INCONTRO NAZIONALE DEL 21 APRILE 2007

INTERVENTO DI GIULIETTO CHIESA

 

 

La conclusione dell’ultimo congresso dei ds apre a sinistra una voragine politica. Questo nostro incontro, simbolicamente nella stessa città, è l’inizio del lavoro per riempire quella voragine di una nuova forza politica in grado di riorganizzare le forze della sinistra e democratiche ora scompaginate.

Non spenderò molte parole sul nascente Partito Democratico. Tutto era già chiaro da tempo, almeno per quanto mi riguarda, e quella di oggi è la logica conclusione di un processo che qualcuno ha giustamente definito una “ritirata strategica”, una rotta politica e culturale senza principi. Altri hanno parlato di una decisione che equivale a imboccare un vicolo cieco a tutta velocità, che sarà seguita inesorabilmente da uno schianto. Credo che cosí sarà effettivamente perché gli inventori di questa forza, le cui dimensioni non devono essere sopravvalutate, non hanno né idee né prospettive e la loro fantasia si è già arenata, prima di partire, sulla soglia del Pantheon che ospiterà le auguste spoglie di Bettino Craxi, malfattore morto latitante dopo essere stato definitivamente condannato dai Tribunali della Repubblica italiana.

I sintomi evidenti lasciano intravedere che la svolta che costoro hanno impresso alla politica italiana lascerà il passo a una possibile svolta a destra. Nelle stanche disquisizioni tecniche di Fassino e di Rutelli non c’è nessun segno di un’eventuale vittoria. Il loro proclamato e imbelle riformismo altro non è che la gestione dell’esistente, al piú gestione caritatevole, all’interno di una oligarchia rappresentata dall’attuale «classe politica»: un ceto ormai intercambiabile all’interno del quale gran parte della sinistra “istituzionale” (la chiamo cosí, perché mi fa venire in mente l’ossimoro del Partito Rivoluzionario Istituzionale Messicano) è ormai entrata e si sente parte.

Dentro questa classe si diventa impermeabili alle istanze della gente, ai problemi reali del paese. Questa classe è in comitato d’affari politici delle classi dominanti, dove si tutelano i loro interessi dominanti. È il luogo dove “loro si combattono tra di loro” per conquistare il potere, ma con l’intesa comune di non permettere che le masse popolari irrompano autonomamente nella loro disputa. Esse possono essere utilizzate – e infatti lo sono nelle funzioni elettorali periodiche e manipolabili –, ma solo come masse inconsapevoli.

In questo la «classe politica», l’oligarchia ha un ‘interesse comune e ferreo: impedire l’ingresso agli estranei. Il Partito democratico ha già assegnato la “Tessera Ideale numero Uno” a Luca Cordero di Montezemolo, colui che guida l’attacco contro le pensioni dei lavoratori e la “Tessera numero Due” a Carlo De Benedetti, l’editore che costringe i giornalisti di «Repubblica» a sette giorni consecutivi di sciopero per evitare che il quel poco di giornalismo libero rimasto venga trasformato in co.co.co.

Certo che Montezemolo e De Benedetti non sono Berlusconi. Ma il confine è ormai talmente labile, e l’intercambiabilità cosí evidente che la legge truffa la si costruisce insieme a Berlusconi; che il conflitto d’interesse viene eliminato dalla priorità; che con l’indulto si salvano tutti, compresi gli inquisiti del Polo delle Libertà; che si cerca di stravolgere la Costituzione trasformando il sistema parlamentare in un presidenzialismo mostruoso; che si approva alla quasi unanimità la legge Mastella (che imbavaglia definitivamente il diritto di cronaca).

Tutto questo, e molto di piú, è stato già fatto di comune accordo tra destra e centrosinistra. Oltre – ma ne parlerò tra poco – alla guerra, anzi alle guerre, tutte bipartisan, di questi ultimi otto anni, a cominciare da quella contro la Jugoslavia.

Il Partito Democratico tutto questo è già e in quella direzione continuerà ad andare, perché è nella sua logica e, a suo modo, è per loro l’unica possibilità per concludere la loro carriera nel modo piú indolore possibile, con i maggiori vantaggi e prebende. Insomma è la loro strategia della pensione.

