trasmetto la copia della motivazione della sentenza realativa al processo delle porte bruciate il 29 giugno del 1993 dalla mafia di Brancaccio a tre componenti del Comitato Intercondominiale (Romano, Guida e Martinez) . Due mesi e mezzo dopo (15 settembre 1993) gli stessi mandanti ed esecutori di quest'atto intimidatorio uccidevano padre Puglisi. Vi prego di leggerla con attenzione perchè, attraverso le conclusioni a cui sono giunti i giudici del suddetto processo, potrete finalmente comprendere una storia che nasce spontaneamente e si sviluppa grazie alla collaborazione intensa tra un gruppo di semplici cittadini e un semplice parroco, ma anche  il motivo per cui viene intimidito il Comitato Intercondominiale e perchè muore padre Puglisi.

Un cordiale saluto Per l'Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio, 

Pino Martinez.

Il Tribunale di Palermo  Sez. V Penale composto da:

 

Dott. Salvatore Barresi - Presidente est.

Dott. Luisa Leone - Giudice

Dott. Adriana Piras - Giudice

Con l’intervento del P.M. Dott. Egidio La Neve alla pubblica udienza del 25 ottobre 2003 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA

nei confronti di:

  1. Graviano Giuseppe, nato a Palermo il 30.9.1963, detenuto per altra causa – presente in videocollegamento, di fiducia Avv. Gaetano Giacobbe, presente;
  2.  Graviano Filippo, nato a Palermo il 27.6.1961, detenuto per altra causa – presente in videocollegamento, di fiducia Avv. Giuseppe Oddo, presente, Avv. Giangualberto Pepi, assente;
  3. Cascino Santo Carlo, nato a Palermo il 23.11.1973, detenuto per altra causa – presente, di fiducia  Avv. Mario Zito, presente;
  4. Federico Vito, nato a Palermo il 19.4.1960, detenuto per altra causa – assente per rinuncia, di fiducia Avv. Armando Zampardi, assente, Avv. Antonino Galatolo, presente;
  5. Spatuzza Gaspare, nato a Palermo il 8.4.1964, detenuto per altra causa – assente per rinuncia, di fiducia Avv. Gaetano Giacobbe, presente;
  6. Mangano Antonino, nato a Roma il 19.1.1957, detenuto per altra causa – assente per rinuncia, di fiducia Avv. Tommaso Farina, presente, Avv. G. Mazzei (Foro Lucca) assente;

 

Parti civili costituite:

 

Martinez Giuseppe, presente

Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio

Per entrambi Avv. Giovanna Giamo, presente.

 

IMPUTATI

 

Per i reati di cui agli artt. 81, 61 n.2 e 5,  423, 424 e 425 n.2 c.p. e 7 D.L. 152 del 1991 per avere, i primi due nella qualità di mandanti, il MANGANO SALVATORE quale mandatario mediato ed organizzatore logistico, gli altri quali esecutori materiali del fatto di reato, provocato l’incendio delle porte delle abitazioni dei signori MARTINEZ GIUSEPPE, GUIDA GIUSEPPE e ROMANO MARIO nel domicilio di Palermo, via Azolino Hazon n. 17, cospargendo le stesse con liquido infiammabile, tale condotta consumata con finalità di intimidazione ed al fine specifico di fare recedere il comitato Intercondominiale, al quale i soggetti passivi appartenevano, da attività sociali e di recupero edilizio del quartiere non gradite alla famiglia mafiosa di Brancaccio capeggiata dai mandanti fratelli Giuseppe e Filippo GRAVIANO.

Con l’aggravante di avere compiuto i fatti di reato in rapporto di connessione teleologica, su edificio abitato, nella finalità di favorire l’associazione mafiosa ed in circostanza di tempo e di luogo tali da ostacolare la pubblica o privata difesa.

Fatto accertato in Palermo alle ore 2,00 del 29.6.1993

Le parti hanno concluso:

 

udienza dell’8 maggio 2003

 

Il Pubblico Ministero chiede la condanna di Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Spatuzza Gaspare e Mangano Antonino alla pena di anni 7 di reclusione ciascuno e di Cascino Santo Carlo e Federico Vito alla pena di anni 5 di reclusione ciascuno;

 

l’avv. Giamo nell’interesse delle parti civili costituite chiede la condanna alle pene di legge ed al risarcimento dei danni come da comparsa conclusionale e nota spese che deposita.

 

Udienza del 5 giugno 2003

 

L’Avv. Farina chiede l’assoluzione di Mangano Antonino dal reato ascrittogli per non avere commesso il fatto;

 

l’Avv. Zito chiede l’assoluzione di Cascino Santo Carlo dal reato ascrittogli per non avere commesso il fatto;

 

l’Avv. Galatolo anche in sostituzione dell’altro difensore di fiducia Avv. Zampardi chiede l’assoluzione di Federico Vito dal reato ascrittogli per non avere commesso il fatto, in subordine chiede derubricarsi l’imputazione in quella di cui all’art. 635 c.p. e dichiararsi il reato estinto per intervenuta prescrizione ovvero pronunciarsi sentenza di improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.

 

Udienza del 25 ottobre 2003

 

L’Avv. Giacobbe quale difensore di Graviano Giuseppe e Spatuzza Gaspare chiede l’assoluzione di entrambi dal reato continuato ascritto per non avere commesso il fatto;

 

l’Avv. Oddo quale difensore di Graviano Filippo chiede l’assoluzione per non avere commesso il fatto.

FATTO E DIRITTO

Con decreto emesso il 17 gennaio 2001 il GIP del Tribunale di Palermo disponeva il giudizio nei confronti di Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Cascino Santo Carlo, Federico Vito, Spatuzza Gaspare e Mangano Antonino per rispondere del delitto di cui in rubrica (artt. 81, 61 n.2 e 5, 423, 424 e 425 n.2 c.p.).

All’udienza del 18 dicembre 2001, rigettata con ordinanza l’opposizione formulata dai difensori degli imputati alla costituzione di parte civile di Martinez Giuseppe e dell’Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, il P.M. esponeva i fatti oggetto dell’imputazione e chiedeva l’esame dei testi e degli imputati di reato connesso indicati tempestivamente e ritualmente in lista.

Il Tribunale, nulla opponendo i difensori, ammetteva le prove orali richieste.

Alle successive udienze del 31 gennaio e del 21 marzo 2002 venivano esaminate le tre parti offese Martinez Giuseppe, Guida Giuseppe e Romano Mario, mentre il 4 aprile successivo veniva esaminato il teste di p.g. Carmucco Francesco già in servizio al Commissariato P.S. Brancaccio di Palermo.Alle udienze del 18 aprile, 16 maggio e 7 novembre 2002 venivano esaminati gli imputati di reato connesso La Barbera Gioacchino Marchese Giuseppe,Di Filippo Emanuele, Trombetta Agostino, Grigoli Salvatore e Cannella Tullio.

Su richiesta di ub difensore (Avv. Oddo) il Tribunale disponeva accertarsi presso il DAP i periodi di detenzione di Graviano Filippo e Drago Giovanni dal 1985 in poi.

Il dibattimento quindi proseguiva il successivo 5 dicembre con l’esame dei testi di p.g. Mar. Passaro Carmine e Carmucco Francesco e si disponeva con il consenso di tutte le parti l’acquisizione al fascicolo del dibattimento di una scheda informativa predisposta dalla DIA e datata 18.5.98 con l’allegata scheda biografica relativa all’imputato Cascino Santo Carlo, nonché verbale di denuncia a firma della p.o.Martinez Giuseppe del 29 giugno 1993, C.N.R. della Questura di Palermo del 29 giugno 1993 a firma dei testi Isp. Alfano e Commissario dott. Cravana il cui esame veniva pertanto revocato.

All’udienza del 23 gennaio 2003 si procedeva all’esame di Ciaramitaro Giovanni all’esito del quale il P.M. chiedeva che il Tribunale procedesse ad un sopralluogo negli appartamenti oggetto degli attentati per cui è processo, richiesta cui si opponeva il solo Avv. Galatolo.

Alla successiva udienza del 27 febbraio il Tribunale, acquisiti con il consenso di tutte le parti alcuni documenti prodotti dal P.M., disponeva ex art. 507 c.p.p.un nuovo esame della p.o.Martinez Giuseppe, escusso il quale il Collegio rigettava la richiesta di sopralluogo formulata dal P.M. non apparendo assolutamente necessaria ai fini della decisione.

All’udienza del 13 marzo 2003 si disponeva, su richiesta del difensore di Federico Vito (Avv. Galatolo) e con il consenso delle altri parti, l’acquisizione di copia della sentenza emessa dal GIP del Tribunale di Palermo il 18.9.97, irrevocabile il 5.1.98, nei confronti di Baiamonte Santi ed altri, nonché, su richiesta del difensore di Graviano Filippo ai sensi dell’art.238 c.p.p., l’acquisizione di alcuni verbali di prove assunte in altro procedimento alla cui realizzazione prestavano il consenso i difensori di tutti gli altri imputati; in accoglimento infine della richiesta formulata dal difensore di Graviano Giuseppe (Avv. Giacobbe) si acquisiva copia integrale manoscritta sequestrata il 25 giugno 1995 nei confronti di Mangano Antonino.

All’udienza dell’8 maggio 2003, acquisita su richiesta del P.M. ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p. la sentenza pronunciata dal GUP di Palermo il 29 maggio 2001, divenuta irrevocabile il 3.10.2001, nei confronti di Grigoli Salvatore per gli stessi fatti oggetto del processo, indicati gli atti utilizzabili ai fini della decisione, il P.M. formulava la sua requisitoria richiedendo la condanna di Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Spatuzza Gaspare e Mangano Antoninoalla pena di anni sette di reclusione ciascuno, di Cascino Santo Carlo e Federico Vito alla pena di anni cinque di reclusione ciascuno.

Il difensore delle parti civili costituite chiedeva affermarsi la penale responsabilità di tutti gli imputati in ordine al reato loro contestato e la condanna alla pena di legge, al risarcimento dei danni ed al pagamento delle spese di costituzione.

Alle udienze del 5 giugno 2003 e 25 ottobre 2003 i difensori degli imputati concludevano chiedendo l’assoluzione dei propri assistiti per non avere commesso il fatto; l’Avv. Galatolo in subordine per Federico Vito chiedeva il derubricarsi l’imputazione in quella di cui all’art. 635 c.p. e dichiararsi il reato estinto per intervenuta prescrizione ovvero pronunciarsi sentenza di improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela.

Alla stessa udienza del 25 ottobre 2003 il Tribunale, in esito alla camera di consiglio, pronunciava sentenza come da dispositivo in atti.

Tanto premesso deve preliminarmente ribadirsi la legittimità della costituzione di parte civile dell’Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio cui si sono opposti i difensori degli imputati sul rilievo che la suddetta associazione non avrebbe la necessaria legittimazione ad agire in quanto costituita in epoca (1 giugno 1994) successiva a quella di commissione del reato per cui si procede (29 giugno 1993).

Ma la opposizione è infondata e pertanto è stata dal Collegio rigettata con ordinanza emessa all’udienza del 18 dicembre 2001 le cui motivazioni vanno integralmente qui richiamate.

A carico degli odierni imputati si procede invero per il delitto di cui agli artt. 423, 424 e 425 numero 2 codice penale, aggravato ex articolo 7, legge n. 203 del 1991, commesso ai danni di Martinez Giuseppe, Guida Giuseppe e Romano Mario, con finalità d’intimidazione, allo specifico scopo di fare recedere il comitato intercondominiale, al quale i predetti soggetti appartenevano, da attività sociali e di recupero edilizio del quartiere.

Con la menzionata ordinanza il Tribunale ha rilevato che L’Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio si è costituita, come si evince dallo statuto e dall’atto costitutivo (cfr. produzione documentale del difensore di parte civile), nella continuità dell’attività svolta dal Comitato Intercondominiale della via Hazon e vie limitrofe, comitato tra cui i soci fondatori figurano proprio le tre persone offese dal reato per cui è processo.

È pertanto innegabile ed incontestabile la sussistenza di una continuità territoriale, storica, oggettiva e soggettiva tra i due enti, accomunati dal perseguimento dello scopo di svolgere nel quartiere Brancaccio un’attività di stimolo delle istituzioni per gli interventi a favore della comunità rappresentata, di vigilanza sul funzionamento delle istituzioni medesime e di diffusione della cultura della legalità e della responsabilità.

Nella prospettazione accusatoria i fatti contestati agli odierni imputati avevano proprio la finalità di ostacolare e bloccare tale concreto impegno posto in essere da parte dei tre soggetti nominati, in proprio e nella qualità di esponenti di rilievo del comitato, poi divenuta associazione intercondominiale.

Giova rammentare che in tema di legittimazione degli enti e dell’associazione a costituirsi parte civile deve ritenersi che quando l’interesse diffuso non è astrattamente connotato, ma si concretizza in una determinata realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo, diventando la ragione, e perciò elemento costitutivo di esso, è ammissibile la costituzione di parte civile da tale ente, sempre che dal reato sia derivata una lesione ad un diritto soggettivo inerente allo scopo specifico perseguito (Cass. Sez. III sent. n. 8699 del 9 luglio – 26 settembre 96).

Proprio in forza della rilevata continuità tra il Comitato Intercondominiale della via Hazon e vie limitrofe e l’Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio, si è ritenuto dunque che quest’ultima sia portatrice di un interesse che legittima la sua costituzione nel presente processo per ottenere il risarcimento dei danni relativi all’offesa diretta e immediata dello scopo sociale che costituisce la finalità propria del sodalizio, derivata dal reato ascritto agli imputati.

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L’accertamento della responsabilità degli imputati si fonda principalmente sulle dichiarazioni accusatorie di una pluralità di collaboratori di giustizia che il Tribunale valuta nel loro complesso credibili sia sotto il profilo intrinseco che estrinseco ed ulteriormente corroborate da elementi probatori tratti “aliunde” di univoco contenuto accusatorio ed incontrastabile valore dimostrativo.

La pluralità e varietà della fonti di prova processualmente acquisite impone, a giudizio del Collegio, di procedere ad una preliminare disamina dei criteri legislativi che presiedono alla loro valutazione ed in modo precipuo delle regole normative vigenti e degli orientamenti giurisprudenziali affermatisi in materia di “chiamata di correo”.

Le dichiarazioni dei “collaboratori di giustizia”, la cui nozione è stata introdotta dalla legislazione premiale, prima in materia di legislazione di emergenza contro la criminalità terroristica (cfr. art. 4 D:L: 15/12/1979 n ° 625 conv. con mod. nella L. 6/2/1980) e successivamente in materia di criminalità mafiosa (cfr. art. 1 c. 5 D.L.13/5/1991 n°152 conv. in L. 12/7/1991 n°203), possono essere definite come dichiarazioni provenienti da coloro che, dissociandosi dagli altri, “si siano adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l’Autorità di polizia o l’Autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”.

Ove tali dichiarazioni siano riconducibili, soggettivamente ed oggettivamente,ad una delle figure processuali prima evidenziate, devono essere sottoposte alla medesima disciplina valutativa di cui all’art. 192 c.3 c.p.p. in base al quale le dichiarazioni di tali soggetti “sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”.

L’introduzione di tale specifica disposizione nel nuovo codice che, secondo le aspettative espresse nella stessa Relazione al progetto preliminare, avrebbe dovuto superare le dispute tra operatori e studiosi del processo in ordine alla problematica valutazione della “chiamata in correità” è stata ispirata da una duplice esigenza: da un lato, sulla scia delle esperienze dei paesi in cui vige il sistema accusatorio nel quale il sistema della “accomplice evidence” è accompagnata dalla c.d. “corroboration”, sancire il principio del necessario riscontro probatorio della chiamata di correo, peraltro già anticipato dalle pronunce della Suprema Corte in materia durante il codice previdente, dall’altro escludere che le dichiarazioni di chiamante in correità potessero qualificarsi “ex lege” come elementi probatori inutilizzabili.

E difatti la introduzione di una regola normativa di valutazione della chiamata di correo nell’ambito delle disposizioni dedicate alle prove se da un lato consente di superare definitivamente il problema, teoricamente prospettabile nel vecchio impianto codicistico, della svalutazione probatoria di tale elemento probatorio, dall’altro certamente impone un impegno da parte del giudice nell’indicare nella propria motivazione, in un quadro di valutazione unitaria degli elementi acquisiti, le prove o gli indizi che corroborano la chiamata di correo.

L’elaborazione giurisprudenziale è pervenuta alla formulazione di principi, peraltro autorevolmente espressi anche in sede di legittimità dalla Corte di Cassazione a sezioni unite, che possono ormai considerarsi “jus receptum” ed ai quali è necessario richiamarsi per l’interpretazione della norma in oggetto.

Proprio traendo spunto dal dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi sotto il vigore del vecchio codice il legislatore del 1988 ha introdotto con l’art. 192 c.p.p.c. III una regola positiva di valutazione destinata ad operare con riguardo alle dichiarazioni rese dai coimputati del medesimo reato ovvero di reati connessi o collegati.

L’esplicita previsione di tale regola di giudizio, valutata nel complessivo contesto della disposizione di cui all’art. 192 c.p.p.,  lungi  dal costituire un limite al riaffermato principio del libero convincimento indica, piuttosto, il criterio argomentativi che il giudice deve adottare per fare assurgere le dichiarazioni di taluni soggetti processuali al rango di prova imponendogli a tal riguardo un più rigoroso impegno motivazionale.

“Il terzo comma dell’art. 192 cod. proc. pen. non introduce una deroga o una restrizione quantitativa allo spazio del libero convincimento del giudice, e neppure è volto a porre divieti di utilizzazione, ancorché impliciti, o ad indicare una gerarchia di valore delle acquisizioni probatorie, ma si limita unicamente a indicare il criterio argomentativi che il giudice deve seguire nel portare avanti l’operazione intellettiva di valutazione delle dichiarazioni rese da determinati soggetti” (cfr. Cass. Sez. 1 Sent. 6992 del 16/06/92;  in senso conforme c.f.r. anche Cass. Sez. VI

n. 1793 dell’ 11/2/1994).

Dalla nuova disciplina della chiamata in correo si evince come alle propalazioni di detti soggetti processuali sia stato riconosciuto il valore di prova e non di mero indizio, come appare chiaro già dai lavori preparatori del codice e dal rilievo di ordine sistematico che la disposizione in questione è inserita nel Libro III dedicato alle “Prove”.

Che tali propalazioni accusatorie siano state inquadrate nell’ambito della prova e non già del semplice indizio, è dato, poi, desumere, anche e soprattutto dalla richiamata locuzione adoperata dal legislatore (“altri elementi di prova”) per indicare gli ulteriori elementi probatori richiesti per conferire attendibilità alla fonte propalatoria, qualificata appunto come elemento di prova.

Al contempo la previsione normativa della necessità del concorso del riscontro integratore e confermativo nell’ambito di una obbligatoria valutazione unitaria delle risultanze probatorie richiama, come è dato desumere dalla stessa relazione al progetto preliminare al codice, la necessità di circondare con maggiori cautele il ricorso ad una prova, come quella proveniente da chi è coinvolto begli stessi fatti addebitati al’imputato ed ha comunque legami con lui, alla luce della sua attitudine ad ingenerare un erroneo convincimento giudiziale”.

Copiosa è la elaborazione giurisprudenziale in ordine ai superiori argomenti interpretativi che hanno ricevuto anche l’autorevole avallo delle Sezioni unite del Supremo Collegio: “Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato (o da persona imputata in un procedimento connesso, o da persona imputata  nei casi di cui all’art. 371, lett. b cod. proc. pen. ) hanno valore di prova, ma il giudizio di attendibilità su di esse necessita di un riscontro esterno. Ne consegue che non possono essere utilizzate da sole, ma possono essere valutate congiuntamente con qualsiasi altro elemento di prova, di qualsivoglia tipo e natura, idoneo a confermare l’attendibilità”  (Cass. Sez. Unite sent. n. 2477 del 20/2/90; cfr. anche Cass. Sez. Unite sent. n. 1048 del 1/2/92 secondo cui  “L’art. 192, comma 3 e 4, del Codice di procedura penale non ha svalutato sul piano probatorio le dichiarazioni rese dal coimputato di un medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso ex art. 12 cod. proc. pen. o di un reato collegato a quello per cui si procede nel caso previsto dall’art. 371, comma 2, lett. b cod. proc. pen. perché ha riconosciuto a tali dichiarazioni valore di prova e non di mero indizio e ha stabilito che esse debbano trovare riscontro in altri elementi o dati probatori che possono essere di qualsiasi tipo o natura””).

Requisito essenziale per la positiva delibazione della valenza probatoria delle propalazioni accusatorie disciplinate dall’art. 192   3°  c.p.p.  è ritenuto dalla Suprema Corte l’accertamento in ordine alla cosiddetta “attendibilità intrinseca” della fonte.

La chiamata in correità richiede, infatti, un cauto e prudente apprezzamento da parte del giudice di merito, il quale è tenuto a verificarne l’intrinseca attendibilità con riferimento alla personalità di chi le esprime, al grado di conoscenza della materia riferita, alle modalità di esternazione delle dichiarazioni (dettagliate, approfondite, con riferimenti precisi a luoghi e persone…), ai motivi che hanno indotto a collaborare, ad una serie di parametri di valutazione che, sulla base di una vasta casistica giurisprudenziale in materia, possono individuarsi nella genuinità, nella spontaneità, nel disinteresse, nella costanza e nella logica interna del racconto.

Per quel che concerne l’analisi della personalità del chiamante in correità, ove l’indagine del giudice investa il campo dei collaboratori di giustizia, è evidente che lungi dal poter far riferimento a supposte qualità etiche del soggetto dichiarante, che per definizione essendo autore di almeno un reato e spesso di molti gravi delitti ha necessariamente una personalità poco commendevole, l’analisi dovrà essere incentrata sulla posizione assunta dal propalante all’interno dell’organizzazione criminale, da cui con la propria scelta di collaborazione, ha dimostrato di volersi dissociare.

Non vi è dubbio, infatti, che con l’avvento della legislazione premiale lo stato abbia inteso favorire ed incoraggiare soprattutto la dissociazione da quelle organizzazioni criminali che, per la loro potente struttura logistica e per la segretezza del loro operato, costituiscono una gravissima minaccia per l’ordine pubblico:  proprio al fine di porre in essere una significativa opera di smantellamento di tali strutture eversive per l’apparato statuale, il contributo di chi all’interno di esse abbia in passato rivestito un ruolo di maggior spessore criminale, a causa delle relazioni instaurate con gli altri coassociati ed al livello delle conoscenze raggiunte, può più utilmente consentire di ricostruire in modo organico e completo le più segrete e micidiali dinamiche interne a tali organizzazioni criminali.

Deve, altresì, prendersi atto che l’istituzionalizzazione dell’interesse del collaborante a fruire di quelle misure di protezione, assistenza per se e per i propri familiari, possibilità di detenzione in strutture extra-carcerarie , riconoscimento di peculiari circostanze attenuanti ecc., contemplate dalla legislazione vigente proprio al fine di incoraggiare e tutelare tali forme di collaborazione con la giustizia, deve condurre ad una revisione dei tradizionali criteri del disinteresse e della spontaneità del pentimento.

In particolare il disinteresse, che non potrà certamente essere interpretato come indifferenza rispetto ai benefici premiali, dovrà, piuttosto, essere valutato sotto un duplice profilo: con riferimento all’indifferenza rispetto alla posizione processuale del chiamato in correità e quindi attraverso l’accertamento di eventuale presenza di motivi di rancore, inimicizie ed in genere di motivi di vendette e di rivalsa; con riferimento alla posizione processuale del dichiarante al momento della sua scelta collaborativa, per cui tanto più disinteressato dovrà essere considerato il contributo investigativo offerto, quanto più lieve apparirà la posizione processuale del collaboratore in relazione agli elementi di prova acquisiti dagli inquirenti a suo carico al momento dell’inizio della collaborazione.

Sotto tale ultimo profilo, infatti, non vi è dubbio che tanto più credibile risulterà il propalante quanto più con la propria scelta collaborativa egli abbia consentito di far luce su delitti dei quali gli inquirenti ignoravano gli autori, coinvolgendo nella responsabilità per tali reati innanzi tutto se stesso oltre che gli altri soggetti.

