INTRODUZIONE alla STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO:

dalla militarizzazione dell’industria bellica alla difesa partigiana delle fabbriche

di laura tussi

L’identità operaia si manifesta dopo la guerra e si riappropria di una caratteristica perduta nella sconfitta storica dell’Italia fascista. Ma per comprendere quali mutamenti intervengono durante gli anni della guerra, occorre iniziare con una breve analisi dei caratteri del periodo fascista, perché nelle ripercussioni sui limiti della produzione italiana il regime avrà un effetto dirompente.

E’ notorio che l’Italia si sia imbarcata in modo irresponsabile nella seconda guerra mondiale. Il nostro Paese aveva già consegnato buona parte delle proprie energie e risorse con la partecipazione e l’intervento in appoggio di Franco in Spagna e si arriva impreparati alla fine della seconda guerra mondiale.. Ciononostante Mussolini conta sulla guerra lampo tedesca. Risulta abbastanza comprensibile che sia una guerra di tipo moderno, quale si era già sperimentata nel 15 e 18, ma il secondo conflitto mondiale, esaltazione di quello moderno, sembra proprio essere una guerra industriale, basata sulla mobilitazione di tutte le risorse ed energie disponibili in un Paese e sulla capacità produttiva industriale. L’industria Italiana sotto questo profilo era nettamente in svantaggio. In tutti i Paesi la mobilitazione industriale comportò dei sacrifici per la classe operaia: ci furono scioperi anche in Inghilterra ed in America. Ma la situazione in Italia si presentò con caratteristiche ben più gravi perché questa mobilitazione nelle industrie si tradusse immediatamente in un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia, perché il peso dell’esigenza produttiva del nostro Paese ricadde tutto sulle spalle dei ceti operai. Una guerra ha bisogno di una mediazione e meditazione politica che indichi quali sono gli obiettivi perché gli Stati maggiori orientino poi le scelte, le priorità della produzione in funzione di determinati scopi e finalità.

Mussolini non aveva saputo indicare obiettivi chiari e precisi. Le sue rivendicazioni furono sempre oscillanti, dalla pretesa dei territori sulla frontiera occidentale, dalla Francia, da Nizza alla Savoia, poi ai paesi coloniali e ai Balcani con immediate ripercussioni sulle scelte degli Stati Maggiori, che, paradossalmente, si ritrovano in una condizione di dittatura ma con assoluta assenza di direttive, nel senso che Mussolini, pur essendo stato il responsabile del dicastero militare, per lunghi anni, aveva lasciato completa mano libera agli alti gerarchi degli Stati Maggiori dell’aviazione, dell’esercito, della marina, per ottenere in cambio l’acquiescenza e l’appoggio al regime, senza fare in modo che questi Stati Maggiori comunicassero e si coordinassero tra loro. Per cui si giunse alla situazione paradossale di uno Stato Maggiore dell’esercito convinto di dover svolgere ed approvare una guerra difensiva sulle Alpi Occidentali. La marina era invece convinta di dover combattere i francesi, alleata con la flotta inglese e l’aeronautica, il fiore all’occhiello del regime, in virtù dei grandi successi sportivi aviatori degli anni ’30: era convinta di poter sfidare tutti. L’immediata ripercussione di tali divergenze fu che un sistema produttivo, già non all’altezza ed in difficoltà nella competizione con gli Alleati, creò una successione di commesse e ordinazioni militari che variavano in continuazione e con impianti in parte obsoleti, in parte non adeguati ad una produzione su larga scala, di serie. Fu necessario continuamente, per tutta la durata della guerra, dover intervenire per modificare caratteristiche tecniche di motori, aeroplani, carrarmati. L’elemento determinante era proprio il fattore umano. Dunque la classe operaia era l’elemento principale di tale produzione anarchica e disordinata e fu sottoposta dall’inizio della guerra ad una militarizzazione vera e propria: nelle fabbriche per problemi disciplinari entra in vigore il codice penale militare di guerra: in pratica la corte marziale. Ciò significa che piuttosto del richiamo, della multa o della sospensione ed il licenziamento, se l’operaio infrangeva la disciplina poteva essere deferito ai tribunali militari, i quali peraltro non infierirono. Ci furono 4000 condanne dal 1940 al 1943 a carico di operai per infrazioni disciplinari e per assenteismo. I tribunali militari inflissero comunque pene inferiori, considerando il fatto che questi operai non potevano lavorare ancora di più perché vivevano in condizioni che superavano il limite della sopportabilità. Di fronte all’irrigidimento della disciplina di fabbrica sotto il regime fascista, vi fu un’immediata intensificazione del ritmo produttivo ed il prolungamento della settimana lavorativa (sessanta ore settimanali di lavoro). Il potere d’acquisto dei salari operai, inoltre, calò immediatamente di fronte all’inflazione che si scatenò pochi mesi dopo l’entrata in guerra. Questo di fronte ad una situazione alimentare estremamente precaria e difficile: i generi alimentari vennero razionati. Le razioni erano molto rigorose. Tutto questo comportava un peggioramento evidente della qualità della vita per i frequenti disagi. La classe operaia sopravviveva grazie alla fabbrica. I grandi complessi industriali, sotto la pressione delle rivendicazioni operaie, misero in campo le loro risorse, acquistando e sviluppando vere e proprie aziende agricole, come in provincia di Milano e presso la Breda di Sesto San Giovanni.  

