SCHIFANI
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Già nel 2002
Franco Giustolisi e Marco Lillo si occuparono su L'espresso
di Renato Schifani, ex democristiano, consigliere
comunale a Palermo, poi capo dei senatori di Forza Italia
e per anni volto tv del Berlusconi pensiero. Tra le sue
azioni parlamentari si ricorda la legge o lodo Schifani,
che sospese temporaneamente i processi in corso contro le
più alte cariche dello Stato (fu utilizzata da
Berlusconi stesso, allora premier), dichiarata poi
inconstituzionale. Ma anche la battaglia vinta per il
carcere duro ai mafiosi. Da ieri Schifani è il nuovo
presidente del Senato. Ha avuto subito parole di grande
equilibrio e ricevuto molteplici applausi. Certo è che
come seconda carica dello Stato la maggioranza non ha
scelto Pera o Pisanu, ma un uomo dal profilo marcatamente
berlusconiano. Si tratta di un omaggio alla Sicilia,
senza ministri nel governo, di un passo della Forza
Italia dura verso il Quirinale, ma anche di un premio ad
un senatore per la cieca fedeltà al capo. Solo che una
democrazia non funziona coi cattivi esempi. E una
legislatura non inizia bene con un tale passo. Di seguito
l'articolo di Giustolisi e Lillo.
Quando, dopo
una settimana di nottate, blitz e tranelli ha portato a
casa l'approvazione della legge sul legittimo sospetto,
Renato Schifani ha sottolineato con il consueto senso
delle istituzioni la sua vittoria sull'Ulivo: «Li
abbiamo fregati». Il capo dei senatori forzisti è fatto
così. «È la mia chiarezza che dà fastidio alla
sinistra», ha detto a un settimanale che gli ha dedicato
un editoriale lodando «lo stile Schifani». Questo
avvocato di 52 anni, nonostante il riporto e gli occhiali
da archivista, è l'uomo prescelto da Silvio Berlusconi
come volto ufficiale di Forza Italia. E lui lo ripaga
come può. In un articolo sul "Giornale di
Sicilia" dal titolo "Cavour e il conflitto di
interessi" afferma che anche lo statista piemontese
era «in potenziale macroscopico conflitto di interessi
perché aveva il giornale "Il Risorgimento",
partecipazioni bancarie, grandi proprietà terriere e
un'intensa attività affaristica». Proprio come
Berlusconi, insomma, eppure nessuno gli disse nulla.
Peccato che, come scrive Rosario Romeo a pagina 451 della
sua biografia, Cavour appena diventò ministro «decise
in primo luogo di liquidare gli affari nei quali era
stato attivo fino ad allora». Ma Schifani per amore del
capo è disposto a sfidare anche il ridicolo. Come quando
si fa riprendere in tv accanto al santino del leader
neanche fosse Padre Pio. Avvocato civilista e
amministrativista, 52 anni, sposato e padre di due figli,
amante delle isole Egadi, è stato eletto nel collegio di
Corleone, cuore di quella Sicilia che ha dato il cento
per cento degli eletti a Forza Italia. Per descrivere
l'eroe del legittimo sospetto, l'uomo che ha scavato
nottetempo la via di fuga dal processo milanese per
Berlusconi e Previti, si potrebbe partire dalle sue
radici democristiane. Ma applicando alla lettera il suo
credo, «non bisogna usare il politichese ma parlare con
serenità il linguaggio dell'uomo comune», sarà meglio
partire da una constatazione: il capo dei senatori di
Forza Italia è stato socio di affari (leciti) con
presunti usurai e mafiosi.
Sua eccellenza
Filippo Mancuso, solitamente bene informato, ha definito
così il suo ex compagno di partito: «Un avvocato del
foro di Palermo specializzato in recupero crediti».