 

Per noi, per quelli che siamo e per quelli che intendiamo – se ci riusciremo – rappresentare, una delle questioni pratiche è quale tipo di rapporto avere con questo futuro partito centrista con qualche modesta venatura laica, caritatevole e socialista. Ma al momento non è la questione principale e, comunque non la si può sciogliere adesso. Anche perché il Partito democratico non è un punto di approdo, come sembra pensare il povero Fassino: è invece l’inizio di una crisi (che potrebbe trasformarsi in tragedia per le forze popolari nel loro complesso e per la democrazia italiana) .

Dunque ancora troppe cose devono accadere prima di tirare le somme. Nulla è acquisito: né la tenuta elettorale, né quella del collante che tiene insieme i due famelici apparati, i cui livelli di corruzione sono testimoniati dal vorticoso commercio delle tessere. La mancanza di entusiasmo che ha caratterizzato i due congressi di scioglimento non potrà non ripercuotersi su settori del loro elettorato. Segnali di delusione e perfino di disgusto si moltiplicano.

Né si dovrà perdere di vista, ogni volta – nonostante l’intercambiabilità oligarchica – che il centro-sinistra non è il centrodestra. Almeno per il momento, sebbene le lodi di Berlusconi e perfino di Maroni alla relazione di Fassino lascino presagire altri colossali “inciuci” prossimi-venturi. Voglio dire, insomma, che non dovremmo dimenticare la lezione di Togliatti, quando invitava i quadri comunisti a «saper sempre usare l’arte della distinzione, cioè di saper cogliere le differenze». Quando ci sono, naturalmente.

Il Partito Democratico è, semplicemente “altro da noi”. E per questo dovremmo smettere anche le lamentazioni, le invettive, le accuse di tradimento verso coloro che hanno deciso di seguirne le sorti (tanto meno verso coloro che quel partito voteranno, almeno per un certo periodo di tempo). Dicono di voler uscire dalla sinistra: è problema loro. Cosí come problema loro è come e cosa faranno.

È problema nostro non pagare i loro prezzi, non attardarci nel considerargli “compagni che sbagliano”. (Forse che qualcuno può chiamare compagni Francesco Rutelli, Barbara Palombelli, Michele Salvati?) Come ha ben scritto Paolo Leon, bisogna prendere atto, una volta per tutte e per sempre, che questi dirigenti dell’ex Pci non hanno piú creduto che, «finito il Pci, fosse possibile un’altra lotta da sinistra e hanno scambiato l’ideologia originaria del comunismo con il suo opposto, l’ideologia liberale».

Ironia della storia, che colpisce, ahimè, anche noi, perché questi nuovi adoratori del mercato hanno cambiato campo proprio nel momento in cui quell’ideologia è in completa bancarotta. Il che significa che, per i piú intelligenti tra loro, l’epoca dell’abiura non è finita e ce li ritroveremo a cospargersi il capo di cenere, molto piú a destra di quanto i principi liberali consentano.

 

“Altro da noi”, dunque, e con cui, dovendo affrontare il problema del governo del paese, dovremo anche dialogare. La questione, per la sinistra nel suo complesso è dunque questa: in che condizioni avverrà questo dialogo? Saremo noi, e le istanze che intendiamo rappresentare, abbastanza forti da condizionarli?

Stabilito e ribadito che essi sono ormai “altro da noi”, è indispensabile partire dalla premessa che “altro da noi” non sono i milioni di elettori che li hanno votati, e per un certo tempo, fino a che non avranno capito, se riusciranno a capire, li voteranno. Questo dipende anche da noi, perché molti di loro, che saranno presto delusi, entreranno a far parte di quella grande voragine che si sta aprendo a sinistra. E noi dobbiamo riconquistarli, ricondurli alla politica, alla democrazia attiva, dare loro una rappresentanza nelle Istituzioni della Repubblica, chiamarli a decidere sulle loro sorti, su quelle del paese e del mondo intero.

 

Sono cosí arrivato al tema che ci vede qui riuniti. Che fare? Per rispondere a questa domanda bisogna, prima di tutto, capire bene, cosa e chi c’è in questa voragine, com’è fatta, quanto è larga, quanto è popolata. È uno dei compiti che abbiamo di fronte e io non pretendo di esaurirlo qui. Ma all’ingrosso qualcosa sappiamo.