La fabbrica diventa non solo il luogo della socializzazione e della presa di coscienza e poi della riappropriazione di un’identità perduta, ma la fabbrica è proprio la vita. Questo spiega anche perché quando la classe operaia scenderà sul terreno della lotta resistenziale e dopo tanta fatica i partiti della sinistra ed, in primo luogo, il partito comunista, riusciranno a convincere gli operai ad imbracciare un’arma, in effetti nel nostro Paese non esiste una tradizione di violenza legata alla classe operaia. La violenza veniva concepita soprattutto in funzione di difesa della patria. Alla fine del ’42 il Paese affrontava una serie di lutti, di disagi, di sacrifici, di privazioni senza alcuna ragione, perché qualcuno irresponsabilmente ha voluto trascinare l’Italia in guerra. Gli Inglesi conquistano con una strepitosa avanzata l’Africa Settentrionale. Nei primi del ’43 l’Africa venne abbandonata dalle truppe italo-tedesche ed in seguito vi fu la resistenza di Stalingrado con tutto ciò che evocò nella classe operaia. Il fatto che questo strano, demonizzato Paese i cui appartenenti vengono bollati come comunisti, dominato da una ferocissima dittatura, invece di aprire le porte all’italo-tedesco liberatore,  dimostra un’energia incredibile e ferma i tedeschi, imprimendo loro una sconfitta epocale perché vennero fermati a Stalingrado e l’inversione di tendenza della guerra passò proprio di lì.

Mescolati tutti questi eventi riflessi nell’immaginario popolare di una classe operaia che era in buona parte apoliticizzata perché non vi era stato spazio per la politicizzazione durante il fascismo, gli operai antifascisti erano pochi si contavano sul pugno della mano e si concentravano alla Breda che poi storicamente passerà per essere la roccaforte e cittadella rossa d’Italia in Sesto San Giovanni. Su quattordicimila dipendenti i comunisti erano un numero esiguo ed andavano dentro e fuori di galera.

Gli scioperi armati del marzo 1943 sono il risultato di una serie di disagi e sofferenze in cui il regime fascista già vive una propria crisi interna. La monarchia già dopo aver beneficiato del fascismo per venti anni pensa come sganciarsi e come uscire indenne dalla guerra. Lo stesso mondo dell’industria si rende conto che il regime fascista non è più funzionale, non vende, non paga: la guerra sarà perduta e bisognerà uscirne fuori prima che sia tardi. E’ un clima ampliamente corroso. Gli scioperi non partono dalla mitizzazione della fabbrica, ossia dal massimo complesso industriale italiano come la Fiat e l’idea che gli scioperi fossero partiti proprio da lì e organizzati dal partito comunista italiano, era l’apoteosi dell’immagine del ruolo della classe operaia e della fabbrica.

Ma in effetti i famosi scioperi del marzo 1943 in realtà si sviluppano a scacchiera. Si accendono e si spengono sotto l’urto della repressione violenta, con centinaia di arresti, numerosi latitanti e furono moti che andarono accendendosi e spegnendosi nell’Italia settentrionale e centrale. Questo fu un grande ruolo della classe operaia di demolizione di un regime instabile.

