INTERVISTA CON MONI OVADIA

L’impegno culturale, sociale e artistico per la rivendicazione della pari dignità sociali

Progetto che raccoglie interviste comparate tra celebri personaggi della vita politica, culturale, sociale e dello spettacolo italiani

di LAURA TUSSI

Moni Ovadia uomo d’estro e d’ingegno, politicamente impegnato sul fronte del mondo in fermento dei sindacati per le tutele dei lavoratori e delle rivendicazioni per i diritti dei “più deboli”, nell’impegno culturale militante delle pari dignità sociali, per la fratellanza universale tra uomini…nella militanza “senza armi”, disarmante degli strapoteri, finalizzata ad un’utopia realizzabile, sociale, con risvolti comunitari e democratici de facto… L’impegno politico alla luce di una profonda, costruttiva e lucida critica di libera ispirazione marxista nella “lotta” di rivendicazione per le pari dignità sociali…

In Italia, per una cultura delle memorie di ieri e pluriappartenenze di oggi.

Come si collocano il Suo teatro, l’espressione musicale e cinematografica rispetto all’impegno politico, sociale e culturale?

L’arte è uno strumento di espressione e di comunicazione che costituisce la forma dello specifico dell’artista, ma la scelta dei contenuti che l’arte deve esprimere non è più una questione di scelta dell’artista solo, ma è anche un’opzione dell’artista in quanto cittadino ed essere umano. Allora siccome l’arte deve esprimere l’essere umano in tutte le sue variegate contraddizioni e sfaccettature ed il senso della nostra presenza sulla terra, ne consegue un significato connesso a valori etici e quindi politici, non nell’accezione degli schieramenti e delle fazioni, ma nel senso lato del concetto di polis come città e comunità educante, luogo di incontro e di formazione della società: allora l’arte è uno strumento tramite cui l’artista esprime la relazione con questi valori.

Come può il centro-sinistra far fronte alle nuove sfide dettate da una società e da un mondo sempre più globalizzanti, segnati da diversità multiculturali e dalla coesistenza di variegate culture e differenti modi di essere e di pensare?

Uno dei primi compiti del centro-sinistra è proprio definire la propria identità culturale, il che non implica un’identità monolitica, ma dove convivano differenti culture del centro-sinistra, ma in modo sinergico e non in un’ottica autodisgregante. Personalmente sono ebreo e laico, però posso tranquillamente partecipare a battaglie politico-sociali nel campo della pace e dei diritti anche con dei sacerdoti cattolici, perché condividiamo una comune cultura valoriale. Allora il centro-sinistra deve definire la propria identità e l’identità delle proprie identità al suo interno e trovare il modo che queste realtà ideative operanti si sinergizzino e si arricchiscano reciprocamente; perché un’elezione, cioè la “battaglia” si può vincere sul piano della tattica politica, la guerra si vince sul piano della cultura. Berlusconi lo ha dimostrato.

Prima ha imposto la sottocultura, di cui è figlio e padre, al Paese e quindi ha vinto le elezioni, addirittura influenzando la temperie dell’intera società negativamente, come una gramigna devastante ed influenzando anche i comportamenti di molta sinistra, che ha perso per molti aspetti la propria fibra morale. Occorre che la sinistra definisca la propria identità e l’identità delle molteplici realtà interne in modo sinergico, ossia reciprocamente, in modalità arricchenti. In seconda istanza la realtà di centro-sinistra deve essere ferma e chiara nei principi e affrontare le congiunture che si presentano. Le grandi “battaglie” operaie si svolgevano in una società che aveva appunto la classe operaia come pilastro portante delle trasformazioni sociali.

Attualmente la classe operaia costituisce solo una componente ed anche in via di trasformazione impetuosa, e per certi aspetti di sparizione: oggi si fanno avanti nuovi soggetti politici e sociali. I grandi valori non sono negoziabili, ma i problemi della politica, della gestione del reale, richiedono agilità e velocità di pensiero. Allora occorre che la sinistra sappia guardare avanti e non indietro, abolendo inutili e stantie nostalgie per la bella epoca delle lotte con le bandiere rosse, pur essendo state un grande valore che tutti devono conservare nel cuore, come principio di senso e significato del nostro patrimonio storico e identitario. Occorre guardare avanti sapendo che si è collocati nella Storia e non nella nostalgia, che è un sentimento personale rispettabile. La nostalgia è un sentimento rispettabile sul piano personale, ma non può condizionare l’azione politica.

