Un’alluvione di firme nella settimana per l’acqua!

di
Marco Bersani - Attac Italia

Dal 17 al 25 marzo, il Forum dei Movimenti per l’Acqua ha lanciato una
settimana di mobilitazione straordinaria in tutto il Paese. L’obiettivo
è ambizioso: aggiungere altre 100.000 firme alle già oltre centomila sin
qui raccolte per la legge d’iniziativa popolare per la
ripubblicizzazione dell’acqua. Contemporaneamente, dal 18 al 20 marzo,
al Parlamento Europeo di Bruxelles si riunirà l’Assemblea Mondiale dei
Cittadini e degli Eletti per l’Acqua, con l’obiettivo di dichiarare
l’acqua bene comune e diritto umano universale.

Oggi l’acqua è considerata un bisogno da comprare, non un diritto da
garantire. E il servizio idrico un ramo del business finanziario, non un
servizio pubblico di interesse generale. É così che oltre un miliardo di
persone nel mondo non ha accesso all’acqua potabile e due miliardi e
mezzo non hanno adeguati servizi igienico sanitari. É così che dovunque
l’acqua sia privatizzata si hanno aumenti della tariffa, diminuzione e
precarizzazione del lavoro, riduzione della qualità del servizio,
espropriazione dei saperi e del controllo democratico.

La privatizzazione dell’acqua si ammanta di parole come “modernità” o
“innovazione”. Finge di dimenticare che non c’è niente di più antico
della gestione privata dei servizi idrici, che nacquero come bisogno
delle elites verso metà del XIX secolo, ma che furono trasformati dalla
grande stagione delle municipalizzate di inizio ‘900, quando ci si
accorse - grazie al proliferare delle epidemie che non facevano
distinzioni di class e- della necessità di un servizio idrico
generalizzato e accessibile a tutti, che i privati non potevano certo
garantire.

Nella normativa vigente in Italia, l’acqua è considerata un bene
economico e la gestione del servizio idrico può avvenire attraverso
un’unica forma societaria, la società di capitali, che possono essere
privati, misti o interamente pubblici. Occorre un di più di chiarezza:
la SpA è un ente di diritto privato, tenuta, secondo il Codice Civile,
ad avere come obiettivo il profitto. La gestione dell’acqua attraverso
SpA, anche a totale capitale pubblico, comporta una torsione
economicistica del servizio e la mercificazione del bene comune. Può non
essere formalmente presente il privato, avremo tuttavia un pubblico che
si deve comportare come tale.

Grazie alle decine di vertenze territoriali aperte e al Forum dei
Movimenti per l’Acqua, l’onda della ripubblicizzazione dell’acqua è
diventata una vertenza nazionale. Proprio il timore di quell’onda sta
provocando in diversi territori un’accelerazione dei processi di
privatizzazione. In barba alle richieste dei movimenti e dei comitati
popolari di gestione pubblica e partecipativa dell’acqua, in Sicilia si
procede con diktat dei commissari, nominati direttamente dal governatore
Totò Cuffaro. Ma anche in Lombardia, nonostante la legge regionale
voluta da Formigoni sia stata impugnata per incostituzionalità dal
Governo, gli ATO accelerano nell’approvazione di convenzioni che
recepiscono l’obbligo alla privatizzazione; mentre in Campania la
mobilitazione permanente dei comitati prova ad impedire ulteriori
processi di privatizzazione.

Il 10 marzo a Palermo, benedette da una pioggia battente, oltre
diecimila persone hanno sostenuto la legge di iniziativa popolare e
chiesto a gran voce una moratoria sui processi di privatizzazione in
corso. Il programma dell’Unione ha scritto a chiare lettere “La
proprietà e la gestione dell’acqua devono rimanere in mano pubblica”. Il
Governo non può sottrarsi, né limitarsi a periodiche dichiarazioni ad
uso dei mass-media. Esigiamo subito un decreto ad hoc che stabilisca una
moratoria immediata su tutti i processi di privatizzazione in corso. Lo
chiedono i movimenti che stanno raccogliendo firme per la legge
d’iniziativa popolare in tutto il Paese, lo chiedono i tanti Enti Locali
che si stanno ribellando a processi che esautorano il proprio ruolo di
rappresentanti delle comunità locali.

Anche per questo, in centinaia di piazze, strade e mercati delle città
si raccoglieranno firme per l’intera settimana dell’acqua. Dal
riconoscimento dei beni comuni, come in Val di Susa, a Vicenza, nelle
decine di realtà territoriali in lotta, nascono nuove forme di
partecipazione sociale dal basso. In quelle esperienze - e non
nell’autismo istituzionale dei dodici punti di Prodi - risiede la
possibilità di rifondare una democrazia sostanziale.



L'Europa? Tutto va ben, madama la marchesa

di 
Alejandro Teitelbaum

Nel decennio a partire dal 1970 si assiste alla fine dello Stato del
benessere, caratterizzato dalla produzione di massa e dal consumo di
massa; quest'ultimo ha tratto vigore dall'aumento tendenziale dei salari
reali e dall'estendersi generalizzato della previdenza sociale e di
altri benefici. E' quello che gli economisti chiamano il modello
"fordista", di ispirazione keynesiana, inaugurato negli Usa ed esteso
all'Europa, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale.
L'esaurirsi del modello dello Stato del benessere è dipeso da varie
ragioni: per esempio, bisogna rilevare che l'espansione economica
iniziata con la ricostruzione del dopoguerra ha raggiunto i propri
limiti, che il consumo di massa, come pure gli utili delle imprese, sono
andati verso il ristagno o la regressione, mentre allo stesso tempo si
sono prodotte grandi innovazioni tecnologiche (robotizzazione,
microelettronica, ecc.). Per dare un nuovo impulso all'economia
capitalista è stato necessario incorporare nella produzione di beni e
servizi la nuova tecnologia e ciò ha richiesto ingenti investimenti di
capitali.

Così ha avuto inizio l'epoca dell'austerità e dei sacrifici
(congelamento dei salari e aumento della disoccupazione) che hanno
accompagnato la riconversione industriale. Nello stesso tempo, la
rivoluzione tecnologica, nei Paesi più sviluppati, ha favorito la
crescita del settore servizi e si è verificato lo spostamento di una
parte dell'industria tradizionale verso i Paesi periferici, dove i
salari erano - e continuano ad essere - molto più bassi.
Si è accentuato il passaggio da un sistema basato sulle economie
nazionali ad un'economia dominata da tre centri mondiali: gli Usa,
l'Europa e il Giappone, più il gruppo formato dalle "4 tigri dell'Asia":
la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore. I "vantaggi
comparativi" degli Stati sono diventati i "vantaggi comparativi" delle
società multinazionali con dislocazione territoriale differenziata.
Grazie all'incorporazione delle nuove tecnologie, la produttività è
enormemente aumentata, cioè, a parità di lavoro umano, la produzione di
beni e servizi è risultata molto maggiore.

