Ahmed Rashid
intervistato da Lilli Gruber sul futuro del Pakistan tratto da "la Stampa", 13
giugno 2002
"Temo le schermaglie e gli
incidenti tra India e Pakistan nel Kashmir: potrebbero
deteriorare e portare la situazione fuori controllo per
arrivare a una vera e propria guerra. E' questa la mia
paura". E' il giornalista-intellettuale pakistano
più autorevole e famoso del mondo a parlare, Ahmed
Rashid, autore del best seller sui taleban, che
recentemente ha scritto anche un saggio sulla Jihad
nell'Asia centrale. Grande conoscitore di quell'area
cruciale per i nuovi equilibri geopolitici post-guerra
fredda e post-11 settembre, Rashid è in partenza per
l'Afghanistan, ma lascia preoccupato a Lahore la moglie
spagnola e i due figli. "Se scoppia la guerra
tornerò di corsa da Kabul per portare la mia famiglia
fuori dal Paese..." Da sempre abituato a vivere
conflitti e tensioni, analizza lucidamente l'allarmante
danza sull'orlo della guerra di due potenze nucleari,
inserite in un'altrettanto inquietante realtà di
crescente instabilità di una regione fondamentale per il
dominio delle risorse energetiche e per il controllo del
fondamentalismo islamico. 53 anni, cresciuto in
un'intrigante mix di valori occidentali e cultura
islamica, ha studiato in Gran Bretagna, ha sposato una
cattolica e alla domanda su come vengono educati i suoi
figli e se la religione è un tema di discussione, per
motivi di sicurezza non vuole rispondere. Il suo Pakistan
è oggi, infatti, in balia di fortissime spinte sociali e
politiche contrapposte, da quando in nome della guerra al
terrorismo si è schierato con l'America di Bush, ha
tagliato i saldi legami con i taleban, silurato i capi
militari e dell'intelligence troppo vicini agli
estremisti di Kabul. Con una grande incognita per il
futuro: quale delle due anime pakistane prevarrà, quella
laica, musulmana ma laica, del suo padre fondatore, Alì
Jinnah, o l'altra fanatica, oltranzista, ultrareligiosa
che non ha digerito l'accordo con Bush e che si fa
sentire sempre più spesso con le sue bombe e i suoi
assassinii politici? "Dopo l'11 settembre il
presidente Musharraf non aveva in realtà altra scelta
che associarsi alla linea americana - sostiene Rashid -
ma una volta decisa la svolta contro i taleban, doveva
colpire anche l'estremismo in Pakistan e fermare gli
aiuti all'insurrezione nel Kashmir. L'attuale crisi con
l'India è da ascrivere anche alla mancanza di questi
passi ulteriori; inoltre l'Occidente e gli Stati Uniti
erano talmente contenti dell'appoggio ottenuto contro Al
Qaeda che negli ultimi mesi non hanno mai veramente
richiamato Islamabad alle responsabilità dentro casa
propria".
Quale
sarà il risultato delle tensioni di queste settimane,
che hanno portato all'ammassamento di un milione di
uomini alla frontiera indo-pakistana nel Kashmir?
"L'unico modo per ridurre le tensioni su entrambi i
fronti è che il Pakistan cessi di infiltrare
guerriglieri, che smantelli i campi di addestramento dei
militanti nel Kashmir pakistano e che i giovani vengano
mandati a casa. A quel punto l'India deve rispondere con
un paio di gesti distensivi che salvino la faccia al
generale Musharraf e che giustifichino il proprio ritiro
delle truppe dai confini. Tutto ciò dovrà essere
monitorato dagli americani, anche con i satelliti e
segretamente sul terreno, per accertarsi che Islamabad
tenga davvero fede alle sue promesse. Solo allora l'India
si potrà dire soddisfatta".
Se
queste due potenze nucleari si dichiarassero guerra,
quale potrebbe essere l'impatto sulla situazione interna
del Pakistan?
"C'è già una situazione estremamente precaria con
tutti i maggiori partiti politici che rifiutano di
supportare Musharraf e chiedono le sue dimissioni. Le
chiedono anche i fondamentalisti ma per ragioni diverse.
