza temporanea pare avere maggiore
consistenza, con la necessità di un ripensamento della
normativa in tema di immigrazione (e soprattutto della
legge cd. Bossi-Fini). Il superamento di strutture come i centri di
permanenza temporanea è previsto nel programma
dellattuale compagine governativa, segnale del
disagio crescente verso strutture più chiuse ed
impenetrabili degli istituti penitenziari, sebbene
collegate, come si è detto, non alla commissione di
reati, che può essere causa eventuale della perdita del
permesso di soggiorno, ma più spesso alla non
regolarità sul territorio. A questo disagio si può far fronte approntando
senza ulteriori ritardi in ambito parlamentare la riforma
sulla legge dellimmigrazione e con limpegno
degli enti locali a svolgere un ruolo fondamentale nella
gestione dei centri, finché esistenti, assicurando
condizioni di vita e di assistenza rispettose delle
persone, promuovendo ogni opportunità di reinserimento e
di regolarizzazione ove possibile e comunque garantendo
la tutela dei diritti primari delle persone. Solo la presenza delle istituzioni locali
agevola lapertura allesterno di questi
luoghi, la comprensione dei fenomeni sociali che li hanno
generati e possono impedire gli episodi drammatici
occorsi al Cpt di Modena. In questo senso è utile la
presenza di figure di garanzia, come inserito nello
Statuto del Comune di Bologna, con il compito di tutela
delle persone comunque private della libertà personale
presenti sul territorio comunale. Avvocato Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà
personale del Comune di Bologna Suicidio: 20 ottobre 2007, carcere di
Foggia Pasquale Giannuario, 30 anni, foggiano, ha
approfittato dellora daria, lasso di tempo in
cui il suo compagno di cella aveva lasciato la stanza, e
si è impiccato con un lenzuolo. Luomo, che non ha
lasciato nessun messaggio, era stato arrestato la notte
scorsa dai carabinieri della compagnia di Foggia, dopo
aver picchiato violentemente la compagna e la figlia di
questultima e sequestrato il figlio maschio della
stessa donna. Ecco la cronaca dellarresto: unauto
che sfreccia nel cuore della notte tra le vie cittadine,
al volante un uomo con le mani insanguinate e con lui un
ragazzino di appena tredici anni dallespressione
del volto terrorizzata. La scorsa notte la scena, appena
descritta, non è sfuggita ai carabinieri fermi nelle
vicinanze della stazione ferroviaria per un consueto
posto di blocco. Erano le 2.30 del mattino a Foggia
quando è iniziato linseguimento tra i militari e
lAudi 80 guidata dalluomo. Dopo pochi metri
però i carabinieri riescono a bloccare il mezzo.
Luomo si rifiuta di parlare, accanto a lui il
ragazzino urla in lacrime ha picchiato mia madre e
mia sorella, e poi mi ha sequestrato. Alle parole del 13enne i militari costringono
Pasquale Giannuario a farsi condurre presso
labitazione della sua convivente. Lì unaltra
scena raccapricciante, il 30enne aveva rinchiuso le donne
in una stanza. Le due presentavano ancora evidenti
tumefazioni su tutto il corpo, soprattutto la mamma aveva
ancora i segni dei morsi lungo le braccia. A quel punto i carabinieri altro non hanno
potuto fare che accompagnare le vittime in ospedale, dove
sono state prontamente medicate e giudicate guaribili in
una settimana. Ma la follia delluomo non finisce
così. Le donne vengono portate in caserma per il
riconoscimento del 30enne, alla vista delle due
Giannuario, tenta ancora una volta di scagliarsi contro
di loro, provocando nella concitazione del momento, anche
il ferimento di un maresciallo. (Teleradioerre, 21
ottobre 2007) Suicidio: 20 ottobre 2007, carcere di
Cagliari Licurgo Floris, 55 anni, si impicca nella
sala di transito del carcere, dove attendeva