A questo punto si sono aperte due possibilità: da un lato incentivare su
scala planetaria il consumo di massa dei beni tradizionali e dei beni di
nuovo tipo grazie ad una politica salariale espansiva, rivitalizzare la
politica sociale nello stile dello Stato del benessere, ridurre la
giornata di lavoro in funzione dell'aumento della produttività per
tendere ad una situazione di pieno impiego e garantire prezzi
internazionali equi alle materie prime e ai prodotti dei Paesi poveri;
dall'altra parte, conservare ed anzi aumentare i margini di profitto,
tenendo bassi i salari, il livello di occupazione e i prezzi dei
prodotti dei Paesi del Terzo Mondo.

La prima opzione sarebbe stata praticabile in un sistema di economie
nazionali, nelle quali la produzione ed il consumo in linea di massima
avvengono all'interno del territorio e, di fatto, è possibile il patto
sociale fra i capitalisti e i salariati, contemporaneamente in veste di
consumatori. Ma nel nuovo sistema globalizzato, la produzione viene
destinata ad un mercato mondiale di "clienti solventi" e il potere di
acquisto degli abitanti del luogo di produzione non ha più alcuna
importanza.

Nelle condizioni di globalizzazione accelerata, i detentori del potere
economico e politico su scala mondiale con la loro visione di
"economia-mondo" e di "mercato globale" hanno optato per la seconda
alternativa, al fine di innalzare il proprio margine di benefici,
mantenendo bassi i salari, alti i livelli di disoccupazione, tagliando
le spese per la previdenza sociale, pagando prezzi irrisori per le
materie prime, ecc..

Questa scelta ha avuto la conseguenza di accentuare le disuguaglianze
sociali all'interno di ogni Paese e a livello internazionale, e si è
creata una netta differenziazione nell'offerta e nella domanda di beni e
di servizi. La produzione e l'offerta dei beni si sono rivolte non a
tutta la gente in generale, ma solo ai cosiddetti "clienti solventi". Si
è avuto così un enorme incremento nel mercato dei beni di lusso, e
l'offerta di nuovi prodotti - come computers e cellulari - ha trovato
una gran massa di clienti nei Paesi ricchi, nonché molti clienti non
troppo poveri nell'immediata periferia. I beni essenziali per la
sopravvivenza (generi alimentari, salute, medicine) sono praticamente
rimasti fuori della portata del settore più povero della popolazione
mondiale. L'idea del servizio pubblico e dell'irrinunciabile diritto ai
beni essenziali per garantire un minimo di dignità di vita è stata
rimpiazzata dal principio che tutto dev'essere sottoposto alle leggi del
mercato (Nel rapporto dell'Alta Commissione delle Nazioni Unite per i
Diritti Umani  - - - documento E/CN.4/Sub.2/2002/9 del 25 giugno 2002 -
si afferma, in riferimento al commercio di servizi, che un investimento
privato straniero può avere come risultato la fornitura di servizi a due
diversi livelli, uno per i sani e i ricchi, e l'altro per i poveri e i
malati, nonché l'allontanamento del personale specializzato dai servizi
pubblici, un'eccessiva insistenza sugli obiettivi commerciali a spese
degli obiettivi sociali e un settore privato sempre più ampio e potente
che può minacciare la funzione del governo come principale garante dei
diritti umani).

I ritmi di crescita economica si sono mantenuti bassi, perché un mercato
relativamente ristretto imponeva limiti alla produzione: da qui è
scaturito il fenomeno delle grandi masse inattive di capitale
(petrodollari compresi), che non potevano essere investite nella
produzione stessa. Tuttavia, per i detentori di questi capitali
(persone, banche, istituzioni finanziarie) era impensabile lasciarli in
un angolo senza farli fruttare.
Così il compito tradizionale delle finanze al servizio dell'economia -
con l'intervento sia nel processo di produzione sia in quello del
consumo (tramite crediti, prestiti, ecc.) - è stato limitato dal nuovo
ruolo del capitale finanziario: produrre sì utili, ma senza prendere più
parte al processo produttivo.
Questo fenomeno si traduce secondo modalità diverse: tramite l'acquisto
di azioni di società industriali, commerciali e di servizi da parte
degli investitori istituzionali - gestori di fondi pensione, compagnie
di assicurazione, organismi di investimento collettivo, come i fondi
d'investimento (i fondi di investimento riuniscono fondi provenienti dai
fondi pensione di imprese, di compagnie d'assicurazione, di privati,
ecc., che li usano per l'acquisto di imprese industriali, commerciali o
di servizi; queste imprese possono venire conservate quando si rivelino
molto redditizie oppure per motivi strategici; in alternativa possono
essere rivendute con un considerevole margine di guadagno. Gli acquisti
vengono realizzati usando il sistema detto Leverage Buy-out (LBO): il
termine potrebbe essere tradotto "operazioni con effetto leva",  e
consiste nel finanziare l'acquisto in parte (generalmente il 30%) con
capitale proprio e per il resto (70%) con prestiti bancari, garantiti
dal patrimonio dell'impresa acquistata. Si calcola che i fondi di
investimento nel mondo ammontino a circa 350 mila milioni di dollari da
investire e che, nel 2005, soltanto in Europa si siano raccolti 72 mila
milioni di dollari di fondi pensione e di grandi fortune) ecc. - i
quali, dunque, intervengono direttamente nelle decisioni di politica
delle imprese affinché i loro investimenti, come sperato, producano
rendite elevate.
Il movimento di capitali in questa attività improduttiva ha acquisito
proporzioni gigantesche: nel 2006 sono stati battuti tutti i records
annuali nelle fusioni e negli acquisti di imprese: in effetti il loro
volume ha raggiunto i 3.610.000.000.000 dollari, il 30% in più rispetto
al 2005.

Il professor Michel Drouin afferma: "Gli anni "80, per l'aumento dei
flussi di capitali internazionali, conseguente alla deregulation e alla
destrutturazione quasi generale dei mercati finanziari, sono stati il
decennio della globalizzazione finanziaria.
Le operazioni finanziarie, il cui volume era già scollegato da quello
delle transazioni in beni e in servizi, sono diventate totalmente
autonome, ossia influenzate non più dalla logica delle transazioni
correnti, ma da quella dei movimenti di capitali. Il settore finanziario
ha fondato il suo sviluppo su se stesso, ricercando un beneficio che
scaturisse eslusivamente dalla variazione dei prezzi dei propri
strumenti. Per il carattere speculativo di questa logica di crescita si
può parlare della nascita di un'economia internazionale della
speculazione"( Michel Drouin, Il sistema finanziario internazionale,
Edit. Armand Colin, Parigi, gennaio 2001, Cap. V).

