Domani
andra' meglio - di Jeanne Labrune
Elisabeth, aspirante scrittrice, conosce per caso Sophie
mentre si
appresta ad acquistare della plastica per rivestire un
mobile da
mettere in cantina. Da questo incontro scaturira' un
insieme di
situazioni, che coinvolgeranno anche altri personaggi.
Se si escludono alcuni casi in occasione delle lunghe e
strenuanti
maratone festivaliere, e' raro che io abbia voglia di
uscire da una
sala prima della fine di un film. Pero' alla visione di
"Domani andra'
meglio" , sebbene nemmeno qui sia uscito prima della
fine, gia' dopo
venti minuti la voglia di essere altrove a fare altre
cose e' stata
fortissima.
Il film di Jeanne Labrune pero' non e' cosi' brutto come
questa
reazione possa far immaginare (ci sono state pellicole
molto peggiori,
anche in questo inizio di stagione cinematografica), e'
semplicemente
privo di ogni attrattiva. Ogni tanto si sorride, nemmeno
troppo ad
onor del vero, ma la cosa finisce li': il film avanza
stancamente tra
situazioni che non evolvono. Fosse stato veramente
brutto, kitsch,
involontariamente ironico, avrebbe potuto attirare
l'attenzione e dare
un motivo per rimanere in sala, ma cosi' com'e' e' solo
una pellicola
piatta ed inutile.
Gli stessi personaggi del film sono francamente poco
interessanti, e
sono tra l'altro inspiegabilmente diversi da come vengono
presentati
nel manifesto e nei comunicati stampa. Va bene voler
rendere
interessante a tutti i costi una pellicola, ma non basta
non voler
entrare in dieta per essere "bulimici", voler
fare sesso con la
propria moglie per essere "maniaci sessuali"
oppure essere di
carnagione chiara per essere "algide e
distanti"...
Voto: 5
Il
patto dei lupi - di Christophe Gans
1765: una bestia sconosciuta terrorizza il
Gévaudan, remota regione
della Francia centro meridionale. Il cavaliere di
Fronsac (Samuel le
Bihan) viene inviato dal re, insieme al suo
fratello di sangue il
pellerossa Mani (Mark Dacascos), per investigare
e catturare questo
animale. Al suo arrivo l'aspettano una schiera di
strani personaggi:
Jean-François e Marianne de Morangias (Vincent
Cassel e Emilie
Dequenne), fratelli dal rapporto morboso, Sylvia
(Monica Bellucci),
enigmatica prostituta, il prete Henri Sardis, e
molti altri...
Un film ambientato nella Francia del '700 con un
protagonista
pellerossa dedito alle arti marziali, condito da
costumi eccentrici e
da una fotografia estremamente curata. Da queste
premesse, visto anche
che Cristophe Gans ha in precedenza realizzato il
bel "Crying
Freeman", tratto da un manga uscito anche in
Italia, era lecito
aspettarsi una pellicola postmoderna, che
mischiasse il cinema
d'azione hongkongese ad un atmosfera "fuori
dal tempo". Un misto tra
azione, steam-punk ed arti marziali.
Gia' col primo tempo del film le aspettative
vengono deluse. Ma non in
maniera negativa. Le scene d'azione sono poche,
ma si punta sul
mistero e sulla caratterizzazione dei personaggi,
in un mix che deve
molto di piu' all'horror gotico d'atmosfera che
al cinema di Hong
kong. Si ha la sensazione che Gans sia tornato
alle atmosfere che gia'
aveva esplorato nel suo episodio del film ad
episodi "Necronomicon". E
sebbene alcuni attori non siano eccezionali
(Monica Bellucci dimostra
di essere ottima attrice solo quando non parla, e
Mark Dacascos e
quasi ridicolo nelle vesti del pellerossa),
l'insieme comunque
funziona.
Il secondo tempo, purtroppo, pur mantenendo gli
stessi intenti, scade
clamorosamente ed inspiegabilmente da ogni punto
di vista. Viene
mostrata la bestia in un tripudio di orribile
computer-grafica che
sembra farla uscire direttamente da un videogioco
(se non ci sono i
soldi per della computer-grafica decente, perche'
non usare i buoni,
vecchi, effetti speciali artigianali?), la
sceneggiatura si dimostra
piena di incongruenze (il nascondiglio della
bestia che viene scoperto
e tracciato su una cartina, dimenticato per
un'ora di film, e poi
ritirato fuori all'improvviso e' la chicca
migliore), i personaggi
diventano macchiette di loro stessi. E il tutto
scade quindi
inevitabilmente nell'abisso dei film di serie B,
senza pero' avere la
consapevolezza o l'ironia necessari a rendere
gradevole questo tipo di
film.
Speriamo che questo di Gans sia solo un passo
falso, e non sia invece
il preludio ad un suo precoce declino.
Voto: 5
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--
Canicola
- di Ulrich Seidl
Noto che negli ultimi tempi le mie recensioni ai
film in uscita sono
state tutte di stampo positivo. In effetti, nei
periodi di intenso
lavoro come questo in cui non riesco a recensire
tutti i film che
vedo, preferisco parlare di quelli che mi sono
piaciuti piuttosto che
sprecare tempo scrivendo di pellicole mediocri.
Non posso esimermi pero' dallo stroncare questo
"Canicola", acclamato
al Festival di Venezia come innovativo e
trasgressivo ma in realta'
perfetto esempio di cinema falso e deteriore.
