INCONTRO NAZIONALE DEL 21 APRILE 2007 INTERVENTO DI GIULIETTO CHIESA La
conclusione dellultimo congresso dei ds apre a
sinistra una voragine politica. Questo nostro incontro,
simbolicamente nella stessa città, è linizio del
lavoro per riempire quella voragine di una nuova forza
politica in grado di riorganizzare le forze della
sinistra e democratiche ora scompaginate. Non spenderò
molte parole sul nascente Partito Democratico. Tutto era
già chiaro da tempo, almeno per quanto mi riguarda, e
quella di oggi è la logica conclusione di un processo
che qualcuno ha giustamente definito una ritirata
strategica, una rotta politica e culturale senza
principi. Altri hanno parlato di una decisione che
equivale a imboccare un vicolo cieco a tutta velocità,
che sarà seguita inesorabilmente da uno schianto. Credo
che cosí sarà effettivamente perché gli inventori di
questa forza, le cui dimensioni non devono essere
sopravvalutate, non hanno né idee né prospettive e la
loro fantasia si è già arenata, prima di partire, sulla
soglia del Pantheon che ospiterà le auguste spoglie di
Bettino Craxi, malfattore morto latitante dopo essere
stato definitivamente condannato dai Tribunali della
Repubblica italiana. I sintomi
evidenti lasciano intravedere che la svolta che costoro
hanno impresso alla politica italiana lascerà il passo a
una possibile svolta a destra. Nelle stanche
disquisizioni tecniche di Fassino e di Rutelli non
cè nessun segno di uneventuale vittoria. Il
loro proclamato e imbelle riformismo altro non è che la
gestione dellesistente, al piú gestione
caritatevole, allinterno di una oligarchia
rappresentata dallattuale «classe politica»: un
ceto ormai intercambiabile allinterno del quale
gran parte della sinistra istituzionale (la
chiamo cosí, perché mi fa venire in mente
lossimoro del Partito Rivoluzionario Istituzionale
Messicano) è ormai entrata e si sente parte. Dentro questa
classe si diventa impermeabili alle istanze della gente,
ai problemi reali del paese. Questa classe è in comitato
daffari politici delle classi dominanti, dove si
tutelano i loro interessi dominanti. È il luogo dove
loro si combattono tra di loro per
conquistare il potere, ma con lintesa comune di non
permettere che le masse popolari irrompano autonomamente
nella loro disputa. Esse possono essere utilizzate
e infatti lo sono nelle funzioni elettorali periodiche e
manipolabili , ma solo come masse inconsapevoli. In questo la
«classe politica», loligarchia ha un
interesse comune e ferreo: impedire lingresso
agli estranei. Il Partito democratico ha già assegnato
la Tessera Ideale numero Uno a Luca Cordero
di Montezemolo, colui che guida lattacco contro le
pensioni dei lavoratori e la Tessera numero
Due a Carlo De Benedetti, leditore che
costringe i giornalisti di «Repubblica» a sette giorni
consecutivi di sciopero per evitare che il quel poco di
giornalismo libero rimasto venga trasformato in co.co.co. Certo che
Montezemolo e De Benedetti non sono Berlusconi. Ma il
confine è ormai talmente labile, e
lintercambiabilità cosí evidente che la legge
truffa la si costruisce insieme a Berlusconi; che il
conflitto dinteresse viene eliminato dalla
priorità; che con lindulto si salvano tutti,
compresi gli inquisiti del Polo delle Libertà; che si
cerca di stravolgere la Costituzione trasformando il
sistema parlamentare in un presidenzialismo mostruoso;
che si approva alla quasi unanimità la legge Mastella
(che imbavaglia definitivamente il diritto di cronaca). Tutto questo,
e molto di piú, è stato già fatto di comune accordo
tra destra e centrosinistra. Oltre ma ne parlerò
tra poco alla guerra, anzi alle guerre, tutte bipartisan,
di questi ultimi otto anni, a cominciare da quella contro
la Jugoslavia. Il Partito
Democratico tutto questo è già e in quella direzione
continuerà ad andare, perché è nella sua logica e, a
suo modo, è per loro lunica possibilità per
concludere la loro carriera nel modo piú indolore
possibile, con i maggiori vantaggi e prebende. Insomma è
la loro strategia della pensione. Per noi, per
quelli che siamo e per quelli che intendiamo se ci
riusciremo rappresentare, una delle questioni
pratiche è quale tipo di rapporto avere con questo
futuro partito centrista con qualche modesta venatura
laica, caritatevole e socialista. Ma al momento non è la
questione principale e, comunque non la si può
sciogliere adesso. Anche perché il Partito democratico
non è un punto di approdo, come sembra pensare il povero
Fassino: è invece linizio di una crisi (che
potrebbe trasformarsi in tragedia per le forze popolari
nel loro complesso e per la democrazia italiana) . Dunque ancora
troppe cose devono accadere prima di tirare le somme.