Se ci fosse una guerra, la nazione pakistana sicuramente
si schiererebbe con l'esercito, però solo
temporaneamente perché la società resta fortemente
polarizzata contro il regime dei militari".
Certamente
non ha aiutato il referendum-truffa dello scorso mese che
ha conferito il potere a Musharraf per altri cinque anni.
Peccato che solo il cinque-sette per cento dei pakistani
sia andato a votare. A questo punto, crede che si
terranno le previste elezioni politiche di ottobre oppure
il Paese è sulla via di una dittatura militare?
"Le elezioni saranno fortemente manipolate a favore
dei militari o a favore dei politici compiacenti col
regime, a meno di una forte pressione internazionale su
Musharraf per avere vere libere votazioni. Se saranno
invece truccate, si può prevedere una forte crisi
politica in Pakistan".
Ma
l'opposizione è in grado di offrire un'alternativa
valida?
"No, è questo il problema. L'opposizione non offre
al Paese la leadership di cui ha bisogno. Per questo
dobbiamo avere elezioni 'pulite' con politici eletti
democraticamente, che poi dovranno dividere il potere con
l'esercito per almeno cinque anni. Soprattutto le
elezioni non devono essere truccate".
In
passato l'impero ottomano era il gigante malato
dell'Europa. Pensa che il Pakistan sia il gigante malato
dell'Asia e perché è così pericoloso se dovesse
crollare?
"Il Pakistan confina con l'Asia centrale, l'Asia del
Sud, il Medio Oriente. E' il cuore geopolitico della
regione ed è il maggiore "fornitore" di
ideologia islamica militante ed estremista, e questo è
pericolosissimo per tutti".
Vista
la situazione di forte tensione e violenza in
Afghanistan, che possibilità ha l´assemblea dei
rappresentanti di tutte le tribù, la Loya Jirga, di
formare un governo davvero stabile?
"Credo in un esito positivo, nonostante le
intimidazioni, la corruzione, le continue interferenze
dei vari capi della guerra. Perché il 99 per cento della
gente vuole finalmente la pace e non permetterà alla
Loya Jirga di fallire. Prima ci sarà un accordo dietro
le quinte su chi prende quale ministero e su quale sarà
il ruolo delle due etnie principali, i pashtun e i
tagiki. Sono convinto che alla fine avremo un governo
legittimo; non sarà perfetto, ma sarà più
rappresentativo dell'esecutivo ad interim dell'attuale
premier Karzai. Crescerà la fiducia della popolazione e
i finanziamenti della comunità internazionale per la
ricostruzione del Paese cominceranno ad arrivare".
Spesso
per l'Occidente questa parte del mondo viene vista come
povera, rude e ostile. Lei, che la conosce da vicino da
più di vent'anni, come ce la descriverebbe?
"E' un affascinante patchwork di paesaggi diversi,
di diversi gruppi etnici, costumi, tradizioni. Lì impari
a conoscere le origini del mondo".
Ma
esiste un filo rosso che lega tutte queste tribù così
diverse?
"Le unisce innanzitutto l'adesione all'Islam, anche
se ci sono molte interpretazioni della religione
islamica; poi c'è l'elemento dell'etnicità che è
ancora così forte e continua a dominare il panorama
politico. Persino i sovietici a suo tempo fallirono.
Pensarono di potersi liberare dei problemi e delle
identità etniche, creando il "nuovo uomo
sovietico". Senza però riuscirci".
Lei
coprì la guerra dell'Unione Sovietica in Afghanistan ed
era lì anche quando il 7 ottobre scorso cominciò la
guerra contro il terrorismo in Afghanistan. Che
differenze ci sono tra questi due avvenimenti storici?
"La differenza è che i sovietici non ebbero mai
l'appoggio della gente e dovettero letteralmente
conquistare l'intero Paese e governarlo con la forza. Gli
americani vengono visti dalla maggioranza degli afghani
più come liberatori che come conquistatori".
