Erri De Luca: L’ingiusta supremazia

Tratto da "Il Mattino", 24 marzo 2003

Ho imparato la lingua americana, non l’inglese, da mia nonna che era dell’Alabama e si chiamava Hammond. Da lei mi viene il quarto di sangue americano che ha deciso il formato del mio corpo e l’apparenza. È rimasto in superficie quel quartino, mai l’ho sentito agitarsi dentro di me.
Perciò mi disturbavano i marinai della sesta flotta Usa che a migliaia sciamavano per Napoli, comprandosela anima e corpo per pochi cents. Perciò sono stato tra quelli che in gioventù si sono schierati contro l’America al tempo della guerra d’invasione del Vietnam e che si sono battuti allora per la sconfitta degli Stati Uniti. E l’abbiamo ottenuta, nel 1975.
Oggi per la prima volta sento muoversi una spinta di compassione per l’America. Oggi sono triste per questa nazione che sta andando al fine corsa del suo prestigio e della sua supremazia. Tutti i primati del mondo scadono, i potenti passano la mano ad altri potenti, la storia è zingara e non pianta a lungo la sua carovana nello stesso posto. Ma è triste per me vedere il popolo americano declinare così in fretta, appena arrivato al culmine della sua potenza.
Alcuni parlano d’impero, ma non è così. L’impero espande i suoi confini e li conserva dentro un quadro di diritto comune condiviso.
Il popolo romano crebbe in forza militare e insieme al vigore delle leggi: il suo "ius" è durato molto di più delle sue legioni. L’impero ha bisogno di regole su scala di mondo.
L’America oggi le abbandona per affidarsi alla sua sola forza. Così fanno le orde, non gli imperi.
Devo molto all’America. I suoi poeti mi hanno aizzato uno spirito di libertà e di avventura che la prudente letteratura italiana non si sogna. Whitman, Kerouac, Dylan hanno scassinato da fuori la gabbia in cui ogni ragazzo si sente rinchiuso. Dov’è oggi la tua libertà, America? I tuoi poeti sono invecchiati e cantano strofe di anni Sessanta. Il tuo presidente è votato da meno di metà degli elettori, ha preso meno voti del suo avversario, insomma è un quinto di presidente, dov’è la tua democrazia, America? Cosa cerchi a Belgrado, a Kabul, a Baghdad, scavando a colpi ciechi nel suolo di città con proiettili di uranio impoverito? Non sarai rispettata di più, odiata sì. "Che mi odino, purché mi temano": è con questa vecchia stupidaggine di tiranni antichi che credi di durare? Non è più verde la tua frontiera e nemmeno il tuo dollaro che sbiadisce e perde peso di fronte alla monetina recente di un’Europa fatta a spezzatino. E perderà sempre più presa e rappresentanza di moneta guida, il tuo biglietto. Già i petrodollari arabi si convertono ad altra religione monetaria e traslocano in Svizzera. Presto anche ai profitti delle tue multinazionali converrà fare altrettanto. Cos’è questo tetano di guerra che ti deforma il viso? Sei forte, certo, ma invulnerabile no, anzi come tutti noi, fragile in ogni metro quadro delle nostre città. Nemmeno il piccolo Israele è riuscito a conservarsi illeso, ed è allenato a guerre da che è Stato.
A un dibattito in televisione una domanda impertinente spiazzava l’interpellato di turno: chi speri che vinca la guerra in corso? Visto che la speranza è gratis dichiaro la mia: che non vinca nessuno. Spero che perda il tiranno iracheno e che perda pure l’invasore angloamericano e un poco australiano.
Spero in un colpo della provvidenza che mortifichi in una sola volta due tracotanze militari oggi simili. Barcolli sotto il peso delle tue stesse armi, America, esci dal deserto in cui ti sei cacciata.

 

 

 

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