MAMMA URBINO

Cari amici di “Salute”, non vorrei  più ricordare quella “catastrofe” personale, vi scrivo solo pensando che può servire ad altre persone. Si tratta della morte di mia madre. Era il 26 gennaio dell’anno scorso, già da due giorni mamma non dormiva, si agitava, mi supplicava “portami fuori, davanti alla neve” (era  il mese della neve grande), forse voleva morire come un personaggio della letteratura russa che lei amava tanto.

Verso le due di notte, mi accorgo che fatica a respirare, chiamo il 118, l’ambulanza da Cagli (provincia di Pesaro-Urbino) arriva subito, nonostante la neve. Raggiungiamo l’Ospedale di Urbino e lì comincia la tragedia. La visitano e la mettono su una barella. In attesa. Si doveva spettare la Tac, che però funziona solo a partire dalle 8 di mattina!

E lo chiamano “pronto soccorso”. Sono state ore orribili, mia madre Sara, sempre più flebilmente protestava, “ma non c’è almeno un letto, perché mi fate soffrire così?”. Arriva il mattino, la Tac dimostra una “emorragia celebrale in corso”.

Che cosa decidono? Di ricoverarla in Medicina, lei era stremata e io con lei, un giorno e una notte di strazio. A quel punto, nel reparto, mia madre mi viene “sequestrata”, perché dovevano sistemarla nella stanza. “Lei esca”, mi impongono, ma perché non posso starle vicino? Mamma comincia a urlare “Andreina, Andreina”, un richiamo che ancora mi sveglia la notte, e io fuori dalla stanza a urlare con lei “mamma, mamma, non ti preoccupare, sono qui, sono qui fuori”.

Allucinante. Esce fuori dalla stanza come una furia una dottoressa e mi impone di tacere “se no la sbatto fuori”. Io lì a torcermi le budella e Sara dentro a chiamarmi. Orribile. Stupido protocollo, prassi crudele. Finalmente: “il letto è pronto, può entrare”. Ho fatto appena in tempo ad accarezzarla, a baciarla, era tutta sudata, mi ha chiesto un po’ d’acqua, mi ha stretto la mano ed è morta.  Basta, non voglio più ricordare. Ma dico, che ci vuole a far stare un parente vicino a un moribondo? Che ci vuole a prevedere una “stanza dell’addio”? Con tante chiesette deserte che ci stanno negli ospedali, non si può allestire un luogo per un trapasso PIU’ UMANO?

                                                                                     Andreina Montevecchi