Sappiamo che lí dentro c’è la stragrande maggioranza del popolo italiano, quella che il 25-26 giugno 2006 respinse lo stravolgimento della nostra Costituzione: una prova formidabile che la seminagione del 2 giugno 1946 ha posto radici profondissime nel paese e che esse sono ancora vive 60 anni dopo. Prova straordinaria, tanto piú che tutti i partiti della sinistra non fecero quasi niente perché quel risultato fosse raggiunto. Fu la mobilitazione spontanea dal basso, perfino piú forte del silenzio delle televisioni pubbliche e private (cioè dei partiti), a decidere il referendum con un risultato schiacciante, per partecipazione e per risposta.

Ma questi stessi partiti (anche di sinistra ) che nulla fecero per vincere (e infatti non gli importava nulla della vittoria perché pensavano ad altro) si sono subito dimenticati quel risultato. E la ragione è chiara: essi non hanno alcun bisogno di un’elezione parlamentare che consolidi democrazia. Essi anzi la temono e cercheranno di impedirla con tutti i mezzi a loro disposizione. Essi vogliono elezioni demagogiche, che eleggano capi, caudillos, “uomini della Provvidenza”: trucchi per trasformare la democrazia parlamentare in presidenzialismo, i sindaci in podestà, i presidenti delle regioni in governatori. Anche nei nomi, a volte, i si rivela l’inganno. In nome della cosiddetta «governabilità», che altro non ò che trasferimento nella cosa pubblica dei sistemi di gestione dell’impresa, dove com’è noto, di democrazia non c’è nemmeno l’odore. Questo è il crudo significato dell’oligarchia contro il popolo.

Chi altro c’è dentro la voragine? C’è – se dobbiamo credere a Ilvo Diamanti – oltre il 65% di italiani, quelli che non hanno piú fiducia negli attuali partiti: tutti i partiti. Dentro la voragine ci sono due o tre milioni di persone che non mai passate attraverso nessun partito e che hanno molte giuste ragioni per diffidare di questa politica e dei partiti attuali che la recitano in tv. Molti di questi non si considerano di sinistra e, per le note ragioni, diffidano anche di questa parola. Dunque, riassumendo, milioni non vogliono sentir parlare di “partito” e altri milioni diffidano ormai della parola “sinistra”. Sono tutti contro di noi? Io non solo non lo credo ma penso il contrario. Essi sono in gran parte i nostri alleati potenziali. Dentro questa voragine ci sono gli italiani che sono contro la guerra. Non solo i pacifisti attivi, dico, ma milioni di persone che sono – ancora stando ai sondaggi – la maggioranza. Dentro questa voragine, senza rappresentanza, c’è la maggior parte della nostra gioventú, che non sa nulla dei partiti, della politica, di Craxi e del Muro di Berlino. Che è semplicemente “fuori della politica”, lasciata senza ideali a pascolare nella prateria del Grande Fratello prima di essere munta con le ricariche telefoniche e con il lavoro precario, quando c’è.

In tutte queste componenti – non vi sfugga – c’è un sacco di gente, tutt’altro che stupida, che non è mai stata, che non è, che non vuole essere etichettata come di sinistra. Che non vuole sentir parlare di partiti. Che non sente come proprie né la crisi del comunismo né quella del socialismo, perché semplicemente non sa nemmeno cosa siano. Ma che vive male. Male in senso proprio perché fatica a sbarcare il lunario. Male in senso lato, anche se ha un reddito accettabile, perché vive la precarietà dell’esistenza, non ha futuro, non sicurezza, non diritti. E vede l’immoralità pubblica dilagare.

Dentro la voragine ci sono centinaia di migliaia di ex militanti di partiti della sinistra, che ne sono usciti perché hanno capito il livello di degenerazione che vi si è introdotto. Ma ci sono anche centinaia di migliaia di persone che, in questi ultimi decenni, sono giunte alla politica si può dire ciascuna per conto proprio, per mille vie che è impossibile catalogare data la grande varietà di questo popolo. Che è poi il popolo pressoché autoconvocato di Genova 2001, dei tre milioni di Roma, di Vicenza, dei No-Tav, etc.