Va, infatti rilevato che nella vasta gamma degli adeguati riscontri, normalmente valorizzati in funzione della valutazione della attendibilità intrinseca, una doverosa preferenza deve essere accordata, conformemente ad un costante orientamento giurisprudenziale, al confessato personale coinvolgimento del dichiarante nello stesso fatto-reato narrato, specie in relazione ad episodi criminosi altrimenti destinati all’impunità.

Ciò che la legislazione vigente richiede ai fini di una valida scelta di collaborazione con la giustizia  è che il soggetto con le proprie dichiarazioni, debitamente riscontrate, abbia fornito un contributo concreto alle indagini, consentendo di addivenire ad una conoscenza delle dinamiche dei delitti posti in essere dalle organizzazioni criminali ed all’identificazione dei suoi autori, non pretendendo anche come requisito necessario che la collaborazione muova da ragioni etiche di effettivo pentimento.

La determinazione alla collaborazione se sorretta da motivazioni di tipo ideale, dall’aspirazione al personale ravvedimento e da una sorta di catarsi personale e sociale, non potrà che essere bene accolta dalla collettività e positivamente valutata dal giudice ma tale dato non è posto dalla legge come condizione di credibilità del collaborante.

In una visione realistica dell’utilitarismo del collaboratore di giustizia di cui si è fatta portavoce anche l’elaborazione giurisprudenziale nella materia in esame, il suo interesse a fruire di determinati benefici, espressamente previsti dall’Ordinamento, non potrà certamente essere considerato indice di mendacio.

Al fine di verificare l’attendibilità intrinseca del dichiarante, la spontaneità rappresenta senza dubbio un parametro di valutazione di notevole importanza, intendesi per spontanee le dichiarazioni non coartate, essendo la spontaneità per definizione l’opposto dell’imposizione,e ciò il giudice dovrà sicuramente accertare al fine di verificare la genuinità del contributo investigativo offerto.

Sempre per accertare l’affidabilità dell’imputato si fa riferimento anche ai requisiti temporali come quello dell’immediatezza; infatti viene, normalmente riconosciuto un alto tasso di credibilità alle dichiarazioni accusatorie eventualmente rese nell’immediatezza della scelta di collaborazione con la giustizia anche se ciò non può indurre a troppo facili semplificazioni in una materia che per sua natura è notevolmente complessa.

Non può, infatti, omettersi di prendere atto che spesso il collaborante è portatore di conoscenze molteplici ed articolate le quali, sia per problemi mnemonici connessi alla stratificazione nel tempo delle proprie esperienze sia per le difficoltà spesso connesse all’impossibilità di pretendere una immediata e compiuta articolazione espressiva delle proprie conoscenze da parte di soggetti il cui livello di cultura è quasi sempre notevolmente basso, il giudice si trova nelle condizioni di dovere esaminare una gradualità di approfondimenti della materia trattata da parte del collaborante.

Tale dato, se da un lato, impone una ricostruzione quanto più possibile attenta delle progressive fasi di esposizione del proprio sapere da parte del collaborante e delle cause che ne hanno, eventualmente, determinato l’evoluzione nel tempo con peculiare accertamento dell’assenza di adattamenti manipolatori, dall’altro esclude che per il solo fatto della gradualità della collaborazione nel tempo il giudice debba rinunciare ad utilizzare tale sapere, dovendo egli innanzitutto attenersi al dato normativo che gli impone di operare attraverso la tecnica argomentativi dei riscontri convalidanti.

Occorre soprattutto tenere conto se nei successivi adattamenti siano ravvisabili genuini ripensamenti, frutto di approfondimenti mnemonici o di più complete ricostruzioni della materia trattata, ovvero se si tratti di meri adeguamenti a risultanze processuali diverse ed eventualmente in contrasto con la versione offerta dal collaborante.

In conclusione la chiamata di correo non può essere disattesa in relazione al tempo in cui è stata resa, giacchè essa non è soggetta a vincoli di tipo temporale che ne limitino l’apprezzamento, e come ogni altro dato di fatto, essa deve essere sottoposta alla scrupolosa valutazione da parte del giudice secondo le regole che presiedono alla formazione del suo libero convincimento.

Il giudice, inoltre, deve tenere in conto la costanza delle accuse, quindi la reiterazione coerente durante il procedimento delle dichiarazioni e l’intrinseca forza persuasiva delle stesse; per potere affermare l’esistenza di tale carattere occorre verificare se le dichiarazioni presentino o meno una intrinseca logicità, se siano suscettibili di essere inserite all’interno del fatto processuale, se nella narrazione del dichiarante vi siano dati tra loro contraddittori, se vi siano richiami a circostanze non recepite come fatti esterni bensì riferibili a mere valutazioni dello stesso dichiarante; a ciò il giudice giunge mediante una valutazione che si fonda sull’esperienza e su regole generali della logica per verificare la possibilità di una ricostruzione lineare del racconto del dichiarante e aderente al senso comune.

Le dichiarazioni accusatorie, inoltre, devono essere articolate, dettagliate, permettendo il loro controllo grazie a fatti obiettivamente accertabili, infine devono essere verosimili, ovvero non devono essere immediatamente considerate come false.

Per quel che concerne il rapporto tra operazione di verifica dell’attendibilità intrinseca e quella di verifica dell’attendibilità estrinseca delle dichiarazioni del propalante è dato distinguere nella giurisprudenza della Suprema Corte un orientamento leggermente differenziato che, se non incide in modo decisivo sulla necessità, comunque di effettuare entrambi i tipi di verifica, può avere una defluenza sulla possibilità o meno di utilizzazione parziale delle dichiarazioni dei collaboranti: ed infatti secondo un orientamento giurisprudenziale l’accertamento dell’attendibilità intrinseca sarebbe un presupposto logico indefettibile per poter procedere al successivo accertamento dell’esistenza di riscontri convalidanti, esame che sarebbe precluso da un esito negativo del primo accertamento; secondo altro orientamento, che pone l’accento sull’obbligo delle considerazione unitaria degli elementi probatori di cui alla norma in esame,  l’approfondimento accertativo riguardante l’attendibilità intrinseca non può essere disgiunto da quello riguardante l’attendibilità estrinseca non potendo tali valutazioni essere sottratte al criterio della congiunta analisi sicchè sarebbe inesatto attribuire al primo esame, se di esito incerto o contraddittorio, valenza esclusiva, a priori, del confronto con ulteriori elementi, proprio perché dal coevo apprezzamento dell’attendibilità estrinseca potrebbero derivare elementi di conferma in grado di bilanciare le risultanze del primo approccio.

In tale senso spinge del resto anche il rilievo che l’articolazione del comma III  in esame mostra di indirizzarsi nella direzione di una limitazione della rilevanza dell’esame di credibilità intrinseca, mettendo in evidenza la sola necessità della valutazione unitaria degli elementi di prova, ai fini dell’accertamento di attendibilità; quello che appare, dunque, rafforzato e accentuato è l’obbligo ambivalente del giudice di esplorare con minuziosa puntigliosità tutti i dati che offrono materia di analisi e di confronto e di muoversi con estrema e cauta prudenza nel loro coordinato apprezzamento (cfr.  pp. 271-272 sent. Cass. Sez. I  30/1/1992  n° 80).

Dall’adesione al secondo degli orientamenti esposti discende la possibilità di un’adesione al concetto di “frazionabilità della chiamata in correità”  nel senso che ove l’attendibilità di un chiamante in correità venga denegata per una parte delle sue dichiarazioni ciò non necessariamente coinvolgerà anche le altre parti della dichiarazione che risultassero, per converso, confermate da riscontri esterni adeguati, “e ciò sulla base del principio che non l’attendibilità complessiva deve essere provata, per inferirne la comunicabilità per traslazione all’intero racconto, ma ogni parte di questa può e deve essere oggetto di verifica, residuando, dunque, l’inefficacia probatoria di quelle non comprovate o, peggio, smentite, con esclusione di reciproche inferenze totalizzanti” (cfr. p. 289 sent. Cass. 30/1/1992  n° 80 cit.)).

In tema di prova, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a mente del disposto dell’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., il giudice deve in primo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (confidente e accusatore) in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici; in secondo luogo deve verificare l’intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni.

L’esame del giudice deve essere compiuto seguendo l’indicato ordine logico perché non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino   sulla chiamata in se, indipendentemente dagli elementi di verifica esterna ad essa” (Cass. Sez. Unite sent. n. 1653 del 22/2/93, ud. 21/10/92).

Alla luce delle considerazioni sopra svolte occorre convenire che un affidabile giudizio di credibilità del collaborante, non solo richiede un cauto e prudente apprezzamento del magistrato ed un elevato grado di professionalità ed esperienza dello stesso, ma può essere avvalorato solo da riscontri estrinseci.

I riscontri alla chiamata di correo devono avere quel grado di specificità che consenta di delineare l’ipotesi più probabile sul fatto.

Questo grado di specificità non è determinabile in astratto,perché dipende da ogni singolo contesto probatorio.

I cosiddetti elementi estrinseci di riscontro sono fatti interferenti con quello da provare, in grado di accertare la verità o meno della narrazione del dichiarante.

Tale accertamento può portare ad una conferma o ad una smentita della efficacia probatoria delle dichiarazioni ed attraverso tali elementi il giudice riesce a conferire completezza probatoria alla chiamata di correo.

La regola di giudizio enunciata dal III comma dell’art. 192 c.p.p.  a differenza del secondo comma dello stesso articolo non è caratterizzata da un divieto diretto e specifico, e quindi si può affermare che non sussistono preclusioni in ordine alla natura dei riscontri utilizzabili; i divieti di utilizzazione di prove, infatti, devono essere esplicitamente previsti dalla legge.

Oggetto della valutazione di attendibilità da riscontrare è la complessiva dichiarazione del coimputato relativamente ad un determinato episodio criminoso nelle sue componenti oggettive e soggettive, e non ciascuno dei punti riferiti dal dichiarante.

Con riferimento alla natura da attribuire a tali elementi di riscontro, si può affermare che si tratta di fonti di prova da cui ricavare un argomento sulla base del quale verificare dall’esterno la veridicità o meno delle dichiarazioni, senza che tali elementi debbano necessariamente afferire  al fatto-reato.

Una giurisprudenza consolidata della Suprema Corte ritiene che gli elementi integratori possano essere anche di natura logica purchè riconducibili a fatti esterni alle dichiarazioni accusatorie; quindi nelle ipotesi di dichiarazioni d’accusa rivolte nei confronti di più persone, la eventuale confessione resa da uno di questi è da ritenere utilizzabile ai fini di una valutazione complessiva dell’attendibilità della dichiarazione ed idonea a costituire valido elemento di riscontro nei confronti di tutti i chiamati.

Gli elementi di prova ulteriori si caratterizzano per la loro utilizzabilità ai fini della formazione della prova e come conferma dall’esterno alle dichiarazioni accusatorie;  tali elementi devono collegare l’imputato al reato che gli viene addebitato senza assurgere a prova autonoma di tale collegamento.

I riscontri a differenza degli indizi non devono essere caratterizzati necessariamente da una pluralità, quindi l’espressione “altri elementi di prova” deve essere intesa in senso qualitativo e non quantitativo, cioè come qualsiasi altro elemento di prova in grado di confermare l’attendibilità della chiamata in accusa.

Da quanto detto si può quindi affermare che il riscontro deve assolvere sempre ad una funzione integrativa e  non suppletiva rispetto alla dichiarazione di correo; quest’ultima infatti non deve perdere in seguito alla valutazione unitaria, la sua rilevanza e la sua capacità dimostrativa.

Chiamata e riscontro sono indispensabili, nessuno dei due può fare a meno dell’altro, quindi il riscontro non potrà da solo dimostrare il fatto per il quale si sta procedendo.

Per assolvere alla funzione che gli è stata conferita dal legislatore il riscontro deve essere certo ed in grado di offrire garanzie per quanto riguarda l’attendibilità del chiamante.

La ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale in tema di chiamata di correo, con specifico riferimento ai riscontri estrinseci dell’attendibilità del dichiarante, non sarebbe completa senza un sia pur breve accenno alla possibile natura di tali elementi estrinseci di conferma.

Per quanto riguarda “gli altri elementi” di riscontro estrinseci che, giova ripeterlo, in quanto non predeterminati nella specie e qualità, possono essere in via generale di qualsiasi tipo e natura, è appena il caso di rilevare che la Corte di Cassazione li ha ravvisati di volta in volta: “nella ricognizione di cose, nel riconoscimento fotografico, negli accertamenti di P.G., nella riscontrata corrispondenza in ordine ai luoghi indicati dal dichiarante” ovvero “nei legami esistenti tra il prevenuto ad altri soggetti facenti parte di un medesimo sodalizio criminoso”; ovvero “nell’accertata disponibilità da parte dell’indagato degli immobili dettagliatamente descritti dal dichiarante”. Va subito rilevato che la Suprema  Corte ha escluso la tesi riduttiva secondo cui il contenuto innovativo dell’art. 192,  3° comma  c.p.p. si risolva nel valorizzare solo i riscontri oggettivi o reali con esclusione, quindi, di ulteriori chiamate di correo.

Sulla scia di tale orientamento giurisprudenziale costituisce ormai “jus receptum”  il principio secondo cui non esiste alcuna plausibile ragione per pervenire ad una disparità di trattamento tra elementi di riscontro reali, documentali o testimoniali in senso proprio ed altri elementi desunti dalle cosiddette chiamate plurime.

Tali principi sono stati, peraltro, affermati dalla Corte di Cassazione nella già citata sentenza del 30 gennaio 1992  n. 80, che avendo definito gran parte delle posizioni processuali del procedimento a carico di Abbate Giovanni ed altri, noto come il cosiddetto primo maxiprocesso di Palermo, costituisce senz’altro un fondamentale punto di riferimento ermeneutico in tema di valutazione della prova ex art.192 c.p.p. con particolare riferimento alla chiamata di correo nello specifico settore di processi aventi per oggetto la fattispecie associativa di cui all’art. 416 bis c.p. e reati connessi.

La Corte di Cassazione, infatti, approfondendo l’analisi dell’art. 192 c.p.p. ha sottolineato che non si può attribuire all’articolo in questione il significato di “valorizzare solo i riscontri oggettivi o altrimenti detti reali della partecipazione del chiamato” né tanto meno quello di “rendere inutili le ulteriori chiamate di correo”.

Ha per contro sostenuto che alla norma citata bisogna riconoscere oltre che una portata limitativa del principio del libero convincimento anche un effetto estensivo dei poteri del giudice.

Ed infatti, la Corte dopo aver ribadito che alle dichiarazioni rese dal coimputato o dall’imputato di reato connesso deve essere riconosciuta la natura di prova rappresentativa, sebbene caratterizzata da una “parzialità contenutistica” che pertanto richiede il necessario riscontro convalidante, ha affermato che il nuovo codice non solo ha eliminato ogni residuo dubbio sulla utilizzabilità della chiamata di correo, ma ne ha ridotto la distanza anche sul piano della concreta valutabilità della testimonianza, al cui livello di efficacia probatoria è in grado di porsi con l’ausilio del riscontro convalidante, che può ben essere omologo e cioè elemento di prova della stessa specie dato che il legislatore ha espressamente richiesto che gli altri elementi di prova fossero “aggiuntivi” e non “di specie diversa”.

Movendo proprio dal raffronto tra i commi II  e  III dell’art. 192  c.p.p.  la Suprema Corte che ha ulteriormente precisato che mentre la significatività probatoria degli indizi richiede i requisiti della gravità, precisione e concordanza, il terzo comma non pone né limiti quantitativi né qualitativi al grado significativo della chiamata di correo, con conseguente possibilità di attribuire pieno valore confermativo a successive chiamate le quali vanno sicuramente a collocarsi allo stesso livello probatorio di ogni altro livello di riscontro.

È importante evidenziare, ulteriormente, che l’elemento di riscontro estrinseco della chiamata di correo, secondo un orientamento ormai consolidato e pacifico nella giurisprudenza della Suprema Corte, non deve consistere in una prova distinta della colpevolezza del chiamato, ma in un dato certo che, pur non avendo la capacità di dimostrare la veridicità del fatto oggetto di dimostrazione, sia tuttavia idoneo ad offrire garanzie obiettive e certe circa l’attendibilità di chi lo ha riferito.

Può in ordine a tale punto ritenersi pacifico il principio secondo cui in tema di chiamata di correo, se è vero che non può essere ritenuto sufficiente l’accertamento dell’attendibilità intrinseca della parola dell’accusatore e che occorre anche, in relazione alle accuse che quest’ultimo muove, operare una verifica estrinseca, è altrettanto vero che l’elemento di riscontro non deve necessariamente consistere in una prova distinta della colpevolezza del chiamato, perché ciò renderebbe ultronea  la testimonianza del correo.

Ne consegue che tale dato non deve necessariamente concernere il thema probandum, in quanto esso deve valere solo a confermare ab estrinseco l’attendibilità della chiamata in correità, dopo che questa sia stata attentamente e positivamente verificata nell’intrinseco quanto al dichiarato ed al dichiarante.

Un profilo della chiamata in correità destinato probabilmente a rimanere uno dei più controversi anche nell’ambito del nuovo codice di procedura penale, è quello relativo alla c.d. chiamata plurima, cioè alla possibilità di fondare la condanna dell’imputato esclusivamente su dichiarazioni accusatorie provenienti da una pluralità di soggetti rientranti fra quelli previsti dall’art. 210 c.p.p. .

<<<nel caso di coesistenza e convergenza di fonti propalatorie, la Suprema Corte ha ritenuto di valorizzare la con testualità, l’autonomia, la reciproca sconoscenza , la convergenza almeno sostanziale tanto più cospicua quanto più i racconti siano ricchi di contenuti descrittivi ed in genere tutti quegli elementi idonei ad escludere fraudolente concertazioni ed a conferire a ciascuna chiamata i connotati della reciproca autonomia, indipendenza ed originalità.

Non può essere sottaciuto a riguardo che eventuali discordanze su alcuni punti possono, nei congrui casi, essere addirittura attestative della reciproca autonomia delle varie propalazioni in quanto “fisiologicamente assorbibili in quel margine di disarmonia normalmente presente nel raccordo tra più elementi rappresentativi” (cfr. gia citata Cass. Sez. I  30 gennaio 1992 n. 80).

Nella stessa sentenza n. 80/92 la Suprema Corte ha ritenuto che in presenza di pluralità di dichiarazioni accusatorie rese da soggetti compresi tra quelli indicati nei commi 3  e  4  dell’art. 192 c.p.p., la eventuale sussistenza di “smagliature e discrasie”, anche di un certo peso, rilevabili tanto all’interno di dette dichiarazioni quanto nel confronto tra esse, non implica, di per se, il venir meno della loro sostanziale affidabilità quando, sulla base di adeguata motivazione risulti dimostrata la complessiva convergenza di esse nei rispettivi nuclei fondamentali.

Va, infine, rilevato che non possono ritenersi aprioristicamente inattendibili le dichiarazioni di quei collaboratori di giustizia che, in relazione al tempo del loro contributo investigativo, possono già essere a conoscenza di quelle di altri collaboranti rese pubbliche nel corso di dibattimenti.

La Suprema Corte ha sul punto affermato il principio che la pubblicazione ufficiale di precedenti propalazioni accusatorie di altri soggetti non può, per ciò solo, inficiare l’attendibilità di quelle successive, soprattutto quando in queste ultime siano ravvisabili “elementi di novità e originalità” e, comunque, in assenza di “altri e comprovati elementi  che depongono nel senso del recepimento manipolatorio” di quelle anteriori da parte di quelle posteriori.

Ne consegue che, neppure l’accertata conoscenza delle prime propalazioni è di ostacolo all’accredito dell’originalità di quelle successive, ancorché di contenuto per lo più conforme, la cui autonoma provenienza dal bagaglio proprio del dichiarante può essere accertata - sul piano soggettivo come su quello oggettivo – in vario modo, non escluso il rilievo di ordine logico concernente “il radicamento dei due propalanti nella realtà criminale mafiosa, con la connessa possibilità di conoscenze di prima mano” sicchè l’eventuale convergenza di dichiarazioni accusatorie rese in epoca diversa da parte dei soggetti organicamente inseriti in sodalizi criminosi di stampo mafioso, soprattutto se con ruoli di un certo rilievo, non autorizza, per ciò solo, il sospetto della cosiddetta “contaminatio” e della non autonoma origine di quelle successive.

Per completare la disamina della chiamate plurime o convergenti, è opportuno ricordare che costituisce, altresì, principio consolidato quello secondo cui quando il riscontro consiste in altra chiamata di corre, non è necessario pretendere che questa abbia già avuto a sua volta il beneficio della convalida a mezzo di altro elemento esterno, giacchè  in tal caso si avrebbe la prova desiderata e non sarebbe necessaria alcuna altra operazione di comparazione o di verifica (Cass. Sez. I

n. 80/1992 cit.).

Sulla base di tale orientamento, si è riconosciuta forza di validi elementi di riscontro anche alle chiamate cosiddette plurime o convergenti, aventi cioè identico contenuto e soggetto passivo e si è ritenuto che: “una pluralità di dichiarazioni di coimputati tutti coincidenti in ordine alla commissione del fatto oggetto dell’imputazione, legittima, nella valutazione unitaria degli elementi di prova, l’affermazione di responsabilità a carico del “chiamato in correità”.

Allorché più chiamate in correità siano ritenute intrinsecamente attendibili, esse si integrano e si rafforzano reciprocamente acquistandola rilevanza probatoria conducente a un giudizio di certezza.

Le dichiarazioni devono essere indipendenti così da escludere che siano frutto di una concertazione o che traggono origine dalla stessa fonte di informazione.La molteplicità delle chiamate non può essere considerata di per sé uno strumento di riscontro incrociato di attendibilità di ciascuna di esse, ove non venga verificato con il dovuto grado di certezza che la chiamata ulteriore abbia un contenuto meramente ripetitivo ed anzi ricopiativi della prima narrazione e che soprattutto venga escluso che le accuse possano essere frutto di reciproca influenza tra i vari chiamati in correità o peggio di collusioni fraudolente.

Di fondamentale importanza è sottolineare come l’utilizzazione probatoria della chiamata in reità o correità non è esclusa dal fatto che il chiamante muova l’accusa riferendo fatti appresi da altri, rendendo in tal caso una chiamata c.d. “de relato”.

Costituisce “ius receptum” invero il riconoscimento della valenza probatoria della chiamata in reità c.d. “de relato” cioè quella che consiste nella propalazione di notizie non personalmente conosciute dal chiamante ma apprese da terzi, sempre che la stessa sia sottoposta ad un rigoroso vaglio critico, nel senso di un’attenta valutazione non solo delle dichiarazioni del chiamante, ma anche della fonte di riferimento, ove ciò risulti possibile.

In tali ipotesi, quindi, occorre valutare oltre l’attendibilità del dichiarante e la veridicità delle sue affermazioni, anche, seppure in via mediata, l’affidabilità e attendibilità della fonte primaria e la veridicità delle notizie da essa riferite anche se ciò non vuol significare che detto riscontro debba necessariamente costituire, di per se, prova della responsabilità del chiamato; il riscontro, in tal caso, dovrà essere di valenza tale da indurre sotto il profilo logico a far ritenere processualmente acclarata la colpevolezza dell’accusato in ordine alla commissione dello specifico fatto non caduto sotto la diretta percezione del dichiarante (cfr. Cass. Sez. I 7/4/1992 n°4153).

In relazione a quella parte del patrimonio informativo dei collaboratori costituito da notizie apprese da altri affiliati, protagonisti degli episodi oggetto delle informazioni fornite nel contesto di resoconti o comunque nel quadro di rapporti confidenziali riconducibili alla c.d. “affectio societatis sceleris” , è appena il caso di rilevare che secondo un costante orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte anche “la testimonianza de relato sui fatti riferiti al teste dagli stessi autori  o da altri può ben costituire fonte probatoria idonea a formare il convincimento del giudice, purchè venga sottoposta a prudente ed attento vaglio critico”.

È pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità che le chiamate “de relato” ben possono essere riscontrate da dichiarazioni provenienti da altri soggetti tra quelli previsti dall’art.192 c.p.p., sempre che, anche in tali ipotesi, sia possibile escludere ipotesi di collusione o di reciproco condizionamento psicologico (cfr.  Cass. sez. I n°04689 del 15/4/1992).