Nulla è acquisito: né la tenuta elettorale, né quella
del collante che tiene insieme i due famelici apparati, i
cui livelli di corruzione sono testimoniati dal vorticoso
commercio delle tessere. La mancanza di entusiasmo che ha
caratterizzato i due congressi di scioglimento non potrà
non ripercuotersi su settori del loro elettorato. Segnali
di delusione e perfino di disgusto si moltiplicano. Né si dovrà
perdere di vista, ogni volta nonostante
lintercambiabilità oligarchica che il
centro-sinistra non è il centrodestra. Almeno per il
momento, sebbene le lodi di Berlusconi e perfino di
Maroni alla relazione di Fassino lascino presagire altri
colossali inciuci prossimi-venturi. Voglio
dire, insomma, che non dovremmo dimenticare la lezione di
Togliatti, quando invitava i quadri comunisti a «saper
sempre usare larte della distinzione, cioè di
saper cogliere le differenze». Quando ci sono,
naturalmente. Il Partito
Democratico è, semplicemente altro da noi. E
per questo dovremmo smettere anche le lamentazioni, le
invettive, le accuse di tradimento verso coloro che hanno
deciso di seguirne le sorti (tanto meno verso coloro che
quel partito voteranno, almeno per un certo periodo di
tempo). Dicono di voler uscire dalla sinistra: è
problema loro. Cosí come problema loro è come e cosa
faranno. È problema
nostro non pagare i loro prezzi, non attardarci nel
considerargli compagni che sbagliano. (Forse
che qualcuno può chiamare compagni Francesco Rutelli,
Barbara Palombelli, Michele Salvati?) Come ha ben scritto
Paolo Leon, bisogna prendere atto, una volta per tutte e
per sempre, che questi dirigenti dellex Pci non
hanno piú creduto che, «finito il Pci, fosse possibile
unaltra lotta da sinistra e hanno scambiato
lideologia originaria del comunismo con il suo
opposto, lideologia liberale». Ironia della
storia, che colpisce, ahimè, anche noi, perché questi
nuovi adoratori del mercato hanno cambiato campo proprio
nel momento in cui quellideologia è in completa
bancarotta. Il che significa che, per i piú intelligenti
tra loro, lepoca dellabiura non è finita e
ce li ritroveremo a cospargersi il capo di cenere, molto
piú a destra di quanto i principi liberali consentano. Altro
da noi, dunque, e con cui, dovendo affrontare il
problema del governo del paese, dovremo anche dialogare.
La questione, per la sinistra nel suo complesso è dunque
questa: in che condizioni avverrà questo dialogo? Saremo
noi, e le istanze che intendiamo rappresentare,
abbastanza forti da condizionarli? Stabilito e
ribadito che essi sono ormai altro da noi, è
indispensabile partire dalla premessa che altro da
noi non sono
i milioni di elettori che li hanno votati, e per un certo
tempo, fino a che non avranno capito, se riusciranno a
capire, li voteranno. Questo dipende anche da noi,
perché molti di loro, che saranno presto delusi,
entreranno a far parte di quella grande
voragine che si sta aprendo a
sinistra. E noi dobbiamo
riconquistarli, ricondurli
alla politica, alla
democrazia attiva, dare
loro una rappresentanza nelle Istituzioni della
Repubblica, chiamarli
a decidere sulle loro sorti, su
quelle del paese e del mondo intero. Sono cosí
arrivato al tema che ci vede qui riuniti. Che fare? Per
rispondere a questa domanda bisogna, prima di tutto,
capire bene, cosa e chi cè in questa voragine,
comè fatta, quanto è larga, quanto è popolata.