Dentro questa voragine (e li lascio per ultimi perché sono il gruppo piú piccolo) ci sono i militanti in atto dei partiti della sinistra, in gran parte in grave disagio perché non riescono a spiegarsi le contraddizioni in cui i loro vertici li hanno costretti a vivere.

 

Ma, dopo due decenni di assenza di ogni guida, di formazione politica organizzata; dopo tre decenni di televisione e politica spettacolo; dopo l’introduzione del partito sempre piú leggero, dopo tutti questi mutamenti, ciascuno di coloro che sono arrivati (o sono ritornati) alla politica lo ha fatto “per conto proprio”, seguendo percorsi diversi, individuali e collettivi. Lo ha fatto parlando linguaggi diversi, ciascuno essendo il precipitato di esperienze diversificate, atomizzate, spesso internettizzate. Il risultato é stato di una moltiplicazione di esperienze non comunicanti, o comunicanti solo in determinate circostanze eccezionali, ma poi rifluendo nell’atomizzazione precedente.

A questo vanno aggiunte le identità dei piccoli e medi partiti della sinistra, con o senza falci e martelli, tanto piú settarie quanto piú incapaci di estendere consensi, chiuse nel proprio particolare eppure con la pretesa (come è stato per Rifondazione sotto la guida di Bertinotti) di egemonizzare i movimenti e ricondurli a un’obbedienza di partito. Cosa che, con l’aiuto dei ds e delle loro leve di pressione per esempio su settori del pacifismo, è in parte riuscita. Ma non riesce piú adesso, quando le contraddizioni si sono fatte lancinanti.

 

Dunque, se vogliamo incidere, dobbiamo tentare di “unificare” questo magma di soggetti, di storie, di sensibilità, di culture, di organizzazioni diverse.

La parola stessa “unificare” non è adatta a descrivere questo processo. Piuttosto, forse, si tratta di costruire almeno per ora, una forma di coordinamento “forte”, cioè sistematico, condiviso: diciamo un patto di azione (patto civile) comune.

C’è bisogno di qualcosa di simile a una “maniglia”, cui aggrapparsi tutti insieme, che sia visibile, che sia solida nelle sue linee portanti. Una “maniglia”, un punto di riferimento comune, che serva a tutti, a una molteplicità di soggetti, individuali e collettivi, diversi. E che, per ora, sono disposti ad aggrapparvisi a condizione di restare diversi. È stata l’assenza di una tale “maniglia”, l’assenza di ogni punto di riferimento comune, che ha impedito alla sinistra di contare. E che ha poi costretto molti a rifluire sugli unici punti esistenti, anche se in molti casi turandosi il naso per mancanza di alternative. Nell’ambiguità della situazione molti hanno finito per restare agganciati alla propria storia e alla tradizione; molti altri hanno semplicimente abbandonato.

La nascita del Partito democratico e la progressiva scomparsa dei ds, come componente (anche nominale) della sinistra, elimina molte delle ambiguità precedenti. Altre però ne rimangono, a sinistra del Partito democratico, e condizione irrinunciabile per giungere a un qualsiasi risultato positivo unitario sarà di impedire che qualcuno dei partiti di sinistra cerchi di prendere la guida del processo di costruzione unitaria o del patto d’azione comune.

Noi non dobbiamo chiedere a nessuno di rinunciare alla propria storia e alle proprie bandiere. Se lo facessimo, oggi, otterremmo come unico risultato di dividere e non di comporre.

Nello stesso tempo dobbiamo dire loro, a tutti, che nessuno si illuda di ricavare qualcosa di utile dalla sommatoria degli spezzoni dei partiti e partitini della sinistra uscente (uscente in tutti i sensi). Perché, in primo e fondamentale luogo, essi non costituiscono la maggioranza del popolo che abita la voragine e che cerca, ma non in loro, la “maniglia” in cui mettere con sicurezza la propria mano. E dunque ogni tentativo di imporre egemonie burocratiche sfocerà in un fallimento, che sarà il fallimento di tutti.

Quindi nessuna esclusione preventiva, ma anche nessuna guida preventiva, che non sia risultato di una convergenza volontaria.

 

Noi non dobbiamo rifondare un bel niente, non possiamo fermarci alle dispute nominalistiche sui comunismi e sui socialismi: tutte ormai molto distanti dalla sensibilità e dagli interessi di milioni di donne e uomini.