Il film e' un insieme di microstorie, sulle orme
dell'ormai abusato
stile Altamaniano, che narrano le vicende di
un'umanita' misera e
degradata, in un'Austria mai cosi' diversa dal
luogo pulito ed
ordinato che tutti ci immaginiamo, popolata da
spogliarelliste obese e
autostoppiste subnormali (interpretati da attori
non professionisti
che, non si puo' negare, sono piu' che realistici
nelle loro parti).
E' difficile capire cosa di geniale abbia trovato
la critica in questa
pellicola, visto che le varie vicende, che
ovviamente e banalmente
finiscono per intrecciarsi, non hanno ne' capo
ne' coda, perfetto
esempio di narrativita' fine a se' stessa. E non
si puo' spiegare il
film nemmeno con la necessita' di raccontare a
tutti i costi la
degradazione suburbana, visto che non e' certo
un'idea innovativa, ed
e' gia' stata sfruttata innumerevoli volte, con
esiti sicuramente
migliori.
Viene da chiedersi se non siano state proprio le
sbandierate
provocazioni a spingere i critici ad accodarsi al
coro di critiche per
non passare per moralisti e censori...
Comunque sia, due ore di film sul nulla assoluto
attendono l'incauto
spettatore. Con un'unica, divertente, scenetta
che da sola vale tutto
il resto del film: un uomo, a carponi e con una
candela infilata dove
non batte il sole, che canta "La
cucaracha"...
Voto: 4
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Il
destino di un cavaliere - di Brian Helgeland
Inizia il film, leggiamo un introduzione in cui
si dice che il torneo
era lo sport piu' amato in epoca medievale, ed
ecco spuntare un
giovanotto coi dreadlocks che si cimenta in
torneo mentre il pubblico
canta "We will rock you". Ed eccolo
poco dopo incontrare una ragazza
che si fa chiamare "foxy lady".
Helgeland comprende a fondo le teorie su cui si
basa il cinema storico
hollywoodiano, e rende esplicito un gioco che
nella maggior parte dei
casi fino ad oggi e' rimasto nascosto. La
rappresentazione della
storia vista non in maniera accurata ma
trasfigurata da occhi moderni
per renderla piu' commerciabile e' infatti una
costante in America
(come ultimo esempio non si puo' non citare
"Il gladiatore"), ma
mentre risulta irritante quando viene utilizzata
in maniera subdola e
nascosta, diverte quando il gioco diventa
esplicito.
Tanto esplicito che "Il destino di un
cavaliere" in fondo assomiglia
molto di piu' a un film sportivo che a un film
medievale: con qualche
cambio di ambientazione, sarebbe credibile anche
come storia di un
ragazzo di colore nato nei bassifondi che diventa
un campione di
baseball.
Peccato che il film dopo un po' si perda,
risultando inutilmente lungo
e rinunciando in parte alla vena dissacrante
delle primissime
inquadrature a favore di uno svolgimento piu'
classico.
"Il destino di un cavaliere" poteva
essere di piu', poteva essere un
alfiere della rivoluzione postmoderna nel cinema,
cosi' com'e' rimane
un buon film di intrattenimento, non
indispensabile ma sicuramente
divertente ed appassionante. Accontentiamoci.
Voto: 6,75
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Betty
Love - di Neal LaBute
Betty (Renée Zellweger), cameriera in una tavola
calda a Kansas City,
e' sposata al bieco Del (Aaron Eckhart), ma
l'uomo dei suoi sogni e'
il dr.David Ravel (Greg Kinnear), personaggio
della soap opera "A
reason to love". Quando Del viene ucciso
davanti ai suoi occhi, Betty
comincia a confondere realta' e fantasia e scappa
alla ricerca del
dottor Ravel, inseguita da due sicari (Morgan
Freeman e Chris Rock)...
Neal LaBute e' un regista che non mi ha mai
entusiasmato. Dal suo
pessimo esordio con "Nella società degli
uomini" si e' parzialmente
risollevato con il discreto "Amici e
vicini", rimanendo comunque al
massimo un regista di film piacevoli ma non certo
un innovatore.
Con questa premessa, sembrerebbe strano che tra
tanti film in giro mi
sia spinto a vedere "Betty Love": sono
pero' rimasto vittima
dell'accattivante manifesto del film, e ho quindi
deciso di dare a
LaBute una terza (e ultima?) chance.
E, tutto sommato, non sono dispiaciuto di averlo
fatto. "Betty Love"
e' un film piacevole e divertente, a tratti
cattivo e inquietante,
imprevedibile fino alla fine senza essere
costellato di inutili colpi
di scena (che, anzi, sono praticamente assenti).
E nobilitato da un
casting incredibilmente azzeccato che fa della
scelta stereotipata
degli attori una ragion d'essere, quasi a voler
rendere caricaturali
non solo i personaggi, ma anche gli attori che li
interpretano.
LaBute non passera' mai alla storia del cinema,
ma dimostra di essere
capace di costruire piccoli film che, giocando su
elementi gia'
conosciuti (i personaggi, le ambientazioni e le
atmosfere di "Betty
Love" sono un concentrato di quelle di altri
film, in primis "Fargo" e
"La fortuna di Cookie") producono un
insieme originale.
Voto: 7
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Graziano
Montanini -
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