Il controllo demandato al giudice della fonte primaria non può, comunque, secondo la Suprema Corte, superare i limiti normativi prefissati dal legislatore all’art. 195 del vigente c.p.p. in materia di testimonianza indiretta: “ la possibilità di valida corroborazione reciproca fra più chiamate in correità provenienti da diversi soggetti, ai fini di cui all’art. 192 c. III c.p.p., opera anche nel caso in cui trattasi di chiamate fondate su conoscenza indiretta della condotta attribuita al chiamato, dandosi luogo, in tal caso, soltanto all’obbligo da parte del giudice, di una verifica particolarmente accurata dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie,alla stregua del principio di ordine generale stabilito dal c. I del medesimo art. 192 c.p.p.  (libero convincimento del giudice) e nell’osservanza del disposto di cui all’art.195, richiamato dall’art. 210, comma V c.p.p. (cfr. Cass. Sez. I  11/12/1993 n°11344).

Va, peraltro, rilevato che la S.C. ha affermato il principio, che merita di essere condiviso, secondo cui “in materia di valutazione della prova orale, costituita da dichiarazioni di soggetti imputati o indagati per lo stesso reato o per reati connessi probatoriamente collegati, non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni de relato quelle con le quali si riferisca in ordine a fatti o circostanze attinenti la vita e le attività di un sodalizio criminoso, dei quali il dichiarante sia venuto a conoscenza nella qualità di aderente, in posizione di vertice, al medesimo sodalizio, specie quando questo sia caratterizzato da un ordinamento a base gerarchica, trattandosi, in tal caso, di un patrimonio conoscitivo derivante da un flusso circolare di informazioni dello stesso genere di quello che si produce, di regola, in ogni organismo associativo, relativamente ai fatti di interesse comune”  (cfr. Cass. Pen. Sez. I, 11/12/1993, n. 11344, Algranati ed altri).

Alla stregua dei principi di diritto fin qui ampiamente illustrati può conclusivamente affermarsi che dall’art. 192 comma 3° c.p.p., secondo cui le dichiarazioni accusatorie dei coimputati sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità, si ricava con chiara evidenza che non è stata sancita l’esigenza che l’ulteriore elemento di prova debba essere di natura diversa dall’elemento che deve essere confermato, e pertanto la conferma può essere ricercata anche nelle dichiarazioni di altri coimputati; che gli elementi di conferma – di qualsiasi tipo e natura – debbono essere idonei a costituire verifica dell’attendibilità del dichiarante, più che costituire prova diretta dei fatti dichiarati; che l’esigenza dei riscontri cosiddetti individualizzanti non esclude che la ricerca degli stessi possa, nei congrui casi, prospettarsi in termini di meno rigoroso impegno dimostrativo, ove l’attendibilità del dichiarante sia stata positivamente riscontrata sia intrinsecamente che sulla base di elementi esterni ancorché generici; che, fermo restando l’effetto preclusivo di una conclamata intrinseca inaffidabilità della fonte propalatoria, ove invece si tratti di “affidabilità dubbia” ovvero di affidabilità limitata soltanto a parti del discorso propalativo, l’effetto probatorio, discendente dalla integrazione di dichiarazioni autonome, è innegabile, specie se specificatamente cadente su quelle medesime parti; che deve essere riconosciuta pena valenza probatoria alle chiamate plurime o convergenti (cosiddette dichiarazioni incrociate), nella misura in cui determinano quella “convergenza del molteplice”, che assurge a dignità di prova piena, addirittura idonea a sorreggere una pronuncia di condanna; che anche le chiamate c.d. “de relato” ove sottoposte a rigoroso vaglio critico ed adeguato riscontro, possono assumere valenza probatoria

Ai principi esposti  in materia di valutazione della prova il Collegio si atterrà nell’esaminare il complesso materiale probatorio acquisito nell’ambito dell’odierno procedimento.

 

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Passando quindi al merito delle accuse ritiene il Tribunale che il compendio probatorio acquisito in esito alla articolata istruttoria dibattimentale, costituito da convergenti e significative propalazioni di vari collaboratori, tra i quali uno dei coimputati separatamente giudicato, reo confesso e chiamante in correità proprio per il fatto delittuoso per cui si procede, consente di pervenire, con assoluta certezza, ad un giudizio di piena colpevolezza di tutti gli imputati in ordine al reato continuato e aggravato di danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 comma 1 c.p. loro in concorso ascritto, in relazione al quale va tuttavia esclusa – per le ragioni che saranno appresso esposte – la circostanza contestata del nesso teleologico.

Il processo ha per oggetto in particolare la commissione nella notte del 29 giugno 1993 di un grave attentato incendiario ai danni di tre cittadini del quartiere Brancaccio di Palermo – Martinez Giuseppe, Guida Giuseppe e Romano Mario – componenti del Comitato Intercondominiale di via Azolino Hazon all’evidente scopo di indurli a desistere dalla loro attività di impegno politico e sociale condotta instancabilmente con l’aiuto, non soltanto spirituale ma anche economico, del parroco della chiesa di San Gaetano, Padre Pino Puglisi.

Le prove raccolte hanno infatti inequivocabilmente dimostrato che il grave fatto delittuoso si inserisce nel contesto delle ben più gravi attività criminali poste in essere nell’anno 1993 dagli affiliati alla cosca mafiosa operante nel quartiere Brancaccio di Palermo e facente capo indiscutibilmente ai noti fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.

Fin dai primi atti investigativi è emerso in modo univoco che il movente dell’attentato era da ricercare unicamente nell’attività di impegno sociale portato avanti dalle tre parti offese anche con il sostegno di padre Puglisi nei cui confronti l’attività di intimidazione sarebbe infine sfociata nell’efferata uccisione.

Anche gli attentati incendiari per cui è processo, infatti, secondo quanto confermato soprattutto da uno degli autori materiali degli stessi, Grigoli Salvatore, rientravano nella strategia volta a scoraggiare padre Puglisi ed i suoi più stretti collaboratori dall’intraprendere o proseguire iniziative ritenute pregiudizievoli per gli interessi criminali della famiglia mafiosa di Brancaccio.

L’atto di natura palesemente intimidatoria era ricollegato con tutta evidenza all’attività svolta dal Martinez, dal Guida e dal Romano nell’ambito del Comitato Intercondominiale della via Hazon, una associazione tra cittadini che operava nel quartiere di Brancaccio alla periferia orientale della città caratterizzato da un estremo degrado e da uno stato di sostanziale abbandono per la mancanza o carenza di adeguati servizi fognari, di una scuola media, di servizi sociale  e sanitari.

A ciò si aggiungeva, aggravando il grave stato di degrado, la presenza invasiva e capillare di un dominio mafioso imposto dal gruppo criminale presente nel quartiere e dalla conseguente e diffusa condizione di arretramento culturale e civile, nonché di soggezione ed intimidazione che il potere mafioso aveva imposto.

Il Comitato Intercondominiale di cui erano stati fondatori tra gli altri proprio le odierne parti offese aveva tentato, grazie all’impegno sociale e civile di pochi, di affrontare o almeno evidenziare i problemi più gravi che affliggevano il quartiere cercando di portarli all’attenzione delle Istituzioni al fine di sollecitare e trovare adeguate soluzioni.

Ed è stato proprio il condiviso e costante impegno nell’attività del Comitato – unico, sicuro e evidente elemento di contatto tra i tre – a far si che Martinez Giuseppe, Guida Giuseppe e Romano Mario si ritrovassero accomunati quali obiettivi del grave atto intimidatorio commesso la notte del 29 giugno 1993 mediante l’incendio delle rispettive tre porte di abitazione.

I tre atti incendiari risultano essere stati posti in essere alla stessa ora e con le stesse identiche modalità operative – gettando liquido infiammabile sugli zerbini e sotto le porte di ingresso degli appartamenti dandovi quindi fuoco – talchè risulta indubitabile ed incontestabile la riconducibilità dei tre atti delittuosi ad una unica matrice progettuale ed esecutiva.

Per meglio comprendere i fatti appare opportuno riportare integralmente le dichiarazione delle tre parti offese in merito a quanto accaduto quella drammatica notte:

 

Martinez Giuseppe

(udienza del 31 gennaio 2002)

MARTINEZ: il 29 giugno del 1993…….Allora, io quella notte tra l’una e le due ho ricevuto una telefonata da Guida, l’altra parte lesa, da Giuseppe Guida, l’altra parte lesa. Potevano essere l’una – le due di notte , adesso non ricordo bene, e mi informava che lui e Mario Romano avevano subito questo incendio della porte e quindi mi diceva vedi se è successo pure a te, che molto probabilmente si è verificato pure a te. Io mi sono alzato e quando sono entrato nel corridoio ho sentito un odore tremendo di benzina, quindi sono andato alla porta d’ingresso, con cautela ho aperto e mi sono reso conto che c’era la porta bruciata, lo zerbino, quello che era davanti la porta, bruciato, poi tutti i muri anneriti, le porte dell’inquilino dirimpetto tutte annerite, insomma, e poi ho trovato pure una bottiglia di plastica, praticamente oramai vuota, che era la bottiglia che conteneva la benzina.

PM: Che era per terra ?

MARTINEZ: Che era per terra nel pianerottolo.

…………………

PM: Senta, l’ora della telefonata se la ricorda ? L’ora precisa.

MARTINEZ: la telefonata, gliel’ho detto, tra l’una e le due, non mi ricordo. ……Della notte, esatto, la mattina del 29 giugno del ’93. L’una – le due, quello era l’orario.

………

Si, noi abitiamo praticamente nella stessa strada. Con Giuseppe Guida tra l’altro eravamo colleghi di lavoro pure. Dunque, io abito al numero 17, a seguire nel condominio vicino ci sta Giuseppe Guida e a seguire ancora, nell’altro portone a seguire ci sta, abita Mario Romano. …17, come numero civico, adesso non mi ricordo quali sono i numeri civici, comunque sono uno diciamo appresso all’altro.

PM: Comunque la stessa via e lo stesso lato ?

MARTINEZ: E stesso lato, esatto.

……

PM: Ha chiamato la Polizia ?

MARTINEZ: Si, si, si.

PM: Dopo quanto tempo sono intervenuti ?

MARTINEZ: No, subito sono venuti, non lo so, dieci minuti, non lo so, subito, subito comunque sono venuti.

PM: La polizia ha fatto delle fotografie, qualcosa ?

MARTINEZ: No, io, io veramente li avevo invitati a fare qualcosa perché c’era la bottiglia come avevo detto, la bottiglia di plastica buttata là nel pianerottolo, però siccome io l’avevo presa questa bottiglia loro mi hanno detto “no, signor Martinez non possiamo fare più niente “. Al che ho detto “ si possono prendere le impronte digitali”. “No perché lei l’ha toccata”.

………

AVV. GALATOLO: Senta signor Martinez, ritornando ai fatti del 29, alla sera del 29, alla notte del 29 giugno ’93, innanzitutto lei quando intervenne ed aprì la porta dell’ingresso l’incendio si era già spento, le fiamme si erano già spente ?

MARTINEZ: No, era già spento, quello si.

AVV. GALATOLO: Senta signor Martinez,  lei intervenne subito, ricevette la telefonata, si alzò, disse poc’anzi al Tribunale, intervenne subito quindi si recò subito all’ingresso per vedere quello che era successo quella sera, quella notte ?

MARTINEZ: Si, mi alzai subito dopo la telefonata, immediatamente quando entrai, stanza da letto entro nel corridoio, appena entrai nel corridoio c’era un odore tremendo di benzina, andai alla porta e chiaramente con attenzione aprii la porta e vidi quello che vidi.

AVV. GALATOLO: Può dire al Tribunale quello che vide ? Aprì la porta, che cosa c’era ?

MARTINEZ: Dunque, aprii la porta e c’era la porta d’ingresso che era bruciata, la parte bassa era addirittura bruciata fino a quasi in fondo, no ?, fino a questi, non a fare il buco, questo no.  Ma per un bel po’ bruciata sino in fondo e completamente annerita fino a sopra, fino al tetto. Poi c’era lo zerbino completamente accartocciato, va bene, insomma aveva preso completamente fuoco, poi vi erano le porte degli ascensori completamente annerite, le porte dell’inquilino che sono due, dell’inquilino dirimpetto completamente annerite, e quelle che portano nella scala, insomma il tetto, era tutto completamente annerito.

 

Guida Giuseppe

(udienza del 21 marzo 2002)

 

GUIDA: …Cioè, la notte del 30 giugno del ’93 dormivo io con l’imposta della cucina aperta, quindi c’era caldo, poi sentivo una puzzura di benzina e cose, ho detto “ma cosa è questa puzza di benzina ?” e mi sono alzato, sono andato a controllare una cosa, siccome il balcone della cucina sporge lato ferrovia, no ?, pensavo, dissi magari ci sarà qualche macchina che sta bruciando, siccome è una zona un po’ diciamo oscura e cose non ho visto niente.

Rientrando poi la puzza si accentuava sempre di più, al che sono andato nella saletta, e ho visto che lì c’era la porta bruciata e tutta diciamo la benzina sparsa per terra.

PRESIDENTE: Dentro casa ?

GUIDA: Dentro casa. Al che ho fatto, ho telefonato subito alla Polizia, la Polizia ha ritardato un bel po’ ,  ho ritelefonato, al che quello che ha risposto al telefono ha detto “si, signor Romano, ci stiamo pensando”. Al che ho capito subito, “perché anche a Romano gliel’hanno bruciata ?”. Dice: “ ma lei non è Romano ?”. Ci dissi “no, io sono Guida”. “Va bene”, dice, “ho capito, ora veniamo”.  Al che, quando ho sentito Romano, ho telefonato subito a Martinez , ho detto “senti Peppino, guarda sono Guida, non ti spaventare”, erano le due e un quarto di notte.

“Sono Guida, guarda è successo così così, vai a controllare anche tu la porta se è stata bruciata”.  Lui è andato a controllare ed ha visto che anche la sua porta era bruciata, era stata bruciata. Al che poi siamo scesi giù (DISCORSO INTERROTTO)…

PRESIDENTE: Glielo ha confermato per telefono oppure (DISCORSO INTERROTTO)…

GUIDA: Si, si, per telefono.

PRESIDENTE: Quando lei dice sono andato nella sala  e ho visto che c’era la benzina e la porta bruciata, intende dire la porta che stava bruciando (DISCORSO INTERROTTO)…

GUIDA: No, no era già bruciata.

PRESIDENTE: Ed un altro chiarimento, lei dove abita di preciso ?

GUIDA: In via Azolino Hazon 43.

PRESIDENTE: Al piano ?

GUIDA: Quinto.

…….

AVV. GALATOLO: Senta, lei ha parlato di una porta nella sua abitazione quella notte e ha detto che si era affacciato in un primo momento nel balcone  e poi si è recato credo nell’ingresso, no ?

GUIDA: Si.

AVV. GALATOLO: La porta, su precisazione del Presidente, lei ha detto era già bruciata. Quindi le chiedo, non c’era più fuoco nel momento in cui lei è arrivato ?

GUIDA: No, era già tutta bruciata.

AVV. GALATOLO:   E’ intervenuto,  nel momento in cui lei è arrivato nell’ingresso, qualcuno o era da solo ? Sto parlando di persone estranee esterne.

GUIDA: No, esterne nessuno.

AVV. GALATOLO: C’era solo lei ?

GUIDA: Solo io.

AVV. GALATOLO: E il fuoco era spento ?

GUIDA: Si, si, spento.

 

Romano Mario

(udienza del 21 marzo 2002)

 

ROMANO: Allora, io facevo il macchinista alle Ferrovie dello Stato e mi sono ritirato perché il nostro servizio comporta anche fare dei servizi che si finisce tardi e quindi mi sono ritirato verso l’una di mattina a casa, mia moglie era già letto, insomma io quando mi ritiro a quest’ora ho la brutta abitudine non di andare a letto ma di leggere il giornale.

Quindi saranno state l’una e un quarto, l’una e mezza, ora non ricordo bene, siccome la mia, cioè io vado a leggere in cucina, la mia cucina è messa in un posto che no vede diciamo la porta di accesso, mentre nella stanza da letto e quindi ho sentito mia moglie che ha gridato “fiamme, fiamme”.

Insomma io sono andato là e ho visto la porta che bruciava in una maniera, insomma subito mi sono spaventato però subito ho avuto la prontezza di andare in bagno. A quel tempo tra l’altro mancava anche l’acqua nel nostro quartiere, quindi avevamo diciamo nel bagno raccolto dell’acqua. Ho preso il secchio, insomma l’ho spento sto incendio.  Insomma subito mi sono sentito perché, cioè prima di allora non è che avevamo avuto diciamo delle avvisaglie. Certo il fattore del quartiere, la realtà che era quella che era, però al di là di qualche cosa non è che avevamo avuto, quindi diciamo mi sono spaventato perché (DISCORSO INTERROTTO) … Però subito ho fatto il mio dovere come cittadino di fare la denuncia.

…… Un po’ ci ho pensato qualche, un po’ si ci pensa diciamo, non è che tutti i giorni bruciano le porte, insomma e subito ho preso il telefono e ho telefonato al 113, ho denunciato (DISCORSO INTERROTTO)…

Al che quello che ho consultato mi ha detto, dice “di nuovo, un altro ?”.  Allora subito ho capito che non ero solo io ad essere, ad avere bruciato le porte, di fatti poi sono sceso, ho incontrato Guida e subito dopo Martinez che avevano subito la mia stessa (DISCORSO INTERROTTO)… Io abito in via Azolino Hazon 51……Al decimo piano.

PRESIDENTE: Quindi invece Guida sta al 42.

ROMANO: Al 42 quinto piano.

PRESIDENTE: 43, si, 43. Ed invece Martinez ?

ROMANO: Mi pare che al 17 abitava.

PRESIDENTE: Quindi vi siete incontrati sulla strada ?

ROMANO: Sulla strada perché la Polizia diciamo insomma nel frattempo sono venuti.

 

Emerge dunque con chiarezza che le fiamme appiccate dietro la porta d’ingresso del Martinez si spensero spontaneamente quasi subito, non prima di avere annerito il soffitto e le pareti del pianerottolo e la porta frontistante di un inquilino, laddove i danni arrecati alle abitazioni del Guida e del Romano risultarono invece più gravi.

Ed infatti il liquido infiammabile passato sotto la porta d’ingresso ha consentito alle fiamme di raggiungere il corridoio dell’appartamento del Romano mentre la porta d’ingresso della casa del Guida è stata addirittura interamente bruciata.

Ma ciò che emerge con assoluta chiarezza dalla ricostruzione dell’episodio offerta al Tribunale dalle tre vittime  è che Guida, dopo avere appreso che anche Romano aveva subito l’incendio della porta della sua abitazione, nell’immediatezza del fatto ebbe subito a pensare come possibile terzo destinatario di analogo attentato proprio al Martinez provvedendo quindi a chiamarlo telefonicamente per metterlo sull’avviso e scoprendo subito che il suo timore e la sua previsione erano fondate:

 

PRESIDENTE: E lei ha detto a questo punto ho telefonato subito a Martinez.  …Ora io desideravo sapere, perché ha telefonato a Martinez ? E poi ha telefonato ad altri oltre che a Martinez ?

GUIDA: No, solo a Martinez.

PRESIDENTE: Ed allora chiariamo perché ha telefonato a Martinez.

GUIDA: Perché ho capito subito che eravamo i tre diciamo più in vista perché collaboravamo con Padre Puglisi.  Quando ho sentito Romano, quindi ho capito allora i tre che eravamo diciamo (DISCORSO INTERROTTO)… Quelli che eravamo più diciamo a contatto con Padre Puglisi.

 

Ciò sta a significare che i tre erano ben consapevoli che qualcosa che li accomunava li esponeva anche alla concreta prevedibile possibilità di essere oggetto di minacce ed intimidazioni.

Orbene, l’unica cosa che accomunava Guida, Romano e Martinez era proprio il continuo impegno civile e sociale nel Comitato Intercondominiale al fianco di padre Pino Puglisi nell’intensa opera di rieducazione alla legalità degli abitanti del loro quartiere.

Giova invero ricordare che il Comitato stesso era sorto per iniziativa di alcuni degli abitanti del quartiere tra i quali proprio le odierne tre parti offese che si erano pertanto messe in evidenza e fatte conoscere in tutta Brancaccio.

In merito all’origine del Comitato, ai primi impegni ed  alle prime iniziative assunte il Martinez, escusso all’udienza del 31 gennaio 2002, ha così riferito:

 

MARTINEZ: …… ci siamo riuniti, abbiamo deciso di portare avanti questa iniziativa per cercare di rendere vivibile il nostro quartiere, la nostra zona. Là vi era una situazione abbastanza degradata,… per esempio mancava la fognatura lì a Brancaccio, per cui una delle prime iniziative che abbiamo preso è stata quella di promuovere un’azione per far sì che si facesse la fognatura lì nella nostra zona.

…Poi altre iniziative sono state quelle per cercare di realizzare una scuola media a Brancaccio, altre iniziative ancora cercare di realizzare un distretto socio-sanitario a Brancaccio, poi anche altre cose tipo illuminazione, poi promuovere delle iniziative per far sì che venissero realizzate per esempio una biblioteca, una palestra.

Poi abbiamo cercato di coinvolgere pure le famiglie stesse del quartiere in iniziative, che so, in occasione di ricorrenze della morte di Falcone, di Borsellino, iniziative di questo, cercavamo di coinvolgere, abbiamo coinvolto famiglie, bambini.

…Tipo anche per esempio iniziative di tipo sportivo per ricordare Falcone e Borsellino, questo per esempio l’abbiamo fatto nel ’93, una manifestazione che abbiamo intitolato, nel luglio del ’93, una manifestazione a cui abbiamo dato il titolo Brancaccio per la vita, tutte queste attività noi le portavamo avanti insieme al nostro parroco, padre Puglisi, tutte queste attività.

…Era un gruppo nato spontaneamente, attenzione, non è che c’eravamo costituiti che so come comitato registratola qualche parte. Noi ci siamo, abbiamo deciso di chiamarci comitato Intercondominiale in quanto raccoglievamo un poco, diciamo quelli che erano i responsabili condominiali delle varie scale, dei vari condomini. E insieme aveva deciso di affrontare quelle che erano le problematiche sociali del quartiere, e queste problematiche sociali ovviamente le volevamo affrontare incontrando le istituzioni, le istituzioni, le prime istituzioni presenti sul territorio che era il Consiglio di Quartiere ma non solo il Consiglio di Quartiere. Avevamo incontrato Assessori, Sindaci.

…Dunque, le attività, diciamo che io ritengo che come prima attività che battezzi diciamo l’inizio del comitato intercondominiale credo che si possa dire che sia quella della battaglia per la fognatura, per la realizzazione della fognatura a Brancaccio. …Dunque, parliamo dei primi mesi del ’90, parliamo;  ancora però non abbiamo incontrato Padre Puglisi, ancora. Questa prima battaglia va a buon fine dopo circa un anno perché che cosa è successo ? Siccome io insieme ad un’altra persona mi sono recato al Comune di Palermo per incontrare l’Assessore Inzerillo che allora era Assessore alla manutenzione a rete………… avevano trovato una falda acquifera e quindi per questo motivo avevano interrotto i lavori.

……… Chiaramente noi abbiamo sollecitato più volte per fare ripartire i lavori, e dopo alcuni mesi, se non ricordo male nel luglio sempre del ’90, sono ripartiti i lavori per la fognatura e subito dopo un’altra volta si interrompono perché l’escavatrice aveva, si era rotta la punta dell’escavatrice e non riuscivano a trovare questa punta insomma, per cui passava tempo, passava molto tempo.

Al che noi ci siamo insomma un po’ arrabbiati arrivati a sto punto, abbiamo, mi ricordo che abbiamo fatto un articolo nel Giornale di Sicilia dove abbiamo denunciato questo fatto e abbiamo presentato un esposto alla Procura della Repubblica.

La Procura della Repubblica ha preso diciamo in considerazione questa nostra richiesta ed infatti fu intimato all’Assessorato alla manutenzione, ai servizi di rete fu intimato di terminare, ricordo, i lavori in quindici giorni.

……………

Noi volevamo muoverci in questo senso e ci siamo resi conto, visto il palazzo che era quello della via Hazon 18 che stava là abitato completamente dagli sfrattati del Comune di Palermo e che c’erano gli scantinati e il locale quello a piano terra che erano completamente abbandonati nelle mani della gente che abitava là e anche di bambini, pieno di rifiuti, pieno di un sacco di cose che tenevano loro là, va bene, e quindi a noi è venuta l’idea di realizzare qualche cosa che potesse tornare utile diciamo all’ambiente nostro, alla società nostra, no ?