La grande stagione di lotte e di mobilitazione del marzo 1943, dura ininterrotta fino all’autunno del 1944. Le lotte della classe operaia sono sempre fondamentalmente attraversate da una coscienza politica e da momenti in cui un conto era subire comunque la repressione dello sciopero rivendicativo, altro era subire la repressione con l’accusa di essere sovversivi e comunisti.

La classe operaia svolge un ruolo importante di sostegno e di avvio alla lotta resistenziale. Una visione assolutamente attonita che vuole subito, poco prima dell’armistizio, alla mattina del 9 settembre, ci sia questa resistenza spontanea del Paese e che comunque nei giorni successivi ci fossero le brigate partigiane, non regge. La resistenza fu un processo faticoso, duro, lungo e supportato in primo luogo dalla classe operaia. L’armistizio aveva dato sentore che tutto fosse finito e la speranza era quella dell’arrivo degli Alleati e che tutto fosse giunto a buon esito: rischiare la pelle non piace a nessuno. La classe operaia nel marzo del 1943 si rende conto che, unita, organizzata e forte, il suo terreno d’azione e l’arma di lotta è lo sciopero e può vincere con questo. E’ la stessa arma impiegata nell’immediato autunno del 1943 contro i tedeschi, i fascisti e i padroni, sovvertendo l’ordine imposto. Nel maggio del 1944 vi è un grande sciopero di un milione di partecipanti che radio Londra paragonerà ad una grande vittoria degli Alleati, il quale diede poi energia al nascente movimento partigiano, alle prime poche bande che si erano situate sulle montagne e che resistevano al nemico oltre che ai rigori dell’inverno. Inizialmente questo ciclo di lotte termina nel 1944, perché la classe operaia nel 1943 aveva ritrovato un momento di grande forza contrattuale nel fatto che la guerra avesse assorbito tutta la manodopera disoccupata. Il padronato era alla ricerca sia di manodopera specializzata, sia di manovalanza comune per rimpiazzare i vuoti lasciati nella fabbrica dai richiamati al fronte. Nel 1944 l’Italia si rifornisce di materie prime dalla Germania e si ritrova completamente a terra. Praticamente i rifornimenti alla produzione italiana verranno sempre più assottigliandosi nel 1944, quindi esaurite le scorte, nelle fabbriche in autunno non si produce più nulla.

La fabbrica serve come ammortizzatore sociale, perché licenziare, in quella situazione di estrema tensione, con un partigianato diffuso e forte, decine di migliaia di operai, significa accelerare i tempi ed anticipare quello che sarebbe di lì a poco tempo accaduto: la liberazione.

Il clima insurrezionale e resistenziale si tiene vivo non attraverso pesanti interventi conflittuali armati come una certa cinematografia vuole fare intendere, ma soprattutto attraverso molteplici, capillari e piccole azioni costanti diffuse su tutto il territorio che, destabilizzarono la situazione e diedero ai tedeschi la sensazione di un accerchiamento costante e continuo. Nell’attuale clima generalizzante di revisionismo degli eventi, compito dello storico è denunciare quello che è stato. La storia è anche interpretazione ma non manipolazione con forzature, perché occorre che una leale ricerca si basi sempre sulla fedeltà delle fonti, su documenti obiettivi e veritieri d’archivio, considerando che il lume della ragione e l’essenza della verità stanno sempre dalla parte del sommo bene, ossia del benessere comune e collettivo e non nell’esclusivo e prioritario interesse di un’oligarchia burocratizzata che ancora oggi rivendica pretese a scapito delle masse e delle istituzioni sociali e politiche.

REVISIONARE IL REVISIONISMO.

David Bidussa e Marcello Flores propongono una discussione

tra dibattito storiografico e retorica dell’antifascismo.

Ricordare e dimenticare? Memoria, identità, speranza.

 

Il ricordo comporta la rilettura di eventi, fatti, avvenimenti, episodi: il passato, il tempo precedente, trascorso, non prossimo, ma remoto, ossia intriso di storicità. L’azione del ricordare si declina al passato, nel tempo trascorso che tralascia pensieri, opere, parole, emozioni, sentimenti e quindi implica la dimenticanza, l’oblio, quando la memoria diviene oblio e dimenticanza e non rammenta, non rievoca, non rimembra il tempo trascorso che diviene perduto, privo di riferimento e di senso, senza più significati, per cui l’evento, nella dimenticanza, perde d’identità.