È uno dei
compiti che abbiamo di fronte e io non pretendo di
esaurirlo qui. Ma allingrosso qualcosa sappiamo. Sappiamo che
lí dentro cè la stragrande maggioranza del popolo
italiano, quella che il 25-26 giugno 2006 respinse lo
stravolgimento della nostra Costituzione: una prova
formidabile che la seminagione del 2 giugno 1946 ha posto
radici profondissime nel paese e che esse sono ancora
vive 60 anni dopo. Prova straordinaria, tanto piú che
tutti i partiti della sinistra non fecero quasi niente
perché quel risultato fosse raggiunto. Fu la
mobilitazione spontanea dal basso, perfino piú forte del
silenzio delle televisioni pubbliche e private (cioè dei
partiti), a decidere il referendum con un risultato
schiacciante, per partecipazione e per risposta. Ma questi
stessi partiti (anche di sinistra ) che nulla fecero per
vincere (e infatti non gli importava nulla della vittoria
perché pensavano ad altro) si sono subito dimenticati
quel risultato. E la ragione è chiara: essi non hanno
alcun bisogno di unelezione parlamentare che
consolidi democrazia. Essi anzi la temono e cercheranno
di impedirla con tutti i mezzi a loro disposizione. Essi
vogliono elezioni demagogiche, che eleggano capi, caudillos,
uomini della Provvidenza: trucchi per
trasformare la democrazia parlamentare in
presidenzialismo, i sindaci in podestà, i presidenti
delle regioni in governatori. Anche nei nomi, a volte, i
si rivela linganno. In nome della cosiddetta
«governabilità», che altro non ò che trasferimento
nella cosa pubblica dei sistemi di gestione
dellimpresa, dove comè noto, di democrazia
non cè nemmeno lodore. Questo è il crudo
significato delloligarchia contro il popolo. Chi altro
cè dentro la voragine? Cè se
dobbiamo credere a Ilvo Diamanti oltre il 65% di
italiani, quelli che non hanno piú fiducia negli attuali
partiti: tutti i partiti. Dentro la voragine ci sono due
o tre milioni di persone che non mai passate attraverso
nessun partito e che hanno molte giuste ragioni per
diffidare di questa politica e dei partiti attuali che la
recitano in tv. Molti di questi non si considerano di
sinistra e, per le note ragioni, diffidano anche di
questa parola. Dunque, riassumendo, milioni non vogliono
sentir parlare di partito e altri milioni
diffidano ormai della parola sinistra. Sono
tutti contro di noi? Io non solo non lo credo ma penso il
contrario. Essi sono in gran parte i nostri alleati
potenziali. Dentro questa voragine ci sono gli italiani
che sono contro la guerra. Non solo i pacifisti attivi,
dico, ma milioni di persone che sono ancora stando
ai sondaggi la maggioranza. Dentro questa
voragine, senza rappresentanza, cè la maggior
parte della nostra gioventú, che non sa nulla dei
partiti, della politica, di Craxi e del Muro di Berlino.
Che è semplicemente fuori della politica,
lasciata senza ideali a pascolare nella prateria del
Grande Fratello prima di essere munta con le ricariche
telefoniche e con il lavoro precario, quando cè. In tutte
queste componenti non vi sfugga cè
un sacco di gente, tuttaltro che stupida, che non
è mai stata, che non è, che non vuole essere
etichettata come di sinistra. Che non vuole sentir
parlare di partiti. Che non sente come proprie né la
crisi del comunismo né quella del socialismo, perché
semplicemente non sa nemmeno cosa siano. Ma che vive
male. Male in senso proprio perché fatica a sbarcare il
lunario. Male in senso lato, anche se ha un reddito
accettabile, perché vive la precarietà
dellesistenza, non ha futuro, non sicurezza, non
diritti. E vede limmoralità pubblica dilagare. Dentro la
voragine ci sono centinaia di migliaia di ex militanti di
partiti della sinistra, che ne sono usciti perché hanno
capito il livello di degenerazione che vi si è
introdotto. Ma ci sono anche centinaia di migliaia di
persone che, in questi ultimi decenni, sono giunte alla
politica si può dire ciascuna per conto proprio, per
mille vie che è impossibile catalogare data la grande
varietà di questo popolo. Che è poi il popolo
pressoché autoconvocato di Genova 2001, dei tre milioni
di Roma, di Vicenza, dei No-Tav, etc. Dentro questa
voragine (e li lascio per ultimi perché sono il gruppo
piú piccolo) ci sono i militanti in atto dei partiti
della sinistra, in gran parte in grave disagio perché
non riescono a spiegarsi le contraddizioni in cui i loro
vertici li hanno costretti a vivere. Ma, dopo due
decenni di assenza di ogni guida, di formazione politica