E abbiamo pensato a una scuola media da realizzare là, visto che là a Brancaccio non esisteva la scuola media, era l’unico quartiere di Palermo a non avere la scuola media, l’unico quartiere di Palermo a non avere la scuola media.

È del tutto evidente che le pressanti iniziative del Comitato provocano immediatamente malumori e suscitano le prime reazioni in certi ambienti anche politici che mostravano di non tollerare l’autonomia decisionale ed operativa dei cittadini del quartiere e soprattutto la decisione di rivolgersi “addirittura” alla magistratura:

 

MARTINEZ: Chiaramente noi eravamo contenti di vedere i lavori che ripartivano e mi ricordo che là c’erano, quando sono partiti i lavori, c’erano i dirigenti dell’Assessorato presenti, ed io insieme ad altre persone ci siamo rivolti a loro per dire finalmente avete cominciato, che cosa prevedete, e ho visto una risposta da parte di questi dirigenti nei miei confronti proprio in maniera intollerante: “ah, lo sappiamo che è stato lei a fare la denuncia, lo sappiamo che è stato lei, lei scriva, scriva”.

È chiaro che questa era una situazione un po’ che creava tensione diciamo tra noi e loro.

Comunque, i lavori sono stati portati a termine, in quindici giorni li hanno finiti, mi ricordo che lavoravano sabato e domenica perché dovevano finire i lavori, comunque, hanno terminato i lavori e poi hanno rifatto pure il manto stradale, tutte ste cose di qua.

Però diciamo che questa iniziativa nostra, questa denuncia, non è stata ben digerita dai politici diciamo di Brancaccio.

Quando parlo dei politici di Brancaccio mi riferisco un po’ ai componenti del Consiglio di Quartiere di Brancaccio e all’Assessore Inzerillo.

Mi ricordo infatti che quando si parlava, quando capitava, insomma quando avevamo qualche discussione tra noi di parlare dei problemi del quartiere, insomma rinfacciavano a noi spesso questo fatto di avere presentato l’esposto alla Procura della Repubblica. Comunque non l’avevano digerito bene.

 

Ogni iniziativa del Comitato nel  segno della riaffermazione della legalità e della tutela dei diritti in un quartiere dove mancavano le opere primarie di urbanizzazione come le fognature ed i liquami si riversavano per strada, rappresentava la conquista di spazi e consenso degli abitanti, sottratti l’uno e gli altri, alla criminalità, al degrado, alla sudditanza.

Era dunque evidente che l’attività dei componenti del Comitato dovesse subito incrociarsi con l’attività pastorale di un prete come Padre Puglisi che credeva fermamente nel riscatto della gente del quartiere ed operava concretamente e quotidianamente in tale prospettiva.

Padre Puglisi, parroco della Chiesa di San Gaetano, aveva subito accettato di sostenere la loro causa, dando un contributo pieno ed incondizionato e partecipando in prima persona anche a tutti i loro frequenti incontri:

 

MARTINEZ: ……lui subito si è messo a disposizione nostra, anzi una cosa che ha immediatamente detto è stata contate su di me, tutte le volte che voi vorrete io sarò con voi, tutte le volte che voi dovrete incontrare qualche persona delle istituzioni io verrò con voi. E così è stato sempre, in ogni momento.

……Padre Puglisi, ogni volta che noi dovevamo incontrare le figure istituzionali locali, Sindaco, Assessori vari, Prefetto, Padre Puglisi ci accompagnava sempre, è stato sempre presente nel sostenere queste richieste che insieme concordavamo di portare avanti. Addirittura una volta, quando noi abbiamo promosso la realizzazione del distretto socio-sanitario a Brancaccio, addirittura lui ci fece mettere un tavolino davanti la porta per raccogliere le firme perché abbiamo portato avanti una petizione. Per raccogliere le firme e lui durante le messe domenicali di quel giorno, lui invitava la gente a firmare per quella petizione che stavamo portando avanti perché significava dare un aiuto alla gente stessa di Brancaccio e quindi li invitava a firmare.Questo per dirle quanto c’era vicino e quanto lui era partecipe delle nostre, delle iniziative che noi portavamo avanti. Lui addirittura, lui addirittura non aveva esitazione nel dire che era un componente del comitato intercondominiale. Lui lo disse a me in un’occasione, quando ci fu un convegno parrocchiale. Subito dopo la fine del convegno parrocchiale mi telefonò a casa per scusarsi, ma per scusarsi di che cosa ? Per scusarsi perché aveva detto “ho fatto male a dire che sono, che noi del comitato intercondominiale ?”.  “Ma lei mi sta rendendo felice, Padre Puglisi”.

Lui si sentiva uno di noi, lui era sceso in mezzo alla gente, era sceso con noi a lottare, a rischiare la sua vita fino a pagarla.

 

Anche Romano Mario ha confermato il ruolo centrale che Padre Puglisi aveva assunto in seno al  Comitato ed in relazione a tutte le iniziative che venivano promosse:

 

ROMANO: E si è è aggregato soprattutto Padre Puglisi che poi è stato nominato parroco nel 1990 della parrocchia di Brancaccio.

……Quando abbiamo cominciato innanzitutto, come avevo detto io, la fognatura che attraverso delle richieste insomma anche di persone andando a parlare con Assessori e con Padre Puglisi diciamo divenuto poi il leader di questa associazione,   abbiamo fatto richiesta di una fognatura. Appartiene ad un fattore sociale io penso.

……Nel ’91. …Sempre diciamo quando già abbiamo visto che il fattore della fognatura andava avanti, ci siamo chiesti perché il quartiere Brancaccio è l’unico quartiere di Palermo a non avere la scuola media.

……Insomma questo me lo sono chiesto io, ce lo siamo chiesti quelli che facevamo parte del comitato e Padre Puglisi che praticamente era uno di noi,  voleva la scuola per i ragazzi, no per noi, per i ragazzi.

 

Padre Puglisi peraltro, dopo la commissione dei gravi atti intimidatori ai danni del Martinez, del Guida e del Romano, ne comprese subito causale e finalità decidendosi di parlarne durante l’omelia della messa domenicale, condannando pubblicamente l’episodio e sollecitando i fedeli e la comunità ecclesiale tutta ad esprimere e far sentire la loro concreta solidarietà alle tre vittime di atti che apparivano con tutta evidenza collegati all’attività del Comitato che affiancava il prelato nell’opera di risveglio sociale e di riscatto della gente del quartiere.

Proprio in ragione dell’esito positivo di molte delle iniziative assunte dal Comitato con il sostegno concreto di Padre Puglisi cresceva progressivamente il consenso della gente che iniziava a credere nel prete e nella possibilità di riscatto che veniva loro offerta:

 

MARTINEZ: Questo insomma per dire appunto che c’era un consenso che andava crescendo nei nostri confronti. Il fatto era che, abbastanza percepibile, che la gente cominciava a credere in Padre Puglisi e nell’attività del comitato Intercondominiale, la gente cominciava a credere.

E questo era abbastanza, come dire, sentito nel quartiere, era abbastanza sentito nel quartiere. Per cui si verificava che molte persone venivano da noi, dal signor Romano, signor Guida, signor Martinez, signor c’è da fare l’illuminazione, queste cose di qua insomma.

Chiaramente noi eravamo pure portatori, come dire, portatori anche di valori, di idee.

Noi avevamo scelto, come dire, una linea da portare avanti ed era una linea che non era assolutamente condivisibile da certi ambienti nel quartiere, va bene ? Noi parlavamo di legalità, di giustizia, noi parlavamo di Falcone, di Borsellino, degli agenti di scorta uccisi dalla mafia, noi portavamo avanti delle iniziative per coinvolgere famiglie e bambini nel nome di questa gente che aveva dato la vita per la società palermitana e non solo palermitana ovviamente.

Ecco, noi oramai eravamo, come dire, persone abbastanza identificabili, non eravamo solamente portatori di iniziative che volevano portare servizi.  Certo, quelli erano cose importanti, la scuola, il distretto, ma anche portatori di valori.

 

Era dunque inevitabile che tali attività e tali valori diffusi tra la gente entrassero in rotta di collisione con il gruppo mafioso e criminale che dominava, fino ad allora incontrastato, nel quartiere imponendo soggezione, omertà e cieca ubbidienza alle direttive ed ai voleri dei capi della cosca.

La immediata individuazione della causale dei gravi atti incendiari nella comune attività di impegno sociale svolta dalle tre vittime era peraltro confermata dal fatto che null’altro poteva giustificare la contemporanea aggressione condotta in pregiudizio del Guida, del Romano e del Martinez che non avevano altri interessi comuni:

 

PRESIDENTE: …Al di là delle attività di questo vostro comitato che ancora aveva un carattere di spontaneità, avevate altri interessi, altre attività comuni a tutti e tre ?

MARTINEZ: No, assolutamente. No, l’unica attività comune l’ho detto poca fa, era con Giuseppe Guida che eravamo colleghi di lavoro.

PRESIDENTE: E il terzo invece ?

MARTINEZ: No, nessuna, nessuna.

PRESIDENTE: Che lavoro svolgeva ?

MARTINEZ: Impiegato delle ferrovie.

PRESIDENTE: Quindi vi vedevate e stavate insieme esclusivamente……Nell’ambito di questa attività.

MARTINEZ: Si.

 

Orbene, che la causale del grave fatto delittuoso fosse proprio da individuare in quella comune attività svolta dai tre in costante contatto con Padre Puglisi, emergeva con assoluta certezza allorquando veniva tratto in arresto proprio colui che ha confessato di essere l’autore materiale dell’efferata uccisione del prete e per tale delitto è stato condannato con sentenza ormai irrevocabile.

Grigoli Salvatore, invero, componente del gruppo di fuoco del mandamento di Brancaccio con funzioni di killer, al servizio dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, sin dalle prime ore successive al suo arresto avvenuto il 19 giugno 1997 dopo un lungo periodo di latitanza, ha manifestato l’intenzione di collaborare con la giustizia, ammettendo subito di essere stato egli stesso l’esecutore materiale dell’omicidio di Padre Puglisi per il quale indicava causale, mandanti e complici.

Orbene già all’udienza del 7 luglio del 1997, ovvero solo pochi giorni dopo il suo arresto, davanti alla Corte di Assise di Palermo che procedeva a carico dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e dello stesso Grigoli, imputati dell’omicidio di Padre Puglisi, il Grigoli stesso rendeva spontanee dichiarazioni confessando immediatamente anche la propria personale partecipazione agli attentati incendiari alle porte delle abitazioni dei promotori del Comitato Intercondominiale di via Hazon.

Ed è quanto mai significativo che il Grigoli abbia immediatamente parlato di tale attentato incendiario, ancora presente nel suo ricordo oltre quattro anni dopo i fatti, proprio perché strettamente connesso nella sua memoria all’uccisione del prelato, non a caso avvenuta il 15 settembre 1993, poche settimane dopo i fatti per cui oggi è processo, tanto da dovere essere riferiti all’A.G. proprio come premessa della confessione dell’omicidio di Padre Puglisi (cfr. pag. 102 sentenza della Prima Sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo del 13.2.2001 prodotta dal PM):

 

Adesso vorrei dire io cosa sono a conoscenza e le mie responsabilità riguardo il delitto di padre Puglisi”.

……Prima …volevo precisare un’altra cosa, prima dell’omicidio, ho commesso un altro reato, lo dico perché secondo me è attinente a questo omicidio . Fummo incaricati io, Spatuzza e Guido (recte Vito) Federico di bruciare tre porte di tre famiglie di uno stabile di via Azolino Hazon, nei dintorni di questa via… perché queste persone erano vicine a padre Puglisi”. 

 

Ammissione di responsabilità anticipata il 7 luglio 1993 nelle dichiarazioni spontanee confermata nel corso del successivo esame formale reso all’udienza del 28 ottobre 1997 allorquando, richiesto dal  PM di precisare se prima dell’omicidio di Padre Puglisi egli avesse compiuto atti intimidatori ai dnni di persone vicine al prelato, il Grigoli testualmente affermava  (cfr. pag. 106 sentenza del 13.2.2001 citata):

 

“Questa…me la comunicò lo Spatuzza, questa cosa qui. Dovevamo bruciare tre porte di tre abitazioni nello stesso palazzo…nello stesso complesso, erano tre scale ed ogni scala c’era una porta da incendiare. Una, se non erro, è al decimo piano, una al settimo e una la quinto, se non erro. C’era un certo Martinez e gli altri non li ricordo. E andammo io e lo Spatuzza, insieme anche a Vito Federico, e salimmo tutti e tre contemporaneamente le scale; abbiamo dato tempo a colui che doveva arrivare al decimo piano di arrivare prima e abbiamo dato fuoco a queste porte e poi scendemmo tutti e tre contemporaneamente e poi andammo via……Queste tre persone erano vicine a don Pino Puglisi”.

 

Si aggiunga che già il 26 giugno 1997 ai Pubblici Ministeri di Palermo il Grigoli aveva confessato la sua partecipazione all’omicidio Puglisi subito ricollegando il grave fatto delittuoso all’attentato incendiario per cui oggi e processo (cfr. pag.13 sentenza GUP Palermo 29 maggio 2001 acquisita all’udienza dell’8.5.2003):

 

“confermo di avere eseguito l’omicidio di Don Pino Puglisi. L’omicidio fu deliberato da Graviano Giuseppe come ho appreso dallo Spatuzza, in quanto…… in effetti l’omicidio fu preceduto da un attentato incendiario ai danni delle abitazioni di alcune persone abitanti in via Azolino Hazon. Anche in questo caso l’ordine partì da Graviano Giuseppe, l’attentato fu materialmente eseguito da me, da Spatuzza Gaspare e da Federico Vito. Cascino Carlo come preciso in sede di verbalizzazione riassuntiva, aiutò il Federico nella fase successiva all’attentato coprendone la fuga a bordo di un ciclomotore Peugeot……

 

Le dichiarazioni del Grigoli quindi confermavano immediatamente la pressione decisa ed attuata dalla famiglia mafiosa di Brancaccio, ai massimi livelli, con atti violenti ai danni delle persone più vicine a Padre Puglisi e come lui attive e motivate nel condurre il processo di riscatto morale e civile del quartiere Brancaccio.

L’attività del Comitato e di Padre Puglisi, condotta nel segno della riaffermazione della legalità e dei valori cristiani, rappresentava un intollerabile ed inaccettabile pericolo per l’organizzazione mafiosa che non poteva restare inerte dinanzi ad un così evidente attacco alle sue regole, imposte con la violenze, dell’omertà e della soggezione.

Grigoli Salvatore è stato escusso anche nel dibattimento del  presente processo ed ha sostanzialmente confermato la confessione resa e le accuse formulate a carico di tutti gli odierni imputati.

Esaminato all’udienza del 16 maggio 2002 il Grigoli ha sostanzialmente riferito di avere fatto parte, dopo un primo periodo nel quale si era occupato di attentati a scopo estorsivo, del gruppo di fuoco del mandamento di Brancaccio dedicandosi quasi esclusivamente alla commissione di omicidi.

Egli ha tuttavia riferito che in una occasione, trattandosi di “un’operazione più delicata”, era stato incaricato della esecuzione di un atto intimidatorio ai danni di tre famiglie che facevano parte di un’associazione vicina a Padre Puglisi e che l’obiettivo dell’azione era quello di convincere i tre destinatari degli atti intimidatori, bruciando le porte d’ingresso delle loro abitazioni, ad abbandonare la città; che l’incarico proveniva dai Graviano ed egli avrebbe dovuto contattare lo Spatuzza il quale era a conoscenza dei tre obiettivi dell’azione delittuosa; che le fiamme alle porte delle abitazioni erano state poi materialmente appiccate da lui, dallo Spatuzza  e da Federico Vito, quest’ultimo poi  allontanatosi con Cascino Carlo a bordo di uno scooter da questi condotto; che l’attentato era stato commesso in un periodo certamente anteriore all’omicidio di Padre Puglisi. Quanto alle modalità operative il Grigoli ha così riferito:

 

Quindi ci organizzammo in questa maniera, io con lo Spatuzza a bordo di una FIAT Uno rubata dovevamo andare via perché erano tra abitazioni nello stesso stabile.

Se non erro adesso perché non ricordo bene, una era al quinto piano, una al settimo piano e una al decimo piano, quindi a bruciare le porte siamo stati io, Gaspare Spatuzza e Vito Federico.

Nell’ordine che lo Spatuzza andò al decimo piano, io al settimo e Vito Federico credo al quinto. Quindi ci sincronizzammo perché dovevamo fare un’operazione sincronizzata, prima attendemmo che arrivasse lo Spatuzza al decimo piano e poi io al settimo e così via Vito Federico.

Così che bruciavamo le porte in contemporanea e da fuggire tutti e tre nello stesso momento.

Così decimo, solo che quando uscimmo dalla portineria dello stabile io salì in macchina della FIAT Uno rubata di, con Gaspare Spatuzza ed ad attendere a Vito Federico c’era Carlo Cascino con un peugeottino, uno scooter, un motorino. Di fatti poi io e  lo Spatuzza proseguimmo per Piazza dei Signori e lì bruciammo una tabaccheria.

PM: Senta, lei ricorda l’esatta ubicazione, la via dove si trovavano questi, le case dove furono, le cui porte furono incendiate, furono oggetto di questi atti ?

GRIGOLI: In via, nei pressi di via Azolino Hazon, un complesso di palazzi.

GRIGOLI: Io, Spatuzza , Vito Federico ed anche Cascino Carlo.

PM: Come avete fatto ad avere ingresso, ad entrare nell’immobile ?

GRIGOLI: Lo Spatuzza aveva una chiave, non mi ricordo fornita da chi…Del portoncino dell’ingresso dell’edificio.

……

PM: Senta, per raggiungere i piani delle abitazioni utilizzaste gli ascensori o i gradini, le scale ?

GRIGOLI: No, salimmo a piedi per evitare e scendemmo più che altro a piedi per evitare che dopo avere commesso, provocato l’incendio, per un motivo e per un altro si potesse bloccare l’ascensore e quindi preferimmo scendere a piedi.

PM: E lo scooter di chi era ?

GRIGOLI: Lo scooter era dello stesso Cascino.

 

Va peraltro evidenziata, per il suo indubitabile rilievo, la circostanza riferita dal Grigoli secondo cui per appiccare il fuoco alle porte venne usato come liquido infiammabile della benzina contenuta in bottiglie di plastica, confezionate da Gaspare Spatuzza:

 

PM: Senta, quale liquido infiammabile fu utilizzato come combustibile, che cosa fu utilizzato per bruciare le porte ?

GRIGOLI: Benzina

…PM: Chi la fornì ?

GRIGOLI: Adesso non mi ricordo chi fu incaricato di procurarsi la benzina, non mi ricordo chi. Già nella FIAT Uno comunque avevamo noi l’altra benzina da utilizzare nel tabaccaio, non mi ricordo chi fu.

PM: Questa benzina era contenuta in che cosa ? In quale recipiente ?

GRIGOLI: Sei bottiglie di plastica

PM: ……chi aveva messo la benzina in queste bottiglie di plastica ?

GRIGOLI: Non mi ricordo.

PM: Senta, lei ha dichiarato lo stesso giorno, nel verbale citato, “ricordo che agimmo all’indomani dell’ordine del Mangano utilizzando benzina in bottiglie di plastica confezionate dallo Spatuzza.

GRIGOLI: Si, lo confermo.

 

Giova a tal riguardo rammentare che il Martinez ha precisato di avere sentito odore di benzina e di avere trovato per terra dinanzi la porta d’ingresso della sua abitazione, ormai annerita e bruciata, proprio una bottiglia di plastica:

 

…Io mi sono alzato e quando sono entrato nel corridoio ho sentito un odore temendo di benzina, quindi sono andato alla porta d’ingresso, con cautela ho aperto e mi sono reso conto che c’era la porta bruciata, lo zerbino, quello che era davanti la porta, bruciato, poi tutti  i muri anneriti, le porte dell’inquilino dirimpetto tutte annerite, insomma, e poi ho trovato pure una bottiglia di plastica, praticamente ormai vuota, che era la bottiglia che conteneva la benzina……Che era nel pianerottolo.

 

È di tutta evidenza che la conoscenza di un tale dettaglio operativo, puntualmente riscontrato dalle indagini, deriva al Grigoli – che peraltro ricorda di essersi occupato proprio dell’attentato ai danni del Martinez (“Mi ricordo così vagamente il cognome, se non erro quello che commisi io Martinez, qualcosa del genere”) – proprio dalla diretta e personale partecipazione al fatto delittuoso (cfr. anche esame reso in Corte di Assise all’udienza del 28 ottobre 1997: “C’era un certo Martinez).

Si rammenti peraltro che il ricordo del Grigoli si spinge al punto di precisare che i tre appartamenti erano posti al  5°, 7° e 10° piano dell’edificio (“Se non erro adesso perché non ricordo bene, una era al quinto piano, una al settimo piano e una al decimo piano”) e che le tre p.o. hanno sostanzialmente confermato quasi integralmente tale ubicazione delle rispettive abitazioni  (il Guida abita al quinto piano del civico n. 43, il Romano al decimo piano del civico 51 ed il Martinez al quinto piano  del civico 17).

Nel corso dell’esame reso dinanzi a questo Tribunale Grigoli Salvatore ha peraltro chiarito un equivoco sorto a seguito delle sue iniziali dichiarazioni circa l’ubicazione dei tre appartamenti nello stesso stabile o in palazzi diversi (“c’erano tre abitazioni nello stesso stabile”…”nei pressi di via Azolino Hazon, un complesso di palazzi”).

Il collaborante ha in sostanza precisato che ai tre appartamenti le cui porte di ingresso furono oggetto dell’attentato si accedeva attraverso tre distinti portoni (“portinerie diverse”), pur essendo in edifici limitrofi della stessa via Azolino Hazon:

 

PRESIDENTE: …Allora Grigoli dovremmo chiarire un punto……lei ci ha riferito, quando è stato sentito, su domanda del PM, che queste tre porte alle quali avete appiccato il fuoco erano tutte e tre nello stesso palazzo, ho capito bene, nello stesso stabile ?

GRIGOLI: Non so se definire cioè era un unico…

PM: Partiamo da questo, il portone d’ingresso.. il portone..

GRIGOLI: C’era..

PM: Mi scusi il portone d’ingresso era unico siete entrati tutti e tre dallo stesso portone ?

GRIGOLI: Siamo entrati da tre, tre portinerie diverse se non erro.

PM: Quindi tre portinerie diverse quindi avete salito tre scale diverse ?

GRIGOLI: IO adesso se non mi ricordo male si, comunque i piani erano diversi era uno se non erro il terzo, un altro il settimo, un altro il decimo qualcosa del genere.

PRESIDENTE: Si questo lei lo aveva detto l’altra volta però l’altra volta ci aveva fatto capire che eravate tutti e tre nello stesso stabile a tre piani diversi.

GRIGOLI: no cioè.. ..C’era un unico.. non so come dire un unico un’unica fila di palazzi non so come spiegarglielo.. .Comunque le scale erano diverse.

PRESIDENTE: Quindi l’importante è che lei è sicuro del fatto che siete entrati da tre portinerie diverse, cioè tre portoni distinti.

GRIGOLI: Credo di si signor Presidente.

……

GRIGOLI: Signor Presidente ripeto a dire sono passati parecchi anni, adesso non mi ricordo, ma io penso che sicuramente era più di una portineria.

……

No io quello che ricordo ora come ora potrò anche ricordare male.. Però ora come ora ricordo che le portinerie erano diverse cioè le scale erano diverse.

PRESIDENTE: Le scale erano.. dico ma può esserci anche gli stabili soprattutto quelli grossi condominiali ci può essere un unico ingresso, ma con scale diverse. Lei invece ricorda che vi siete separati tutti e tre e siete entrati da tre portoni diversi ?

GRIGOLI:  Qualcosa del genere mi ricordo io.

……

GRIGOLI: Perché io mi ricordo che quando io scesi dalle scale ed uscì fuori dalla portineria guardai le altre portinerie se già erano usciti gli altri, mi ricordo qualcosa del genere ora come ora, ho questa visione così.

PRESIDENTE: Senta almeno visto che sta ricostruendo questo ricordo, questi portoni d’ingresso diciamo erano l’uno accanto all’altro o poco distanti cioè vi vedevate da un portone all’altro ?

