Gianni Riotta:
1998: così fu decisa la fine di Saddam Tratto da "il
Corriere della Sera", 10 febbraio 2003
La seconda guerra americana a
Saddam Hussein comincia già ai tempi del presidente Bill
Clinton. Si affrontavano allora tre diverse posizioni. La
prima, retta dallo stesso Clinton, vedeva le priorità
strategiche nella riforma della Russia e dell'Europa
centrale, nell'apertura della Nato e nel confronto con
India e Cina. L'Iraq era roba del passato. La seconda
posizione era rappresentata da Al Gore, il vicepresidente
che è arrivato a un pugno di voti dalla Casa Bianca,
nelle elezioni del 2000. Sostenuto da Madeleine Albright,
segretario di Stato, Gore credeva che Saddam Hussein
restasse un pericolo, che la guerra di Bush padre fosse
fallita e che occorresse rimuovere il tiranno da Bagdad
con la forza. Tra i due gruppi mediavano gli specialisti,
che volevano un colpo di Stato, coordinato con
l'opposizione in esilio.
Quando ci si chiede, "perché l'Amministrazione
repubblicana di George W. Bush ha deciso di bombardare
adesso il raìs?", occorre partire da quei
dibattiti, come ce li racconta Kenneth Pollack, autore
del più bel libro sulla guerra a venire The
threatening storm , tempesta
minacciosa (fra tanta sbobba che si agglutina nelle
librerie italiane, nessun editore ha il fegato di
tradurre questo formidabile testo?). Pollack, analista
per la Cia, avvisò Bush padre che l'Iraq avrebbe invaso
il Kuwait.
Non gli credettero. Per anni, come membro del Consiglio
per la Sicurezza nazionale di Clinton, spiegò che contro
Saddam non servivano né blandizie, né minacce e che il
tiranno sopravviveva alle sanzioni e negoziava lucrosi
contratti per petrolio e armi con Russia, Cina e Francia,
mentre contrabbandava tre miliardi di dollari in greggio
con Siria, Turchia, Giordania e Iran. Nessuno ascoltò
Cassandra Pollack.
La proposta di invadere l'Iraq ritorna poche ore dopo
l'attacco suicida contro New York e Washington, 11
settembre 2001. Il ministro della Difesa Donald Rumsfeld
chiede piani di guerra contro Bagdad (lo confermano Bob
Woodward sul Washington Post e
Chalmers Johnson sul Los Angeles
Times ). Non tutti sono persuasi. Il
segretario di Stato Colin Powell insiste:
"L'opinione pubblica non ci seguirà", la
consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice
cita un suo saggio del febbraio 2000, sulla rivista Foreign
Affairs : "La prima linea di
difesa contro Saddam, anche se acquisisse armi di
sterminio di massa, deve essere la deterrenza".
George W. Bush decide che "la gente va
preparata" e si concentra sul raid contro il regime
dei talebani.
Alla situazione di oggi, ispettori a Bagdad, 200.000
soldati Usa sul piede di guerra, Onu mobilitata ed
europei divisi, si arriva leggendo quei saggi
intellettuali, a tratti fumosi, articoli con le note a
piè di pagina che possono portare il mondo sull'orlo di
un conflitto. Rumsfeld aveva già scritto una lettera al
presidente Clinton, il 28 gennaio del 1998, chiedendogli
"di eliminare Saddam Hussein e il suo regime".
Clinton fece orecchie da mercante e Rumsfeld invitò Dick
Cheney, oggi vicepresidente, a firmare con lui un appello
ai leader repubblicani del Congresso. La data è 29
maggio 1998, il testo chiaro: "Occorre cacciare
Saddam, stabilire e mantenere una possente presenza
militare americana nella regione, pronti a usare la forza
per difendere i nostri interessi nel Golfo Persico".
Oltre a Rumsfeld e Cheney firmano Bill Kristol, direttore
del foglio conservatore Weekly
Standard , Elliott Abrams, vecchio
falco reaganiano, Paul Wolfowitz, oggi vice di Rumsfeld
al Pentagono, John Bolton, oggi sottosegretario alla
Difesa, Richard Perle, stratega di Bush al Defense
Science Board , Richard Armitage,
oggi vice di Colin Powell al Dipartimento di Stato e
Zalmay Khalilzad, oggi diplomatico in Afghanistan. Il
gruppo si battezza Progetto per un Nuovo Secolo
Americano.
L'attacco di Al Qaeda vede gli uomini del Progetto non
più sparsi per i centri studio della capitale, ma saldi
ai posti di comando dell'America. Il progetto di invadere
l'Iraq esce dai cassetti delle loro scrivanie e converte,
a malincuore, la Rice. Il manifesto del Progetto per un
Nuovo Secolo viene da uno scoop del
New York Times ,
che l'8 marzo del 1992 pubblica un documento segreto
redatto da Paul Wolfowitz. La tesi è lineare: l'America
deve restare unica superpotenza, Russia e Cina sono
minacce e non partner, "occorre mantenere una
macchina militare così potente da evitare rivalità
locali o globali", impedendo all'Europa una sua
potenza militare e diplomatica, suturando con la forza il
proliferare di armi nucleari, chimiche o biologiche in
Iraq e Corea del Nord.