organizzata; dopo tre decenni di televisione e politica
spettacolo; dopo lintroduzione del partito sempre
piú leggero, dopo tutti questi mutamenti, ciascuno di
coloro che sono arrivati (o sono ritornati) alla politica
lo ha fatto per conto proprio, seguendo
percorsi diversi, individuali e collettivi. Lo ha fatto
parlando linguaggi diversi, ciascuno essendo il
precipitato di esperienze diversificate, atomizzate,
spesso internettizzate. Il risultato é stato di una
moltiplicazione di esperienze non comunicanti, o
comunicanti solo in determinate circostanze eccezionali,
ma poi rifluendo nellatomizzazione precedente. A questo
vanno aggiunte le identità dei piccoli e medi partiti
della sinistra, con o senza falci e martelli, tanto piú
settarie quanto piú incapaci di estendere consensi,
chiuse nel proprio particolare eppure con la pretesa
(come è stato per Rifondazione sotto la guida di
Bertinotti) di egemonizzare i movimenti e ricondurli a
unobbedienza di partito. Cosa che, con laiuto
dei ds e delle loro leve di pressione per esempio su
settori del pacifismo, è in parte riuscita. Ma non
riesce piú adesso, quando le contraddizioni si sono
fatte lancinanti. Dunque, se
vogliamo incidere, dobbiamo tentare di
unificare questo magma di soggetti, di
storie, di sensibilità, di culture, di organizzazioni
diverse. La parola
stessa unificare non è adatta a descrivere
questo processo. Piuttosto, forse, si tratta di costruire
almeno per ora, una forma di coordinamento
forte, cioè sistematico, condiviso: diciamo
un patto di azione
(patto civile) comune. Cè
bisogno di qualcosa di simile a una maniglia,
cui aggrapparsi tutti insieme, che sia visibile, che sia
solida nelle sue linee portanti. Una
maniglia, un punto di riferimento comune, che
serva a tutti, a una molteplicità di soggetti,
individuali e collettivi, diversi. E che, per ora, sono
disposti ad aggrapparvisi a condizione di restare
diversi. È stata lassenza di una tale
maniglia, lassenza di ogni punto di
riferimento comune, che ha impedito alla sinistra di
contare. E che ha poi costretto molti a rifluire sugli
unici punti esistenti, anche se in molti casi turandosi
il naso per mancanza di alternative. Nellambiguità
della situazione molti hanno finito per restare
agganciati alla propria storia e alla tradizione; molti
altri hanno semplicimente abbandonato. La nascita
del Partito democratico e la progressiva scomparsa dei
ds, come componente (anche nominale) della sinistra,
elimina molte delle ambiguità precedenti. Altre però ne
rimangono, a sinistra del Partito democratico, e
condizione irrinunciabile per giungere a un qualsiasi
risultato positivo unitario sarà di impedire che
qualcuno dei partiti di sinistra cerchi di prendere la
guida del processo di costruzione unitaria o del patto
dazione comune. Noi non
dobbiamo chiedere a nessuno di rinunciare alla propria
storia e alle proprie bandiere. Se lo facessimo, oggi,
otterremmo come unico risultato di dividere e non di
comporre. Nello stesso
tempo dobbiamo dire loro, a tutti, che nessuno si illuda
di ricavare qualcosa di utile dalla sommatoria degli
spezzoni dei partiti e partitini della sinistra uscente
(uscente in tutti i sensi). Perché, in primo e
fondamentale luogo, essi non costituiscono la maggioranza
del popolo che abita la voragine e che cerca, ma non in
loro, la maniglia in cui mettere con
sicurezza la propria mano. E dunque ogni tentativo di
imporre egemonie burocratiche sfocerà in un fallimento,
che sarà il fallimento di tutti. Quindi
nessuna esclusione preventiva, ma anche nessuna guida
preventiva, che non sia risultato di una convergenza
volontaria. Noi non
dobbiamo rifondare un bel niente,
non possiamo fermarci alle dispute nominalistiche sui
comunismi e sui socialismi: tutte ormai molto distanti
dalla sensibilità e dagli interessi di milioni di donne
e uomini. Noi dobbiamo fondare
una nuova politica e una nuova moralità,
una democrazia rappresentativa degna di questo nome. Ecco
perché io penso che dovremmo dare vita rapidamente a una
Fondazione
attorno a cui far confluire tutte le nostre forze, e i
mezzi anche finanziari di cui avremo bisogno. Una
Fondazione, con la Effe maiuscola, da affidare a un
gruppo di saggi di alto profilo scientifico, culturale,
morale, cui chiedere non
di esercitare la direzione politica (che non può essere
il loro compito), ma di gestire unagenda di