Gli Usa e una parte della loro popolazione sono i primi beneficiari del
processo di globalizzazione finanziaria, che consente loro di
appropriarsi del prodotto del lavoro e dei risparmi dei popoli di tutto
il pianeta. Ronald Mc Kinnon, professore titolare del Dipartimento di
Scienze Economiche dell'Università di Stanford, in un articolo
pubblicato nel Bollettino del Fondo Monetario Internazionale (Fondo
Monetario Internazionale, Finanze e Sviluppo, giugno 2001) scrive:
"Nell'ultimo decennio, il risparmio delle famiglie (negli Usa) è
diminuito più di quanto il risparmio pubblico (espresso dalle eccedenze
nei budgets) non sia aumentato nello stesso periodo. L'enorme deficit
nella bilancia dei pagamenti (esportazioni contro importazioni) delle
transazioni correnti Usa - circa il 4,5% del prodotto nazionale lordo
del 2000 - riflette questo squilibrio nel risparmio. Per finanziare un
livello normale d'investimento interno - storicamente attestato attorno
al 17% del prodotto nazionale lordo - gli Usa hanno dovuto attingere
largamente ai risparmi del resto del mondo.

'Cattive" riduzioni di imposte - quelle che diminuiscono il risparmio
pubblico senza stimolare il risparmio privato - potrebbero incrementare
questo debito con l'estero. Da oltre 20 anni (cioè da prima del 1980),
gli Usa fanno ricorso con ampiezza alle riserve limitate del risparmio
mondiale per sostenere il proprio alto livello di consumo - quello
dell'amministrazione federale negli anni "80 e quello delle famiglie
negli anni '90.

Le entrate nette di capitali attualmente superano quelle dell'insieme di
tutti i Paesi in via di sviluppo. E così gli Usa, che all'inizio del
1980 erano creditori del resto del mondo, sono diventati il maggior
Paese debitore al mondo: circa 2 miliardi 300 mila milioni di dollari
nel 2000. I bilanci delle famiglie e delle imprese negli Usa mostrano
l'effetto cumulativo dei prestiti privati ottenuti all'estero da 10 anni
a questa parte. Il debito delle imprese è molto elevato anche in
relazione ai flussi di cassa.

Tuttavia, non c'è di che preoccuparsi. Gli Stati Uniti si trovano in una
situazione unica e, di fronte al resto del mondo, dispongono di una
linea di credito praticamente illimitata, prevalentemente in dollari. Le
banche e le altre istituzioni finanziarie Usa sono relativamente al
riparo rispetto ai tassi di cambio, in quanto i loro attivi (...) e i
loro passivi sono in dollari. Al contrario, altri Paesi debitori devono
adattarsi alla disparità delle divise: i passivi internazionali delle
loro banche e delle altre imprese sono in dollari, mentre gli attivi
sono in valuta nazionale (i Paesi dell'Asia continuano ad acquistare in
quantità massiccia i buoni del Tesoro statunitensi, e proprio grazie a
ciò gli Usa riescono a coprire il proprio deficit fiscale. Quasi i 4/5
dei finanziamenti richiesti sono stati ottenuti in questo modo.
Nell'anno 2006 il deficit fiscale è salito a 247.700 milioni di dollari
Usa, circa il 1,9% del PIL).

Questa "economia internazionale della speculazione" ha accelerato il
processo di accumulazione di grandi capitali in poche mani, soprattutto
a spese dei lavoratori, dei pensionati e dei piccoli risparmiatori,
creando l'illusione che il denaro potesse riprodursi da solo, senza
intervenire nel processo di creazione di valore.

Nel caso specifico delle partecipazioni del capitale finanziario (fondi
pensione, compagnie di assicurazione, fondi di investimento, banche,
ecc.) nelle industrie e nei servizi, la rendita elevata che questi
capitali esigono ed ottengono si fonda sul peggioramento delle
condizioni di lavoro nelle industrie e nei servizi stessi. E" ben noto
il fenomeno per cui, quando un'impresa annuncia dei licenziamenti, le
sue azioni salgono (tramite queste risorse esterne si son potute
finanziare le riduzioni di imposte grazie alle quali Bush ha favorito
settori altamente redditizi, ottenere le risorse necessarie a portare
avanti il costoso intervento militare in Iraq e in Afghanistan e a
mantenere lo spiegamento di forze attorno al mondo, e inoltre si son
potute concedere delle esenzioni tributarie discriminatorie. Hugo Fazio
(CENDA) : gli Usa sono finanziati dal resto del mondo. Argenpress
17/10/2006).

Sono state proprio queste le modalità grazie a cui il capitale
multinazionale ha mantenuto e continua a mantenere un alto tasso di
benefici e un ritmo accelerato di accumulazione e di concentrazione,
malgrado la crescita economica al rallentatore e il mercato ristretto.
Tra l'altro, gli scandali finanziari smascherati nel corso del 2002
hanno causato perdite enormi ai più grandi fondi pensione statunitensi,
che hanno deciso di fare causa ai responsabili, tra cui Enron e il suo
auditor Arthur Andersen; WorldCom ecc.. Calpers, che amministra il
denaro di 1.300.000 funzionari californiani, CalSTRS (687000 docenti
dello stesso Stato) e Lacera (132000 impiegati di Los Angeles) hanno
perduto 318 milioni di dollari per il fallimento di WorldCom (oltre 7
mila milioni di dollari andati in fumo). Il fondo pensione dei
funzionari dello Stato di New York (112 mila milioni di dollari di
attivo) ha perso 300 milioni di dollari nel fallimento di WoldCom, etc.
(Vedi Le Figaro économie, 18/7/02, p. I y VII). Si percepisce anche la
recente tendenza dei grandi fondi pensione ad acquistare le imprese,
invece di limitarsi a investire in esse e cercare di controllarle,
cosicché l'esigenza di assicurare agli azionisti una rendita più
elevata- a spese delle condizioni di lavoro, dei  salari e della
stabilità nell'impiego del personale delle imprese - si fa sempre più
imperativa.

Comunque il problema sta nel fatto che il denaro NON E' un valore ma
RAPPRESENTA un valore. Il valore si crea soltanto attraverso la
produzione e per se stesso il denaro non può generare valore né produrre
utili.

