Michael
Walzer: Come fare per opporsi alla guerra Tratto da "la
Repubblica",
19 febbraio 2003
Esistono due modi per opporsi
ad una guerra contro l´Iraq. Il primo è semplice ma
sbagliato; il secondo è giusto tuttavia difficile. Il
primo consiste nel confutare che il regime iracheno sia
particolarmente odioso e che si collochi in una
dimensione poco chiara, al di là della sfera in cui
operano i paesi normali, oppure nell´asserire che per
quanto odioso sia, tuttavia non rappresenta una minaccia
significativa per i paesi confinanti o per la pace del
mondo. Forse, nonostante Saddam lo neghi, il suo governo
sta effettivamente cercando di acquisire armi nucleari.
Però anche altri governi fanno la stessa cosa, e se e
quando l´Iraq dovesse anche riuscire a sviluppare simili
armi - così continua il ragionamento - si potrebbe
affrontare il problema facendo ricorso alla consueta
politica della deterrenza, esattamente nello stesso modo
in cui gli Stati Uniti e l´Unione Sovietica si tennero
reciprocamente a bada durante gli anni della Guerra
Fredda.
Ovviamente se questo ragionamento fosse corretto, non ci
sarebbe ragione alcuna per attaccare l´Iraq. E neppure
vi sarebbe motivo di servirsi di un rigoroso sistema di
ispezioni, o dell´embargo - tuttora in vigore - , o
delle no-fly zones nel nord e nel sud del paese. Sembra
che sia questa l´ottica prescelta da alcuni degli
organizzatori dei movimenti che si oppongono alla guerra
e che protestano a gran voce sia qui che in Europa, così
come pare proprio che questa sia l´opinione sbandierata
dai portavoce delle grandi dimostrazioni contro la
guerra. Ritengo invece che molti dei manifestanti non
condividano questo parere, come non lo condivide del
resto la maggior parte degli oppositori reali e teorici
della politica estera di Bush. Tuttavia dobbiamo
ammettere il persistere di una tentazione specifica da
parte delle politiche che si oppongono alla guerra: il
fatto che pretendano che in realtà, in giro, non ci sia
alcun nemico.
Questa loro pretesa, ovviamente, rende tutto più
semplice, ma è assolutamente sbagliata. La tirannia e la
brutalità del regime iracheno sono ben note a tutti, e
non è possibile negare che esistano. L´uso che il
regime ha fatto delle armi chimiche in un passato ancora
recente; la sconsideratezza con la quale ha invaso prima
l´Iran e poi il Kuwait; la retorica della minaccia e
della violenza, standard comunemente adottati a Baghdad;
quanto accadde negli anni '90, quando le ispezioni delle
Nazioni Unite furono sistematicamente ostacolate; la
crudele repressione delle sommosse che avevano fatto
seguito alla Guerra del Golfo del 1991; la tortura e
l´assassinio metodico degli oppositori politici - come
è possibile che seri movimenti politici ignorino tutto
ciò?
D´altro canto, non è pensabile che qualcuno accetti
l´idea che l´Iraq abbia armi nucleari, ma poi metta in
atto la politica della deterrenza allo scopo di impedire
che ne faccia effettivamente uso. Non soltanto non è
affatto scontato che con un regime come quello di Saddam
la deterrenza abbia chance di successo: l´equilibrio
della politica di deterrenza che ne risulterebbe, come se
non bastasse, sarebbe altamente instabile. Questo perché
non sarebbero coinvolti soltanto gli Stati Uniti e
l´Iraq: il sistema dovrebbe includere anche un rapporto
di deterrenza tra l´Iraq e Israele. Se l´Iraq avesse il
permesso di acquisire potenzialità nucleari, Israele
dovrebbe poter acquisire ciò di cui non dispone al
momento, ovvero la capacità di rispondere ad un attacco.
E di conseguenza nel Mediterraneo e nell´Oceano Indiano
dovrebbero potersi muovere navi israeliane con armi
nucleari a bordo e in costante stato di allerta. Si
tratterebbe di una forma di "deterrenza" in
senso tradizionale, ma è pura follia scommettere in
questa direzione.
Il giusto modo di opporsi ad una guerra consiste nel
ritenere che l´attuale sistema di contenimento e di
controllo funziona e può essere ulteriormente
migliorato. Questo significa che dovremmo prendere atto
degli orrori del regime iracheno e della minaccia che
esso costituisce, e in seguito puntare a risolvere questi
pericoli tramite misure di coercizione, prima di pensare
ad una guerra. Questa non è una politica facile da
difendere, perché sappiamo molto bene quali misure
coercitive siano necessarie e sappiamo anche quanto siano
costose e che cosa implichino.
