donne musulmane
di nicoletta


Mi inserisco  nel discorso sulla oppressione delle donne
musulmane (arabe?) con alcune osservazioni: prima, giusto per sgombrare il campo da preoccupazioni: le donne non hanno bisogno né della trasmissione di Santoro né di nostre elucubrazioni per sapere che sono oppresse, e che questo non è giusto: capita magari, a me è capitato, di cogliere una osservazione del tipo: "Sì, i talebani, mio marito starebbe bene con loro, fosse per lui dovrei vestirmi da monaca ed uscire solo accompagnata! è geloso persino dell'aria che respiro!" e magari di seguito si afferma che un po' lei  lo contiene, perché non può chiuderla in casa, certo che quando esce da sola, lui non è contento...

Lo sanno bene le donne, ho lavorato in un consultorio pubblico quando l'eco delle nostre lotte era più vivo, e venivano donne dall'alta valle, o da paesetti dell'interno, e squadernavano tutta la loro oppressione aspettandosi una soluzione, con l'aria di dire "avete tanto parlato, ora dimostrami che si può davvero!" e non era certo facile!  permettimi anche di dire che anni di discussioni, di femminismo hanno lasciato traccia e coscienza diffusa , no le donne non hanno bisogno di sapere da noi che sono oppresse, se mai hanno bisogno di conoscere ed affinare gli strumenti di difesa che ci sono, per trovare il proprio equilibrio in rapporti troppo spesso squilibrati.


E le altre? è difficile parlare delle altre, delle donne arabe e musulmane in particolare, e dei loro problemi senza avvertire un disagio, come se le si confermasse in una differenza che vuol dire inferiorità, e questo stravolge il senso di ogni discorso. Premetto che non ho visto la trasmissione di Santoro, e non amo il modo sensazionalistico con cui affronta i problemi, ma conosco bene invece il problema nostro, di donne che hanno fatto un percorso
nella loro vita, che hanno lottato ed acquisito coscienza e pezzi almeno di libertà, e che non sono disposte essere ricacciate in un indistinto mare di oppressione che tutte ci accomuna. Forse  quel percorso ci rende ancor più
avvertite del pericolo di tornare indietro, che si sente sempre più pressante, con una stretta connivenza tra uomini che spinge a generalizzare il problema per non riconoscere, e non affrontarlo e superarlo. Se un uomo mi dice che anche da noi, basta guardare il sud, o gli omicidi in famiglia, eccetera, io gli rispondo che forse di questo e di altro è responsabile anche lui, perché non c'è stata una maturazione della coscienza maschile accanto alla liberazione della donna, e quindi lui non ha fatto la sua parte.

E gli dico anche che le donne arabe, musulmane, africane, indiane, cinesi, non chiedono una generica comprensione della loro situazione, trincerandosi dietro differenze o similitudini culturali, ma richiedono una presa di coscienza, un sostegno forte e deciso, che non faccia fare a nessuna dei passi indietro in nome di un falso rispetto delle differenze. In genere sono gli uomini di queste comunità che chiedono che vengano
riconosciute le loro differenze culturali, anche se significano oppressione e limitazione per le donne, e sono uomini anche impegnati, anche di sinistra, che teorizzano la comprensione, le classi femminili, il rispetto del velo, della poligamia, o comunque dell'autorità dell'uomo sulla donna, perché in fondo sembrano loro particolari e sfumature su cui soprassedere in nome dell'accoglienza!

Noi che abbiamo lavorato sulle differenze, riconoscendone il valore e la portata rivoluzionaria, sappiamo bene che l'unico incontro possibile è sull'ampliamento dei diritti, non sull'arretramento, sappiamo bene che l'ascolto passa per una presa di coscienza, e che riconoscere le differenze non vuol dire congelare qualcuno, qualcuna, nella propria condizione. A questo si aggiunge che spesso lo sradicamento, la sensazione di oppressione e di isolamento che vivono le persone immigrate spinge ad un ritorno ad usanze e comportamenti a torto o a ragione vissuti come una protezione della propria identità e delle proprie radici .

Ho conosciuto Iman ad una mostra d'arte: un volto bellissimo da madonna medioevale incorniciato dal velo, uno sguardo determinato e franco, opere interessanti e dolorose con quel bianco e nero quasi grafico dei suoi quadri in cui disegnava donne ieratiche e colombe capovolte, spesso farciti di fine scrittura araba con brani di canzoni di lotta. Con calma e determinazione chiedeva un luogo dove ritirarsi a pregare alle ore prestabilite, e ci sollecitava ad indicarle i punti cardinali, così da potersi orientare per la preghiera. Il giovane marito, palestinese anche lui, osservava quelle manovre con rispetto e perplessità, quando li conoscemmo un po' meglio ci disse che solo da poco Iman e diventata così devota, lui la rispettava, senza capirne bene il motivo: avremmo capito più avanti che la ferita di Iman era la lontananza dalla sua terra, il timore di perdere la possibilità di rientrare, ed il velo, i riti sembravano darle sostegno nel suo desiderio di riunirsi ai suoi, infatti ad un certo punto rimase a Gerusalemme, a costo di separarsi dal marito.

Quante ferite nasconde un velo? o la vita di una donna lontana dalla sua casa, senza altra mediazione con l'ambiente che la circonda che quella di un compagno che lui pure vive lo sradicamento ed il rifiuto? Forse non saranno più violenti e prepotenti degli uomini italiani, gli uomini arabi, ma la mancanza di sostegno e di riferimento, l'insicurezza che vivono fa sì che troppo spesso essi individuino nella oppressione e nel governo assoluto delle donne di famiglia il mantenimento del proprio senso di fiducia, e del legame con la terra da cui provengono. Lo stesso avveniva d'altronde con gli emigranti italiani, che trovandosi all'estero spesso hanno riprodotto e mantenuto usanze e comportamenti che ai loro paesi di origine erano ormai superati. Molti cercano di integrarsi, esagerando perfino il rifiuto delle usanze dei paesi di origine, ma altri in esse si rinchiudono.

Ed in tutto ciò le donne non sono certo libere di trovare il proprio inserimento ed il modo di essere. Io penso che questo sia responsabilità dell'impegno di integrazione, di ascolto: che vi siano luoghi dove poter parlare, fra sé e con altre, dove poter trovare sponda e conforto, dove la mediazione avvenga con la solidarietà ed il sostegno, così che coloro che scelgono un modo proprio di sottrarsi, o di integrarsi abbiano l'aiuto di cui necessitano.

È più utile per ottenere questo denunciare, con un certo clamore i casi, reali, di oppressione, od è meglio il lavoro nel silenzio? Io credo che se le donne oppresse sanno che noi sappiamo possono pensare di essere credute ed aiutate, specie se accanto ai casi eclatanti si fa passare l'informazione sui luoghi di accoglienza e di condivisione
  ... ma ci sono? e dove sono?



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