Nel giugno 2001, Sergio Tchuruk, presidente di Alcatel, una grande
società multinazionale francese, ha annunciato la sua intenzione di
creare un'impresa senza fabbriche.
Commentando questa dichiarazione sul giornale francese Le Monde del 3
luglio 2001,  Jean-Marie Harribey(*), professore di scienze economiche e
sociali dell'Università di Bordeaux IV, sottolineava che la frase di
Tchuruk era l'espressione più calzante dell'attuale utopia capitalista,
che teorizza la creazione di valore per l'azionista.
Imprese del genere non sono un progetto futurista di Tchuruk, ma
esistono già nella realtà: sono quelle che tengono per sé l'attività
finanziaria e subcontrattano o controllano l'attività produttiva che
viene realizzata da altre imprese.

Secondo il professor Harribey, tali imprese dovrebbero creare per
l'azionista un valore corrispondente al valore generato dal processo di
produzione, del quale sono le imprese finanziarie ad appropriarsi.
Questa appropriazione di valore - afferma Harribey - può assumere due
forme. La prima prevede un peggioramento delle condizioni di impiego
(salari bassi, orari di lavoro flessibili, impieghi precari,
disoccupazione), ciò significa che l'aumento della produttività non
arreca beneficio ai lavoratori e può avere effetti positivi soltanto
nell'aumentare il rendimento del capitale. La seconda forma in cui si
traduce questa appropriazione di valore ha luogo attraverso una
ripartizione disuguale tra il capitale produttivo e il capitale
finanziario, a tutto beneficio di quest'ultimo, dato che i gestori di
capitali finanziari con partecipazioni in attività produttive esigono un
tetto minimo di rendita, che in molti casi non potrebbero raggiungere
mantenendo condizioni decenti di lavoro e un'equa distribuzione dei
benefici tra il capitale produttivo e il capitale finanziario.
ARGENPRESS Info (24.01.07)

Traduzione a cura di
Cinzia Vidali

(*) NDR Jean-Marie Harribey è oggi co-presidente e membro del Consiglio
Scientifico di Attac Francia


Automobile o tortillas?

Di
Matilde Giovenale

Il nuovo fronte dello scontro fra Stati Uniti e Messico si chiama
tortillas, o meglio mais. Un terreno di conflitto che si è aperto già da
qualche settimana ma che ha registrato nella nottata di oggi una
recrudescenza significativa, con decine di migliaia di messicani scesi
nelle piazze e nelle strade della capitale, Città del Messico, per
protestare contro il grande stato del Nord. E con il presidente Felipe
Calderon, intervenuto pubblicamente per annunciare un giro di vite
contro speculatori e accaparratori che sfruttano la situazione. Alla
base della manifestazione e del clima di tensione fra i due paesi, la
crescita di prezzo che ha investito il tradizionale alimento messicano,
la tortilla, arrivato a costare oltre il 400% in più rispetto al suo
costo tradizionale: sette pesos al chilo (0,50 euro) oggi arrivati ai 18.

A rendere così esosa la focaccia di granturco ci sarebbe l'accresciuta
domanda di mais, elemento base di composizione della piadina
sudamericana, da parte degli Usa, i quali utilizzano il cereale per
produrre il biocombustibile etanolo. Il punto critico è che gli States
non sono solo il primo produttore ed esportatore al mondo di mais, ma
anche il maggior produttore di etanolo. Da parte sua, il Messico ne
produce invece soltanto 21 milioni di tonnellate non soddisfacendo il
suo fabbisogno, che si aggira intorno ai 39, e rendendo così necessario
il ricorso all'importazione dal gigante a stelle e strisce. Una
necessità, quella messicana, che permette agli Stati Uniti di imporre un
aumento del costo del mais, con grave danno per le tasche della
popolazione messicana. Del resto i dati in materia parlano da soli:
l'aumento di 650mila tonnellate di mais importato dagli Stati Uniti a
prezzo calmierato rappresenta infatti solo il 3% della produzione
nazionale e le ripercussioni sui prezzi e le tensioni sociali appaiono
dunque inevitabili.

Una soluzione al problema, che però non trova d'accordo gli Usa, sarebbe
quella di ridurre i sussidi a favore degli agricoltori americani.
Secondo la Casa Bianca, come ha sottolineato recentemente il presidente
George Bush parlando al Congresso, l'etanolo è infatti la fonte
alternativa al petrolio per il prossimo futuro, per tanto la prospettiva
di diminuire l'uso del mais appare impraticabile; al contrario, gli Usa
hanno già fatto sapere che per il 2008 la produzione del cereale dovrà
salire fino a 65 milioni di tonnellate, consentendo la conseguente
crescita dell'estrazione del biocombustibile.

Ora, il rischio che si profila per il Messico è quello di una vera e
propria insufficienza alimentare, che da sempre in realtà ha gravitato
come una minaccia sul Paese. Uno stato che, come ha spiegato al Sole 24
ore in una sua intervista recente Marcello Carmagnani, professore
ordinario di storia dell'America Latina all'università di Torino, non ha
mai avuto una vera e propria autosufficienza in materia.

Unica categoria che potrebbe trarre vantaggio da questa "crisi della
tortilla" appare per ora quella dei produttori agroalimentari messicani
di transgenico. Jaime Yesaki, presidente del Cna (Consejo nacional
Agropecuario), un organismo che raggruppa più di 500 produttori, ha
infatti prospettato l'ipotesi che la coltivazione di semi di mais
transgenico venga impiegata come una prima risposa all'emergenza vissuta
dal Messico. La sua proposta appare però di difficile realizzazione,
anche per via della contrarietà già manifestata da organizzazioni come
Geenpeace, tradizionalmente avversi agli ogm. Per non parlare poi del
divieto che da otto anni esiste in Messico e che proibisce la semina di
mais geneticamente modificato. Non è un caso infatti che la stessa
organizzazione sospetti che la crisi attuale sia stata volutamente
innescata per poter giustificare la cancellazione di quel divieto e
favorire la produzione transgenica.

Il caso della tortilla messicana assume però un significato ben più
globale, trasformando una vicenda locale in un fenomeno di ben più vasta
portata. "L'alternativa, il trade-off, tra cibo e combustibile - spiega
infatti Lester Brown, direttore dell'Earth policy institute - rischia di
provocare un caos nel mercato mondiale degli alimenti". La battaglia del
mais infatti testimonia come sia ormai necessaria una politica di
superamento della dipendenza dal petrolio, una nuova epoca in materia
energetica che ha il suo futuro proprio nella produzione di
biocarburanti. In proposito, Brown stesso ha dichiarato in occasione del
recente World economic forum di Davos, come "nessun Governo, né quello
di Washington né altri, è cosciente della gravità della crisi che entro
breve potrebbe riprodursi in Indonesia, Algeria, Nigeria o Egitto, Paesi
in via di sviluppo dipendenti dalle importazioni di cereali".

www.aprileonline.info 2/2/2007



El Salvador: 15 anni dopo la firma degli Accordi di pace abbiamo
qualche motivo per celebrare?

di
Celia Medrano

Per il giorno 16 gennaio è stata ufficialmente proclamata la
celebrazione dei 15 anni trascorsi dalla firma degli Accordi di Pace nel
Salvador - un evento promosso dal governo salvadoregno insieme all’(ora)
partito politico Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martí (FMLN),
dov’è attesa la presenza del Segretario Generale dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite.