La memoria individuale e collettiva viene rievocata e commemorata.

Individualmente, l’azione del ricordare si svolge lentamente, in una dimensione interiore, meditativa, soggettiva. In un’accezione collettiva, la memoria passa attraverso una comunità, un gruppo, una società che com-memora tramite cerimonie, rituali, celebrazioni, miti, credenze e simboli. Il ripristinare un evento passato e riconsegnarlo alla memoria, individuale e collettiva, avvalora un’identità redimendola dall’oblio lacerante in cui imperversa il mondo moderno: l’identità è dispensata con il ricordo dal rischio dell’oblio inesorabile degli eventi attraverso il passato, per cui subentra la speranza della sopravvivenza sociale del ricordo, della memoria presso la posterità, procastinando al tempo futuro, ripristinando l’atto celebrativo del rammentare, riconsegnando così alle nuove generazioni, una rinnovata speranza nell’avvenire, ossia la memoria del futuro.

 

Memoria e conflitto

La memoria è serbatoio di immagini, vissuti, eventi del passato. Nell’interiorità questi ricordi possono confliggere in vuoti di senso e di valore.

La memoria storica è pervasa di eventi spesso cruenti, guerre, stragi, conflitti di vario genere. Le posizioni ideologiche assunte dalle parti in causa in un determinato evento passato possono, attualmente, creare conflitto di idee, di posizioni, di valori, di scelte di campo nella società civile che commemora.

Il conflitto di posizione e di idee scaturisce nel gruppo sociale che nella sua storia, nella sua cultura, nel suo passato ha sperimentato un determinato evento e rispetto al quale prende posizioni ideologiche e valoriali differenti, a seconda della scelta di posizione  e di parte, rispetto ad un determinato episodio storico che implica analisi, ragionamenti e ripensamenti di carattere politico, sociale e ideologico.

 

La pluralità delle memorie

 

La storia nei suoi corsi e ricorsi presenta molteplicità plurime di eventi degni di ricordo e memoria. Gli eventi memorabili che occorre “ricordarsi di ricordare” sono molti in una stessa società. In differenti contesti comunitari, in altre nazioni, in diverse sottoculture ed etnie, si ricordano molteplici eventi degni di memoria, fatti storici, guerre civili, episodi politici e tutto ciò che scaturisce dal susseguirsi inesorabile e necessario degli eventi. Le differenti culture e società presentano varie tipologie di avvenimenti e di memorie filtrati dal corso della storia e dal pensiero del popolo che setaccia e seleziona il tempo ed il significato di cui è portatore. La cultura cristiana, islamica ed ebraica convivono da secoli in tutto il bacino del Mediterraneo, portandovi nuova cultura, arte, scambi commerciali, altre idee, differenze etico, morali e religiose, usi, costumi, tradizioni differenti, in sostanza  altri mondi conviventi e compenetrantesi vicendevolmente, che hanno determinato ed influenzato le fasi storiche della vita in tutto il Mediterraneo. Queste tradizioni distinte ma influenzantesi reciprocamente, generano occasioni commemorative, riti, rituali, cerimonie, suffragate dalla memoria e dalle molteplici occasioni di ricordo collettivo.

 

La memoria che disturba

 

La memoria della Resistenza partigiana contro l’occupazione nazifascista in Italia e le deportazioni di prigionieri politici, dissidenti al sistema reazionario del regime Hitleriano costituisce un dato di fatto consolidato e suffragato da analisi storiche. Alcune frange intellettuali di matrice revisionista hanno voluto negare tutto ciò che concerneva la deportazione e la realtà del campo di concentramento: ossia il cosiddetto negazionismo storico.

Mentre il revisionismo storico può puntare l’accento sugli episodi, presunti di aspro disaccordo, tra i partigiani gappisti e gli Osoppo, insinuando un esasperato dissidio tra frange partigiane più estremiste (comuniste) e cattolici di carattere più conservatore. Una memoria importante è costituita dalla commemorazione delle stragi di atti terroristici, per esempio per mano delle Brigate Rosse che si definivano e si definiscono tuttora “comunisti combattenti”, ponendo in una seria e contrita analisi politica, chi si identifica con il primo  appellativo, ma non ammette intenzioni e attentati stragisti e armati e di sovversione terroristica del sistema.