GRIGOLI: Si si ci vedeva perché erano in linea retta.

PRESIDENTE: Tutti dallo uno stesso lato del marciapiede ?

GRIGOLI: Si, si

……

GRIGOLI: Ed allora siccome Spatuzza doveva andare al decimo piano chiaramente lui ci impiegava siccome non dovevamo prendere l’ascensore perché per un motivo x poteva andare via la luce si poteva bloccare l’ascensore e quello rimaneva lì dopo avere incendiato la porta, quindi chiaramente dovevamo fare i piani a piedi. Allora visto che lo Spatuzza doveva impiegarci di più abbiamo aspettato che lo Spatuzza entrasse, poi dopo una manciata di un minuto una manciata di secondi sono entrato io e così via.

 

Il nuovo esame del Martinez, disposto dal Collegio ai sensi dell’art. 507 c.p.p. all’udienza del 27 febbraio 2003, ha evidenziato che effettivamente le tre parti offese abitano in complessi edilizi distinti, ma distanti appena qualche decina di metri sullo stesso lato del marciapiede della via Azolino Hazon (il Martinez al civico 17, il Guida al civico 43 ed il Romano al civico 51):

 

MARTINEZ: No, non parliamo di tre palazzi distinti e separati, ma due palazzi distinti e separati.

Sullo stesso lato del marciapiede, a seguire… a seguire…quindi finisce il palazzo…della via Hazon 17…una decina di metri, e comincia quest’altro edificio, che è abbastanza lungo. Adesso non ricordo se ci sono quattro o cinque portoni d’ingresso, ma è un unico edificio…

PRES.:  Si. Tenga conto che il suo è al numero 17…

MARTINEZ: Si.

PRES.: Quello successivo di Guida è al numero 43.

MARTINEZ: Guida 43…

PRES.: Quindi ci sono dei negozi… sulla strada ?

MARTINEZ: … Sotto ci sono degli esercizi commerciali.

PRES.: E comunque dico, rispetto al portone di Guida, lei che conosce i posti…che di stanza c’è, diciamo, a piedi dal suo portone a questo numero 43 dove abita Guida ?

MARTINEZ: Dunque il primo portone che viene è quello dove abita Guida. Ma ci sarà, che vuole che le dico, un 30/40 metri… 50 metri.

PRES.: …Tre…da trenta a cinquanta metri. Va bene. Diceva …poi lei a un certo punto ha detto: “è un unico…Guida e Romano stanno in un unico palazzo”

MARTINEZ: Edificio.

PRES.: Che però ha portoni (VOCE SOVRAPPOSTA)

MARTINEZ: Ha più portoni. Ha più scale quindi…

……

PRES.: Senta, e tra il 43 e il 51 dove abita Romano, diciamo sono a seguire ?

MARTINEZ: Si, sono a seguire. Quindi che ci saranno dieci metri…

 

Né si trascuri di considerare che, come già esposto, il Grigoli sin dalle sue prime dichiarazioni aveva ricordato che si trattava di tre distinte scale e dunque di tre diversi edifici (…nello stesso complesso, erano tre scale ed in ogni scala c’era una porta da incendiare:  esame in Corte di Assise all’udienza del 28 ottobre 1997).

Le dichiarazioni del Grigoli trovano peraltro riscontro, ancorché siano trascorsi quasi dieci anni dai fatti, anche su alcuni dettagli quali la descrizione (“Alluminio con vetrate”) del portone di ingresso allo stabile all’interno del quale egli si introdusse quella notte per portare a termine l’inacarico criminoso ricevuto.

Richiesto sul punto in sede di nuovo esame il 27 febbraio 2003, il Martinez ha infatti confermato la descrizione del portone del suo stabile fattane dal Grigoli (“in metallo… con vetrate che si vedeva all’interno”).

Il giudizio positivo circa l’attendibilità del Grigoli si fonda in primo luogo sul fatto la integrale confessione resa in ordine agli innumerevoli delitti commessi costituisce un primo rilevante indice di positivo apprezzamento delle sue dichiarazioni.

Relativamente all’attentato per cui è processo, peraltro, la collaborazione del Grigoli è assistita dal connotato dell’attendibilità  intrinseca proprio in forza del diretto e personale coinvolgimento nella vicenda.

Il collaborante ha dunque ricostruito analiticamente la fase esecutiva dell’attentato della cui commissione egli parla per conoscenza diretta e coinvolgimento personale, avendo svolto funzioni operative dirette ed avendo esposto, con riferimento alla dinamica, alla situazione dei luoghi , alle modalità di esecuzione, particolari conoscibili solo da chi abbia partecipato alla consumazione del delitto.

Ciò che preme poi sottolineare è che Grigoli Salvatore, esecutore reo confesso del grave atto intimidatorio, sin dai primi momenti della sua collaborazione ha chiamato in correità, senza esitazioni, contrasti o ritrattazioni, quali esecutori materiali con lui, proprio gli odierni imputati Spatuzza Gaspare e Vito Federico, indicando immediatamente anche Cascino Carlo Santo, come complice dell’azione delittuosa di quella notte, ancorché con compiti di appoggio, copertura ed ausilio per la fuga.

Giova infatti rammentare che già il 26 giugno 1997 – solo pochi giorni dopo l’arresto avvenuto il 19 giugno – ai Pubblici Ministeri di Palermo il Grigoli, nel confessare la sua partecipazione all’omicidio Puglisi, aveva parlato dell’attentato incendiario per cui è processo accusando subito Spatuzza , Federico e Cascino e specificando quanto fatto da ciascuno di essi quella notte (cfr. pag. 103 sentenza GUP Palermo 29 maggio 2001 acquisita all’udienza dell’8.5.2003: “confermo di avere eseguito l’omicidio di don Pino Puglisi. L’omicidio fu deliberato da Graviano Giuseppe come ho appreso dallo Spatuzza, in quanto…in effetti l’omicidio fu preceduto da un attentato incendiario ai danni delle abitazioni di alcune persone abitanti in via Azolino Hazon.  Anche in questo caso l’ordine partì da Graviano Giuseppe, l’attentato fu materialmente eseguito da me, da Spatuzza Gaspare e da Federico Vito. Cascino Carlo, come preciso in sede di verbalizzazione riassuntiva, aiutò il Federico nella fase successiva all’attentato coprendone la fuga a bordo di un ciclomotore Peugeot…”).

Ed  il Grigoli ha immediatamente offerto indicazioni specifiche in merito all’origine dell’ordine impartitogli ed alle modalità ed ai canali  attraverso i quali egli ne era venuto a conoscenza.

Il Grigoli ha infatti precisato ai PM di Palermo già in quella occasione (26 giugno 1997) che l’ordine di commettere l’attentato era partito, come sarebbe avvenuto anche nel caso dell’omicidio di Padre Puglisi, da Graviano Giuseppe, capo del mandamento di Brancaccio del cui gruppo di fuoco esso Grigoli era uno degli esponenti di punta.

Nel corso dell’esame dibattimentale dinanzi a questo Tribunale il Grigoli ha precisato che l’ordine gli era stato materialmente comunicato da Mangano Antonino il quale gli aveva riferito che “i Graviano”  avevano deliberato di commettere questo attentato che andava eseguito con Gaspare Spatuzza in quanto costui era a conoscenza della identità dei tre obiettivi e della ubicazione delle abitazioni da colpire (“..mi comunicò di questa cosa qui, che i Graviano avevano fatto sapere di commettere questo atto delittuoso e che ci dovevo andare con Gaspare Spatuzza che lui era a conoscenza di chi fossero le tre famiglie e i vari domicili… mi disse che dovevamo commettere questo fatto qui e dovevo contattare Gaspare Spatuzza e metterci d’accordo di come commettere la seguente operazione”).

Deve peraltro rilevarsi che il Grigoli in altra parte della sua deposizione dibattimentale ha riferito invece che l’ordine proveniva dal solo Graviano Giuseppe (“Questo era stato deciso innanzitutto da Giuseppe Graviano  perché lui mandò a dire queste cose qui, lui mandò a dire queste cose, i motivi pe rcui si doveva fare…”).

Il Grigoli ha tuttavia precisato che quando Mangano Antonino trasmetteva l’ordine di azioni delittuose talvolta faceva riferimento, quanto alla provenienza della disposizione, ai “picciotti”  - con ciò riferendosi ad entrambi i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano – e talaltra a “madre natura”  appellativo utilizzato da Giuseppe Graviano, aggiungendo che non riusciva a ricordare se nel caso in questione l’ordine di commettere l’attentato incendiario per cui è processo fosse stato riferito dal Mangano come provenienza al solo Graviano Giuseppe ovvero ad entrambi i fratelli Graviano:

 

GRIGOLI: Esattamente siccome quando venivano comunicate tramite Nino Mangano alcune cose da fare del tipo delittuose, solitamente Nino Mangano soleva dire “i picciotti ficiro sapiri” ecco, i picciotti hanno fatto sapere, quindi i fratelli Graviano, in questo senso.

PRESIDENTE: La domanda è, le è stato detto se era stato deciso da qualcuno ?

GRIGOLI: Questo era stato deciso innanzitutto da Giuseppe Graviano perché lui mandò a dire queste cose qui, lui mandò a dire queste cose.

I motivi per cui si doveva fare, per quello che mi ricordo io, era perché davano fastidio a Cosa Nostra con le loro attività di questa associazione che parlavo prima, che adesso non mi ricordo, di alcune manifestazioni antimafia, qualcosa del genere, adesso non mi ricordo con esattezza. … Comunque era gente molto vicina, era gente molto vicina a Don Pino Puglisi.

PM: Lei ha parlato di Giuseppe Graviano. Filippo Graviano in questa vicenda che ruolo ha ?

GRIGOLI: Per quanto riguarda questa vicenda non so dirle esattamente che ruolo avesse, se avesse decisioni unitarie a quelle del fratello, però come ho spiegato prima molte cose venivano comunicate come i picciotti, ecco nel senso che i fratelli vogliono che facciamo sta cosa, vogliono che facciamo questa altra cosa.

Specificamente ricordo, io non so dirle con esattezza, non mi ricordo con esattezza se fu detto madre natura perché Giuseppe Graviano aveva il soprannome di madre natura, quindi alcune volte Mangano mi diceva madre natura vuole che si fa mettere questa cosa o i picciotti vuonno che si faccia questa altra cosa.

PM: La mia domanda specifica allora è, l’ordine dato da Mangano Antonino che le fu comunicato relativamente a bruciare le porte del quartiere Brancaccio, quelle di cui ha parlato, in che termini fu dato ? Cioè ora ha parlato di picciotti.

GRIGOLI: Ho cercato di spiegare questo, appunto, ho cercato di spiegare questo, non mi ricordo oggi con esattezza perché i fatti risalgono a molto tempo fa, non mi ricordo con esattezza se l’ordine arrivò dai picciotti o fu madre natura, come madre natura , quindi come singolo Giuseppe Graviano.

 

Solo a seguito delle contestazione da parte del PM delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari al PM il 21 ottobre 1999, il Grigoli ha confermato la versione fornita a suo tempo secondo cui il Mangano in relazione all’ordine di bruciare le porte fece riferimento “ai picciotti” e dunque a Filippo e Giuseppe Graviano (“Ribadisco che l’ordine ci fu dato da Mangano Antonino come intermediario di tutti gli ordini delittuosi che posi in essere in quei tempi; gli ordini partirono dai picciotti e li comunicarono a Mangano Antonino con il quale parlai direttamente” …Grigoli: “Ma io penso di confermare quella versione che ho dato prima perché è più vicina alla memoria di quel fatto”).

Nel prosieguo del suo esame il Grigoli ha poi precisato che in realtà la prima persona che gli aveva parlato dell’azione delittuosa da compiere in via Hazon era stato proprio Spatuzza Gaspare  e che era stato esso Grigoli a chiederne la conferma a Mangano prima di passare all’azione.

Il P.M. ha infatti contestato a Grigoli il tenore delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini (“prima dell’ordine del Mangano avevo conosciuto la circostanza della compienda azione intimidatoria dallo Spatuzza Gaspare. Lo Spatuzza infatti aveva avuto un personale incontro con Giuseppe Graviano e dall’incontro era nata la comunicazione relativa all’atto intimidatorio da compiere. Quando lo Spatuzza mi comunicò che avremmo dovuto agire, invece chiesi conferma al Mangano. Quest’ultimo mi confermò l’ordine e con esso mi confermò la circostanza che a dare l’ordine erano stati proprio i picciotti”) ed il collaborante ha confermato di avere sostanzialmente chiesto al Mangano conferma dell’ordine ricevuto ottenendo una risposta affermativa:

 

Si, perché lo Spatuzza come ho già detto, lui era a conoscenza dei soggetti e cose varie e mi aveva detto che si doveva fare sta cosa qui, però chiaramente non è che era Spatuzza a dirmi quello che dovevo fare io, a me mi doveva dare il via, lo sta bene, Mangano Antonino. Di fatti io gli dissi a Mangano Antonino “c’è Spatuzza che mi ha detto sta cosa, eventualmente ci devo andare, non ci devo andare ?”.

E lui mi disse, come ho già detto prima, mi confermò il fatto che l’ordine arrivò, l’hanno  fatto sapere i picciotti.

 

Nel corso del controesame condotto dal difensore dell’imputato Graviano Filippo è stato più volte contestato al Grigoli il fatto che egli, sia nelle prime dichiarazioni rese subito dopo l’arresto e l’avvio della collaborazione con l’A.G., sia nel corso del processo a suo carico per l’omicidio di Padre Puglisi dinanzi alla Corte di Assise, aveva sempre riferito che il Mangano nel trasmettergli l’ordine di agire – sia per l’omicidio del prelato che per il precedente atto intimidatorio ai danni dei tre componenti dell’associazione vicina a Padre Puglisi – aveva fatto riferimento al solo Graviano Giuseppe (cfr. dichiarazioni  al P.M.: Palermo del 26.6.1997;  dichiarazioni spontanee alla Corte di Assise del 7.7.1997; dichiarazioni al P.M. ed alla Corte di Assise di Firenze).

Il Grigoli tuttavia, pur confermando tutte le dichiarazioni contestategli dal difensore, ha precisato che seppure l’ordine fosse proveniente dal solo Giuseppe Graviano, capomandamento,  la decisione che lo precedeva era sempre frutto di un preventivo accordo con il fratello Filippo:

 

Grigoli: Bisogna vedere da prima queste cioè il discorso sarà più lungo in quel senso perché a me determinati fatti me li ha commissionati direttamente Giuseppe Graviano in persona ma con questo.. perché non c’era il fratello comunque, cioè me li commissionava lui ma era d’accordo con il fratello.

PRESIDENTE: Si dico il problema è questo, l’avv. vuole sapere in quella dichiarazione al PM di Firenze, lei ha detto che comunque  il capo mandamento era Giuseppe Graviano  ed era lui che dava gli ordini; quindi quando le è stato chiesto proprio esplicitamente è Filippo dice no il capo mandamento era Giuseppe era lui che dava gli ordini questo lo conferma oppure no ?

GRIGOLI: Si gli ord.. d’accordo con il fratello.

PRESIDENTE: …Poi ci dovrebbe spiegare che cosa intende d’accordo con il fratello.

GRIGOLI: Le decisioni le prendevano insieme.

……

PRESIDENTE: Conferma queste dichiarazioni Grigoli ?

GRIGOLI: Si io confermo tutto signor Presidente. E ribadisco che il capo mandamento di Brancaccio era Giuseppe Graviano, però come ho sempre spiegato alcuni fatti venivano commissionati dicendo che i fratelli Graviano hanno fatto sapere di commettere questo omicidio, cioè non i fratelli Graviano i picciotti che è gergo, i picciotti erano i fratelli Graviano. I picciotti hanno fatto sapere di fare sta cosa, i picciotti hanno fatto sapere di fare quest’altra cosa, non Giuseppe ha fatto sapere questo, Giuseppe ha fatto sapere quell’altro.

PRESIDENTE: Va bene specificamente l’avv. le aveva chiesto e lei l’ha confermato che però sia per l’omicidio Puglisi che per il danneggiamento delle porte le fu detto Giuseppe e non i picciotti, questo è quello che lei aveva dichiarato allora quando il ricordo era più vicino, oggi dice non mi riesco a ricordare come mi fu dato l’ordine ma allora aveva fatto queste dichiarazioni.

GRIGOLI: Esatto. Esatto.

 

Orbene, proprio le dichiarazioni rese in merito alla provenienza da Giuseppe Graviano dell’ordine di uccidere Padre Puglisi hanno condotto la Corte di Assise di Palermo in esito al giudizio di primo grado ad assolvere con sentenza del 5 ottobre 1999 Graviano Filippo dalla relativa accusa condannando il solo Graviano Giuseppe come mandante dell’omicidio.

Ma tale pronuncia assolutoria di primo grado nei confronti del Graviano Filippo è stata ribaltata in appello e la condanna all’ergastolo pronunciata dalla Corte di Assise di Appello di Palermo nei suoi confronti il 13 febbraio 2001, è divenuta irrevocabile il 7 dicembre 2001.

Ha ritenuto invero la Corte di Assise di Appello che “attraverso l’audizione degli imputati di reato connesso Drago Giovanni, Cancemi Salvatore, Contorno Salvatore, Marchese Giuseppe, Mutolo Gaspare, La Barbera Gioacchino, Di Matteo Mario Santo, Pennino Gioacchino, Cannella Tullio, Di Filippo Emanuele, Di Filippo Pasquale, Romeo Pietro, Calvaruso Antonino e Brusca Giovanni, tutti collaboratori di giustizia, ……è risultato acclarato che i mandanti dell’omicidio del sacerdote sono stati indicati unanimemente negli odierni imputati Giuseppe e Filippo Graviano, i quali componevano all’epoca i ranghi dell’associazione per delinquere denominata “Cosa Nostra” con ruoli di promozione, direzione ed organizzazione . Ed è rimasto provato, altresì, dalle dichiarazioni rese nel tempo dai numerosi citati collaboratori di giustizia, oltre che da altre incontrovertibili e certe acquisizioni di natura oggettiva (atti e documenti usciti dal carcere), che i due congiunti sopra menzionati non solo facevano parte in epoca coeva all’uccisione del povero prete, ma fanno parte tuttora, con i medesimi ruoli di preminenza, della temibile associazione criminale mafiosa, nonostante il ristretto regime detentivo di cui all’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario a cui sono pure sottoposti” (cfr. sentenza in atti).

È stato giustamente osservato da quei Giudici che non solo il Grigoli ma anche altri collaboratori di giustizia non sono stati spesso in grado di distinguere tra i due fratelli, per la semplice ragione che “tutto promana indifferentemente ed indistintamente da entrambi, stante la comunanza dei loro ruoli in seno all’organizzazione criminale, si che la volontà dell’uno non possa non coincidere  con quella dell’altro”.

È del resto significativo che secondo il Grigoli lo stesso Mangano Antonino, divenuto dopo la cattura dei due Graviano reggente della famiglia e del mandamento di Brancaccio, utilizzava espressioni come “…i picciotti hanno mandato a dire …”,  “i picciotti dicono…”  ed alcune volte “madre natura”  per fare riferimento ai Graviano.

Tutti gli elementi acquisiti nel presente processo – come del resto tutti i processi celebrati per le innumerevoli e gravissime attività delittuose loro addebitate – evidenziano l’indiscusso ruolo apicale assunto in seno al sodalizio mafioso nel quartiere di Brancaccio da entrambi i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, all’epoca dell’uccisione di Padre Puglisi e dei fatti per cui è processo nel 1993, ruolo apicale mantenuto sia durante la latitanza sia nel carcere dopo il loro arresto.

Giuseppe Graviano si occupava prevalentemente di strategie operative, dirigendo il gruppo di fuoco creato per la commissione dei più svariati reati, mentre Filippo Graviano curava soprattutto , ancorché non esclusivamente, le attività finanziarie d’interesse della famiglia mafiosa , ma entrambi perseguivano costantemente, d’intesa e in comune accordo, l’obiettivo di mantenere saldo nel quartiere di loro pertinenza il ferreo predominio.

La divisione di potere criminale fra i due fratelli non poneva in alcun modo in discussione la collocazione di entrambi in posizione paritaria al vertice del sodalizio mafioso specialmente nella gestione  delle attività di più diretto e/o esclusivo interesse della famiglia di appartenenza ovvero di Brancaccio, anche se formalmente il capo mandamento veniva indicato nella persona di Giuseppe Graviano.

In conclusione Giuseppe Graviano esprimeva la volontà collegiale dei due fratelli imposta dal ruolo di capi della famiglia mafiosa del quartiere Brancaccio di entrambi, e spesso Giuseppe Graviano era un vero e proprio nuncius di tale volontà proprio in quanto era lui ad essere formalmente il capo mandamento e ad intrattenere diretti contatti con Mangano Antonino, luogotenente operativo sul campo.

La volontà dei due fratelli Graviano è dunque necessariamente convergente quando si tratta di ideare, decidere  e realizzare azioni criminose da perpetrarsi nella zona di Brancaccio per le necessità funzionali della famiglia in considerazione del ruolo paritario di vertice rivestito da entrambi in seno a quell’aggregato mafioso.

Risulta pertanto certo che il ruolo di Filippo Graviano era direttivo al pari di quello del fratello Giuseppe, svolgendo anch’egli in seno a quel sodalizio criminale mansioni di organizzazione e di direzione.

Tutti i collaboratori di giustizia parlano senza distinzione alcuna dei Graviano o genericamente dei “picciotti”, come di coloro che erano a capo della famiglia mafiosa di Brancaccio e di una loro volontà indistinta nei progetti criminosi da realizzare.

Né può trascurarsi di considerare che nel caso in esame non si trattava di un qualsiasi attentato incendiario a scopo estorsivo di quelli che la cosca compiva con frequenza quasi settimanale, ovvero di una qualsiasi attività delinquenziale, bensì di una operazione di particolare importanza e delicatezza come evidenziato dallo stesso Grigoli (“…io cominciai a commettere questi atti incendiari per motivi estorsivi. Poi dopo di ciò non ne ho commessi più perché commettevo solamente omicidi. Però mi fu  poi comunicato, siccome era un’operazione più delicata, non era la classica intimidazione per quanto riguarda un commerciante o di questo tipo, era un’intimidazione fatta a tre famiglie che facevano parte di, non mi ricordo di cosa, un’associazione, qualcosa del genere, vicini a Don Pino Puglisi, che mi era stato detto che questi qui dovevano andare via da Palermo e quindi abbiamo cercato di intimidirli in questo senso, bruciando queste porte delle abitazioni mentre loro erano dentro casa”).

Non è un caso infatti che il Grigoli, componente di spicco del gruppo di fuoco del mandamento di Brancaccio ed abitualmente utilizzato ormai solo per la commissioni di omicidi, sia stato contattato proprio per portare a termine tale attentato incendiario che si inseriva nella programmata strategia di intimidazione ai danni di Padre Puglisi e dei suoi collaboratori, attentato peraltro commesso con la diretta e personale partecipazione di un altro esponente di spicco del gruppo di fuoco quale Spatuzza Gaspare.

La particolare importanza e delicatezza della operazione impone dunque di ritenere più che fondata l’attribuzione ad entrambi i fratelli Graviano della relativa progettazione e conseguente deliberazione, comunicata successivamente per l’esecuzione a due tra i soggetti più fidati della cosca (Spatuzza e Grigoli) tramite il luogotenente ed uomo di fiducia dei due fratelli Graviano sul territorio, Mangano Antonino.

I collaboratori di giustizia escussi nel presente processo hanno concordemente confermato il ruolo egemone assunto dai due odierni imputati Giuseppe e Filippo Graviano, nonché dal loro stretto collaboratore Mangano Antonino, nella zona di Brancaccio.

E così all’udienza del 16 maggio 2002  è stato esaminato Di Filippo Emanuele la cui collaborazione nell’estate del 1995, unitamente a quella del fratello Pasquale,  ha consentito di pervenire alla cattura del latitante Bagarella Leoluca ed all’individuazione di basi operative come la cosiddetta camera della morte di via Messina Montagne utilizzate dal sodalizio mafioso sia per riunioni che per strangolamenti.

Di Filippo Emanuele, in particolare, arrestato nel febbraio del 1994, cognato di Marchese Antonino (uomo d’onore della famiglia di Ciaculli ed a sua volta cognato di Bagarella Leoluca), ha iniziato a collaborare il 23 giugno 1995 ammettendo di appartenere anch’egli alla famiglia mafiosa di Ciaculli.