Diversi settori sociali, tra i quali gli invalidi di guerra, gli ex
pattugliatori e gli ex combattenti, hanno manifestato il proprio
disaccordo sul fatto che un avvenimento politico e storico di questa
natura possa meritare una celebrazione, considerando la stasi o
addirittura il regresso che si rilevano rispetto ad importanti obiettivi
delineati dagli Accordi, e visto che continuano ad esistere invariate le
condizioni strutturali che dettero origine al conflitto armato.

Inoltre, malgrado il fatto che le Nazioni Unite abbiano dichiarato
conclusi gli Accordi di Pace del Salvador nel 1997, in realtà taluni
propositi degli Accordi stessi non sono stati tradotti in atto, mentre
importanti raccomandazioni relative ad istanze scaturite dai negoziati
sono rimaste lettera morta. Lo stesso segretario Generale dell'ONU
dell’epoca, Boutros Ghali, nel rapporto finale di verifica 1997, ha
sottolineato significativi aspetti rimasti incompiuti, non solo
nell'ambito della pubblica sicurezza, ma anche in quello dei diritti
umani e dell'amministrazione della giustizia, ponendo l'accento
specialmente sulla mancata attuazione delle raccomandazioni formulate
dalla Commissione per la Verità.

I risultati più notevoli degli accordi, senza dubbio, sono stati la
cessazione dello scontro armato, la smobilitazione degli apparati della
violenza statale tradizionale, che sono rimasti attivi per decenni, e la
trasformazione della forza guerrigliera militare del FMLN nella figura
giuridica di un partito politico. Tuttavia, più che la celebrazione
della firma di un accordo politico tra due parti a confronto che ha
posto fine ad un conflitto armato, questa può essere piuttosto
un'occasione propizia per compiere un'analisi sugli Accordi di Pace,
vedere se sono stati più o meno attuati, e individuare il reale
contributo apportato dagli stessi al presente scenario nazionale.

Il periodo di 15 anni è sufficientemente ampio per dare una valutazione
più adeguata del processo, degli attori e delle possibili evoluzioni, a
partire dalle aspettative che a suo tempo la firma degli Accordi aveva
generato nella società salvadoregna, e dall'impulso a creare uno spazio
che consentisse di progredire nella profonda trasformazione dello Stato,
in vista della 'democratizzazione, del rispetto senza vincoli dei
diritti umani e della riunificazione della società salvadoregna" -
questo l'obiettivo finale del processo, formulato dalle Parti negozianti
nel cosiddetto Accordo di Ginevra dell'aprile 1990.

Con gli Accordi di Pace è nata l'idea di costruire lo Stato democratico
salvadoregno e si è inaugurato un nuovo periodo, in cui si è fatta
strada l’idea che progressivamente si sarebbero potuti coinvolgere
diversi settori fino ad allora politicamente esclusi e che, in un
secondo tempo, si sarebbero potuti promuovere dei cambiamenti per il
benessere socioeconomico della popolazione. In genere si afferma che gli
Accordi hanno segnato l'inizio di un nuovo sistema politico e che hanno
consentito di "esprimere il nuovo consenso della Nazione, cosa che
implica un nuovo patto sociale, una sorta di rifondazione dello Stato e
della Nazione salvadoregna".

Una delle formulazioni più integrali di questi obiettivi è stata quella
pronunciata dal Professor Pedro Nikken, Esperto Indipendente per El
Salvador della Commissione per i Diritti Umani dell'ONU: "Gli Accordi di
Pace... non si sono limitati a risolvere le questioni militari, ma hanno
delineato un denso programma di riforme destinate ad affrontare alcune
delle cause profonde del conflitto, a garantire il rispetto dei diritti
umani e a dare impulso alla democratizzazione del Paese....".
Ciononostante, la traduzione in pratica degli Accordi di Pace, aldilà
della cessazione dello scontro armato e dello smantellamento del
conflitto, non ha mai realmente portato la sperata trasformazione
democratica dello Stato salvadoregno.

I cambiamenti - contemplati negli Accordi - maggiormente disattesi e
incompiuti sono stati quelli che miravano a forgiare una nuova
istituzionalità democratica.
Sono state rilevate involuzioni nelle strutture della Polizia Nazionale
Civile (PNC), nella Procura per la Difesa dei Diritti Umani (PDDH), nel
Pubblico Ministero Generale della Repubblica, organo giudiziario, nella
Corte dei Conti, nel Tribunale  Elettorale Supremo e nell'Assemblea
Legislativa, come pure una tendenza verso pratiche autoritarie e lesive
dei diritti umani, come la "Legge per la Difesa Nazionale", la "Legge
speciale contro gli atti di terrorismo" e la "Legge contro il crimine
organizzato e i delitti di realizzazione complessa", tutte approvate di
recente.

Analogamente, il processo di deterioramento degli Accordi viene
accentuato dal coinvolgimento dei militari, che dal 1993 svolgono
funzioni di pubblica sicurezza, e dal rifiuto reciso degli stessi di
fronte al rapporto della Commissione sulla Verità. Questo processo è
andato avanti fino al momento attuale, che ha visto le Forze Armate
ottenere maggior controllo sulla PNC.

Conseguenze innegabili per il Paese riveste anche la circostanza che El
Salvador sia l'unica nazione latinoamericana a mantenere contingenti
militari in Iraq.
Il governo salvadoregno spiega che la presenza militare in Iraq risponde
all’appello delle Nazioni Unite, dando ad intendere che l'aggressione
militare contro questo Paese sovrano ha l'appoggio legale del Consiglio
di Sicurezza dell’organismo internazionale.
E tuttavia, in una recentissima conferenza tenutasi nella sede dell'ONU
a Ginevra, prendendo congedo, Kofi Annan avrebbe ammesso che "...la
guerra in Iraq è stata l'avvenimento più triste dei suoi 10 anni in
carica, fra l'altro perché le Nazioni Unite non sono riuscite ad
evitarla...".