Prima di tutto l´embargo, tuttora in vigore: sarebbe
opportuno e doveroso modificarlo, in modo tale che alla
popolazione civile fosse accessibile una gamma più vasta
di prodotti indispensabili, continuando nel contempo ad
escludere forniture militari di ogni genere e prodotti
tecnologici necessari allo sviluppo di armi di
distruzione di massa. Per quanto "intelligenti"
possano essere le sanzioni, tuttavia, esse
rappresenterebbero soltanto un blocco parziale delle
merci, una semplice restrizione del commercio, e tenendo
conto di come Saddam investe i fondi a sua disposizione,
le sanzioni si limiterebbero in realtà ad imporre
ulteriori ristrettezze soltanto ai comuni cittadini
iracheni. Onestamente, dobbiamo dire che è il governo
iracheno a portare la responsabilità delle ristrettezze
irachene, perché avrebbe potuto spendere differentemente
quel denaro. Ma anche se questo è un fatto
incontestabilmente riconosciuto, affermarlo non rende
più tollerabile la loro situazione: bambini denutriti,
ospedali privi di medicinali, declino dei tassi di
longevità sono tutte conseguenze (indirette)
dell´embargo.
Secondariamente, le no-fly zones che impediscono agli
aerei iracheni di sorvolare un´area grande
approssimativamente quanto metà del paese esigono un
costante controllo da parte degli americani, il che a sua
volta impone una media di due bombardamenti alla
settimana su postazioni radar o antiaeree. Finora nessun
aereo o pilota è andato perduto e credo che siano pochi
i civili rimasti uccisi o feriti nel corso di questi raid
aerei. Si tratta ciò nondimeno di un´attività costosa
e rischiosa, e se anche non contempla azioni di guerra
vera e propria, non ne è poi molto distante. D´altra
parte se Saddam avesse carta bianca nel nord e nel sud
dell´Iraq, contro i Curdi e gli Sciiti, la conseguenza
più probabile sarebbe una repressione così brutale da
giustificare - forse da esigere addirittura - un
intervento militare per ragioni umanitarie. E si
arriverebbe quindi ad una guerra nel pieno senso della
parola.
Terzo, le ispezioni delle Nazioni Unite: queste
dovrebbero continuare a tempo indeterminato, quasi
entrare nella routine del panorama iracheno. Perché sia
nel caso in cui gli ispettori trovassero e distruggessero
le armi di sterminio (alcune delle quali sono molto
facili da nascondere), sia nel caso in cui non ci
riuscissero, costituirebbero di per sé un impedimento di
rilievo frapposto al dispiegamento di simili armi.
Finché gli ispettori si potranno muovere nel paese in
piena libertà e senza vedersi negato alcun accesso,
seguendo la tabella di marcia che loro stessi deliberano,
l´Iraq si troverà sotto un crescente controllo. Il
regime delle ispezioni però fallirebbe, come avvenne
negli anni Novanta, qualora non ci fosse una palese
disponibilità a ricorrere all´uso della forza per
continuare a imporlo. Questo significa che nelle
vicinanze ci devono essere delle truppe, esattamente come
quelle che il governo americano ha attualmente schierato
e dispiegato. Ovviamente sarebbe auspicabile che queste
truppe non fossero composte unicamente da soldati
americani, e anche in questo caso mantenere in loco un
dispiegamento di tale fatta presupporrebbe costi e rischi
molto elevati, indipendentemente da chi debba poi
sostenerli.
Patrocinare l´embargo, il controllo aereo americano e il
regime di ispezioni delle Nazioni Unite è un modo giusto
di opporsi - e di evitare - una guerra. Eppure questo dà
adito ad un´altra obiezione, quella secondo cui una
guerra breve, che ponga fine all´embargo, al
bombardamento bisettimanale e al regime delle ispezioni
sarebbe politicamente preferibile a questa propensione
che induce ad "evitare" la guerra. Una guerra
breve, un nuovo regime, un Iraq demilitarizzato, cibo e
medicine che affluiscono copiosi nei porti iracheni non
sarebbero maggiormente auspicabili, rispetto ad un
sistema permanente di coercizione e di controllo? Sì,
forse. Ma chi ci garantisce che la guerra sarebbe davvero
breve, e che le ripercussioni nella regione e altrove
sarebbero circoscritte?
Noi diciamo che la guerra è "l´ultima
risorsa" per gli imprevedibili, inattesi,
inintenzionali e inevitabili orrori che la guerra sempre
comporta. In realtà la guerra non è mai l´ultima
risorsa, in quanto il concetto di "ultimo" è
una condizione metafisica che nella vita reale non è
oggettivamente raggiungibile: esiste sempre la
possibilità di fare ancora altro, o di ripeterlo, prima
di passare a fare quello che definiamo essere proprio
l´"ultima" cosa. Il concetto di
"ultimo" è una pura precauzione, una
precauzione tuttavia indispensabile che induce, prima di
dare "briglia sciolta alla guerra", a cercare
attentamente ogni possibile alternativa.