La memoria deve costruire futuro, non si deve ripiegare sterilmente sul passato. L’altro pericolo è quello di abbandonare il terreno dei principi per stare al passo con una sedicente modernità che cinicamente svende i valori per la logica del profitto e del potere.

Solo quando si sa coniugare la tattica veloce, la capacità di vedere le trasformazioni e di cavalcarle e non di seguirle arrancando, con la grande fermezza di principi, allora ci si rende conto che i valori non mutano, ma devono trovare nuove modalità per essere applicati. Oggi siamo di fronte a nuove forme di sfruttamento e di dominio e possiamo anche utilizzare la parola forte “asservimento”, che hanno un aspetto seducente, la cui brutalità non è rozza come la brutalità dello sfruttamento di oggi su contadini e operai. Bisogna tenere conto delle nuove condizioni esistenziali dei soggetti che sono in fondo alla scala sociale, compresi i piccoli imprenditori del proprio lavoro, perché oggi anche questo è il proletariato, per preparare forme di lotta e strategie di opposizione democratica a questi processi. Il fenomeno della globalizzazione si presenta come un avvenimento nuovo ed inedito, quindi occorre adattare le strategie di rivendicazione sociale e politica, alle sfide poste dalla globalizzazione stessa. I mercati finanziari sono internazionali, le transazioni sono transnazionali, le lotte di rivendicazioni che non abbiano questo ampio respiro rischiano di farsi sconfiggere, provocando devastanti frustrazioni. In questo senso la lezione di Marx rimane straordinaria: per capire la realtà che lo circondava, Marx, oltre a partecipare alle lotte politiche del suo tempo, studiò per dieci anni al British Museum.

Ecco ciò di cui abbiamo bisogno attualmente: studiare le trasformazioni, cercare di capirne i movimenti, sia strutturali che sovrastrutturali e non ritirare fuori ideologie schematiche, stantie ed ammuffite. Per vincere una battaglia, per vincere una guerra, occorre capire contro chi si sta combattendo, per cosa e quali sono i migliori strumenti per combattere le battaglie per la giustizia sociale, in favore della democrazia, della fratellanza, dell’uguaglianza nel proprio tempo e guardando il proprio tempo, con libertà di pensiero, comprendere il tempo che aspetta alle generazioni che verranno dopo di noi, per poter consegnare a loro un’eredità culturale che sia uno strumento vivo e non un pensiero pietrificato come sempre succede alle ideologie. Per esempio certi concetti e categorie marxiste non si possono applicare schematicamente nel mondo attuale: sono cambiate troppe condizioni! E’ proprio il modo di pensare marxista che dovrebbe suggerire di abbandonare certe categorie del pensiero di Marx, che diventano obsolete e desuete, perché sono cambiate proprio le modalità di produzione e sono impazziti i rapporti fra i parametri economici fondamentali.

Un altro problema è questo: ci troviamo di fronte a una nuova sfida, la democrazia autoritaria, che non passa più con il consenso popolare, nel senso pieno del termine, ma con una minoranza degli elettori e con manovre che scardinano il meccanismo costituzionale ed istituzionale, e lo condizionano. Una sovrastruttura, ossia il sistema di informazione, che oggi chiamiamo sistema massmediatico, diventa struttura di potere. Ecco che la sinistra deve studiare i fenomeni socioeconomici, deve saperli interpretare e collocare i movimenti di rivendicazione dei principi dentro le nuove temperie e le attuali prospettive storiche, senza mai abbandonare il terreno dei valori; perché non si può affermare ad esempio che il lavoro debba essere flessibile? Cosa significa “lavoro flessibile”? Non è corretto trasformare il luogo del lavoro al punto da non riconoscere più i diritti dei lavoratori, perché sussistono i problemi della flessibilità. Dobbiamo far sì che i problemi economico finanziari siano sempre contemperati con i diritti, i principi, i valori. Perché creare posti di lavoro è uno dei miti del populismo e di coloro che fanno false promesse.

La flessibilità va contemperata con i diritti del lavoratore di avere una pensione e una vecchiaia serena e non ammettere contratti di lavoro schiavistico. Non dobbiamo (noi sinistra) abbandonare il terreno dei principi perché creare il lavoro sulla base dello sfruttamento e delle false promesse è rendere gli uomini servi. Oggi il potere economico, quello che rudemente chiamavamo “padronato” richiede lavoro flessibile. Questo significa che il lavoratore non deve essere più fornito di diritti? Non è più un cittadino? La flessibilità richiede al lavoratore di recedere dalla sua condizione di essere umano? Questa non è flessibilità, questo è sfruttamento, è asservimento, allora bisogna che le dinamiche economiche, la trasformazione dello stato sociale, il rispondere alle nuove sfide e alle nuove esigenze, sia contemperato con la non negoziabilità dei grandi valori e principi che formano qualsiasi società democratica degna di questo nome.