 

Il futuro della memoria

 

La memoria di un evento costituisce sempre lo sprone a ricordarlo nel tempo futuro, soprattutto se l’evento, o meglio, la memoria di esso comporta un portato valoriale motivante, un ideale molto significativo per la comunità civile e per la società. La Shoah, la Resistenza Partigiana al regime nazifascista sono avvenimenti dal portato emblematico, ossia costituiscono, nel valore del loro ricordo, tramite la commemorazione, un simbolo, una simbologia di codici di significato emblematici, che si rimandano (dal greco sum-ballo) di generazione in generazione, nella tradizione coommemorativa e celebrativa da parte della comunità e collettività sociale, che avviene e si esplicita tramite cerimonie, rituali, in luoghi della memoria, in ambiti di culto, dove si identifica il sacrificio della vita umana con la sacralità dell'evento, come, dal latino, sacer, ossia separato dall’usuale, dal consueto, dal comune trascorrere del tempo, quale avvenimento straordinario, ossia fuori dal normale, dal concepibile della giustizia, della morale e dell’etica umana.

La memoria ha futuro nel ricreare ambiti collettivi di riflessione e riproposizione di tematiche del conflitto, delle sopraffazioni, delle diversità fino a giungere a tramandare e concepire e riattualizzare il valore del dia-logos interreligioso ed interideologico, con risvolti sociali e politici, tramite il confronto tra varie realtà che racchiudono in sé i vari simboli, multipli e plurimi di tutto ciò che è diverso, di tutto ciò che è altro dalle “nostre” più radicate convinzioni.

ANTIFASCISMO E IDENTITA’EUROPEA[1]

La prospettiva italiana e l’evoluzione nel resto d’Europa

L’antifascismo si presenta come una questione storica aperta.

Mentre il fascismo costruisce il suo regime, i partiti e i gruppi antifascisti messi fuori della legalità dalle leggi del ’26 sono costretti all’esilio o alla clandestinità. Per molto tempo, l’antifascismo è costituito da gruppi ristretti, da piccole minoranze che sfidano la repressione poliziesca, se lavorano all’interno, e tutte le difficoltà dell’esilio, se operano all’estero.

I movimenti liberale e cattolico, salvo piccoli gruppi, confidano nella caduta del fascismo e, nell’attesa, sviluppano un’attività prevalentemente culturale in difesa di certi principi ideali e di preparazione di gruppi dirigenti. Sono antifascisti uomini appartenenti alla tradizione liberale come Benedetto Croce, Luigi Albertini (direttore del quotidiano "Corriere della Sera" dal 1900 al 1925), Giovanni Giolitti, Francesco Saverio Nitti. Essi in un primo momento avevano guardato con simpatia al fascismo ma poi ne avevano condannato l’autoritarismo. Un posto di riguardo ha il filosofo Benedetto Croce. La sua opposizione è soprattutto di carattere morale e intellettuale ed è forse per questo che viene tollerata dal regime.

Accanto ai liberali operano le forze di ispirazione democratica. Essi sostengono che solo la collaborazione tra la classe operaia e la borghesia può sconfiggere il fascismo. Principali esponenti sono Giovanni Amendola, Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, un illustre professore universitario di storia che, pur di non giurare fedeltà al partito fascista si dimette dall’insegnamento. In una lettera al rettore dell’università di Roma scrive: "la dittatura fascista ha soppresso ormai completamente le condizioni di libertà necessarie per guidare l’insegnamento della Storia come io lo intendo perché non è più uno strumento di libera educazione civile ma si riduce a servile adulazione del partito dominante o a una pura e semplice esercitazione erudita estranea alla coscienza civile del maestro e dell’alunno. Sono costretto perciò a dividermi dai miei alunni e dai miei colleghi con dolore profondo ma con la coscienza sicura di compiere un dovere di lealtà verso di essi, prima che di coerenza e di rispetto verso me stesso. Ritornerò a servire il mio paese nell’insegnamento quando avremo riacquistato un governo civile". Gobetti e Amendola pagarono con la vita la loro opposizione al fascismo.