L'anno scorso, mentre era in visita nel Salvador, l'ex Segretario Usa
della Difesa, Donald Rumsfeld, ha lodato il progresso del Paese,
affermando che "L'umanità si muove verso la libertà. Lo abbiamo visto
nel Salvador, lo abbiamo visto in Afghanistan, e credo che lo vedremo in
Iraq".
Il Paese è emerso da una guerra civile appoggiata dagli Usa, non solo, è
anche il secondo, nell'ordine, a riceverne aiuti militari ed è
l'undicesimo nella lista di acquisto armi, investendo tra il 2000 e il
2003 un totale di 46.8 milioni di dollari in armamenti.
Durante la guerra civile, nella quale, in 12 anni, sono state
assassinate 75,000 persone, Washington ha assicurato un apporto
giornaliero di 1.5 miliardi di dollari in aiuti economici e militari.

Il fallimento maggiore degli Accordi di Pace è quello relativo alla
protezione dei diritti economici e sociali della popolazione, nonostante
fosse stata decisa la creazione del Foro di Concertazione Sociale.
Il compimento degli Accordi di Pace in tema economico e sociale è
indispensabile, particolarmente per quel che si riferisce alla
distribuzione delle terre, alla concessione di credito e di appoggio
tecnico alla piccola produzione contadina e alle piccole e microimprese,
alla soppressione delle pratiche monopolistiche, all'investimento
sociale, al funzionamento reale del Foro di Concertazione Economica e
Sociale e ai programmi per gli invalidi di guerra.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario aumentare il prelievo
fiscale, combattendo l'evasione - praticata principalmente dai grandi
imprenditori - il cui ammontare è quasi pari al prelievo annuale del
governo.
È particolarmente importante ribadire che l'attuale Consiglio Superiore
del Lavoro non è un sostituto del Foro di Concertazione
economico-sociale, poiché non ha carattere risolutivo, non affronta i
temi segnalati dagli Accordi di Pace e appoggia la politica del governo.

La fine della guerra è una conquista inestimabile del popolo
salvadoregno. Ma, aldilà della loro rilevanza storica, gli Accordi di
Pace aspiravano a fondare uno Stato rispettoso e garante dei diritti
umani, basato su un'istituzionalità nuova o riformata che desse
concretezza alla cornice costituzionale del Paese.
Nonostante il successo nella cessazione della lotta armata, il processo
democratico salvadoregno ha subito una stasi, dovuta a gravi
deterioramenti, regressioni e intolleranze e molte delle istituzioni
statali hanno visto minata la loro indipendenza rispetto a poteri di
fatto, soprattutto politici o economici.

I vuoti più sensibili, 15 anni dopo la firma degli accordi di pace, sono
quelli relativi all'inosservanza delle raccomandazioni scaturite da
rapporti fondamentali, come quelli della Commissione sulla Verità, del
Gruppo Ad Hoc e del Gruppo Congiunto per l'Investigazione dei gruppi
armati illegali con motivazione politica.
I responsabili degli Squadroni della morte che hanno operato nel
decennio '80 non sono stati inquisiti, i loro membri non sono stati
sottoposti a giudizio e non è stata offerta alcuna riparazione alle
vittime. In questo senso, tali strutture si sono mantenute
potenzialmente attive per la violenza politica degli anni successivi.
Nel decennio '90, sia il Segretario Generale sia l'Esperto Indipendente
della Commissione per i Diritti Umani, hanno espresso la loro
preoccupazione per la persistenza di esecuzioni estragiudiziarie nel
Salvador.
Lo Stato non ha mai promosso serie ed efficaci investigazioni riguardo a
questo tipo di omicidi e, in generale, ha sempre dimostrato la sua
incapacità nel far luce sulle centinaia di omicidi che ogni anno
avvengono nel Salvador, per i quali, anzi, dai decenni '70 e '80 si è
configurato uno scenario di impunità quasi assoluto.

La legge di Amnistia, decretata dall'Assemblea Legislativa nel 1993,
attualmente costituisce uno degli ostacoli principali al superamento di
questo problema. Annullare e rendere inapplicabile questa legge è un
imperativo che è stato ribadito dalla Commissione Interamericana per i
Diritti Umani, dal Comitato per i Diritti Umani dell'ONU e dalla stessa
“Sala de lo Constitucional” della Corte Suprema di Giustizia del Salvador.
Nel 1994 e nel 1995, il Paese ha raggiunto il tasso allarmante di 150 e
160 omicidi ogni 100 mila abitanti, diventando il Paese più violento
dell'America Latina per questo tipo di reato. Nel 2005, la cifra totale
degli omicidi è stata di 3.761 (54,71 ogni 100 mila abitanti) per cui El
Salvador, in questo campo, ha di nuovo raggiunto il discutibile primato
geografico di Paese più violento della regione.

Al centro di tutto c'è il problema dell'impunità; finché esisteranno la
tendenza alla rimilitarizzazione della società e l’iniquità, i
responsabili delle istituzioni create per compiere le missioni previste
dagli accordi contro l'impunità, la corruzione e a favore di uno Stato
di diritto, continueranno a muoversi nell'impotenza, nella frustrazione,
nella debolezza o nella connivenza.
Le cause della guerra sono state principalmente economiche. Cionostante,
le cause strutturali che, indiscutibilmente, hanno causato il conflitto
armato non erano oggetto di negoziato. I potenti e circoscritti
interessi economici e politici tradizionali hanno saputo imporsi anche
nell'attuale nuovo contesto "smilitarizzato" del  Salvador; proprio per
questo è importante demistificare l'ideologia che esalta il processo di
pace salvadoregno come un successo quasi totale e ricordare invece il
carattere integrale degli Accordi.
15 anni dopo, questo percorso permette di visualizzare i diversi
risultati e quanto non è stato compiuto, così come evidenzia l'assenza
di una agenda comune della Nazione, elemento pendente irrisolto della
democrazia che il Paese continua a reclamare.