il trasferimento verso Sollicciano. Solo, nella sala
transito del carcere di Buoncammino, ha guardato la
sbarra più alta del gabbione e gli è venuta
lidea. Le cinghie che tengono insieme le bisacce
bianche per la biancheria e le cose personali: ne ha
agganciato una al ferro, si è tirato su con tutta la
forza che aveva e poi giù, di colpo. Strappo mortale,
gli ha ceduto losso del collo. Dovevano trasferirlo
al penitenziario di Firenze, il blindato era fuori ad
attendere lui e la scorta. Ma quando un agente lha
trovato, alle 4 di notte, Licurgo Floris respirava
appena, appeso a un metro e mezzo dal pavimento. Pochi
attimi dopo, malgrado i tentativi disperati del medico
Paolo Scarparo, il suo cuore si è fermato. Aveva 55
anni. È la cronaca di una morte non annunciata, i cui
echi ieri mattina hanno raggiunto in un baleno gli uffici
giudiziari e la sezione di sorveglianza, che seguiva da
tempo il suo lento ritorno a unesistenza attiva:
Gli anni trascorsi nel carcere di Lanusei gli
avevano restituito la fiducia in se stesso, la voglia di
vivere ricorda amareggiata Herika Dessì, il suo
avvocato. Ma quel filo sottile di fiducia sè
spezzato dimprovviso laltra notte, quando una
guardia lha svegliato per comunicargli la brutta
notizia: Sei in partenza. Licurgo Floris ha
guardato fuori: notte. Poi lorologio: Se mi
portate via a questora, devessere in
continente... ha detto a bassa voce, come riferisce
il direttore del carcere Gianfranco Pala. Ma il regolamento è regolamento: vietato
informare i detenuti in transito sulla destinazione
prevista. Così Licurgo si è vestito, ha chiesto due
zaini per infilarci le cose personali e ha seguito gli
agenti fino alla sala dattesa, vicino
allufficio matricola: Era tutto pronto, il
biglietto aereo, i soldi per il viaggio... spiega
Pala. Prima la visita medica, neppure una parola di
protesta. Poi la perquisizione di rito. Lhanno
lasciato qualche minuto solo, ma Licurgo appariva
tranquillo. Amareggiato ma calmo: Cinque minuti,
forse dieci.... Abbastanza perché nella sua mente
si aprisse il file del suo passato recente, che non
voleva rivivere: gli anni di Firenze, dove ha
collezionato altre sanzioni per resistenza, oltraggio,
proteste plateali in un ambiente che considerava ostile.
Lontano dalla moglie, dalla famiglia, dalla Sardegna.
Finalmente quattranni fa il ritorno
nellisola, a Lanusei dove il comandante delle
guardie carcerarie è un uomo eccezionale - ricorda
lavvocato Dessì - che lha aiutato e
soprattutto lha trattato da uomo. Nel penitenziario ogliastrino Licurgo era
cambiato, al punto che ad aprile scorso è arrivato il
primo permesso premio dal giudice di sorveglianza di
Cagliari. Poi la semilibertà, il lavoro in
unimpresa di Carbonia: Era come rinato
ricorda ancora il legale. Di giorno fuori, la sera
allistituto di Senorbì, quello per semiliberi. Un
canale di passaggio dal buio alla vita. Dietro langolo però si profilava un nuovo
precipizio: niente più lavoro, rapporto interrotto per
ragioni economiche. La sua posizione di semilibero,
legata allimpegno contrattuale, non poteva che
cadere: il 4 ottobre ludienza davanti al tribunale
di sorveglianza, presidente Francesco Sette. La legge è
legge: revocata la misura alternativa, almeno finché
Licurgo non avrebbe trovato qualcosaltro da fare
lontano dal carcere. Il resto sintreccia tra
procedura e burocrazia: ritornato detenuto lungodegente a
tutti gli effetti Licurgo non poteva più restare a
Buoncammino, un penitenziario di passaggio. La destinazione preferita sarebbe stata Lanusei,
invece lhanno svegliato prima dellalba:
Firenze. Luogo di brutti ricordi, carcere duro fra duri,
dove Licurgo aveva dato il peggio di sé. Poteva
tornarci? Doveva tornarci, in base alle norme