Egli, componente del gruppo di fuoco di Ciaculli nei primi anni ’80 (“periodo 82 – 85”) ha posto a disposizione dell’autorità giudiziaria le sue conoscenze in ordine a Cosa Nostra ed ai delitti commessi da soggetti ad essa appartenenti tra i quali ha indicato anche il proprio fratello Pasquale.

Il Di Filippo in particolare, con riferimento al ruolo svolto dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (nonché dal terzo fratello Benedetto) in seno alla famiglia mafiosa di Brancaccio, ha precisato di  averli conosciuti dopo il 1985 in quanto costoro lo ponevano in contatto con il di lui cognato Marchese Antonino; proprio i Graviano peraltro gli consegnavano il denaro da fare pervenire alla di lui sorella ovvero a Totò Riina.

Tali contatti, protrattisi dal 1985 fino a poco prima dell’arresto intervenuto nel 1994, hanno consentito al Di Filippo di comprendere il ruolo e lo spessore dei fratelli Graviano indicati indistintamente infatti dal collaborante come i capi della famiglia mafiosa di Brancaccio che avevano gli stessi poteri e gestivano ogni attività:

 

PM: Di Filippo, lei ha fatto parte di Cosa Nostra ?

DI FILIPPO: Si……Famiglia di Ciaculli, periodo 82 –85, facevo parte del gruppo di fuoco di Ciaculli.

……

DI FILIPPO: Guardi, noi usavamo la zona di Brancaccio per fare i nostri appuntamenti. Le parlo del periodo 82 – 85. …Dopo l’85 io non faccio più parte del gruppo di fuoco, resto fuori però sono sempre inserito nell’organizzazione e conosco nelle persone Giuseppe……Io esco fuori dal gruppo di fuoco di Ciaculli, ma resto sempre inserito nell’organizzazione e conosco questi personaggi nel nome di Giuseppe Graviano e Filippo Graviano che sono le persone che mi mettevano in contatto loro con mio cognato Marchese Antonino che si trovava detenuto e mi davano dei soldi che io portavo a mia sorella, soldi che mandava Totò Riina, diciamo ero il contatto tra mio cognato Marchese Antonino e il mondo esterno.

PM: E questo fino a quando ?

DI FILIPPO: Fino a prima del mio arresto,……si, intorno al 93 – 94, si.

……

PM: ……chi ha conosciuto meglio dei fratelli Graviano ?

DI FILIPPO: Io ho conosciuto, glielo ho detto, nell’82 – 85 Benedetto Graviano che si accompagnava sempre a Pino Savoca. Dopo di che conobbi Filippo Graviano che era il tramite con mio cognato Marchese Antonino e spesse volte vedevo anche Giuseppe Graviano che si accompagnava sempre a Giovanni Drago, per cui ho avuto rapporti con tutti e tre posso dire.

…PM: Quale era il rappresentante della famiglia di Brancaccio ?

DIFILIPPO: Per me tutti e tre. … Per me tutti  e tre, però riuscivo a parlare sempre con Filippo Graviano.

…… Per quanto riguarda le mie conoscenze, le mie conoscenze si, ma tutti e tre avevano gli stessi poteri, cioè gestivano tutto loro.

PM: Lei ha mai assistito a riunioni o incontri tra Filippo Graviano e Salvatore Riina o altri esponenti di spicco di Cosa Nostra ?

DI FILIPPO: No, Salvatore Riina non l’ho mai visto insieme a loro, ma spesse volte mi accompagnavo in piccoli appartamenti in via , credo, Archirafi, appartamenti che erano dei Graviano, dove io prendevo dei bigliettini che Filippo Graviano mi dava per consegnarli a Marchese Antonino e là c’erano vari uomini d’onore e spesse volte vedevo anche il fratello Giuseppe.

PM: E questi bigliettini che contenuto avevano e a chi erano indirizzati ?

DI FILIPPO: Guardi, spesse volte non vedevo il contenuto, erano indirizzati a mio cognato Marchese Antonino da parte di Totò Riina.

……

AVV. ODDO: Posso dire che la persona più in carica a livello di comando era Giuseppe Graviano.

PRESIDENTE: È  giusto dire questo ? Per quelle che sono le sue conoscenze.

DI FILIPPO: Per quanto riguarda le mie conoscenze, le mie conoscenze si, ma tutti e tre avevano gli stessi poteri, cioè gestivano tutto loro.

……

PM: …Di Filippo, lei ha parlato del ruolo di Giuseppe Graviano e di Filippo Graviano e ha detto comandavano tutti e tre, gestivano tutti e tre insieme. Io le chiedo, io le chiedo, avevano dei compiti specifici, diversi ?

DI FILIPPO: Guardi, io in modo logico parlavo sempre con Filippo Graviano, ma lui mi diceva ed io sapevo che se non c’era lui potevo parlare anche con gli altri suoi fratelli, per cui tutti e tre erano a conoscenza di quello che succedeva, ma con chi parlavo io personalmente era Filippo Graviano e spesse volte lui mi diceva se non ci sono io c’è qualcuno dei miei fratelli, è lo stesso.

 

Il Di Filippo ha infine confermato, a contestazione del  PM, quanto aveva più specificamente riferito nel corso delle indagini preliminari sulla ripartizione di “competenze” ed “interessi” tra i due fratelli, ovvero che “un ruolo particolare l’aveva Giuseppe Graviano, nel senso che era lui di norma a partecipare alle riunioni di vertice in cui si dovevano adottare decisioni che andavano al di là della competenza della famiglia e che riguardavano tutta Cosa Nostra, intendo le riunioni organizzate da Totò Riina”  mentre “per quanto riguarda le questioni di interesse della famiglia di Brancaccio, quello che si interessava attivamente e che si muoveva per organizzare appuntamenti, per gestire estorsioni, per raccogliere eventuali lamentele e prendere provvedimenti era soprattutto Graviano Filippo”.

Piena conferma dunque del fatto che per le questioni che riguardavano specificamente il territorio e gli interessi della famiglia di Brancaccio – come può incontestabilmente ritenersi acclarato in riferimento ai fatti delittuosi per cui è processo – il coinvolgimento ed il consenso di Filippo Graviano, d’intesa con il fratello capo mandamento, era ineludibile.

Anche La Barbera Gioacchino, esaminato all’udienza del 18 aprile 2002, ha contribuito a delineare il ruolo dei fratelli Graviano confermandone il carattere paritario.

Arrestato il 23 marzo 1993, nel novembre di quello stesso anno il La Barbera ha iniziato a collaborare con l’A.G. ammettendo di avere fatto parte di Cosa Nostra sin dal 1981 quale uomo d’onore della famiglia di Altofonte nel mandamento di San Giuseppe Jato, e di avere conosciuto in particolare Filippo Graviano nel 1992 essendosi presentato più volte ad Altofonte per parlare con Antonino Gioè e portare ambasciate o richiedere incontri con Giovanni Brusca .

In quell’occasione Gioè glielo aveva presentato come uomo d’onore ed esponente della famiglia mafiosa di Corso dei Mille:

 

LA BARBERA: Io ho conosciuto Graviano Filippo nel ’92… In una occasione che è venuto ad Altofonte a parlare con Nino  Gioè che aveva infatti, è venuto più di una volta che aveva bisogno di un appuntamento o anche per portare ambasciate e appuntamento con Giovanni Brusca.

PM: Senta, quale era il ruolo.. era un uomo d’onore Graviano Filippo ?

LA BARBERA: In quell’occasione mi ricordo che mi è stato presentato come uomo d’onore. … Io mi ricordo che allora, riferito da Nino Gioè, mi hanno detto che era della famiglia di Corso dei Mille.

 

Il La Barbera ha altresì precisato, seppure dopo qualche iniziale tentennamento dovuto ai ricordi non più nitidi ad oltre un decennio dai fatti, che successivamente aveva conosciuto personalmente anche Giuseppe Graviano incontrandolo a casa di Salvatore Biondino il quale, in una occasione nella quale egli vi si era recato a portare un’ambasciata, glielo aveva ritualmente presentato come uomo d’onore:

 

LA BARBERA: Adesso si mi sto ricordando, si l’ho conosciuto, si è vero in diverse occasioni, infatti a Fifetto ne ho già parlato al fratello Filippo, mentre a Giuseppe, adesso che mi sto ricordando, l’avrà detto forse ad altri magistrati non in questo verbale, l’ho incontrato a casa di Salvatore Biondino, in una occasione che stavo portando una ambasciata ho trovato lì a casa nell’abitazione di Salvatore Biondino il Giuseppe Graviano.

In quell’occasione è stato lo stesso Salvatore Biondino a dirmi appunto che si trattava del Giuseppe, si adesso mi sto ricordando, infatti è stata in una distinta, in una separata occasione che ho conosciuto i fratelli Graviano.

……

PM: Lei alla fine ha dichiarato, alla fine di questo periodo diciamo, “il Graviano Giuseppe fu da me fisicamente visto presso la casa di Biondino Salvatore e lo stesso Biondino me lo presentò come uomo d’onore”.

LA BARBERA: Si confermo, infatti è quello che sto spiegando io adesso, si adesso mi sono ricordato.

PRESIDENTE: Quindi non fu semplicemente una indicazione da parte di Salvatore Biondino, nel senso quello è Giuseppe Graviano, ma le fu proprio ritualmente presentato ?

LA BARBERA: Si perché al momento in cui ho suonato al campanello della casa di Salvatore Biondino ho trovato dentro la casa appunto il Giuseppe Graviano. … Mi è stato presentato e poi mi è stato detto, mi è stato detto da Salvatore Biondino che si trattava appunto di Giuseppe Graviano.

 

Quanto al ruolo dei due Graviano il collaborante ha confermato la posizione di vertice assunta da entrambi nella zona mafiosa di loro competenza:

 

LA BARBERA: (incomprensibile) i fratelli che gestivano il mandamento erano capo mandamento almeno tutti e due fratelli del capo mandamento di Brancaccio non so se comprende anche credo che sia anche Corso dei Mille perché si interessavano per tutta la zona insomma Brancaccio Corso dei Mille e tutte le cose che succedevano lì, sia il Fifetto che il Graviano Giuseppe.

PRESIDENTE: Quando dice Fifetto ovviamente intende Filippo Graviano ?

LA BARBERA: Si, Filippo, si.

 

È peraltro assai significativo che il La Barbera abbia anche aggiunto che proprio negli anni 92-93 sia Brusca Giovanni che Bagarella  Leoluca “elogiavano i fratelli Graviano”  proprio per la loro gestione del mandamento in ciò confermando una sostanziale parità di compiti e ruoli tra i due odierni imputati senza rilevanti differenziazioni (“Allora io ho frequentato il Bagarella dall’inizio del ’92 fino alla data del mio arresto, quindi Bagarella e Giovanni Brusca e spesso si parlava appunto dei fratelli Graviano e in quella occasione era proprio il Bagarella a parlarne sempre bene, dice sti ragazzi insomma gestiscono bene, insomma gli faceva piacere si parlava anche non in presenza dei Graviano sia il Brusca che il Bagarella elogiavano i fratelli Graviano).

Giova inoltre evidenziare come anche La Barbera Gioacchino ha confermato con le sue dichiarazioni il ruolo di portavoce e luogotenente svolto in quel periodo dall’altro odierno imputato Mangano Antonino al  quale venivano recapitate le ambasciate e le richieste da fare pervenire ai fratelli Graviano (“più volte mi sono recato in Corso dei Mille a portare ambasciate, accompagnavo Nino Gioè a una agenzia di assicurazione in Corso dei Mille per portare ambasciate a Graviano Giuseppe”… “Mangano Antonino si, è proprio il proprietario dell’agenzia di cui parlavo poco fa “…”era la persona incaricata mentre erano latitanti sia il Fifetto Graviano che Giuseppe, era la persona che portava le ambasciate appunto ai Graviano”).

Secondo il collaborante erano stati proprio i Graviano a dire che occorreva fare riferimento al Mangano per tutto ciò che riguardava la “ordinaria amministrazione”  laddove invece per le questioni più importanti era necessario che il Mangano li consultasse preventivamente ricevendone le direttive (“gli stessi fratelli Graviano mi dissero che per ogni necessità dell’organizzazione avrei dovuto fare riferimento a Mangano Antonino, che ad ogni effetto era.. li rappresentava per le scelte di ordinaria amministrazione, mentre per quelle più importanti doveva riferire e ricevere ordini in tal senso dai predetti fratelli”).

Ancora una volta dunque si ha una riaffermazione della intercambiabilità  e fungibilità dei due fratelli nella gestione della famiglia mafiosa e degli affari più delicati.

Anche secondo il collaboratore di giustizia Marchese Giuseppe, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, mandamento di Ciaculli, e nipote del capo famiglia Filippo Marchese, esaminato all’udienza del 18 aprile 2002, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano ebbero la reggenza della famiglia mafiosa di Brancaccio dopo l’arresto di Giuseppe Savoca fino a quel momento rappresentante della cosca:

 

PM: Senta, lei ha conosciuto Graviano Giuseppe e Graviano Filippo ?

MARCHESE: Si. … Guardi, Graviano Filippo sono i tre fratelli che fanno parte della famiglia di Brancaccio, alchè sono stati affiliati alla famiglia di Brancaccio dopo la morte del padre Michele Graviano, sono stati combinati da Giuseppe Savoca attuale era all’epoca rappresentante della famiglia di Brancaccio, e dopo l’affi..  diciamo dopo la morte del padre sono stati diciamo combinati nella famiglia dei Ciaculli. Io, se non vado errato, mi sono stati presentati nella tenuta di Pino Abbate da Roccella, tutti e tre i fratelli perché erano giovanissimi,…

…Si abbiamo Giuseppe e Filippo e poi praticamente dopo l’arresto di Savoca Giuseppe hanno subentrato loro come diciamo reggenza come sostituzione a Pino Savoca nella famiglia ed anche Giuseppe Graviano come sostituzione anche a Filippo Graviano (incomprensibile) la famiglia di Brancaccio in quanto era stato arrestato.

PM: Lei ha parlato di tre fratelli quale era il terzo  perché abbiamo parlato di Giuseppe io le ho chiesto di Giuseppe e Filippo.

MARCHESE: Si, l’altro fratello è Benedetto Graviano.

PM: Senta aveva un soprannome e se era a sua conoscenza Graviano Giuseppe e Graviano Filippo se avevano un soprannome.

MARCHESE: Giuseppe gli dicono u martiddruzzu  e Filippo Fifetto.

 

Il Marchese, tratto in arresto  nel gennaio del 1982, ma la cui fonte di conoscenza in riferimento alle successive attività mafiose a Brancaccio era costituita dal di lui cugino Giovanni Drago,  già componente di quel gruppo di fuoco , che lo aggiornava costantemente durante la sua detenzione, ha altresì precisato di avere saputo del ruolo assunto da Mangano Antonino e  Spatuzza Gaspare in seno a quella famiglia mafiosa (“…Spatuzza Gaspare diciamo quello che ho appreso faceva parte della famiglia di Brancaccio era molto vicino a loro e dopo..  Nino Mangano mi sembra che, se non vado errato, era la persona…  Dovrebbe essere uomo d’onore della famiglia di Roccella. …

Spatuzza era molto vicino ai Graviano faceva parte, io cose che ho appreso io da Drago Giovanni mio cugino faceva parte del gruppo loro del gruppo dei Graviano… questo l’ho appreso successivamente in carcere”).

Tra i collaboratori escussi nel presente giudizio giova rammentare anche Cannella Tullio, arrestato nel 1995 per favoreggiamento personale nei confronti di Bagarella Leoluca, cognato di Riina  Salvatore ed esponente di rilievo di Cosa Nostra.

Il Cannella, esaminato all’udienza del 7 novembre 2002, ha avuto un rapporto di particolare vicinanza con il Bagarella grazie al quale era riuscito a sottrarsi alle pretese sempre più assillanti ed esose  dei fratelli Graviano dovute a questioni economiche.

Le sue conoscenze dunque scaturiscono direttamente dalla frequentazione e contiguità a personaggi posti ai vertici del sodalizio mafioso.

Anche il Cannella dunque ha confermato che dalla fine del 1985 i fratelli Graviano erano i capi della famiglia mafiosa che “orbitava a Brancaccio e Ciaculli”  ed avevano esteso la loro influenza  mafiosa anche sulla vita politica del quartiere non occupandosi soltanto di estorsioni e omicidi:

 

CANNELLA: Io parlo di Giuseppe Graviano, Benedetto Graviano e Filippo Graviano. Erano .. perché naturalmente loro stessi non lo nascondevano ed erano loro stessi a manifestarsi tali, erano i capi famiglia della famiglia mafiosa appunto che orbitava a Brancaccio, Ciaculli e poi in effetti godevano di grandi appoggi o per lo meno esercitavano la loro influenza mafiosa su tutto il territorio di Palermo ed anche nella provincia di Palermo perché erano considerati delle persone molto spietate e dei killer pericolosi.

PM: A che periodo a quali anni si riferisce quando parla dei fratelli Giuseppe, Filippo e Benedetto Graviano nei termini in cui ha parlato ?

CANNELLA: Io mi riferisco dalla fine del 1985, epoca in cui ho avuto la sfortuna di conoscerli tramite il collaboratore di giustizia Giovanni Drago che è stato il mio primo estortore e la prima persona che mi ha sempre minacciato.

Pm: Senta quali erano le attività nell’ambito del territorio di Brancaccio alle quali, per così dire, soprintendevano i fratelli Graviano ?

CANNELLA: Per quello che mi risulta e per quello che ho potuto avere io come esperienza personale io ero obbligato ad esempio a prendere alcuni materiali in ditte vicine ai fratelli Graviano ad esempio alla Palermitana Blocchetti e così via di seguito.

Poi i fratelli Graviano avevano una grande influenza a Brancaccio anche nel settore della vita politica, inoltre spesso e volentieri i fratelli Graviano, come io del resto avevo potuto appurare personalmente, erano dediti ad estorsioni, minacce e cose del genere.

PM: Oltre i fratelli Graviano dei quali ha parlato Giuseppe, Filippo e Benedetto, …  chi aveva dominio sul territorio, potere di controllo sul territorio di Brancaccio ? … Lei ha parlato dell’85..

 

Il Cannella ha inoltre confermato che uno dei collaboratori più stretti dei fratelli Graviano era l’odierno imputato Mangano Antonino il quale aveva assunto la reggenza del mandamento dopo il loro arresto,  operando secondo le direttive comunque provenienti dal carcere, e che tra i killer fidati alle dipendenze dei Graviano vi era l’altro odierno imputato Gaspare Spatuzza:

 

CANNELLA:  …Poi dopo l’arresto di Giuseppe Graviano e di Filippo Graviano, credo nel 1994,  io cominciai ad avere delle pressioni per il pagamento di alcune somme di denaro e la richiesta di intestare loro degli appartamenti da parte di Nino Mangano però insomma in maniera un pochettino  più, come dire, educata tra virgolette.

PM: Senta lei ha conosciuto Spatuzza Gaspare ?

CANNELLA: L’ho conosciuto di vista  Spatuzza Gaspare, non ho mai avuto alcun rapporto con lui, so che comunque era persona legata ai fratelli Graviano e, soprattutto, di Spatuzza Gaspare come killer me ne parlò il mio amico signor Antonio Calvaruso.

……

PM: E Mangano Antonino ?

CANNELLA: Si, l’ho conosciuto Mangano Antonino, ripeto perché avevo appreso che.. da Calvaruso che questo Mangano Antonino insomma doveva era la persona alla quale i fratelli Graviano in carcere si riferivano per il disbrigo di alcune loro .. chiamiamole di loro affari e quindi l’ho conosciuto solo in occasione che mi ha chiesto delle somme di denaro e si era interessato perché mi era stato imposto nella gestione del villaggio Euromare, che io avevo realizzato, mi era stato imposto dai fratelli Graviano un certo Giacalone Michele nella gestione di questo villaggio e quindi di fatto io ho ceduto la gestione a questo Giacalone, perdendo gli utili a decorrere dal 1992 in poi e quindi poi io con Nino Mangano mi sono.. ho avuto detto che dovevo continuare a farlo gestire a questo signore, ma a quel punto io dissi che non avevo come fare per potere pagare, quindi solo per questo ho conosciuto Nino Mangano, so che si frequentava con Bagarella, però non so dire personalmente non mi risulta altro di Nino Mangano non so se lo stesso faceva estorsioni, se lo stesso era killer,  io non so niente perché non mi risulta niente personalmente.

 

Il ruolo apicale dei due fratelli Graviano per tutto ciò che accadeva nel quartiere di Brancaccio era circostanza assolutamente nota ed all’interno del sodalizio mafioso ne sono a conoscenza anche coloro che,  come Ciaramitaro Giovanni e Trombetta Agostino, altro non erano che manovalanza destinata esclusivamente alla commissione di attentati, minacce e richieste estorsive.

Ciramitaro Giovanni (udienza del 23 gennaio 2003), affiliato a Cosa Nostra proprio nel 1993 nella famiglia mafiosa di Brancaccio, ha confessato di essere stato impiegato, fino al giorno del suo arresto avvenuto tre anni dopo (il 23 febbraio 1996), per rubare autovetture da utilizzare per la commissione di omicidi e per eseguire attentati e danneggiamenti per fini estorsivi.

Egli ha confermato che la famiglia di Brancaccio, affidata a Mangano Antonino, precedentemente era capeggiata da Graviano Giuseppe pur precisando di non avere mai conosciuto né lui, né il fratello Filippo.

Non deve tuttavia trascurarsi di considerare che proprio il livello cui si collocava il Ciaramitaro, dedito a furti e danneggiamenti, lo escludeva da contatti e conoscenze di rilievo in seno all’organizzazione, circostanza confermata dal fatto che lui riceveva ordini operativi dal solo Giuliano Francesco e mediante bigliettini (i cd. “pizzini”) nei quali risultava annotato il nome del commerciante da intimidire di volta in volta bruciandogli il negozio o facendogli una telefonata estorsiva:

 

PM: Signor Ciaramitaro le ho chiesto, quindi,ha fatto parte di “Cosa Nostra” ?

CIARAMITARO: Si. …Ah… famiglia di Brancaccio, partendo dal 1993.

PM: E quale ruolo aveva in seno alla famiglia che ha menzionato ?

CIARAMITARO: Eh, io avevo il compito di incendiare i negozi, i furti di macchina, rapina, omicidio. Un po’ di tutto.

……

PM: Senta, nel ’93, a capo della famiglia di Brancaccio chi c’era ?

CIARAMITARO: Nino Mangano.

PM: Oh. E precedentemente a loro ?

CIARAMITARO:  Precedenti……Ci stavano i Graviano.

PM: Che intende dire…

CIARAMITARO: Stava Giuseppe Graviano.

PM: …Che intende dire quando dice…i Graviano ?

…PRESIDENTE: Ha detto i Graviano, poi Giuseppe Graviano. Vuol chiarire questo punto ? Quindi prima di Nino Mangano, chi è che era capo famiglia a Brancaccio ?

CIARAMITARO: Giuseppe Graviano.

PM: Lei Filippo Graviano l’ha conosciuto ?

CIARAMITARO: No.

PM: Senta, lei quando compiva questi incendi a negozi, nel periodo in cui era capo Giuseppe Graviano e poi Mangano, riceveva disposizione in tal senso ? Ordini di incendiare quel dato negozio da chi ?

CIARAMITARO: Inso… a me mi… mi dava ordini… mi portava dei bigliettini scritti Francesco Giuliano, dove ci stavano scritti, nei bigliettini, a chi fare telefonate, a chi danneggiare il negozio. Cioè a secondo quello che ci stava scritto mette…

……

AVV. GIACOBBE: …Lei ha parlato di Giuseppe Graviano.

CIARAMITARO: Si.

AVV. GIACOBBE: Ha detto di averlo conosciuto ?

CIARAMITARO: No.

AVV. GIACOBBE: Quindi non lo conosce lei ?

CIARAMITARO: No.

 

Il Ciaramitaro, pur al livello al quale operava, era a conoscenza del fatto che i due fratelli Graviano erano sostanzialmente fungibili nella gestione degli affari criminali del quartiere:

 

PRESIDENTE: Ecco, che significa quando comandavano ? Lei fino ad ora ha parlato che Giuseppe Graviano…che era il capo famiglia. Filippo che ruolo aveva, se ne aveva ? E se qualcuno… gliel’ha detto.