Servicio Informativo "Alai-amlatina"
Traduzione a cura di
Cinzia Vidali


2006: fusioni per 4 miliardi di dollari. La concentrazione economica
nella sua massima espressione

A cura della
Redazione di APM

Nel 2006 è stato stabilito un nuovo record mondiale nel campo delle
fusioni e degli acquisti di imprese. I difensori di questo fenomeno
dicono che il consolidamento economico è positivo, tuttavia l’effetto
economico degli acquisti è nullo. Il mondo sta vivendo un’ondata di
fusioni e di acquisti… già da alcuni lustri. L’anno scorso è stato
raggiunto un nuovo record negli acquisti di corporazioni, per un valore
complessivo, a livello globale, di 3.980.000.000.000 di dollari, pari -
più meno - al Prodotto Interno Lordo del Giappone. Gli ‘specialisti’ non
si stancano di assicurare che il consolidamento è un segno salutare, ma
la sua ricaduta sulla creazione di ricchezza e di impiego è nulla, ed
esso serve soltanto a tagliare dei costi amministrativi.
Alla fine del 2006 la concentrazione corporativa prodotta attraverso
acquisti e fusioni tra imprese, in tutto il mondo, ha raggiunto la cifra
record di quasi 4 miliardi di dollari statunitensi, secondo gli studi
effettuati dalle società di consulenza Thomson Financial y Dealogics.
Secondo la ditta di analisi di mercato Thomson Financial, il valore
totale delle fusioni e degli acquisti di imprese, nel 2006, a livello
globale ha toccato i 3,79 miliardi di dollari statunitensi, cioè un
aumento del 38% rispetto al 2005 su questo genere di operazioni . Per la
società Dealogics il valore totale sarebbe addirittura superiore, e,
secondo l’agenzia Telam, raggiungerebbe i 3,89 miliardi di dollari.
Questo significa che le imprese sono sempre di meno, ma sempre più
grandi, che hanno maggior potere per imporre i propri prodotti e le
proprie norme di consumo, per determinare le condizioni lavorative o la
disoccupazione e per esercitare pressioni di ogni tipo su congressisti,
governi o istituzioni internazionali al fine di ottenere le norme e le
legislazioni che ad esse paiano necessarie.
Inoltre, quello che le imprese non possono ottenere attraverso i
meccanismi di mercato lo possono imporre attraverso leggi a proprio
favore, come in molti casi è successo l’anno scorso e gli anniprecedenti.
Il fenomeno della concentrazione corporativa non è nuovo, anzi, è insito
nella logica intrinseca del capitalismo: le imprese tendono a divorarsi
a vicenda per eliminare la concorrenza e controllare meglio sia i prezzi
ed i mercati, sia i lavoratori e i consumatori, che hanno di fronte a sé
sempre meno opzioni - assicura Ribeiro.

Nel decennio ’90, il ritmo delle fusioni e delle acquisizioni è
accelerato in misura mai vista in precedenza: all’inizio del 1990
l’ammontare complessivo era di 462 mila milioni, mentre alla fine del
2000 si era toccato l’incredibile picco di 3,5 miliardi di dollari,
settuplicando così il valore iniziale.
Durante questo decennio ci sono stati gli acquisti e le fusioni di
grandi società petrolifere (Chevron e Texaco; Exxon y Mobil Oil; BP y
Amoco; Total, Petrofina y Elf), che, in questo tipo di operazioni, hanno
rappresentato una percentuale importante del volume totale.
Tuttavia, il settore tecnologico ha scalzato i “baroni dell’oro nero”
grazie al volume complessivo degli acquisti nelle imprese di
comunicazioni e in quelle di alta tecnologia. Sono state proprio queste
ultime le responsabili del picco del 2000.
Il nuovo record del 2006 supera il livello del 2000. Sebbene gli
analisti facciano notare che stavolta il volume è suddiviso tra un
numero maggiore di imprese, di nuovo tra gli attori principali si
annoverano il settore delle telecomunicazioni con l’acquisto
dell’impresa BellSouth da parte di AT&T e il settore dell’alta
tecnología (computer, Internet e elettronica).
Tra le operazioni che hanno dato il la nel 2006, c’è l’acquisto
dell’impresa di Internet YouTube da parte di Google, un gigante che, a
quanto pare, ha molta influenza nella vita della gente. YouTube è un
sito ampiamente conosciuto a livello mondiale, su cui si possono
guardare e scaricare video che vengono visti da molti altri utenti, e in
molti casi è l’unica fonte di diffusione possibile di fronte ai monopoli
delle telecomunicazioni.
La prima azione di Google, quando ha comprato YouTube, è stata quella di
cancellare più di 30 000 video di quelli presenti nel sito - a detta
della compagnia, per proteggere la proprietà intellettuale delle parti
interessate in questi video.
Nonostante la diversità degli esempi, essi ci mostrano uno stesso
atteggiamento di fondo: l’intenzione sempre più sfacciata di
controllarci, per aumentare i guadagni di persone sempre meno numerose
ma sempre più potenti - mette in guardia Ribeiro.
E alcuni si allarmano per le nazionalizzazioni in Venezuela e in Bolivia.

Traduzione a cura di
Cinzia Vidali



Un sacerdote condannato a 15 anni di prigione per il genocidio nel Ruanda

Il primo sacerdote cattolico giudicato dal Tribunale penale
internationale per il Ruanda (TPIR), l’abate Athanase Seromba, è stato
condannato mercoledì 13 dicembre. "La Corte, deliberando pubblicamente
ed in prima istanza, dopo averLa dichiarata colpevole di genocidio e di
sterminio, La condanna alla pena unica di 15 anni di reclusione" ha
dichiarato la presidentessa della Corte, la senegalese Andrésia Vaz.

"Con le sue azioni, egli (l’abate) ha contribuito in maniera
sostanziale" alla distruzione della propria chiesa di Nyange, nella
parte occidentale del Ruanda, dove, nell’aprile 1994, hanno trovato la
morte almeno 2000 Tutsi che vi si erano rifugiati, ha aggiunto la
presidentessa.
I giudici hanno tratto la conclusione che l’abate non aveva ordinato
personalmente la distruzione della chiesa, tuttavia aveva approvato la
decisione delle autorità comunali in tal senso.

Il sacerdote, attualmente 43enne, si era dichiarato non colpevole.
Secondo l’accusa, egli avrebbe ordinato a un conducente di bulldozer di
distruggere la propria chiesa di Nyange. Testimoniando per la difesa, il
conduttore del mezzo - condannato all’ergastolo in Rwanda  -  ha
dichiarato che l’ordine di demolire era stato dato dalle autorità
amministrative e non dal giovane prete.

ALTRI DUE PRETI CATTOLICI IN ATTESA DI GIUDIZIO

Dopo il genocidio del 1994, il religioso, per un breve periodo, si era
rifugiato nello Zaire -  oggi Repubblica Democratica del Congo - poi in
Kenya, per poi essere accolto in Italia, nella diocesi di Firenze, che
gli aveva consentito di esercitare in un paese della Toscana. In seguito
alle pressioni internazionali e ad un mandato d’arresto del TPIR emanato
nel 2001, a cui l’Italia aveva rifiutato di dar corso, nel febbraio 2002
il prete ruandese si era presentato al TPIR "affinché la verità venga
alla luce".

Altri due preti cattolici, gli abati Emmanuel Rukundo e Hormisdas
Nsengimana sono detenuti dal TPIR. Un altro uomo di chiesa, il pastore
avventista Elizaphan Ntakirutimana, è stato rilasciato la settimana
scorsa dal centro di detenzione del tribunale, dopo avere scontato la
pena di 10 anni di reclusione.