L'ascesa alla Casa Bianca di Clinton rimette in archivio
le tesi di Cheney, Rumsfeld e dell'iperattivo Wolfowitz
(per rilassarsi scende lungo le rapide con un suo kayak,
perfezionando "la rotazione all'eschimese"). La
vittoria di Bush nel 2000 rilancia il Progetto. Sale
così la stella di Douglas Feith, il diplomatico che
aveva provato a persuadere in Israele il primo ministro
Beniamin Netaniahu a rompere con il trattato di Oslo. Al
Pentagono arriva J.D. Crouch, che nel 1995 aveva proposto
di bombardare gli impianti nucleari e militari in Corea
del Nord. E al Dipartimento di Stato, dove già opera
Armitage, Cheney raccomanda John Bolton, intellettuale
persuaso che "le Nazioni Unite non contano... la
comunità internazionale deve essere diretta dal solo
potere che esista al mondo, gli Stati Uniti, secondo i
nostri interessi a cui gli altri possono
allinearsi".
L'unilateralismo, l'insofferenza per l'Europa, la
diffidenza per Russia e Cina, la voglia di attaccare da
soli, non sono dunque una sorpresa per chi ha la pazienza
di studiare il codice genetico dell'Amministrazione.
Stephen Cambone, il vice di Wolfowitz al Pentagono,
considera "Russia e Cina incerte, non sappiamo se
saranno amiche, neutrali o nemiche". La filosofia
del mondo è mutata.
Ai tempi di Bush padre e Clinton, lo studioso Francis
Fukuyama scriveva di "fine della storia", era
di trionfo per le tesi liberali. Rumsfeld teme invece
"il futuro, l'incerto, l'oscuro, l'inaspettato"
in un articolo su Foreign Affairs del
2002, un mondo alla Hobbes, dove il lupo più forte
prevarrà. John Lewis Gaddis, storico alla Yale
University, contrappone le due tesi in un saggio su Foreign
Policy . Obiettivo di Clinton era
"Assicurare la sicurezza americana. Spronare la
prosperità economica. Promuovere la democrazia e i
diritti umani ovunque". Bush propone invece di
"Difendere la pace combattendo terroristi e tiranni.
Preservare la pace creando buone relazioni con le grandi
potenze. Estendere la pace incoraggiando le società
libere e aperte in tutti i continenti".
Per Clinton il pianeta era in progresso e la
collaborazione internazionale scontata. Bush vede il
mondo come un'arena di combattimento, in cui la
collaborazione internazionale va sempre negoziata. A
Nicholas Lemann del New Yorker Douglas
Feith spiega che occorre invadere l'Iraq per togliere
l'acqua ai terroristi, in modo che "gli altri Stati
decidano che non è il caso, dopo Kabul e Bagdad di
ospitare clandestini". E Stephen Cambone annota:
Saddam ricatta Siria e Giordania con il petrolio, dando
una mano ai palestinesi. Se il rubinetto del petrolio
iracheno non sarà più custodito da Saddam Hussein ma da
un regime filoamericano, siriani, giordani e palestinesi
ascolteranno Washington.
John Bolton ha chiamato a lavorare con sé David Wurmser,
autore del volume "L'alleato del tiranno: perché
l'America non sa sconfiggere Saddam Hussein".
Wurmser faceva parte del team di Feith come spalla del
Likud in Israele. Oggi vuole sconfiggere il nazionalismo
panarabo di Iraq e Siria. Il domino di Wurmser procede
così: caduto Saddam si destabilizzano Siria e Iran,
perché crolla il nazionalismo e le minoranze sciite non
rispetteranno più l'egemonia di Teheran. Gli Usa
godranno di Paesi amici, il nuovo Iraq, la Turchia, la
Giordania e Israele e potranno eliminare le minacce
terroristiche di Hamas, Jihad islamica e Hezbollah. I
palestinesi dovranno eleggere un leader moderato al posto
di Yasser Arafat e l'Arabia Saudita, conscia che il
petrolio non ricatta più Washington, liquiderà i legami
con Al Qaeda.
Vi pare meccanico? Lo è secondo Gaddis: "La verità
è che nessuno sa se la strategia di Bush in Iraq
funzionerà... dipende da come saremo accolti a Bagdad,
se ci applaudono o se ci sparano addosso, se finisce come
a Kabul o come alla Baia dei Porci", quando i
mercenari cubani di John Kennedy furono sgominati dalle
milizie di Fidel Castro. "In guerra - diceva il
Clausewitz - l'unica certezza è l'incertezza", ma i
diplomatici del Progetto non hanno incertezze. Non si
curano della legittimità morale del loro blitz, sono
certi di crearsela quando la Cnn manderà
in onda le folle festanti di iracheni. Allora i critici
dovranno tacere. Se non ci saranno gli applausi però la
loro strategia è a rischio, rischio tragico.
Dalla Dichiarazione di Indipendenza al presidente Wilson,
gli Stati Uniti hanno a cuore la legittimità morale
della loro politica estera.
Gli uomini del Progetto per un Nuovo Secolo sono persuasi
di illustrarla a posteriori. Non attaccano la Corea del
Nord perché sanno che può bombardare Seul. Sulla
sconfitta di Saddam sperano di innescare un nuovo Medio
Oriente. Non si considerano dei cinici e sono fieri della
loro visione del mondo. Non credono di far la guerra per
il petrolio, ma perché la democrazia americana e non un
tiranno, controlli il petrolio e se gli europei non hanno
una difesa e una diplomazia comuni peggio per loro.
Vogliono "rendere il mondo sicuro per la
democrazia". I loro critici, come Anthony Lewis
della New York Review of Books ,
li considerano "utopisti, la razza più pericolosa
al mondo". Tra pochi giorni sapremo chi ha ragione.
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