Schifani gli ha risposto con una lettera in cui difende
la sua «onesta e onorata carriera» e nega di avere mai
svolto una simile attività. Negli archivi della Camera
di commercio di Palermo risulta però una società, oggi
inattiva, costituita nel 1992 da Schifani con Antonio
Mengano e Antonino Garofalo: la Gms. L'avvocato Antonino
Garofalo (socio accomandante come Schifani) è stato
arrestato nel 1997 e poi rinviato a giudizio per usura ed
estorsione nell'ambito di indagini condotte dal sostituto
Gaetano Paci della Procura di Palermo. L'ex socio di
Schifani è ritenuto il capo di un'organizzazione che
prestava denaro nella zona di Caccamo chiedendo interessi
del 240 per cento. Schifani non è stato coinvolto nelle
indagini ma certo non deve essere piacevole scoprire di
essere stato socio con un presunto usuraio in un'impresa
che come oggetto sociale non disdegnava: «L'attività
esattoriale per conto terzi di recupero crediti e
l'attività di assistenza nell'istruttoria delle pratiche
di finanziamento...».
Schifani è
stato sempre sfortunato nella scelta dei compagni delle
sue imprese. In un rapporto dei carabinieri del nucleo di
Palermo, di cui "L'Espresso" è in grado di
rivelare i contenuti, si ricostruisce la storia di
un'altra strana società di cui il capogruppo di Forza
Italia è stato socio e amministratore per poco più di
un anno. Si chiama Sicula Brokers, fu istituita nel 1979
e oggi ha cambiato compagine azionaria. Tra i soci
fondatori, accanto a un'assicurazione del nord, c'erano
Renato Schifani e il ministro degli Affari regionali
Enrico La Loggia, nonché soggetti come Benny D'Agostino,
Giuseppe Lombardo e Nino Mandalà. Nomi che a Palermo
indicano quella zona grigia in cui impresa, politica e
mafia si confondono. Benny D'agostino è un imprenditore
condannato per concorso esterno in associazione mafiosa
e, negli anni in cui era socio di Schifani e La Loggia,
frequentava il gotha di Cosa Nostra. Lo ha ammesso lui
stesso al processo Andreotti quando ha raccontato un
viaggio memorabile sulla sua Ferrari da Napoli a Roma
assieme a Michele Greco, il papa della mafia.
Giuseppe
Lombardo invece è stato amministratore delle società
dei cugini Ignazio e Nino Salvo, i famosi esattori di
Cosa Nostra arrestati da Falcone nel lontano 1984 e
condannati in qualità di capimafia della famiglia di
Salemi. Nino Mandalà, infine, è stato arrestato nel
1998 ed è attualmente sotto processo per mafia a
Palermo. Questo ex socio di Schifani e La Loggia era il
presidente del circolo di Forza Italia di Villabate, un
paese vicino a Palermo e proprio di politica parlava nel
1998 con il suo amico Simone Castello, colonnello del
boss Bernardo Provenzano mentre a sua insaputa i
carabinieri lo intercettavano. Mandalà riferiva a
Castello l'esito di un burrascoso incontro con il
ministro Enrico La Loggia, allora capo dei senatori di
Forza Italia. Mandalà era infuriato per non avere
ricevuto una telefonata di solidarietà dopo l'arresto
del figlio (poi scagionato per un omicidio di mafia). E
così raccontava di avere chiuso il suo colloquio con La
Loggia: «Siccome io sono mafioso ed è mafioso anche tuo
padre che io me lo ricordo quando con lui andavo a
cercargli i voti da Turiddu Malta che era il capomafia di
Vallelunga. Lo posso sempre dire che tuo padre era
mafioso. A quel punto lui si è messo a piangere». La
Loggia ha ammesso l'incontro ma ne ha raccontato una
versione ben diversa. E anche Mandalà al processo ha
parlato di millanteria. Nella stessa conversazione
intercettata Mandalà parlava di Schifani in questi
termini: «Era esperto a 54 milioni all'anno, qua al
comune di Villabate, che me lo ha mandato il senatore La
Loggia».
Schifani è
stato sentito dalla Procura e, senza falsa modestia ha
spiegato con la sua bravura la consulenza e lo stipendio:
«Il mio studio è uno dei più accreditati in campo
urbanistico in Sicilia». Ma per La Loggia sotto sotto
c'era una raccomandazione: «Parlai di Schifani con
Gianfranco Micciché (coordinatore di Forza Italia in
Sicilia) e dissi: sta sprecando un sacco di tempo e
quindi avrà dei mancati guadagni facendo politica.