CIARAMITARO: … Mah, io m’intendo quando co… quando…quando erano liberi m’intendo io. E gestivano direttamente loro.

PRESIDENTE: Perché dice gestivano loro ? Lei ha parlato di Giuseppe Graviano come capo della famiglia. Filippo Che c’entra ?

CIARAMITARO: Eh, era il fratello.

PRESIDENTE: E va beh, questo che significa ? Dico, a lei che…

CIARAMITARO: Cioè non è che… non è che comandava… cioè non è che aveva gli stessi comandi di Giuseppe, però comandava pure. Erano fratelli Giuseppe.

PRESIDENTE: Perché lei dice comandava…

CIARAMITARO: Se l’aveva curato ( VOCE SOVRAPPOSTA)

PRESIDENTE: …Pure, che cosa le risulta che coman… lei dice: “Comandava pure, non aveva lo stesso ruolo, ma comanda…

CIARAMITARO: E dato di… dato delle vicende che raccontavano Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, e altri componenti.

PRESIDENTE: Che cosa raccontavano ?

CIARAMITARO: Eh, il fatto che si comportavano bene . Se uno aveva bisogno di soldi glielo diceva, sia che a Filippo che a Giuseppe, loro problemi economi…loro gli davano quello che gli servivano, mentre che……Nino Mangano questo……non lo faceva.

PRESIDENTE: Questo l’ha già detto. Il Tribunale vuole sapere lei ha detto comandavano. “Filippo-dice – non era come Giuseppe il capo, ma anche lui comandava, perché era il fratello”. Dico, da che cosa ca…ha… ha capito lei che Filippo comandava pure ? E che si… in che termini comandava ? Per sua conoscenza.

CIARAMITARO: Cioè comandare io m’intendo se… poi se lui pigliava ordini da suo fratello questo io non lo posso sapere. Tipo se Francesco Giuliano aveva bisogno d’una notizia, se parlava pure con Filippo era pure va bene. Poi se Filippo parlava cu’ fratello, questo no…no…non m’è stato specificato. E poi non è che io approfondivo i discorsi quando si parlava. Ascoltavo e basta.

 

Allo stesso livello operativo e criminale del Ciaramitaro si collocava anche Trombetta Agostino il quale, esaminato all’udienza del 16 maggio 2002, ha precisato di avere agito nell’interesse della famiglia mafiosa di Brancaccio dai primi anni ’90 fino al suo arresto (aprile 1996) dedicandosi prevalentemente a “procurare macchine rubate, macchine, motori, bruciare, fare estorsioni, bruciare negozi e queste cose, più rapine per la famiglia”

Il Trombetta ha in particolare confermato che ai vertici della famiglia mafiosa di Brancaccio vi erano in quel periodo i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano per quanto appreso da Gaspare Spatuzza alle cui dirette dipendenze egli solitamente agiva, ed ha precisato che dopo l’arresto dei suddetti Graviano – che comunque continuavano a comandare anche dal carcere – gli ordini venivano dati da Mangano Antonino e dallo Spatuzza che si occupavano di “organizzare” ciò  che esso Trombetta e gli altri componenti della famiglia dovevano quotidianamente fare:

 

PM: Senta Trombetta, lei ha fatto parte di Cosa Nostra ?

TROMBETTA: Si. …Io facevo parte della famiglia di Brancaccio, di Gaspare Spatuzza, fratelli Graviano, Giuliano Francesco e di altre persone che non mi vengono il nome, (INCOMPORENSIBILE)  Pietro.

PM: Lei aveva un ruolo particolare all’interno della famiglia di Brancaccio ?

TROMBETTA: Si, io gli dovevo procurare macchine rubate, macchine, motori, bruciare, fare estorsioni, bruciare negozi e queste cose, più rapine per la famiglia.

PM: Senta, da che periodo a che periodo ha fatto parte di Cosa Nostra all’interno della famiglia di Brancaccio ?

TROMBETTA: Praticamente da, io ho conosciuto Gaspare Spatuzza dall’87, io ho cominciato alla famiglia nel ’90, l’anno ’90…89 – 90.

PM: Quando è uscito fuori da Cosa Nostra, quando ha cessato di farne parte ?

…TROMBETTA: Io nel ’96, il giorno che ho collaborato.

PM: Quando è stato arrestato lei ?

TROMBETTA: Il 14 aprile del ’96.

PM: Senta, in questo periodo, il periodo quindi in cui lei fa parte della famiglia di Brancaccio, chi era a capo di questa famiglia ? Quindi dal ’90 al ’96.

TROMBETTA: Io tramite Gaspare Spatuzza sapevo che erano i fratelli Graviano, Giusepe e Filippo. Nino Mangano, Mangano di Brancaccio. Questi sapevo le persone.

PM: Quindi non vi era un capo ?

TROMBETTA: Il capo per me rappresentavano i fratelli Graviano, Giuseppe Graviano.

PM: Senta, lei ha detto per me, io le chiedo, qualcuno, lei come sapeva questo ruolo dei fratelli Graviano del quale ha parlato finora ?

TROMBETTA: L’ho detto, tramite Gaspare Spatuzza.

……

PM: Cosa le disse Gaspare Spatuzza ? Prego.

TROMBETTA: Praticamente io avevo una, dovevo aprire un autolavaggio nella zona dello Sperone dove abitavo, e così dovevo fare sapere alle persone che intenzione avevo io di aprire questo locale. Ho parlato con Gaspare, ci ho detto (INCOMPRENSIBILE) parlare io iri avanti perché dato che c’erano attività che erano vicino alla famiglia, se io facevo disturbo a qualcheduno. Dice no, non ti preoccupare che parliamo con Filippo, Filippo e Giuseppe Graviano, dice che sono loro quelli che comandano la famiglia. Punto e basta, cos’ ho capito.

……

PM: Senta, lei ha parlato di Gaspare Spatuzza. Chi è Gaspare Spatuzza ?

TROMBETTA: Gaspare Spatuzza era, faceva parte della famiglia di Brancaccio che era vicino ai fratelli Graviano che dopo l’arresto dei fratelli Graviano comandava Nino Mangano e Gaspare Spatuzza. Praticamente cioè organizzava a noi quello che dovevamo fare giornalmente.

……

AVV. TRINCERI: Signor Trombetta, lei ha detto che ha fatto parte di Cosa Nostra dal ’90 al ’96, chi è che comandava a Brancaccio ?

TROMBETTA: Come chi comandava ? I fratelli Graviano, dopo l’arresto dei fratelli Graviano era Nino Mangano e Gaspare Spatuzza. …Stavo ripetendo quello che ho ripetuto poco fa, che l’arresto dei fratelli dei Graviano era Nino Mangano e Gaspare Spatuzza, però per me risultavano sempre i fratelli Graviano pure che erano in galera.

 

La rilevanza del contributo di conoscenza offerto dal Trombetta, al di là della ulteriore ennesima conferma del ruolo apicale assunto in seno alla famiglia mafiosa dai fratelli Graviano, dal Mangano e dallo Spatuzza, ruolo già individuato grazie alla molteplice e concorde indicazione degli altri collaboratori escussi in dibattimento, attiene specificamente alla posizione processuale dell’altro odierno imputato Cascino Santo Carlo, già accusato da Grigoli  Salvatore come uno dei soggetti autori del fatto delittuoso per cui oggi è processo ancorché con ruolo di accompagnatore di Federico Vito che si allontanò con il primo dai luoghi a bordo di un ciclomotore subito dopo che il Federico stesso, il Grigoli e lo Spatuzza avevano appiccato il fuoco alle porte delle tre abitazioni.

Orbene, si è già evidenziato che il Grigoli ha indicato come suo complice nella commissione del reato un soggetto quale Cascino Santo Carlo che il Trombetta indica proprio come la persona con la quale egli compiva quasi quotidianamente attentati incendiari solitamente a fine estorsivo e proprio su incarico di Spatuzza Gaspare, altro soggetto chiamato in correità dal Grigoli in relazione all’attentato per cui  è processo.

E non può ritenersi un caso se il Cascino viene indicato dal Trombetta come persona particolarmente vicina allo Spatuzza del quale, oltre che eseguire gli ordini, curava anche la latitanza, in quanto rende ancor più credibile la tesi di accusa secondo cui per l’esecuzione della “delicata” operazione dell’intimidazione da compiere ai danni delle tre persone vicine a Padre Puglisi, lo Spatuzza, organizzatore dell’azione criminosa per incarico dei Graviano, avesse scelto tra i tre complici proprio una persona come il Cascino  che godeva della sua fiducia al punto di affidarsi a lui durante la latitanza:

 

PM: …ha conosciuto una persona di nome Cascino Carlo nato a Palermo il 23…

TROMBETTA: Si. Era il ragazzo che era vicino a Gaspare Spatuzza, che con me faceva estorsioni, bruciava negozi con me. E dopo gli curava pure la latitanza a Gaspare, l’accompagnava, contatti con la famiglia.

PM: E per conto,visto che ha nominato Gaspare Spatuzza, le risulta che per conto, per ordine di Gaspare Spatuzza abbia commesso attività, atti illeciti, azioni illecite il Cascino Carlo ?

TROMBETTA: Questo non glielo so dire… quello che faceva illecito non glielo so dire, quello che faceva illecito bruciava negozi con me, dopo non so se dopo, dietro le mie spalle faceva altre cose.

PM: Bruciava negozi a quali fini ? Perché bruciava negozi ?

TROMBETTA: Alla fine per pagare il pizzo.

PM: Ricorda qualche episodio in particolare di incendio ai danni di qualche negozio ?

TROMBETTA: Abbiamo bruciato un negozio io, Ciaramitaro Giovanni detto u baruni, abbiamo bruciato un fruttivendolo perché si diceva che era confidente, invece è servito il negozio al fratello di Salvatore Grigoli. … Io, Ciaramitaro Giovanni e Cascino detto il barone.

……

PM: Ci sono stati altri episodi incendiari ai quali ha partecipato lei insieme al Cascino ?

TROMBETTA: Mi ricordo solo questo, in quella situazione Cascino si è bruciato un po’ il corpo, la faccia e così l’abbiamo messo da parte.

PM: Senta Trombetta, il 9 gennaio ’98 lei ha dichiarato: …

……”Il Cascino Carlo era vicino a Spatuzza Gaspare e ha in più occasioni posto in essere azioni incendiarie ed intimidatorie di commercianti e altri nel quartiere di Brancaccio, Corso dei Mille, via Oreto e via Messina Marine. Ricordo a proposito l’incendio ai danni di un esercizio commerciale di vendita al dettaglio di frutta e verdura sito in Palermo all’incrocio tra la via Ventisette Maggio e Corso dei Mille partecipato da Cascino, Ciaramitaro Giovanni. Inoltre incendiammo con copertoni di auto usate le gelateria Pino sita in Corso dei Mille nei pressi della stazione centrale, nella locale via Oreto Nuova incendiammo un’agenzia di trasporti a nome Tarantino e in questa occasione ci cooperavano Romeo Pietro e Giuliano Francesco detto Olivetti”.

PRESIDENTE: Allora, Trombetta, quindi questi altri due episodi, questo dell’agenzia di trasporti e questo della gelateria li conferma ?

TROMBETTA: Si, li confermo.

PRESIDENTE: E in tutti e due gli episodi c’era pure Cascino ?

TROMBETTA: Non mi ricordo bene.

PRESIDENTE: Quindi lei se lo ricorda con certezza per quanto riguarda il fruttivendolo.

TROMBETTA: Esatto, perché c’è successo l’occasione… che in quel negozio si è bruciato la faccia.

 

È significativo peraltro che l’accusa del Trombetta nei confronti di Cascino Santo Carlo, indicato come soggetto vicino allo Spatuzza e dedito alla commissione proprio di attentati incendiari (tanto da restare bruciato al viso durante la commissione di uno di tali delitti), faccia riferimento esattamente al periodo nel quale (giugno 1993) venne compiuto l’attentato incendiario ai danni di Martinez, Guida e Romano:

 

PRESIDENTE: E a quell’epoca, cioè nel periodo prima dell’omicidio di Padre Puglisi già facevate attività delittuose insieme ?

TROMBETTA: Si, praticamente custodivamo, sarebbe custodire a Gaspare, guardargli le spalle. Aiutarlo praticamente.

 

La precisa accusa formulata dal Trombetta nei confronti dell’odierno imputato trova peraltro puntuale conferma nelle dichiarazioni di Ciaramitaro Giovanni anch’egli indicato dal primo dal primo come uno dei soggetti, unitamente al Cascino, dediti per conto della famiglia mafiosa di Brancaccio alla commissione di attentati incendiari proprio in quel periodo in cui furono bruciate le porte d’ingresso delle tre abitazioni di via Azolino Hazon:

 

PM: Senta, ha conosciuto Cascino Santo Carlo ?

CIARAMITARO: Si…era… l’ho conosciuto tramite Francesco Giuliano e ha fatto diversi…cioè faceva diversi incendi con me. Danneggiamenti ai negozi, telefonate, tutte queste cose.

PM: In che periodo ?

CIARAMITARO: E periodo no… ‘93/’94 così.

……

PM: Senta, nel ’93 invece, nel periodo… in questo periodo, ha compiuto atti incendiari con… con altri delle persone menzionate ?…Delle persone che lei ha menzionato fin’ora nel… io le ho chiesto di Federico Vito e Cascino.

CIARAMITARO: No, con lui mai. Co’ Cascino si.

PM: … E in quel periodo le disposizioni con chi veniva… da chi venivano date, in quel…

…CIARAMITARO: Sempre da Francesco Giuliano.

PRESIDENTE: Parliamo ’93. La domanda del PM è ’93.

..PM: Ne ricorda qualcuno ?

CIARAMITARO: Periodo… no, non mi ricordo.

 

Preme rilevare che Ciaramitaro  ha sostanzialmente affermato di avere commesso con Cascino Santo Carlo una serie indeterminata di attentati incendiari ai danni dei commercianti di via Messina Marine e Corso dei Mille con cadenza pressocchè quotidiana proprio nell’estate del 1993, ovvero nell’epoca di commissione dei fatti oggetto del presente processo, a conferma, dunque, del settore di attività criminose cui l’odierno imputato era dedito in quel periodo per conto della famiglia mafiosa di Brancaccio:

 

PRESIDENTE: Ora io desidero sapere, in concreto, nel periodo del ’93 quali sono questi fatti che ricorda di avere commesso con Cascino Santo Carlo.

CIARAMITARO: ’93 io avevo uscito subito del carcere. Non ricordo se era giugno o luglio, comunque a metà anno del ’93.

Dell’estate, diciamo, in poi. Nel novanta… e m’è stato presentato da Giuliano Francesco di… quasi una sera e una sera sempre andavamo a incendiare alcuni negozi co’ Carlo Cascino. Sempre che ci dava… usando di un bigliettino Francesco Giuliano. ……

PRESIDENTE: Lei ha detto le davano dei bigliettini. Erano scritti lei lo sa da chi ?

CIARAMITARO: Da…  penso da Francesco Giuliano. Si, perché li faceva piccoli, piccoli, piccoli, scritti piccoli, piccoli…cioè in modo che se avendo stu bigliettino ci fermava una pattuglia di controllo, ci trovava stu bigliettino, diciamo lo faceva talmente piccolo che lo potevamo mangiare, dovevamo buttare… cioè … ci diceva sempre: “Se vi fermano non vi fate trovare co’ stu bigliettino se no so guai”. Si, che ci sono scritti i numeri di telefono di negozianti oppure i… il nominativo de… del negoziante. Quelli che erano segnati da loro che dovevano essere danneggiati.

PRESIDENTE: Senta, io volevo capire questo: lei ha detto “Penso che erano scritti da Francesco Giuliano”.  Ma lei lo vedeva a Francesco Giuliano che scriveva questi biglietti o …

CIARAMITARO: Si… tutti i giorni. Si… alcuni si. Alcune volte scriveva davanti a me, si.

PRESIDENTE:  …Lei ha detto quindi: “Esco dal carcere e Francesco Giuliano mi presenta a questo Cascino e la sera andavamo a fa… a fare incendi, a fare telefonate. Ricorda… in particolare, qualcuno di questi fatti che ha fatto con Cascino ?

CIARAMITARO: E cu’ Cascino ne’… tutto quello da Corso dei Mille i bruciavu quasi tutti co’ Cascino. Ci stava Cascino. E via Messina Marine erano quasi tutti, quasi tutti io li ho bruciati i… i negozi. Con quale persone, no soltanto con Cascino. Spesso ca’ veniva il Romeo, veniva Trombetta, veniva lo stesso Giuliano, qualche volta…… genti veniva.. erano tanti. Non è che eramo… ero…ero (INCOMPRENSIBILE) io e il Cascino.

PRESIDENTE: Ciaramitaro, io le sto chiedendo quelli con Cascino. Quindi parliamo dopo giugno/luglio del ’93, perché lei dice: “L’ho conosciuto solo dopo che sono stato scarcerato. Giugno/luglio del ‘93”. Esatto ?

CIARAMITARO: Si.

PRESIDENTE: Quindi dopo giugno/luglio del ’93…

CIARAMITARO: Si.

PRESIDENTE: …Ci sono stati degli incendi in… Corso dei Mille.

CIARAMITARO: Una serie di… di incendi, si.

PRESIDENTE: Quindi questi li ha commessi con Cascino ?

CIARAMITARO: Si. Cascino, Tombetta e altre persone.

PRESIDENTE: Si, ed altri. Dico, tra gli altri…

CIARAMITARO: No solo con Cascino.

PRESIDENTE: … Con Cascino. Un’altra…

CIARAMITARO: Ed altri si.

 

È appena il caso di evidenziare che le accuse del Trombetta e del Ciaramitaro nei confronti del Cascino Santo Carlo quale autore di attentati incendiari hanno trovato incontestabile ed irrevocabile riconoscimento in sede giudiziaria.

Il Cascino invero è stato condannato con sentenza ormai divenuta irrevocabile della Corte di Appello di Palermo del 27 luglio 2000, alla pena di anni 10 e mesi 5 di reclusione e lire 5.500.000 di multa perché ritenuto responsabile di vari reati  tra i quali proprio estorsioni e plurimi delitti di danneggiamento seguito da incendio commessi nel 1994 (cfr. certificato penale in atti da cui si evince anche una condanna definitiva per associazione mafiosa ed altro ad anni 9 di reclusione).

Quanto alle accuse formulate da Grigoli Salvatore nei confronti di Federico Vito, indicato come uno degli altri due esecutori materiali dell’attentato, giova ricordare che anche lui è stato condannato definitivamente all’ergastolo dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 9 novembre 2000 (irrevocabile il 15.7.2002) per il reato di concorso in omicidio pluriaggravato,  associazione mafiosa ed altro, nonché – con altra sentenza precedente della Corte di Appello di Palermo – per il delitto di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) commesso nel luglio del 1991 (cfr. certificato penale in atti).

Il Federico, oltre che dal Grigoli, la cui chiamata in correità assume particolare rilievo proprio per la diretta e personale partecipazione al fatto delittuoso per cui è processo,  viene indicato peraltro anche da ulteriori collaboranti escussi al dibattimento come soggetto assai vicino al sodalizio mafioso, “vicinanza” inoltre ormai confermata a livello giudiziario dalla menzionata sentenza irrevocabile di condanna per  416 bis c.p..

E così il Ciaramitaro, esaminato all’udienza del 23 gennaio 2003, ha confermato, ancorché a seguito di rituale contestazione del P.M., di conoscere di vista Federico Vito avendolo incontrato in una occasione nella quale questi era appena uscito dal carcere proprio perché condannato per avere “bruciato un negozio”.

Si rammenti a tal riguardo che il Federico ha effettivamente riportato una condanna definitiva perché ritenuto responsabile del reato di danneggiamento seguito da incendio commesso in Palermo il 13 luglio 1991 e dunque proprio in epoca anteriore a quella dei fatti delittuosi oggetto del presente processo, aventi non a caso modalità operative simili (incendio delle porte di tre abitazioni).

L’accusa del Grigoli dunque va a colpire un soggetto il quale, all’epoca del fatto per cui il collaborante lo accusa, era stato già arrestato (e sarà successivamente condannato) per un delitto della stessa specie di quello per cui il collaborante lo chiama in correità:

 

PM: Ha conosciuto Federico Vito ?

CIARAMITARO: Ma così,  di vista. …L’ho visto in… o uno o due volte in varie occasioni, così… mi sembra a Bolognetta, na’ villa di Francesco Giuliano o a Misilmeri. Cioè mi ricordo bene precisare. È tanto tempo.

PM: Ascolti, lei nelle dichiarazioni rese al PM il… l’8 gennaio ’98, ha dichiarato questo. La domanda è se ha mai conosciuto una persona a nome Federico Vito.  “Ho conosciuto un tale, che si chiamava così, in occasione di un incontro occasionale avvenuto in Palermo, nei locali in Corso dei Mille. Il Federico era appena uscito di prigione, dove aveva scontato una pena per il danneggiamento di un negozio che aveva bruciato. Il negozio, a quel che ricordo, si trovava nella via Messina Marine. Ricordo infatti che il Federico fu individuato…fu individua… mi lasci terminare… fu individuato perché si era recato a bruciare quel negozio con l’autovettura di sua proprietà. Questo aveva permesso agli inquirenti di risalire alla sua persona”.

CIARAMITARO: Si, mi ricordo. Si…si, si confermo. Si

………

AVV. GALATOLO: Senta, lei su contestazione…del PM ha riferito di un particolare relativo a Vito Federico  che in relazione a… a un periodo in cui lui era uscito di prigione dopo avere scontato una pena, eccetera, e di un danneggiamento ai questo negozio. Lei, questo particolare che ha riferito, da chi l’ha appreso e come lo ha appreso ?

CIARAMITARO: Da Francesco Giuliano e da Salvatore Giuliano. …Da tutti e due.

 

Ed il Ciaramitaro ha altresì rammentato di avere visto Federico Vito in occasione di una riunione tenutasi in un villino a Misilmeri alla quale avevano partecipato vari esponenti della famiglia mafiosa di Brancaccio tra i quali Francesco Giuliano che aveva chiesto al Federico se egli ancora si occupasse di riscuotere il “pizzo”:

 

PM: …L’8 gennaio ’98 lei ha dichiarato questo:

………Nell’estate del ’95, allorché eravamo tutti latitanti – lei ha detto – ci incontravamo…Spatuzza, Barranca, Lo Nigro , Romeo, Giuliano, Faia ed altri, presso un villino in Misilmeri per determinare il da farsi”.

……”Ad alcune di queste riunioni partecipò anche il Federico Vito. In quella occasione il Giuliano Francesco, inteso “Olivetti”, chiese al Federico se continuasse ad incassare danaro dai negozianti che aveva in carico per il pizzo. Il Federico Vito rispose che in effetti egli incassava ancora delle somme. Il Giuliano disse allora che quelle somme dovevano essere date personalmente a lui, cioè al Giuliano, per distribuirli all’organizzazione ed a tutti i suoi componenti”.

…CIARAMITARO: Si, si confermo.

 

Si conferma dunque la vicinanza operativa e criminale del Federico alla cosca mafiosa di Brancaccio proprio all’epoca dei fatti per cui è processo, vicinanza che ha trovato infine riscontro incontestabile in sede giudiziaria nella condanna irrevocabile patita dal Federico anche per la comprovata partecipazione all’associazione mafiosa (oltre che per omicidio ed altro).

Del Federico e dei suoi rapporti con la famiglia mafiosa di Brancaccio ha parlato anche Trombetta Agostino il quale, esaminato il 16 maggio 2002, ha riferito di avere visto l’imputato parlare in una occasione con Gaspare Spatuzza (del quale il collaborante all’epoca curava la latitanza) e di avere poi da questi appreso che il suddetto Federico era vicino alla cosca:

 

PRESIDENTE: …Dice allora a Federico Vito comunque lo ha conosciuto ?

TROMBETTA: Si.

PRESIDENTE: Il figlio di Giuseppe paralitico, parliamo di questo, del giovane per capirci.

TROMBETTA: Esatto, si.

……

PM: Si, il Federico Vito che lei ha conosciuto. … Il giovane faceva parte della famiglia di Brancaccio ?