Antifascisti furono anche alcuni esponenti del disciolto Partito Popolare che Mussolini aveva dichiarato illegale come illegali erano tutti gli altri partiti, ad eccezione di quello fascista. Il fondatore, don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, un altro rappresentante del partito, furono costretti all’esilio. Proprio De Gasperi che sarà protagonista nella guerra di liberazione e diventerà il più importante statista italiano del secondo dopoguerra.

Un ruolo di primo piano nella lotta antifascista viene svolto, infine, da esponenti del Partito socialista come Filippo Turati, Sandro Pertini e Pietro Nenni; e del Partito comunista come Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. In particolare Gramsci viene fatto arrestare da Mussolini nel 1926. Resterà in carcere fino al 1937, l’anno della sua morte. In questi lunghi anni scrive i "Quaderni del carcere", l’opera più importante dell’antifascismo italiano. "Il peggiore guaio della mia vita attuale - annota Gramsci - è la noia. Queste giornate sempre uguali, queste ore e questi minuti che si succedono con la monotonia di uno stillicidio hanno finito per corrodermi i nervi. Almeno i primi tre mesi dopo l’arresto furono movimentati: sballottato da un estremo all’altro della penisola, sia pure con molte sofferenze fisiche, non avevo tempo di annoiarmi. Sempre nuovi spettacoli da osservare, nuovi posti da vedere: davvero mi pareva di vivere in una novella fantastica. Ma ormai è più di un anno che sono fermo a Milano. In carcere posso leggere ma non posso studiare perché non mi è stato concesso di avere carta e penna a mia disposizione, solo fogli contati per la corrispondenza, che è la mia sola distrazione. Il mio incarceramento è un episodio di lotta politica che si continuerà a combattere in Italia chissà per quanto tempo ancora. Io sono rimasto preso così come durante la guerra si poteva cadere prigionieri del nemico, sapendo che questo poteva venire e che poteva avvenire anche di peggio".

I due partiti socialisti (poi unificati), il partito comunista, quello repubblicano e altri gruppi democratici si organizzano all’estero e svolgono un lavoro clandestino in Italia.

Il 3 gennaio 1925 l’idea che la lotta antifascista debba essere combattuta al di fuori della legalità – decisa dalla dittatura – viene lanciata da Non mollare, primo giornale clandestino che nasce a Firenze per iniziativa di Salvemini, Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi e altri.

Nel 1926 Filippo Turati fugge avventurosamente all’estero aiutato da Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini. Nel novembre dello stesso anno viene arrestato a Roma Antonio Gramsci insieme a gran parte del gruppo parlamentare comunista. La guida del partito verrà poi presa in esilio da Palmiro Togliatti. Il partito comunista passa alla clandestinità completa ed è l’unico gruppo antifascista che continua a svolgere un’attività organizzata in Italia.

In Francia si ricostituisce la Cgdl per iniziativa di Bruno Buozzi e anche a Milano ne opera per qualche tempo una clandestina. Nel ’27, a Parigi, i due partiti socialisti, il partito repubblicano, la Confederazione del lavoro e la Lega italiana dei diritti dell’uomo costituiscono la Concentrazione d’azione antifascista. Nel 1930, a Parigi Carlo Rosselli, fuggito dal confine di Lipari insieme a Emilio Lussu, fonda Giustizia e Libertà che cercava di unire gli ideali democratici con quelli socialisti.

Una notevole ripresa dell’attività antifascista in Italia, che lascia semi fecondi per l’avvenire, si manifesta dal ’30 al ’32. Si deve principalmente al Pci e a Giustizia e Libertà. La repressione è durissima da parte della polizia e dell’Ovra, la polizia segreta il cui nome non è una sigla ed è deciso personalmente da Mussolini. In questo periodo bisogna segnalare alcuni casi individuali particolarmente tragici: l’anarchico sardo Michele Schirru partito dall’America per attentare alla vita di Mussolini (proposito che non attua e probabilmente decide di non attuare più), arrestato con una pistola viene poi fucilato per avere progettato di uccidere il capo del governo.

