Ascanio il Genesio

di Silvio Cinque

Mi piace questa idea della città camminata così come la racconta Ascanio nella chiesa di S.Lorenzo in Lucina il 1 marzo. Mi piace perché è vera. Ancor oggi che bestemmio per le buche e le inospitalità perfide delle strade romane che non amano né il mio scuterone né la mia schiena, ancor oggi mi sorprendo a borbottare quanto siano ostili ai miei piedi marcapiedi e strade. Mio padre era un grande camminatore e discutevamo talvolta sull’efficacia di alcune camminate: passo del cacciatore o passo del soldato. Lui che cacciatore lo era stato fin da bambino optava per quel passo corto e quasi strascicato che lo aveva portato per i deserti della Libia alla ricerca di pernici e lepri.

Così Ascanio ricorda e riporta di suo padre e suo nonno, “operatore al cinema Iris oggi cinema Gioello” che percorrevano le strade bellicose e nazifascistificate della città fino al Quadraro. In “Scemo di guerra” la città “brugheliana” ricca di tipi e significati di un ante guerra quasi medievale cammina verso l’utopia salvifica del maiale. Anche i suburbani sottoproletari di Pasolini cammineno e tanto. L’andare ha tappe e rituali che ne caratterizzano l’aspetto abitativo, vivibile e perciò ospitale della città. La città si estende e si dilata oltre i confini riconosciuti e diventa tale, oltre le mura e i fornici del Mandrione, oltre le scarpatelle delle marane ed i rigagnoli spontanei degli agglomerati urbani organizzati e serviti da luce gas e tram, diventa tale perché camminata. Bella ed ardua la distinzione tra servizi e prodotti che Ascanio puntualizza raccontando la topologia del suo abitare a Morena, tra Ciampino e Cinecittà dove, finalmente, pietra di riferimento, sorge l’Ikea.

L’Ikea come la “Ferrobedò” del romanzo di Pasolini è il riferimento della modernità, tecnologica o macchinaria, di una civiltà del lavoro che presto assorbirà tra i suoi convulsi ed insulsi meandri la generazione del Riccetto e dei borgatari. Intanto però i borgatari borgatano e non solo in borgata. Roma diventa la meta agognata ed onirica, l’altro mondo nel quale accedere con scarpe adatte ed abiti appropriati. (Negli anni ’70 i borgatari di S.Basilio, i Tiburtari, all’accadere di avvenimenti tipo Carnevale, si appropriavano della città e delle sue luci con tutte le caratteristiche della “calata dei barberi”.

Il Carnevale diventava un momento anche troppo vivace per appropriarsi di un sogno al quale erano da sempre preclusi). Accompagnato da un Michele Mirabella leggero e profondo, colto senza essere saccente, Ascanio rivisita la tragedia di Pasolini alla luce delle sua esperienza di vita e di teatro. Le sue piacevoli riflessioni, ricche di riferimenti familiari e di aneddoti tenerissimi, accentuano ed evidenziano un Pasolini non solo e non tanto verista, ma intimista, essenziale ed esistenzale. Queste tre specificità  sono tessute tra loro dai fili grossolani e vistosi della povertà e della morte. Ma mentre la povertà dei borgatari anni 50/60 era una povertà collettiva e la morte era nutrimento e condizione di una tragicità corale, quella dei proletari di oggi soggiace alle modalità d’uso del fai da te dell’Ikea e di un regolato sociale privo di espressioni e di storie.

Con Genesio scompare in un mulinello silenzioso e tragico una generazione, una classe ed un archetipo umano suburbano soppiantato dallo sviluppo convulso e congestinato della metropolis in quotidiana ed automatica pendolarità tra l’Ikea ed il West.