Noi dobbiamo fondare una nuova politica e una nuova moralità, una democrazia rappresentativa degna di questo nome. Ecco perché io penso che dovremmo dare vita rapidamente a una Fondazione attorno a cui far confluire tutte le nostre forze, e i mezzi anche finanziari di cui avremo bisogno.

Una Fondazione, con la Effe maiuscola, da affidare a un gruppo di saggi di alto profilo scientifico, culturale, morale, cui chiedere non di esercitare la direzione politica (che non può essere il loro compito), ma di gestire un’agenda di dibattito e di ricerca, di approfondimenti tematici in vista della costruzione di un programma comune.

Io credo che non ci sia tempo da perdere. Non è un partito quello che dobbiamo costruire, ma un movimento che abbia alcune caratteristiche di una nuova formazione politica, capace di contare le sue forze nel paese nella prima competizione elettorale a sistema proporzionale che si delinea da qui a due anni abbondanti: le europee del 2009.

Sono convinto che, fin dall’apparire di questa forza, il quadro politico della sinistra, del centrosinistra e del paese subiranno una modificazione sostanziale.

Ovvio che, per tutto questo, occorre un programma comune e un diverso livello della conoscenza della complessità che ci troviamo a fronteggiare. Troppe cose sono avvenute senza che la sinistra istituzionale se ne avvedesse. Al moto turbinoso del mondo ha corrisposto in questi anni uno stallo della politica della cultura di sinistra.

Questo ha per conseguenza che molto della società contemporanea noi lo conosciamo poco o niente. Io non penso, certo, che dobbiamo mettere in piedi la Fondazione solo per fare ricerche e convegni. Al contrario io penso che essa sia anche uno strumento organizzativo, per quanto semplice, e al tempo stesso un luogo di formazione dei “quadri”. Ma le dimensioni della crisi non possono essere viste dalle prospettive miopi con cui la sinistra (tutta o quasi) le ha guardate in questi venti anni. Nei quali – è una dura constatazione – le condizioni di vita, sociali, delle classi lavoratrici sono state duramente erose (e nel mondo lo scarto tra ricchi e poveri si è ingigantito e moltiplicato), mentre la forza delle organizzazioni di difesa dei lavoratori è stata gravemente intaccata e ridotta e i loro partiti si sono via via arresi o acquietati, e ora abbiamo di fronte a noi il compito immane di costruire barriere difensive, perché il conflitto storico tra capitale e lavoro si è risolto in sistematiche vittorie del primo contro il secondo.

Ma c’è altro, e ha a che fare con un salto di qualità della complessità contemporanea: noi non abbiamo visto l’ingigantirsi di un’altra contraddizione, inedita, dalla quale non è previsto che emerga alcuna sintesi superiore, alcun vincitore. È la contraddizione tra uomo e natura che, certo, è frutto dello sviluppo capitalistico, ma che produce un mutamento, questo si! radicale: l’accorciamento dei nostri destini, del destino dell’uomo. È l’orizzonte stesso della specie che si è accorciato. E non c’é soluzione a portata di mano, né basteranno le chiacchiere a trovarla. Abbiamo “disturbato l’universo”, compromesso l’ambiente, dilapidato l’energia non rinnovabile.

Non c’è forza di governo degna di questo nome che possa non affrontare questi temi, già in emergenza, che arriveranno a maturazione nel corso di questa generazione, mentre la sinistra continua a balbettare, insieme alle coorti neoliberiste, di sviluppo indefinito e di crescita del Prodotto Interno Lordo.

Noi dovremo essere coloro che hanno il coraggio di dire cosa sta per succedere se non si intraprenderanno misure urgenti per un nuovo modo di vivere, di consumare, per una nuova disciplina dell’organizzazione sociale, per un nuovo ruolo dello Stato, contro le privatizzazioni dei beni essenziali alla vita (come l’acqua in primo luogo) e alla coscienza umana (come l’informazione e la comunicazione).

 

Se non si vede – e si porta alle grandi masse – la visione di questo scontro tra l’uomo e la natura, allora non è possibile fare fronte alla guerra che un tale scontro è destinato a produrre. Non sarà possibile contrapporsi a classi dominanti che, guidate da un istituto suicida, stanno preparando una resa dei conti per la sopravvivenza, con la Cina in primo luogo, e i miliardi di poveri estromessi dalla globalizzazione, improduttivi, inutili ma consumatori di risorse che sottraggono ai ricchi.