Un altro anarchico, Angelo Sbardellotto, viene arrestato con un passaporto falso, una pistola e un’ordigno e confessa di avere avuto l’intenzione di uccidere Mussolini. Viene condannato a morte e fucilato lo stesso giorno di Domenico Bovone, genovese emigrato in Francia che organizza alcuni attentati dinamitardi senza vittime. Viene arrestato dopo che lo scoppio di materiale esplosivo uccide sua madre e lo ferisce. E c’è anche il caso di Lauro De Bosis che decide di fare un’azione dimostrativa contro il fascismo nell’ottobre del ‘31: compra un aereo a Marsiglia, sorvola Roma dove lancia migliaia di manifestini. Fa rotta verso la Corsica, ma non ci arriva mai.

Nel ’34, comunisti e socialisti firmano un patto di unità d’azione e con Rodolfo Morandi anche il partito socialista forma a Milano un centro di attività interno. Svanite le speranze che la guerra d’Etiopia e le sanzioni internazionali contro l’Italia provochino una crisi del regime, gli antifascisti italiani si impegnano dalla fine del ’36 nella guerra contro Franco, Mussolini e Hitler, alleati nel rovesciare la legittima repubblica spagnola.

Il 27 aprile 1937 muore Gramsci, che non regge alla durezza del carcere fascista, e il 10 giugno dello stesso anno vengono assassinati i fratelli Rosselli. In Italia si assiste dall’estate del ’36 a una certa ripresa dell’attività antifascista, in misura notevole spontanea, per effetto della guerra di Spagna. Due anni più tardi la costituzione dell’Asse Roma-Berlino e la politica antisemita scuotono la coscienza di molti, soprattutto giovani. Inoltre, il continuo aumento dei prezzi diffonde malcontento tra gli operai e la piccola borghesia. Questa ripresa antifascista all’interno del Paese non mette certo in pericolo l’esistenza del regime, ma ha notevole importanza. Molti giovani infatti intensificano la loro attività, fanno nuove reclute (molti hanno militato anche in organizzazioni fasciste), e insieme ai più anziani reduci dall’esilio, dalle galere e dal confino, costituiranno i gruppi dirigenti della Resistenza.

Il collegamento tra le dimensioni di democrazia e antifascismo risulta vivo nella memoria pubblica e condivisa d’Italia e di tutta Europa, e per la consapevolezza della crisi del modello antifascista, in questo libro, si valutano e si sottopongono al vaglio storiografico ed all’analisi critica i suoi modelli storici e gli usi politici nel secondo dopoguerra, in quanto è proprio necessario ragionare in prospettiva continentale.

Nell’Europa Orientale l’antifascismo, disancorato dalla libertà democratica, venne utilizzato contro l’Occidente anticomunista e contro minoranze democratiche. Il ruolo dell’antifascismo negli Stati di “democrazia popolare” va inquadrato nel contesto politico degli anni ’30 e deve tener conto del regime di occupazione nazista in Europa e del ruolo dell’URSS e dell’Armata Rossa nella vittoria della guerra antinazista e nella liberazione dell’Europa centro-orientale.

L’antifascismo definito componente fondamentale dell’ideologia comunista, assunse le sembianze di una dimensione anticapitalistica ed antiborghese.

La crisi della tradizione antifascista rimanda complessivamente a processi reconditi e nascosti che investono il modello di unità nazionale e il sistema di legittimazione del sistema politico, in un contesto sociale postfordista e collocato in un nuovoo dopoguerra.

La storiografia maggiormente collegata al paradigma antifascista ha posto in evidenza il tema chiave del dibattito civile, affrontando la profonda revisione di prospettive storiche, storiografiche e culturali.

L’Italia può definirsi il luogo natale dell’antifascismo da cui si è sprigionata la dinamica propulsiva di un progetto politico, antagonistico allo Stato democratico e liberale, in quanto l’Italia è stata laboratorio della rivoluzione nazionalista, opposta inoltre all’egualitarismo universalistico comunista, in cui si sono ampliamente dispiegate le conseguenze assolutiste delle ideologie contrapposte all’antifascismo.



[1] Recensione al libro Antifascismo e identità europea, Carocci editore, a cura di Alberto De Bernardi e Paolo Ferrari. Presentazione presso la CASA DELLA CULTURA maggio 2004. Relatori: Alberto De Bernardi, Paolo Ferrari, Pier Paolo Poggio, Elisa Signori, Ferruccio De Bortoli.

Iniziativa organizzata in collaborazione con l’INSMLI (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia) e FONDAZIONE MEMORIA DELLA DEPORTAZIONE

 

 

 

 

 

 

 

 

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