Ancora adesso, perfino all´ultimo momento, esistono
sempre delle alternative, ed è questo il migliore
ragionamento da opporre contro la guerra. Credo che si
tratti di un´argomentazione condivisa da molti, anche se
non è facile patrocinarla in una manifestazione. Che
cosa si potrebbe mai scrivere sui cartelli? Quali slogan
si potrebbero urlare? Contro la guerra occorrerebbe una
campagna molto complessa, in cui i manifestanti fossero
disponibili a prendere atto e ad ammettere le difficoltà
e i costi delle loro politiche. Oppure, e meglio ancora,
occorrerebbe una campagna che non si focalizzasse
soltanto sulla guerra (e che possa pertanto andare oltre)
- una campagna a favore di un forte sistema
internazionale, concepito e strutturato in modo tale da
poter sconfiggere le aggressioni, fermare i massacri e la
pulizia etnica, tenere sotto controllo le armi di
distruzione di massa, e garantire l´incolumità fisica
di tutti gli esseri umani. La triplice restrizione
imposta al regime di Saddam costituisce soltanto un
esempio - un esempio molto importante, per altro - di
come dovrebbe funzionare un simile sistema.
Questo sistema internazionale, però, dovrebbe essere il
prodotto di molti Stati, non di uno soltanto. Dovrebbero
esserci molte parti, non una soltanto, pronte ad
assumersi le responsabilità del successo di un simile
sistema. Oggi il regime di ispezioni delle Nazioni Unite
sta dando frutti in Iraq soltanto in ragione di quello
che molti americani liberali e di sinistra - e anche
molti europei - hanno definito l´incessante minaccia
statunitense di andare in guerra. Senza quella minaccia,
infatti, i diplomatici delle Nazioni Unite starebbero
ancora discutendo con i diplomatici iracheni, lavorando
strenuamente senza mai trovare un accordo definitivo sui
dettagli previsti per il sistema delle ispezioni; gli
ispettori non avrebbero nemmeno preparato le valigie (e
molti leader europei direbbero che si tratta di una cosa
positiva). Alcuni di noi sono quasi imbarazzati, quando
pensano a come la minaccia che abbiamo sbandierato è
stata la ragione principale grazie alla quale si è
arrivati alla definizione di un rigoroso regime di
ispezioni, e come la messa in atto di questo apparato sia
tuttora il migliore ragionamento da opporre alla guerra.
Certo, sarebbe stato molto meglio se la minaccia
statunitense non si fosse resa necessaria - se la
minaccia fosse arrivata, per esempio, dalla Francia o
dalla Russia, i partner commerciali più importanti
dell´Iraq, la cui riluttanza a prendere di petto Saddam
e a mostrare i muscoli con il progetto delle Nazioni
Unite ha costituito una delle cause determinanti del
fallimento delle ispezioni negli anni '90. E´ proprio
questo che richiede l´internazionalismo: che altri Stati
- oltre agli Stati Uniti - si assumano la responsabilità
di far rispettare la supremazia della legge globale e
siano pronti per questo fine ultimo a scendere in campo,
sia politicamente che militarmente. Gli internazionalisti
americani - siamo un buon numero, ma non ancora
abbastanza - dovrebbero stigmatizzare le tendenze
all´unilateralismo dell´amministrazione Bush e il
rifiuto a collaborare con gli altri Stati in una
consistente compagine di questioni, che vanno dal
riscaldamento del pianeta al Tribunale Penale
Internazionale.
Il multilateralismo richiede collaborazione al di fuori
degli Stati Uniti. Sarebbe più facile essere convincenti
in merito alla giustezza della nostra posizione se fosse
palese che nella società internazionale ci sono altri
attori in grado di agire indipendentemente e se
necessario fare anche ricorso all´uso della forza,
pronti a entrare in azione ovunque debbano, in Bosnia
come in Rwanda o in Iraq. Quando manifestiamo contro una
seconda Guerra del Golfo, al tempo stesso dovremmo
promuovere questo tipo di responsabilità multilaterale.
Questo significa che dobbiamo esercitare precise
pressioni non soltanto su Bush e company, ma anche sui
leader francesi, tedeschi, russi e cinesi, che sebbene
abbiano di recente dato il loro sostegno affinché
continuino le ispezioni a vasto raggio, in passato e in
differenti occasioni sono stati molto solleciti a
mostrarsi indulgenti nei confronti di Saddam. Se questa
guerra evitabile sarà infine combattuta, tutti loro ne
condivideranno la responsabilità, al pari degli Stati
Uniti. E quando la guerra sarà finita, dovrebbero
risponderne tutti.
(Traduzione di Anna Bissanti)
|