dibattito e di ricerca, di approfondimenti tematici in
vista della costruzione di un programma comune. Io credo che
non ci sia tempo da perdere. Non è
un partito quello che dobbiamo costruire,
ma un movimento che abbia alcune
caratteristiche di una nuova formazione politica,
capace di contare le sue forze nel
paese nella prima competizione elettorale a sistema
proporzionale che si delinea da qui a due anni abbondanti:
le europee del 2009. Sono convinto
che, fin dallapparire di questa forza, il quadro
politico della sinistra, del centrosinistra e del paese
subiranno una modificazione sostanziale. Ovvio che,
per tutto questo, occorre un programma comune e un diverso
livello della conoscenza della complessità
che ci troviamo a fronteggiare. Troppe cose sono avvenute
senza che la sinistra istituzionale se ne avvedesse. Al
moto turbinoso del mondo ha corrisposto in questi anni
uno stallo della politica della cultura di sinistra. Questo ha per
conseguenza che molto della società contemporanea noi lo
conosciamo poco o niente. Io non penso, certo, che
dobbiamo mettere in piedi la Fondazione solo per fare
ricerche e convegni. Al contrario io penso che essa sia
anche uno strumento organizzativo, per quanto semplice, e
al tempo stesso un luogo di formazione dei
quadri. Ma le dimensioni della crisi non
possono essere viste dalle prospettive miopi con cui la
sinistra (tutta o quasi) le ha guardate in questi venti
anni. Nei quali è una dura constatazione
le condizioni di vita, sociali, delle classi lavoratrici
sono state duramente erose (e nel mondo lo scarto tra
ricchi e poveri si è ingigantito e moltiplicato), mentre
la forza delle organizzazioni di difesa dei lavoratori è
stata gravemente intaccata e ridotta e i loro partiti si
sono via via arresi o acquietati, e ora abbiamo di fronte
a noi il compito immane di costruire barriere difensive,
perché il conflitto storico tra capitale e lavoro si è
risolto in sistematiche vittorie del primo contro il
secondo. Ma cè
altro, e ha a che fare con un salto di qualità della complessità
contemporanea: noi non abbiamo visto lingigantirsi
di unaltra contraddizione, inedita, dalla quale non
è previsto che emerga alcuna sintesi superiore, alcun
vincitore. È la contraddizione tra
uomo e natura che, certo, è frutto
dello sviluppo capitalistico, ma che produce un
mutamento, questo si! radicale: laccorciamento dei
nostri destini, del destino delluomo. È
lorizzonte stesso della specie che si è
accorciato. E non cé soluzione a portata di mano,
né basteranno le chiacchiere a trovarla. Abbiamo
disturbato luniverso, compromesso
lambiente, dilapidato lenergia non
rinnovabile. Non cè
forza di governo degna di questo nome che possa non
affrontare questi temi, già in emergenza, che
arriveranno a maturazione nel corso di questa
generazione, mentre la sinistra continua a balbettare,
insieme alle coorti neoliberiste, di sviluppo indefinito
e di crescita del Prodotto Interno Lordo. Noi dovremo
essere coloro che hanno il coraggio di dire cosa
sta per succedere se non si
intraprenderanno misure urgenti per un nuovo modo di
vivere, di consumare, per una nuova disciplina
dellorganizzazione sociale, per un nuovo ruolo
dello Stato, contro le privatizzazioni dei beni
essenziali alla vita (come lacqua in primo luogo) e
alla coscienza umana (come linformazione e la
comunicazione). Se non si
vede e si porta alle grandi masse la
visione di questo scontro tra luomo e la natura,
allora non è possibile fare fronte alla guerra che un
tale scontro è destinato a produrre. Non sarà possibile
contrapporsi a classi dominanti che, guidate da un
istituto suicida, stanno preparando una resa dei conti
per la sopravvivenza, con la Cina in primo luogo, e i
miliardi di poveri estromessi dalla globalizzazione,
improduttivi, inutili ma consumatori di risorse che
sottraggono ai ricchi. Questa
visione del mondo, drammatica ma realistica, è anche
lunica possibilità per portare a un vasto
schieramento di forze, assai piú ampio di quello della
sinistra tradizionale, lidea della salvezza
collettiva, del Bene Comune,
della necessità della fratellanza e della solidarietà
oltre a quelle della giustizia e delluguaglianza. È per
portare alle grandi masse popolari (di cui Fassino non a
caso non ha parlato) questa visione e queste proposte
bisognerà che la sinistra finalmente comprenda
limportanza assolutamente cruciale della
comunicazione, cioè prima di tutto della televisione.