Occorre riappropriarsi dei valori della vita: tenere il proprio destino in mano ed essere consapevoli dei diritti, della possibilità di crescere come persona, con la formazione, l’istruzione, la cultura. L’intervento delle destre consiste nel rendere più agile possibile il profitto. La sinistra deve darsi delle priorità: innanzitutto, vincere questo governo e questo dobbiamo farlo per il nostro Paese.

C’è un momento in cui il proprio Paese è persino più importante delle idee personali. E’ meglio creare un centro-sinistra, magari un po’ zoppo e che scontenta qualche elettore, perché ormai il Paese sta andando in rovina…perché poi è inutile battersi in Parlamento per le rivendicazioni degli operai quando il tuo Paese diventa come l’Argentina. In primo luogo occorre sanare l’equilibrio economico e riportarlo nel quadro di un minimo denominatore comune, basato sulla prima parte della costituzione: l’equilibrio di salute del nostro Paese. Cioè prima di intervenire occorre asportare la corruzione e il modo distorto di fare politica. Quindi occorre vincere le elezioni contro Berlusconi, sanare i guasti economici e sociali che il suo governo ha prodotto, solo dopo sarà opportuno riaprire il dibattito tra le due diverse anime del centro-sinistra e della Sinistra.

Le ultime guerre in Medioriente hanno fatto intravedere diverse tipologie di “dittatura” capitalista. Quali ne sono le caratteristiche e le negatività più salienti?

Il crimine più grave commesso da questa democrazia autoritaria di cui è espressione prima e massima l’amministrazione degli Stati Uniti d’America del Presidente G.W. Bush che già ha scippato le elezioni con manovre oscene, è di avere demolito quel poco di legalità internazionale che si teneva su di un equilibrio non certo ideale, tutt’altro che perfetto, che è stato sciagurato demolire con la prepotenza, invece di lavorare per emendarlo, migliorarlo e renderlo più efficiente. Una volta che si spezza la fragile ossatura della legalità internazionale, ognuno è legittimato a fare quello che gli pare. Questo è l’aspetto più devastante. Gli Americani non vogliono più sottoporre a discussione e verifica i problemi, ma sostengono di avere ragione a priori e di essere la “democrazia a priori”, il “bene a priori”. Gli Americani hanno combattuto contro i nazifascisti, è vero, ma l’hanno fatto anche per i propri interessi e solo dopo aver subito l’attacco Giapponese a Pearl Harbor. La partecipazione alla seconda guerra mondiale ha permesso loro di costruire un’egemonia sul mondo che permane ancora oggi. Dunque la guerra contro il nazifascismo era conforme ai loro interessi politico-strategici ed economici.

Inoltre Roosevelt era profondamente diverso da Bush. E’ stato Roosevelt che ha liberato l’Europa, non Bush. Il progetto del New Deal di Roosevelt era un piano politico di natura socialista, radicale a favore di un’idea di stato sociale, di giustizia sociale, di eguaglianza democratica.

Quello che gli Americani vogliono esportare non è la democrazia, ma il loro modello amministrativo basato sul predominio dell’economia. Quindi il loro non è affatto un atteggiamento democratico, ma autoritario e colonialista. Oltretutto sussiste in tutto questo un elemento pesante di idiozia. La democrazia implica libere elezioni che però in molti Paesi Arabi porterebbero la vittoria degli estremisti islamici o comunque dei partiti musulmani radicali. La costruzione di una democrazia, che è un legittimo principio, va ponderata con le culture, le diverse esigenze, attivando le forze che possono costituire una democrazia con la cultura, con relazioni basate sulla legalità internazionale, rispettando gli specifici culturali. Questa politica non è segno di forza, ma di debolezza da parte degli Americani. L’attuale amministrazione americana è un disastro, perché non vede le complessità, si comporta esattamente come quei sedicenti no global fracassatori che non sanno interpretare la complessità del reale e credono che sia sufficiente avere poche idee schematicamente “giuste” per risolvere il problema, non considerando che l’essere umano è contradditorio, complesso, fragile, opportunista, ma anche vile e talvolta persino eroico, e poi vile: è molto difficile governare con sapienza.