Gli
americani dicono che la campagna afghana è un successo.
Come si giudica in questa parte del mondo un successo o
un fallimento?
"Credo che Al Qaeda e i taleban siano stati
eliminati in Afghanistan, anche se per molti mesi
assisteremo ancora alla resistenza di sacche isolate.
Molti sono fuggiti in Pakistan, dove c'è bisogno di
misure più dure per garantire la sicurezza. La rete
internazionale di Al Qaeda però resta, assieme alla sua
capacità di organizzare attacchi devastanti contro
l'Occidente e altri Paesi".
Lei
ha incontrato Osama bin Laden, diventato ormai una figura
inafferrabile, dopo che l'America per mesi ha avuto come
obiettivo primario di prenderlo vivo o morto. Come viene
percepito oggi in Afghanistan?
"Credo che la maggior parte degli afghani non ne
possano più di Bin Laden, perché hanno capito che ha
contribuito, col suo sostegno ai taleban, a portare il
loro Paese alla rovina".
Dove
pensa che sia adesso?
"Penso che sia vivo e che si nasconda lungo il
confine tra Pakistan e Afghanistan. Il suo ultimo video
sembra esserne una prova inconfutabile".
Qual
è, secondo lei, la lezione da imparare per i generali
americani e per i nostri politici?
"Devono ricordarsi che l'abbandono dell'Afghanistan
con il conseguente collasso del Paese, dopo il ritiro dei
sovietici nel 1990, è stato un disastro da non
ripetersi. Stati ridotti al collasso sono terra
estremamente fertile per il terrorismo e l'estremismo.
Questo vuol dire che ci deve essere uno sforzo enorme per
risollevare questi Paesi dalla povertà. Gli americani
continuano a perseguire obiettivi militari, ma ora è il
momento di una strategia economica e politica per aiutare
gli afghani a ricostruire le loro istituzioni e a
migliorare la vita della gente. L'Afghanistan avrà
bisogno dell'Occidente ancora per molti anni. Se si
ignorasse questa urgenza, sarebbe una tragedia per
tutti".
Lei
è noto nel mondo per i suoi reportage e i suoi libri sui
taleban, sull'Islam e l'Asia centrale, scritti anche
quando praticamente nessuno se ne interessava. Perché si
è così impegnato in questa regione?
"Cominciai col primo golpe sovietico e la successiva
invasione dell'Afghanistan nel '78. Poi è diventata come
una droga... E´ una storia che non puoi abbandonare
finché non è finita. Ma non c'è mai stata una fine e
non ci sarà nemmeno ora. Contemporaneamente ho studiato
e seguito l'Asia centrale, per capire le origini dei
tanti gruppi etnici afghani. Oggi è diventata un'area
centrale per gli equilibri del mondo".
Perché
le donne e i loro diritti sono sempre al centro del
potere politico nei Paesi islamici?
"Ci sono così tante interpretazioni diverse dei
diritti delle donne nella religione islamica. Negli anni
passati, in zone come il Pakistan e l'Afghanistan dei
taleban, le donne sono state usate come strumento
politico per rafforzare una certa visione dell'Islam.
Così sono diventate un obiettivo dei mullah, una facile
preda per dimostrare fedeltà a una interpretazione
dell'Islam molto dura e violenta. Questo è successo
anche con molti altri gruppi fondamentalisti. Per loro le
donne non sono solo cittadini di serie B, ma devono
essere anche private di tutti i loro diritti".
Lei
ha vissuto e studiato anche in Occidente. Crede nella
tesi dello storico americano Samuel Huntington dello
scontro tra civiltà occidentale e islamica? E' quello
che sta accadendo ora?
"No, non ci credo. Lo scontro è tra estremisti
islamici che colpiscono sia musulmani che cristiani e
vogliono imporre la loro visione e il loro regime sulle
società musulmane, e il resto del mondo. Il fallimento
del mondo musulmano è rappresentato dalla mancanza di
democratizzazione e di riforme politiche ed economiche. I
regimi musulmani devono cambiare: molto, molto in
fretta".
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