Cosa che ancora non ha fatto, permettendo prima a
Berlusconi di dominare il campo e poi (con lui che
incamera tutti i dividendi) spartendosene quelli
propagandistici, dopo aver privatizzato la televisione
pubblica. E nemmeno noi labbiamo ancora capito,
tantè vero che non abbiamo mai avviato, neanche
come sinistra cosiddetta radicale, nessuna vera lotta di
massa per una tv democratica. E come potremmo averlo
fatto se il leader di uno questi partiti detti radicali
di sinistra è diventato presidente di una delle due
Camere del parlamento grazie alle sue oltre ottanta
apparizioni televisive nel salotto del piú servile ex
giornalista berlusconiano? Due ultime
considerazioni prima di concludere. Il compito che ci
poniamo sembra incomparabilmente superiore alle nostre
possibilità. Ma nessuno
qui pensa che lo si possa fare da soli. Con
questo formato noi intendiamo essere parte di un insieme
di tentativi che perseguono lo stesso scopo:
vale per coloro che sono usciti
dai ds e per quelli che usciranno
da Rifondazione e dai Comunisti Italiani; vale per coloro
che resteranno
in Rifondazione, nel Pdci, nei Verdi; vale per i cento e
mille raggruppamenti senza partito, Comitati,
«movimenti», che già si stanno formando in molte
regioni italiane. Cioè non possiamo pensare di fare da
soli, anche perché chiunque tenterà di fare da solo,
volente o nolente, sarà la concausa della sconfitta
collettiva. La seconda
considerazione è unavvertenza: nella presente
cacofonia e confusione é difficile far passare segnali
intelleggibili. Unire ciò
che è profondamente diviso può sembrare impresa
impossibile. Ma commetteremmo un errore se immaginassimo
i mesi avvenire come una piú o meno tranquilla
prosecuzione dei decenni che ci siamo lasciati alle
spalle. Tutti i segnali dicono che il panorama delle
tensioni internazionali si va rapidamente aggravando. E
la guerra dellimpero si estende e ci coinvolgerà,
anzi li coinvolgerà. E, purtroppo, ciò che oggi é
difficile da spiegare ci verrà brutalmente servito dai
fatti e lo vedremo sui nostri televisori, anche se
saranno spenti perché magari dovremo razionare
lenergia elettrica. E allora sarà piú credibile
chi avrà detto per tempo la verità, è piú forte chi
si sarà preparato per affrontarla. Ho toccato
cinque linee programmatiche fondamentali che penso
dovranno essere al centro di una proposta di rinnovamento
e di alternativa per il paese: 1) scelta di campo contro
la guerra; 2) attuazione e difesa della Costituzione; 3)
diritti sociali e civili in nome della giustizia e della
solidarietà; 4) lambiente e la natura per
sopravvivere, con un altro modo di produrre e di
consumare; 5) democrazia nella comunicazione. Ne aggiungo
un sesto: la questione morale è la riforma della
politica, per una nuova rappresentanza democratica. Dovremo
precisarli e chiarirli e farne strumenti appuntiti per le
lotte sociali che dovremo promuovere. E penso che dovremo
darci una preliminare, molto semplice, struttura
operativa di collegamento: per raggiungere il piú alto
numero di realtà locali che si muovono in sintonia con
questi obbiettivi. Per giungere, traendo le prime somme,
a un appuntamento nazionale in autunno. Abbiamo due
anni di tempo. Le forze ci sono, anche se sparse e
incerte. Noi dobbiamo contribuire a riunirle e a dare
loro certezza. Firenze, 21 aprile 2007 |