Il TPIR, che ha base ad Arusha, in Tanzania, è stato creato dall’ONU per
ricercare e giudicare i principali responsabili del genocidio nel
Ruanda, che, secondo l’ONU, ha causato circa 800mila morti nella
comunità tutsi e tra gli Hutus moderati.

www.lemonde.fr 13/12/2006

Traduzione a cura di
Cinzia Vidali



Gli iracheni non accetteranno mai questa svendita alle multinazionali
petrolifere


di Kamil Mahdi

Oggi l'Iraq è ancora sotto occupazione, e il divario fra coloro che
affermano di governare e coloro che sono governati è pieno di sangue. Il
governo è obbligato verso le forze di occupazione che sono responsabili
di una catastrofe umanitaria e di una impasse politica. Mentre i
cittadini inermi vengono uccisi a piacimento, il governo continua a
essere impegnato a proteggere se stesso, raccogliere i proventi del
petrolio, dispensare favori, giustificare l'occupazione, e presiedere al
collasso della sicurezza, del benessere economico, dei servizi
essenziali, e della pubblica amministrazione. Soprattutto, la legalità è
quasi scomparsa, sostituita da demarcazioni confessionali sotto una
facciata parlamentare. Il settarismo confessionale promosso
dall'occupazione sta facendo a pezzi la società civile, le comunità
locali, e le istituzioni pubbliche, e sta lasciando la gente alla mercé
di leader comunitari che si sono autonominati, senza alcuna protezione
legale.

Il governo iracheno non sta assolvendo nel modo adeguato i suoi doveri e
le sue responsabilità. Sembra perciò incongruo che esso, con l'aiuto di
USAID, della Banca Mondiale, e delle Nazioni Unite, stia forzando una
legge petrolifera generale perché venga promulgata in prossimità di una
scadenza del Fondo Monetario Internazionale per la fine dello scorso
anno. Ancora una volta, un calendario imposto dall'esterno ha la
precedenza sugli interessi dell'Iraq. Prima di imbarcarsi in misure
controverse come questa legge, che favorisce le società petrolifere
straniere, il Parlamento e il governo iracheni devono dimostrare di
essere in grado di proteggere la sovranità del Paese, e i diritti e gli
interessi del popolo. Un governo che non sta riuscendo a proteggere le
vite dei suoi cittadini non deve imbarcarsi in una legge controversa,
che lega le mani ai futuri leader iracheni, e che minaccia di sperperare
la risorsa preziosa, finita, degli iracheni in un orgia di sprechi,
corruzione, e ruberie.

I funzionari governativi, fra cui il vice Prime Ministro, Barham Salih,
hanno annunciato che la bozza di legge è pronta per essere presentata al
Consiglio dei ministri per l'approvazione. Salih era entusiasta
dell'invasione dell'Iraq guidata dagli Usa, e l'amministrazione guidata
dalle milizie kurde che egli rappresenta ha firmato accordi illegali sul
petrolio che adesso sta cercando di legalizzare. Dato che il parlamento
non si sta riunendo regolarmente, è probabile che la legge sarà
approvata in fretta, dopo un accordo raggiunto con una mediazione sotto
gli auspici della occupazione Usa.

L'industria petrolifera irachena è in uno stato precario in conseguenza
delle sanzioni, delle guerre, e dell'occupazione. Il governo, attraverso
l'ispettore generale del ministero del Petrolio, ha pubblicato rapporti
schiaccianti di corruzione su vasta scala e ruberie in tutto il settore
petrolifero. Molti alti funzionari tecnici competenti sono stati
licenziati o degradati, e l'organizzazione di stato per la
commercializzazione del petrolio ha avuto parecchi direttori. I
ministeri e le organizzazioni pubbliche stanno operando sempre più come
feudi di partito, e prospettive private, confessionali, ed etniche
prevalgono sulla prospettiva nazionale. Questo stato di cose ha
risultati negativi per tutti, tranne per quelli che sono corrotti e
privi di scrupoli, e per le voraci multinazionali petrolifere straniere.
La versione ufficiale della bozza di legge non è stata resa pubblica, ma
non c'è dubbio che essa sarà concepita per consegnare la maggior parte
delle risorse petrolifere alle multinazionali straniere in base ad
accordi di esplorazione a lungo termine e di produzione congiunta
[production-sharing agreements].

La legge petrolifera probabilmente aprirà la porta a queste
multinazionali in un momento in cui la capacità dell'Iraq di regolare e
controllare le loro attività sarà molto limitata. Essa perciò metterebbe
la responsabilità di proteggere l'interesse nazionale vitale del Paese
sulle spalle di pochi tecnocrati vulnerabili in un ambiente in cui
sangue e petrolio scorrono assieme in abbondanza. Il senso comune, la
giustizia, e l'interesse nazionale dell'Iraq impongono che non sia
consentita l'approvazione di questa bozza di legge in questi tempi
anomali, e che contratti a lungo termine di 10, 15, o 20 anni non
debbano essere firmati prima che tornino pace e stabilità, e prima che
gli iracheni possano essere sicuri che i loro interessi siano protetti.

Questa legge è stata discussa in segreto per gran parte dello scorso
anno. Bozze segrete sono state esaminate e commentate dal governo Usa,
ma non sono state diffuse al pubblico iracheno  - e nemmeno a tutti i
membri del Parlamento. Se la legge verrà forzata in queste circostanze,
il processo politico ne sarà ulteriormente discreditato. I discorsi su
un fronte moderato che superi le divisioni confessionali sembrano
concepiti per facilitare l'approvazione della legge e la svendita alle
multinazionali petrolifere.

Gli Usa, il Fmi, e i loro alleati stanno utilizzando la paura per
portare avanti i loro piani di privatizzare e liquidare le risorse
petrolifere irachene. L'effetto di questa legge sarà quello di
marginalizzare l'industria petrolifera irachena e di erodere le misure
di nazionalizzazione intraprese fra il 1972 e il 1975. Essa è concepita
come un capovolgimento della Legge 80 del dicembre 1961 che riprese la
maggior parte del petrolio iracheno da un cartello straniero. L'Iraq
pagò caro per questa mossa coraggiosa: l'allora Primo Ministro, il
Generale Qasim, venne assassinato 13 mesi dopo, in un colpo di stato a
guida ba'athista che fu sostenuto da molti di coloro che fanno parte
della attuale alleanza di governo - compresi gli Usa. Ciò nonostante, la
politica petrolifera nazionale non fu capovolta allora, e il suo
capovolgimento sotto l'occupazione Usa non sarà mai accettato dagli
iracheni.

Guardian, 16 gennaio 2007;
www.unponteper.it

Traduzione di
Ornella Sangiovanni