Vivendo lui della professione di avvocato dico se fosse
possibile fargli trovare una consulenza. È un modo per
dirgli grazie. E allora parlammo con il sindaco
Navetta». Il sindaco Navetta è il nipote di Mandalà e
il suo comune è stato sciolto per mafia nel 1998.
Il capogruppo
di Forza Italia è stato sfortunato anche nella scelta
dei suoi assistiti. Proprio un suo ex cliente
recentemente ne ha fatto il nome in tribunale. La scena
è questa: Innocenzo Lo Sicco, un mafioso pentito, il 26
gennaio del 2000 entra in manette in aula a Palermo e
viene interrogato sulla vicenda di un palazzo molto noto
in città, quello di Piazza Leoni. Le sue parole fanno
balenare pesanti sospetti: «L'avvocato Schifani ebbe a
dire a me, suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era
riuscito a salvare il palazzo di Piazza Leoni facendolo
entrare in sanatoria durante il governo Berlusconi
perché, così mi disse, fecero una sanatoria e lui era
riuscito a farla pennellare sull'esigenza di quegli
edifici. Era soddisfattissimo. Perché lo diceva a me? Ma
perché io lo avevo messo a conoscenza di qual era la
situazione, l'iter, le modalità del rilascio della
concessione...».
La Procura dopo
aver analizzato le parole del pentito non ha aperto alcun
fascicolo per la genericità del racconto. Comunque la
storia di questo palazzo, scoperta dal giornalista de
"la Repubblica" Enrico Bellavia, è tutta da
raccontare. Comincia alla fine degli anni Ottanta quando
Pietro Lo Sicco, imprenditore finanziato dalla mafia e
zio di Innocenzo, mette gli occhi su un terreno a due
passi dal parco della Favorita, una delle zone più
pregiate di Palermo. Lo Sicco vuole costruirci un palazzo
di undici piani ma prima bisogna eliminare due casette
basse che appartengono a due sorelle sarde, Savina e
Maria Rosa Pilliu, che non vogliono svendere. Pietro Lo
Sicco le minaccia e le sorelle si rivolgono alla polizia.
Ma la mafia è più lesta della legge: Lo Sicco ottiene
la concessione edilizia grazie a una mazzetta di 25
milioni di lire e comincia ad abbattere l'appartamento a
fianco. Quando le sorelle vedono avvicinarsi il bulldozer
cominciano ad arrivare nel loro negozio i fusti di
cemento. Il messaggio è chiaro: finirete lì dentro. Lo
Sicco smentisce di essere il mandante ma la Procura offre
alle Pilliu il programma di protezione. Oggi le sorelle
sono un simbolo dell'antimafia: vivono proprio nel
palazzo costruito da Lo Sicco e confiscato dallo Stato.
Il costruttore è stato condannato a 2 anni e otto mesi
per truffa e corruzione a cui si sono aggiunti sette anni
per mafia.
All'inaugurazione
del nuovo negozio costruito grazie al fondo antiracket,
il senatore Schifani non c'era. Era dall'altra parte in
questa vicenda. Il suo studio ha difeso l'impresa Lo
Sicco davanti al Tar. Il pentito Innocenzo Lo Sicco, ha
raccontato che lui stesso accompagnava l'avvocato
Schifani negli uffici per seguire la pratica. Certo
all'epoca l'imprenditore non era stato inquisito e il
senatore non poteva sapere con chi aveva a che fare anche
se il genero di Lo Sicco era sparito nel 1991 per lupara
bianca. In quegli stessi anni Schifani assisteva anche
altri imprenditori che sono incappati nelle confische per
mafia, come Domenico Federico, prestanome di Giovanni
Bontade, fratello del vecchio capo della cupola Stefano.
Un settore quello delle confische che il senatore non ha
dimenticato in Parlamento. Quando ha presentato un
progetto di legge (il numero 600) per modificare la legge
sulle confische e sui sequestri.
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