taglia corto Francesco Massidda, provveditore regionale
degli istituti di pena. Che poi chiarisce: A
Lanusei era stato trasferito per tre mesi, un beneficio
utile per incontrare i familiari. Poi cera stata
una proroga di due mesi, in attesa di
unassegnazione definitiva ad altro istituto. Poi ancora rinvii e rinvii. In quel limbo
concesso dal Dap - il dipartimento
dellamministrazione penitenziaria - Floris era
riuscito a ritagliarsi un progetto di semilibertà,
interrotto a settembre: Finito il lavoro per la
legge finisce anche la semilibertà - avverte Massidda -
almeno in attesa di un altro contratto. In casi come
questi le norme stabiliscono che il detenuto rientri alla
sede dassegnazione originaria, che era Firenze -
Sollicciano. Unapplicazione comunque
burocratica dei regolamenti, che forse meriterà un
approfondimento: a sollecitarlo è ora la consigliera
regionale Maria Grazia Caligaris, per la quale il
principio della territorializzazione della pena andava
rispettato. Ma chi poteva prevedere un suicidio? Ho
visto il suo fascicolo - spiega ancora il provveditore -
Floris era un detenuto strutturato, abituato a
carcerazioni difficili. Tutto ci saremmo aspettati tranne
una fine del genere. Fine decisa in un attimo, la
disperazione che si fa desiderio di autodistruggersi:
Forse un giorno sapremo che ci pensava da tempo -
aggiunge Massidda - chi può dirlo?. Già, chi può
dirlo ormai? Il resto è grigia routine giudiziaria. Dopo un
esame esterno compiuto a Buoncammino dal medico legale
Luca Lai, il corpo di Licurgo Floris è stato portato su
disposizione del magistrato di turno Liliana Ledda
allobitorio del cimitero di San Michele. I
familiari sono stati informati immediatamente, già
allalba erano a Buoncammino. Sarà aperta
uninchiesta, sebbene non emergano finora ipotesi di
responsabilità. Caligaris: determinante il trasferimento Sono convinta che apprendere alle quattro
del mattino di dover lasciare la Sardegna per tornare in
Toscana a scontare la pena abbia determinato una crisi di
disperazione profonda e senza scampo. Il suicidio in
carcere è un evento traumatico sempre, in queste
circostanze diventa unespressione di inciviltà da
parte delle istituzioni. Lo afferma la consigliera
regionale socialista Maria Grazia Caligaris (Sdi -
Partito Socialista) Maria Grazia Caligaris, segretaria
della Commissione Diritti Civili. Il Dap - ha sottolineato - non può
operare disconoscendo il fatto che il detenuto è un
soggetto debole. Né i rapporti con chi sconta una pena
detentiva possono essere improntati alla fredda
burocrazia. Licurgo Floris, in regime di semilibertà in
Sardegna, a maggior ragione poteva restare nel carcere di
Buoncammino. Disporne il trasferimento a Firenze dove
scontava la pena senza tenere conto del contesto è stato
un atto burocratico come i tanti che si consumano senza
un vero perché ai danni dei detenuti e dei loro
familiari. Ritengo che il rispetto del
principio della territorializzazione della pena sia
indiscutibile e da applicare sempre come del resto recita
laccordo tra Regione, Ministero della Giustizia e
Dap e come sancito - conclude Caligaris - da un ordine
del giorno del Consiglio regionale. (La Nuova
Sardegna, 23 ottobre 2007) Suicidio: 24 ottobre 2007, carcere di
Rebibbia Chinane L., 31 anni, marocchino, si uccide in
una cella di Rebibbia. Il Garante dei detenuti del Lazio
Angiolo Marroni: servono urgentemente misure di
supporto psicologico per quanti, soprattutto stranieri,
entrano in carcere. Si è tolto la vita nel primo pomeriggio
impiccandosi alle sbarre della sua cella di isolamento,
nel braccio G12 del carcere romano di Rebibbia Nuovo
Complesso. La vittima era un cittadino di origine
marocchina di 31 anni, Chinane L. A quanto risulta al
Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo
Marroni - che ha segnalato laccaduto - luomo
era stato condannato in primo grado a 3 anni e 10 mesi di
carcere per un reato di natura sessuale, aveva presentato
appello ed era in attesa di essere trasferito nel carcere
di San Remo. Sempre a quanto risulta al Garante, luomo
era stato posto in isolamento perché aveva litigato nei
giorni scorsi con gli altri detenuti nel braccio G9 e, un
paio di giorni fa, aveva già tentato di togliersi la
vita. Per questo motivo stamattina aveva avuto un
colloquio con uno psichiatra. Questa morte è la
conferma di come, a volte, il carcere possa anche
uccidere - ha detto il Garante dei diritti dei detenuti
Angiolo Marroni - Credo che lepisodio di oggi
conferma ancor di più la necessità di avere misure di
supporto psicologico e di accompagnamento per quanti,
soprattutto stranieri, entrano in carcere. Un mondo duro,
difficile, che può schiacciare chi non è preparato ad
affrontarlo. (Garante dei detenuti del Lazio, 25
ottobre 2007) Nota di Gianfranco Spadaccia sul suicidio
a Rebibbia Il suicidio di un detenuto marocchino,
accaduto la settimana scorsa a Rebibbia Nuovo Complesso,
conferma purtroppo la recrudescenza negli ultimi mesi del
fenomeno dei suicidi in carcere, che ho avuto modo di
denunciare come uno dei punti di maggiore criticità
della situazione degli istituti di pena nella mia
relazione al Sindaco e al Consiglio comunale. La
percentuale dei suicidi in carcere è quasi dieci volte
superiore a quella che si registra nel resto della
società. Ci si uccide in carcere per depressione, una
malattia micidiale in libertà, insopportabile in
condizioni di detenzione, ci si uccide per disperazione,
ci si uccide per la vergogna dellarresto e della
condanna (non si vergognano solo gli innocenti). Il suicidio di ieri è avvenuto in un carcere
dove è stato istituito dal giugno scorso un comitato di
lavoro che coinvolge le associazioni dei detenuti e le
diverse articolazioni del volontariato proprio per
tentare di individuare i casi di particolare fragilità
psicologica che possono spingere ad atti di
autolesionismo o al suicidio. Lo sforzo della direzione
del carcere è certamente meritorio perché non è
pensabile evitare questi incidenti con la sola
sorveglianza. Ma anche questo sforzo è destinato a
rimanere frustrato se non si provvede a aumentare gli
organici di coloro che si dovrebbero occuparsi del
trattamento dei detenuti: gli educatori, ovunque sono un
numero irrisorio, al Nuovo Complesso sono
allincirca uno ogni cento detenuti. Ugualmente
carente è la presenza di psicologi, di assistenti
sociali e di mediatori culturali. Nessun pacchetto
sicurezza si occupa purtroppo di queste carenze
strutturali da cui dipendono non solo la salute psichica
e fisica e la stessa vita di molti detenuti, ma dipendono
anche le possibilità di recupero e di reinserimento
nella legalità dei tanti reclusi. (Gianfranco
Spadaccia, Garante dei detenuti del Comune di Roma) Suicidio: 28 ottobre 2007, carcere di
Prato Giorgio, detenuto italiano di 48 anni, si
impicca in cella con i lacci delle scarpe. Aveva passato
questi ultimi sei mesi, i più terribili e oscuri della
sua vita, come detenuto modello. Non una sbavatura, una
parola, un gesto fuori dalle regole imposte di quel mondo
parallelo. Eppure ieri tra le 18 e le 18.20 ha terminato
la sua vita appeso a una corda di fortuna fatta con i
lacci delle scarpe. Una brutta storia, finita nel più
doloroso dei modi, quella di Giorgio, 48 anni, massese,
accusato di un crimine infamante: atti di libidine su una
figliastra, rinchiuso alla Dogaia da maggio. La verità resterà chiusa in quella cella del
reparto super blindato destinato ai sex