La Shoah ha precipitato l’umanità in un abisso di abiezione. Cosa occorre attualmente per esorcizzare ogni spettro di genocidio e stillicidio, di conflitto armato e di negazione di ogni tipologia di diversità all’interno della società?

E’ necessaria una lotta costante, una battaglia diuturna che non conosce pause contro ogni forma di pregiudizio di sopruso. Quando si ricorda la Shoah è grave che non si rievochino con sufficiente enfasi le realtà perseguitate degli zingari, degli omosessuali, dei testimoni di Geova, che ancora sono vittime di pesanti pregiudizi.

Paulo Coelho dice “stai attento ai tuoi pensieri, si trasformano in parole. Stai attento alle tue parole, si trasformano in pallottole”. Noi dobbiamo insorgere contro il più piccolo e minuscolo sopruso. Dobbiamo anche tenere d’occhio noi stessi. Anche in noi stessi, nel migliore, alberga la tendenza a generalizzare, a schematizzare, a fare di ogni erba un fascio, che alimenta il virus orrendo del pregiudizio. Non dobbiamo solo guardare la pagliuzza negli occhi dell’altro, ma anche la trave nei nostri occhi. Siamo chiamati ad un impegno e a una vicinanza continua dei nostri pensieri e delle nostre parole: solo allora potremo attuare la sorveglianza delle parole degli altri. Per esempio è intollerabile che non si lasci parlare qualcuno perché non piace ciò che dice.

Quanto la Shoah è figlia del cristianesimo?

(Domanda posta da Giovanni Sarubbi, direttore della rivista telematica www.ildialogo.org )

La Shoah non è figlia del cristianesimo: sarebbe un’affermazione assolutista. Esistono responsabilità di “un certo” cristianesimo, o meglio della depravazione dei valori cristiani e della deriva del messaggio di Gesù Cristo, che si ripresentano indietro nel tempo, già con certe posizioni sui Vangeli. Occorre sempre ricordare che i primi martiri cristiani erano ebrei. Comunque l’idea di criminalizzare un popolo, di accusarlo di deicidio è un fatto di enorme gravità; intanto è una deriva del messaggio cristiano che enfatizza l'amore, la pace, anche l'amore verso chi non "ti" è amico. Dunque il messaggio cristiano viene a un certo punto pervertito. Infatti il cristianesimo pervertito, deviato è stato una delle concause scatenanti dell’antisemitismo, che ha contribuito a portare al disumano apogeo della Shoah. La memoria della Shoah ci deve portare a costruire un mondo di giustizia, di fratellanza, di uguaglianza e di solidarietà.

Proprio per questo è importante per tutti trarre ammaestramenti dalla comprensione profonda di ciò che è accaduto, anche quando capire, vedere senza lenti deformanti e senza la patina dell’autoindulgenza è molto doloroso. Per dare un contributo alla riflessione sulla Shoah voglio mettere in relazione e in risonanza due solenni affermazioni del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II e una del sinodo dei Vescovi Cattolici tedeschi nel cinquantesimo anniversario della liberazione dai campi di sterminio. La prima affermazione è contenuta nell’enciclica Nostra Aetate del 1987: sostiene il fatto che Gesù è ebreo e lo è per sempre. Poi il Papa ripetutamente, in occasione del cinquantesimo della liberazione dei campi di concentramento, dichiara che “Auschwitz è il Golgota del 2000”. Il Golgota è l’apoteosi dell’esperienza cristica prima della resurrezione. Il Calvario termina con la salita al Golgota e la crocefissione.  Ecco un ponte tra queste due affermazioni: 2000 anni or sono è salito sulla croce un giovane ebreo di nome Gesù.

2000 anni dopo sulla stessa “croce” è salito tutto il popolo ebraico, con il suo milione di bambini, il popolo zingaro, i comunisti e i socialisti oppositori di vario segno, sono saliti sulla croce i testimoni di Geova, i menomati, i delinquenti comuni, gli omosessuali, tutti i diversi, ma su quella "croce" non sono saliti i cristiani in quanto tali, vi salirono molti cristiani, ma non per la fede professata, per il fatto di essere oppositori del regime. Dunque i cristiani in quanto tali stavano dalla parte dei carnefici, ossia dei romani, come ha sostenuto il sinodo dei vescovi cattolici tedeschi nel 1995 con una dichiarazione solenne e lapidaria:” i cattolici tedeschi durante la Shoah furono complici o nel migliore dei casi indifferenti”. I cristiani, in quanto tali, nella Shoah non hanno seguito le parole di Cristo, ma lo hanno “rinnegato”, comportandosi tutti come Simon Pietro.