TROMBETTA: Si. Presidente è successo che in via Conte Federico mi trovavo un giorno io che ci facevo di autista a Gaspare Spatuzza e si sono incontrati in via Conte Federico il figlio ru  zu Pinuzzu e Gaspare. Si hanno parlato cinque minuti, è salito in macchina e ce ne siamo andati. Ci ho detto “ma cuè questo”, praticamente ci ho detto se faceva, “no, chistu” dice,  “è uno che appartiene a mia madre” che faceva parte della famiglia, punto e basta.

……

PRESIDENTE: Lei ha detto che lo ha conosciuto Federico Vito e ha dato una data così, approssimativa, credo che abbia detto il ’94. Lei lo ha conosciuto…

TROMBETTA: Come periodi ’94, ’95.

PRESIDENTE: Si, io le stavo chiedendo, ma lei lo ha conosciuto in occasione di quell’incontro con Spatuzza quando lei faceva da autista, lui si è fermato, hanno parlato e poi lei gli chiese ma questo chi è ?

TROMBETTA: Si, in quell’occasione ho saputo che facevano parte della famiglia nostra…lui.  Però io già lo vedevo un po’ prima tramite l’amicizia con suo padre.

……

PRESIDENTE: Senta, comunque …… all’epoca dell’omicidio di Padre Puglisi lei era libero, è giusto ?

TROMBETTA: Si.

PRESIDENTE: Lei lo conosceva già Federico Vito ?

TROMBETTA: Si.

PRESIDENTE: Però non sapeva che era vicino, a quell’epoca non le era stato detto niente su cosa faceva Federico Vito ?

TROMBETTA: Si, certo.

 

Anche Marchese Giuseppe infine (udienza del 18 aprile 2002) ha parlato della vicinanza di Federico Vito al sodalizio mafioso (“si sapeva all’interno di cosa nostra che Vito era vicino a loro”) precisando anche che l’odierno imputato è nipote di Federico Domenico, costruttore già in società con il noto killer di Cosa Nostra  Pino Greco detto “Scarpuzzedda”, all’epoca capo mandamento di Ciaculli, poi ucciso:

 

PM: Senta lei ha conosciuto Federico Vito nato a Palermo il 19 aprile del ’60 ?

MARCHESE: Federico Vito se non vado errato è nipote di Mimmo Federico altro costruttore di Corso dei Mille che era socio di Pino Greco u scarpuzzedda. … Mi sembra che era figlio di Federico u paralitico.

PM: Era uomo d’onore ?

MARCHESE: Mi sembra che Pino.. no guarda io no per quanto riguarda uomo d’onore però era molto vicino all’organizzazione come Pietro Salerno, come anche la nostra famiglia di Corso dei Mille e i Graviano pure, però se era uomo d’onore e l’hanno combinato questo non mi viene...

PM: Quindi lei ha detto se non ricordo male; quindi la sua risposta non è in termini di certezza quanto lei ha riferito ?

MARCHESE: Si, no, no se Vito Federico perché Federichi ce ne stanno tanti, se Vito Federico è quello che penso io era vicino alle famiglie di Corso dei Mille ed anche quelle di Brancaccio, se è Vito Federico che diciamo è il padre era quello Peppino Federico che era sulla sedia a rotelle è quello che praticamente era anche vicino all’organizzazione.

PM: Senta, il 27 gennaio del ’98 al PM lei ha dichiarato…

MARCHESE: Mi sembra che è stato anche in carcere…nel terzo braccio e in quel periodo mi ci trovavo anche io nell’’82 – ’83.

PM: Senta, lei il 27 gennaio del ’98 al PM ha dichiarato “conosco Federico Vito in quanto nipote di Mimmo Federico uomo molto vicino a cosa nostra”.

MARCHESE: Si. … No  si  è  stato  anche  un  periodo  che  è  stato  in  detenzione  in  carcere

all’ Ucciardone e stava nel terzo braccio insieme a me. …Mi sembra che erano.. mi sembra o era ’83 fine ’83 – ’84 così perché ero sceso a Palermo che avevo un processo.

……

Presidente: Senta, lei ha accennato al fatto che ha conosciuto questo Federico Vito nipote di Domenico il costruttore.. e figlio di Peppino, il padre a quanto pare era paralitico quello che ha detto..

MARCHESE: Si, si nelle sedie a rotelle.. Si all’epoca gli faceva l’autista Pietro (incomprensibile) altro uomo d’onore della famiglia di Ciaculli.

PRESIDENTE: Si. Lei ha detto anche che siete stati in carcere insieme in un periodo tra l’82 e l’83 e l’84, in carcere insieme nel senso che eravate nello stesso braccio al terzo braccio dell’Ucciardone.

MARCHESE: Si alla terza sezione dell’Ucciardone e preciso anche che non è l’82 ma sicuramente fine ’83 quando sono ritornato dal manicomio di Reggio Emilia.

PRESIDENTE: …lei ha anche aggiunto, questo Federico Vito era molto vicino all’organizzazione, ora io vorrei che lei ci chiarisse che significa molto vicino e soprattutto chi glielo ha detto, in quale occasione…

MARCHESE: Ma vicino in quanto a parte che lui conosceva tutti gli uomini d’onore, no come uomini d’onore ma gente di un certo spessore di un certo valore, gente diciamo importante, e in più lui che era spesso anche con Mimmo Federico che era vicino che si dedicava anche nell’attività dello zio, che lui sapeva che Mimmo u Federico era socio di Pino Greco all’epoca capo mandamento di Ciaculli, era socio con mio zio in diverse attività edilizie e conosceva.. si tratteneva spesso con Mario Presti Filippo altro uomo d’onore di Ciaculli, con diversi diciamo uomini d’onore che praticamente ci camminava insieme, affiliato è che uno se lo mette vicino per un domani per determinate situazioni che uno ha di bisogno, diciamo l’affiliazione inizia con il comportamento della persona su una persona se è affidabile, se un domani può, può commettere qualche cosa è una persona che possiamo stare tranquilli, diciamo l’affiliazione si inizia così, purtroppo è una persona che è nipote di Mimmo Federico a cui è vicino a cosa nostra diciamo questi sono..

 

In conclusione il complesso delle risultanze probatorie acquisite evidenzia incontestabilmente come la tesi immediatamente privilegiata di una causale dell’attentato incendiario per cui è processo da ricondurre alle attività delle tre parti offese all’interno del Comitato Intercondominiale della via Hazon e vie limitrofe ha trovato riscontro nella circostanziata confessione resa da uno degli esecutori materiali,  Grigoli Salvatore.

Si consideri che il Martinez già in sede di denuncia alla Polizia, sporta la mattina successiva al fatto, aveva con assoluta chiarezza evidenziato che l’attentato era da ricollegare alla sua appartenenza al Comitato (cfr. verbale di denuncia del 29 giugno 1993 alle ore 10,15  e C.N.R. in pari data della Questura di Palermo,  atti acquisiti all’udienza del 5 dicembre 2002).

Il Grigoli fin dalle prime ore successive all’avvio della sua collaborazione con l’A.G.  ha subito inquadrato la causale nel contesto della diffusa attività di intimidazione deliberata e posta in essere dalla famiglia mafiosa di Brancaccio ai danni di Padre Puglisi e dei suoi più stretti collaboratori  con il chiaro obiettivo di bloccare l’attività di sensibilizzazione  e promozione sociale e civile condotta dal prelato e dalle odierne parti offese, e che sarebbe culminata, solo qualche mese dopo il fatto delittuoso per cui è processo, commesso a fine giugno del 1993, con il barbaro ed efferato omicidio dell’inerme prelato,  deliberato dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e consumato il successivo 15 settembre proprio da Grigoli Salvatore in concorso tra gli altri con Mangano Antonino e Spatuzza Gaspare (tutti – tranne il collaborante – condannati all’ergastolo con sentenza irrevocabile), ovvero con le stesse persone chiamate in correità dal Grigoli per il fatto delittuoso oggetto dell’odierno processo.

Stessa causale, stessi mandanti ed organizzatori (i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Mangano Antonino), stessi esecutori materiali (Grigoli Salvatore e Spatuzza Gaspare), coadiuvati da Federico Vito e Cascino Santo Carlo.

Il complesso delle prove acquisite impone dunque di ritenere Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Cascino Santo Carlo, Federico Vito, Spatuzza Gaspare e Mangano Antonino penalmente responsabili del fatto delittuoso contestato avendo essi concorso nella commissione dell’attentato ai danni di Martinez Giuseppe, Guida Giuseppe e Romano Mario con le condotte già ampiamente esaminate ed evidenziate per ciascuno di loro sulla base delle circostanziate accuse formulate principalmente da Grigoli Salvatore, loro complice nell’azione delittuosa e reo confesso separatamente giudicato, dichiarazioni riscontrate nei termini già esposti da altri collaboratori di giustizia e risultanze giudiziarie.

A tutti gli imputati è stato contestato sia il reato di cui all’art. 423 che quello di cui all’art. 424 c.p., aggravati ex artt. 61 n.2 e 5 e 425 n. 2 c.p., ma deve subito rilevarsi che nei fatti così come ricostruiti e provati ad avviso del Collegio sono ravvisabili e giuridicamente configurabili gli estremi del delitto continuato e aggravato di danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 comma 1 c.p., in relazione al quale va tuttavia esclusa – per le ragioni che saranno appresso esposte – la circostanza aggravante contestata del nesso teleologico.

L’elemento di distinzione tra il delitto di cui all’art. 423 c.p. (incendio) e quello previsto dall’art. 424 c.p. (danneggiamento seguito da incendio) deve individuarsi nella volontà del soggetto attivo del reato che nella prima fattispecie agisce per provocare un incendio, nella seconda soltanto per danneggiare e l’incendio che ne sorge è una conseguenza, non voluta, casualmente riferibile (per colpa) alla sua azione o omissione .

Ne consegue che allorquando l’agente abbia compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare un incendio, e cioè un fuoco con caratteristiche di intensità e di diffusività tali da porre in pericolo la pubblica incolumità, dovrà rispondere – anche se per motivi indipendenti dalla sua volontà l’incendio poi non si sviluppa – del delitto di tentato incendio doloso (Cass. Sez. I sent. n. 5362 del 7/6/1997 – ud. 7/2/1997).

Il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) richiede invece quale elemento costitutivo il sorgere di un pericolo di incendio, sicchè non è ravvisabile il reato in questione, ma eventualmente il semplice danneggiamento, nell’ipotesi che il fuoco appiccato abbia caratteristiche tali, che da esso non possa sorgere detto pericolo.

In questo caso, ovvero nel caso in cui colui che, nell’appiccare il fuoco alla cosa altrui, al solo scopo di danneggiarla, raggiunge l’intento senza cagionare né un incendio né il pericolo di un incendio, sussiste il reato di danneggiamento previsto e punito dall’art. 635 c.p..

Se, per contro, detto pericolo sorge o se segue l’incendio, il delitto contro il patrimonio diventa più propriamente un delitto contro la pubblica incolumità e trovano applicazioni rispettivamente gli articoli 424 e 423 c.p. (Cass. Sez. III sent. n. 1731 del 26.11.98 – 12.2.99).

Sussiste il delitto di incendio (art.423) infine quando l’azione di appiccare il fuoco è finalizzata a cagionare l’evento con fiamme che per le loro caratteristiche e per la loro violenza tendano a propagarsi in modo da creare effettivo pericolo per la pubblica incolumità.

Orbene, non può revocarsi in dubbio che per le modalità dell’azione e per le conseguenze provocate la condotta degli imputati, sulla base delle stesse confessioni di Grigoli, fosse finalizzata non certo a sviluppare un incendio, bensì a danneggiare con il fuoco le porte, e quanto nelle immediate vicinanze delle stesse, degli appartamenti dei tre soggetti presi di mira con il chiaro intento di terrorizzarli per farli desistere dal loro impegno e costringerli ad abbandonare il quartiere.

Ma proprio le modalità con le quali essi hanno operato e le conseguenze che hanno prodotto – secondo quanto rilevato dalla p.g. e testimoniato dal Martinez, dal Guida e dal Romano – evidenzia oltre ogni dubbio che in conseguenza della loro azione è certamente sorto anche un concreto pericolo di incendio.

La differenza tra il reato di incendio di cui all’art. 423 c.p. e quello di danneggiamento seguito da incendio previsto dall’art. 424 c.p. sussiste nel fatto che nella prima fattispecie l’agente vuole che si sviluppi un incendio, mentre nella seconda vuole solo danneggiare con il fuoco.

L’art. 424 c.p. prevede quindi l’incendio come reato che esula dalla intenzione dell’agente e, nella struttura di detto reato, l’incendio o il pericolo d’incendio è solo condizione oggettiva di punibilità, come tale estranea al dolo.

Sono fattori idonei a configurare l’incendio di cui all’art. 424 comma 1 c.p. non solo le fiamme, ma anche tutti gli altri elementi che con le fiamme si pongono in rapporto di causa ed effetto, come il calore, il fumo, la mancanza di ossigeno, l’eventuale sprigionarsi di gas pericolosi dalle materie incendiate, in quanto, per effetto di tale conseguenze, si verifica ugualmente il pericolo per la pubblica incolumità – componente oggettiva della nozione giuridica di incendio – senza soluzione di continuità e senza interruzione del nesso causale oggettivo e materiale e che, pertanto, debbono essere attribuite all’incendio come una qualsiasi azione od omissione è attribuita materialmente al soggetto che la compie.

In particolare, poi, il reato di cui all’art. 424 comma 1 c.p. (danneggiamento seguito da incendio),  a differenza dell’ipotesi aggravata di cui al secondo comma, non richiede il verificarsi dell’incendio, ma anticipa la soglia della punibilità per motivi di politica criminale rinvenibili nell’intento di evitare che venga usato a scopo di danneggiamento un mezzo altamente insidioso quale il fuoco (cfr. Cass. Sez. I sent. n. 5251 del 6/5/1998 – ud. 14/1/1998: nella specie la Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito che avevano ritenuto la sussistenza di tale pericolo sia dal fatto che il fuoco era stato appiccato su autovetture poste in un garage condominiale, ubicato in luogo interrato, con vie di uscita anguste e forzate che favorivano la diffusione del fuoco, sia dalla circostanza che il fuoco, al momento del suo spegnimento, aveva già danneggiato il soffitto in muratura, con pericolo per l’incolumità delle persone che abitavano nel fabbricato).

Ne consegue che solo nell’ipotesi in cui l’agente, pur proponendosi di danneggiare la cosa altrui, tuttavia per i mezzi usati e per la vastità e le dimensioni del risultato raggiunto, ha realizzato un incendio di proporzioni tali da mettere in pericolo la pubblica incolumità (caratteristiche queste non ravvisate nel caso in esame), deve rispondere del delitto di incendio doloso e non già del meno grave reato di danneggiamento seguito da incendio.

L’ulteriore differenza tra i due reati è poi rappresentata dall’elemento soggettivo in quanto l’elemento psicologico del delitto di cui all’art. 423 c.p. consiste nel dolo generico (volontà di cagionare un incendio, inteso come combustione di non lievi proporzioni, che tenda ad espandersi e non possa facilmente essere contenuta e spenta) mentre il reato di cui all’art. 424 è caratterizzato dal dolo specifico (consistente nel voluto impiego del fuoco al solo scopo di danneggiare senza la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo di siffato evento).

Nel caso in esame va tenuto conto del fatto che al momento dell’intervento delle parti offese le fiamme erano già spente e le porte erano già bruciate (Martinez: “c’era la porta bruciata, lo zerbino, quello che era davanti la porta, bruciato, poi tutti i muri anneriti, le porte dell’inquilino dirimpetto tutte annerite”;  “Avv. Galatolo: … non c’era più fuoco nel momento in cui lei è arrivato ?  Guida: No, era già tutta bruciata”), salvo che per il Romano che dovette invece spegnere le fiamme con alcune secchiate d’acqua (“ho visto la porta che bruciava in una maniera, insomma subito mi sono spaventato però subito ho avuto la prontezza di andare in bagno. A quel tempo tra l’altro mancava anche l’acqua nel nostro quartiere, quindi avevamo diciamo nel bagno raccolto dell’acqua. Ho preso il secchio, insomma l’ho spento sto incendio”).

Ma che sia sorto effettivamente un pericolo di incendio lo si ricava dalla descrizione della scena fornita dal Martinez il quale ha fatto comprendere quali conseguenze anche più gravi potevano derivare dalla condotta degli imputati:

 

MARTINEZ: Dunque, aprii la porta e c’era la porta di ingresso che era bruciata, la parte bassa era addirittura bruciata fino a quasi in fondo, no ?, fino a questi, non a fare il buco, questo no. Ma per un bel po’ bruciata sino in fondo e completamente annerita fino a sopra, fino al tetto. Poi c’era lo zerbino completamente accartocciato, va bene, insomma aveva preso completamente fuoco, poi vi erano le porte degli ascensori completamente annerite, le porte dell’inquilino che sono due, dell’inquilino dirimpetto, completamente annerite e quelle che portano nella scala, insomma il tetto era tutto completamente annerito.

 

Se dunque per le concrete modalità operative non può ritenersi che gli imputati vollero appiccare un incendio è comunque dimostrato dalle loro stesse azioni e dalle conseguenze che ne derivarono come in ragione della loro condotta sorse indubbiamente il concreto pericolo di un incendio, ancorché come conseguenza non voluta dell’azione commessa (mirante ad una finalità esclusivamente intimidatoria), di guisa che è certamente ravvisabile il delitto continuato di cui all’art. 424 comma 1 c.p. con tutte le aggravanti contestate ex art 425 n. 2 c.p. (fatto commesso su edifici abitati), 61 n. 5  (fatto commesso in tempo di notte e dunque in circostanze di tempo e di luogo tali da ostacolare la pubblica e privata difesa) e 7  D.L. n. 152 del 1991 (finalità di favorire l’associazione mafiosa), ma con esclusione del nesso teleologico che peraltro non è neppure specificato nella formulazione del capo di imputazione.

Con riferimento alle ragioni che ispirarono la deliberazione del delitto ed alle finalità che gli agenti perseguirono – già ampiamente illustrate – sussiste indubbiamente anche la contestata circostanza aggravante di cui all’art. 7 D.L. n. 152 del 1991 che prevede un aumento di pena da un terzo alla metà per delitti, punibili con pena diversa dall’ergastolo, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero, come nel caso in esame, all’evidente fine di favorire l’associazione mafiosa ed agevolare le attività mafiose.

La “ratio” della disposizione di cui all’art. 7 del D.L. 152 del 1991 è quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando “metodi mafiosi” o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, e dunque essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che pongono in essere una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione propria delle organizzazioni della specie considerata (in tal senso Cass. Sez. VI sent. n. 582 del 19/2/1998 – 9/4/1998).

Giova poi evidenziare che secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. n.10 del 28 marzo – 27 aprile 2001, Pres. Vessia) la circostanza aggravante, prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991 n. 203, nelle due differenti forme dell’impiego del metodo mafioso nella commissione dei singoli reati e della finalità di agevolare, con il delitto posto in essere, l’attività dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, è configurabile anche con riferimento ai reati-fine commessi – come nel caso in esame – dagli stessi appartenenti al sodalizio criminoso (cfr. anche Cass. Sez. I sent. n. 5839 del 24/11/1998 – 26/3/1999; Cass. Sez. 1, 18 novembre 1998 n. 5711; Sez. VI  sent. n.3304 del 2/9/1997 – 18/9/1997;  Cass. Sez.  I sent. n. 5711 del 18/11/1998 – 4/3/1999 secondo cui “non sussiste incompatibilità tra la ritenuta appartenenza ad associazione mafiosa e l’aggravante di cui all’art. 7 del D.L. n. 152 del 1991, contestata relativamente ai reati-fine realizzati. E invero non v’è necessaria coincidenza che possa giustificare l’assorbimento dell’ambito di operatività di detta norma in quello dell’art. 416 bis cod. pen., perché da un lato anche il non associato a sodalizi criminosi può agire con metodi mafiosi o sfruttare comunque la situazione ambientale da tali sodalizi realizzata, dall’altro l’associato non necessariamente deve avvalersi della forza intimidatrice dell’organizzazione di appartenenza, neanche per realizzare reati-fine).

L’aggravante prevista dall’art. 7 è dunque applicabile ai singoli reati-fine commessi dal soggetto appartenente ad una associazione a delinquere di stampo mafioso ed è configurabile anche quando il delitto cui accede concorra con quello di cui all’art. 416 bis c.p..

Ed invero una cosa è partecipare ad un’associazione per delinquere e cosa diversa è commettere un reato, anche se rientrante nel programma associativo, avvalendosi del metodo mafioso o al fine di agevolare l’attività dell’associazione:  in tali ipotesi, infatti, la condotta mafiosa caratterizza il momento specifico della commissione del reato-fine, mentre nel reato associativo rappresenta una caratteristica permanente dell’azione criminosa (cfr. anche Cass. Sez. I , 13 giugno 1997 n. 4140, D’Amato e altri; Cass. Sez. I sent. 4117 del 1997 secondo cui “la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. n. 152 del 1991 è compatibile con la qualità di associato ad organizzazione criminale di stampo mafioso: in motivazione la S.C. ha suffragato il suo assunto sul rilievo che, da un lato, anche il non associato a sodalizi criminosi può agire “con metodi mafiosi” e, dall’altro, che l’associato no necessariamente deve valersi della forza intimidatrice derivante dal vincolo mafioso o agire per fini propri dell’associazione”).

Ritiene il Tribunale che gli imputati, tutti gravati da plurimi precedenti penali di rilevante gravità, tenuto conto dei criteri direttivi di cui all’art. 133 c.p., ed avuto riguardo in particolare  alla estrema gravità della condotta criminosa ascritta concretatasi nella deliberazione e partecipazione ad una azione delittuosa dal grave carattere intimidatorio ai danni di tre inermi cittadini colpevoli solo di essere impegnati nel sociale, azione criminosa riconducibile quale matrice alla più pericolosa e sanguinaria organizzazione mafiosa operante nel paese, vanno dunque condannati ad una pena che si stima congruo determinare in anni sei di reclusione ciascuno (pena base, per il fatto-reato commesso ai danni del Romano ritenuto il più grave, ex art. 424 comma 1 c.p.: anni due di reclusione + art. 425 n. 2 c.p. = anni 2 e mesi 8 di reclusione + art. 61 n.5 c.p. = anni 3  e mesi 6 di reclusione + ½ ex art. 7 DL 152/91 = anni 5 e mesi 3 di reclusione  + art. 81 c.p. = anni 6), nonché in solido al pagamento delle spese processuali.

I predetti vanno altresì dichiarati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena.

Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Cascino Santo Carlo, Federico Vito, Spatuzza Gaspare e Mangano Antonino vanno altresì condannati in solido al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle parti civili costituite Martinez Giuseppe e Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio – in persona del suo legale rappresentante pro-tempore – nonché alla refusione delle spese processuali, che si liquidano per ciascuna delle predette parti civili, come da note spese depositate, in complessivi euro 2.258,01 di cui euro 30,99 per spese, oltre IVA e C.P.A. come per legge.

Ai sensi dell’art. 539 c.p.p.  va assegnata alle predette parti civili Martinez Giuseppe e Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio, ricorrendone le condizioni di legge, una provvisionale immediatamente esecutiva come per legge, rispettivamente di euro 10.000,00 ed euro 20.000,00.

 

P.Q.M.

 

Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p., 29 e 32 c.p. dichiara Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Cascino Santo Carlo, Federico Vito, Spatuzza Gaspare, Mangano Antonino colpevoli del reato continuato e aggravato di danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 comma 1 c.p. loro in concorso ascritto, esclusa l’aggravante del nesso teleologico, e li condanna alla pena di anni sei di reclusione ciascuno nonché in solido al pagamento delle spese processuali.

Dichiara i predetti imputati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena.

Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p., condanna Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Cascino Santo Carlo, Federico Vito, Spatuzza Gaspare, Mangano Antonino in solido al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore delle parti civili costituite Martinez Giuseppe e Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio – in persona del suo legale rappresentante pro-tempore – nonché alla refusione delle spese processuali, che si liquidano per ciascuna delle predette parti civili, in complessivi euro 2258,01 di cui euro 30,99 per spese, oltre IVA e C.P.A. come per legge.

Assegna alle predette parti civili Martinez Giuseppe e Associazione Intercondominiale Quartiere Brancaccio una provvisionale immediatamente esecutiva rispettivamente di euro 10.000,00 ed euro 20.000,00.

Fissa il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione.

Palermo 25 ottobre 2003

Il Presidente estensore

Salvatore Barresi

 

 

 

 

 

 

 

 

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