offender: stupratori, pedofili, la feccia. Forse
Giorgio (lui che si era sempre protestato innocente) non
credeva di esserlo. Forse ha sopportato fin che ha
potuto, poi senza una parola, un rimpianto o le scuse, si
è lasciato andare. Ha scelto altro. Una vita al limite quella delluomo
accusato, nel 1998 dalla figlia di una delle sue tante
donne, di essere un molestatore. Ha una prima moglie, poi
una seconda, infine una terza, fa cinque figli, il più
piccolo ancora minorenne. Si barcamena Giorgio, tra una
crisi familiare e laltra, fino a quando incappa
nelle rete stretta della giustizia. Viene accusato di
aver molestato sua figlia ma viene prosciolto. Cosa che
non accade, invece, per la denuncia della ragazza,
allepoca sedicenne, figlia della sua seconda
moglie. Linchiesta procede: atti di libidine
violenta. Passa interrogatori, udienze preliminari,
processi. Ma resta a piede libero. Fino a sei mesi fa
quando la Cassazione dice lultima parola: condanna
definitiva, sei anni di reclusione. Si aprono le porte
del carcere. È la svolta, il buco nero. Giorgio alla Dogaia conduce, in apparenza,
unesistenza serena, per quel che può. Viene messo
nella sezione 7, quella più protetta, più isolata, più
chiusa. Una misura di prevenzione, perche i crimini
sessuali sono puniti e duramente anche dalla giustizia
sommaria del carcere. Entra in una cella che ha già un
occupante ma i giorni scorrono. Senza traumi. Almeno
così si mormora. Pasti, ora daria, attività nel
pomeriggio, visite dei parenti, mogli e figli, che -
garantiscono - continuano fitte, fitte e fino
allultimo. Ma non ieri, iniziata come una giornata
qualsiasi. Con ununica nota stonata, però. Giorgio
rientra in cella un po prima del suo compagno. Sono
le 18. Le attività pomeridiane stanno finendo. Alle
18,20 cè il cambio degli agenti che controllano le
sezioni, poi cè il turno della cena e bisogna che
i detenuti siano già nelle celle. Il compagno di Giorgio
rientra, si dirige verso la porta del minuscolo bagno e
fa per aprirla. È bloccata. La forza, ma qualcosa
impedisce, fa resistenza. Chiama le guardie. In due
riescono a scostarla di qualche centimetro. E diventa
tutto chiaro. È il corpo di Giorgio che preme. È
attaccato lassù con i lacci delle sue scarpe. Non
cè più nulla da fare. Se non le indagini per
capire la verità. Papà si è tolto la vita perché era
innocente La telefonata dal carcere di Prato è arrivata
verso le 22.30 di sabato: Pronto, volevamo
avvertirvi che il signor... si è tolto la vita. A
ricevere la notizia Mirco, uno dei figli delluomo
che si è impiccato dopo essere finito dietro le sbarre
con laccusa di aver avuto delle attenzioni
particolari verso la figlia della sua nuova compagna,
allepoca appena tredicenne. Era il 1998 e dopo nove
anni di tribolazioni giudiziarie per il cinquantenne
massese si sono aperte le porte del carcere. Una pena di
sei anni che non riusciva a comprendere e ad accettare
perché si riteneva innocente. Mio papà lo aveva detto: io qui non
resisto, aspetto un po di tempo e se non mi danno
lindulto mi tolgo la vita. Io quella ragazzina la
trattavo come una figlia (in realtà la tredicenne aveva
un altro papà), ma quando mi ha accusato di aver fatto
quelle cose mi ha fatto crollare il mondo sotto i
piedi. Mirco, 26 anni, ha gli occhi ancora gonfi
dalle lacrime che ha versato da quando ha saputo che suo
padre ha deciso di togliersi la vita: Le guardie mi
hanno detto che si è ucciso nel bagno. Una scena
raccapricciante: con la cintura dellaccappatoio ha
bloccato la porta e poi con i lacci delle scarpe ha fatto
un cappio che ha appeso a uno stipite. Mi vengono i
brividi se penso che due settimane fa sono stato
lultimo a parlargli e lo avevo visto