Questa visione del mondo, drammatica ma realistica, è anche l’unica possibilità per portare a un vasto schieramento di forze, assai piú ampio di quello della sinistra tradizionale, l’idea della salvezza collettiva, del Bene Comune, della necessità della fratellanza e della solidarietà oltre a quelle della giustizia e dell’uguaglianza.

È per portare alle grandi masse popolari (di cui Fassino non a caso non ha parlato) questa visione e queste proposte bisognerà che la sinistra finalmente comprenda l’importanza assolutamente cruciale della comunicazione, cioè prima di tutto della televisione. Cosa che ancora non ha fatto, permettendo prima a Berlusconi di dominare il campo e poi (con lui che incamera tutti i dividendi) spartendosene quelli propagandistici, dopo aver privatizzato la televisione pubblica. E nemmeno noi l’abbiamo ancora capito, tant’è vero che non abbiamo mai avviato, neanche come sinistra cosiddetta radicale, nessuna vera lotta di massa per una tv democratica. E come potremmo averlo fatto se il leader di uno questi partiti detti radicali di sinistra è diventato presidente di una delle due Camere del parlamento grazie alle sue oltre ottanta apparizioni televisive nel salotto del piú servile ex giornalista berlusconiano?

 

Due ultime considerazioni prima di concludere. Il compito che ci poniamo sembra incomparabilmente superiore alle nostre possibilità.

Ma nessuno qui pensa che lo si possa fare da soli. Con questo formato noi intendiamo essere parte di un insieme di tentativi che perseguono lo stesso scopo: vale per coloro che sono usciti dai ds e per quelli che usciranno da Rifondazione e dai Comunisti Italiani; vale per coloro che resteranno in Rifondazione, nel Pdci, nei Verdi; vale per i cento e mille raggruppamenti senza partito, Comitati, «movimenti», che già si stanno formando in molte regioni italiane. Cioè non possiamo pensare di fare da soli, anche perché chiunque tenterà di fare da solo, volente o nolente, sarà la concausa della sconfitta collettiva.

La seconda considerazione è un’avvertenza: nella presente cacofonia e confusione é difficile far passare segnali intelleggibili.

Unire ciò che è profondamente diviso può sembrare impresa impossibile. Ma commetteremmo un errore se immaginassimo i mesi avvenire come una piú o meno tranquilla prosecuzione dei decenni che ci siamo lasciati alle spalle. Tutti i segnali dicono che il panorama delle tensioni internazionali si va rapidamente aggravando. E la guerra dell’impero si estende e ci coinvolgerà, anzi li coinvolgerà. E, purtroppo, ciò che oggi é difficile da spiegare ci verrà brutalmente servito dai fatti e lo vedremo sui nostri televisori, anche se saranno spenti perché magari dovremo razionare l’energia elettrica. E allora sarà piú credibile chi avrà detto per tempo la verità, è piú forte chi si sarà preparato per affrontarla.

 

Ho toccato cinque linee programmatiche fondamentali che penso dovranno essere al centro di una proposta di rinnovamento e di alternativa per il paese: 1) scelta di campo contro la guerra; 2) attuazione e difesa della Costituzione; 3) diritti sociali e civili in nome della giustizia e della solidarietà; 4) l’ambiente e la natura per sopravvivere, con un altro modo di produrre e di consumare; 5) democrazia nella comunicazione. Ne aggiungo un sesto: la questione morale è la riforma della politica, per una nuova rappresentanza democratica.

Dovremo precisarli e chiarirli e farne strumenti appuntiti per le lotte sociali che dovremo promuovere. E penso che dovremo darci una preliminare, molto semplice, struttura operativa di collegamento: per raggiungere il piú alto numero di realtà locali che si muovono in sintonia con questi obbiettivi. Per giungere, traendo le prime somme, a un appuntamento nazionale in autunno.

Abbiamo due anni di tempo. Le forze ci sono, anche se sparse e incerte. Noi dobbiamo contribuire a riunirle e a dare loro certezza. 

 

Firenze, 21 aprile 2007