particolarmente affranto, sfiduciato. Il giovane vuole sfogarsi per ridare dignità a
un genitore che ha sentito particolarmente vicino, anche
dopo la disgrazia che lo aveva colpito: Per me e i
miei fratelli è stato un padre modello, mi dispiace che
sia finito in carcere per la denuncia di una ragazzina
che evidentemente aveva dei problemi. Per me, nonostante
la condanna, resta un uomo innocente finito in cella
senza un motivo. Gli altri sono liberi di credere quello
che vogliono, la sua famiglia la pensa così. E del resto
se la sua seconda moglie (la mamma della ragazza che ha
denunciato la violenza) ha deciso di restare con lui
evidentemente anche lei era convinta della sua
innocenza. La ragazza, adesso maggiorenne, vive al nord e
si è fatta una vita propria. Ma secondo Mirco non ha
voluto tagliare i ponti con quel padre che aveva mandato
in carcere: Sono confuso, è meglio che non dica
niente per il bene di tutti. Quello che mi dispiace è
che mio padre si sia impiccato in una cella lontano dai
suoi cari e dopo nove lunghi anni di processi si sia
visto ammanettare per una storia che lui credeva
passata. Linchiesta sul suicidio è già terminata.
Luomo aveva passato gli ultimi sei mesi, i più
terribili e oscuri della sua vita, come detenuto modello.
Non una sbavatura, una parola, un gesto fuori dalle
regole imposte di quel mondo parallelo. Se era colpevole
o meno non si potrà mai sapere, per la giustizia in ogni
caso la risposta è sì. La verità resterà chiusa in
quella cella del reparto super blindato destinato
aisex offender: stupratori, pedofili. Lui non
credeva di essere così. E il figlio lo conferma:
Non ce la faceva a stare così - dice Mirco. Anche qualche secondino mi ha detto che non era
come gli altri che si era sempre comportato come uno che
in quel carcere cera finito per caso. La sua
vita però era cambiata nove anni fa, quando nel 1998 la
figlia della sua seconda moglie lo aveva accusato di
essere un molestatore. Linchiesta procede: atti di
libidine violenta. Passa interrogatori, udienze
preliminari, processi. Ma resta a piede libero. Fino a
sei mesi fa, quando la Cassazione dice lultima
parola: condanna definitiva, sei anni di reclusione. La minima per i casi di violenza su minori, ma
pur sempre una condanna a sei anni e con un marchio
infamante. Per giunta confermato da tre gradi di
giudizio. Colpevole e basta, colpevole senza possibilità
di ritorno. E si aprono le porte del carcere. È maggio:
è la svolta, il buco nero. Luomo nel carcere della
Dogaia conduce, in apparenza, unesistenza serena,
per quel che può. Viene messo nella sezione 7, quella
più protetta, più isolata, più chiusa. Una misura di prevenzione, perché i crimini
sessuali sono puniti e duramente anche dalla giustizia
sommaria del carcere. Entra in una cella che ha già un
occupante ma i giorni scorrono. Senza traumi. Almeno
così si mormora. Pasti, ora daria, attività nel
pomeriggio, visite dei parenti, mogli e figli, che -
garantiscono - continuano fitte, fitte e fino
allultimo. Colloqui dove lui ammetteva di essere al
limite della sopportazione: Sei anni qui non li
faccio. Sabato sembrava una giornata come le altre,
con gli stessi ritmi: alle 18 rientra in cella un
po prima del suo compagno. E si toglie la vita.
Oggi pomeriggio alle 15 nella chiesa di Turano si
terranno i funerali. (Il Tirreno, 29 ottobre 2007) Malattia: 30 ottobre 2007, carcere di Parma Vincenzo Oliviero, 46 anni, muore per un arresto cardiaco nel carcere di Via Burla, dove era detenuto in regime 41-bis. Esponente del clan camorristico Birra, di Ercolano, Oliviero veniva soprannominato papa buono o papà buono; era stato arrestato in giugno durante un blitz - 53 arresti in tutto - in Campania. (Ansa, 31 ottobre 2007) |