Effetto domino sul Medio Oriente


Nel mondo arabo, diviso sulla guerra in Iraq, si guarda già al dopo conflitto. Intervista con la prof. Valeria Fiorani Piacentini



Un clima da Europa 1914: è quello che si respira in questi tempi nel Medio Oriente. Dove si vorrebbe accorciare l’attesa dello scoppio di una guerra considerata ormai inevitabile: "Se guerra deve essere – è il pensiero diffuso nella regione - che sia quanto prima".
Il conflitto contro l’Iraq visto dal lato dei Paesi Arabi offre anche questo tipo di retro-pensieri, come spiega la professoressa Valeria Fiorani Piacentini, direttore del Centro studi sul Sistema Sud e sul Mediterraneo allargato (Crissma) e del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Cattolica.
«Il livello di esposizione politica, militare ed economica degli Stati Uniti è tale – afferma - che nella regione la guerra è vista come ineluttabile e quindi molti dei Paesi del Golfo sono già proiettati su come riposizionarsi dopo il conflitto».


Ma quali sono esattamente le posizioni del mondo arabo su un possibile attacco americano all’Iraq? E quali potrebbero essere le conseguenze?


«La Lega araba, che si è recentemente riunita a Sharm El Sheik, è profondamente divisa, anche se ufficialmente ha stilato un documento nel quale esprime il rifiuto di qualsiasi azione militare contro l’Iraq ma, contemporaneamente, non rifiuta "aiuti" da parte araba sia all’operazione militare che alle decisioni delle Nazioni Unite; per il che il documento approvato chiede sia accordata un’ulteriore dilazione agli ispettori incaricati. Fallito il tentativo degli Emirati Arabi Uniti di far passare una linea di mediazione che prevedeva di esercitare pressioni su Saddam per convincerlo ad un esilio dorato, e una volta esaurite le dichiarazioni di rito relative a una condanna "negli affari interni della nazione araba, i cui regimi sono decisi dai popoli della regione in funzione dei loro interessi nazionali", le divisioni emerse sono nette».


Quali sono le cause di questa spaccatura?


«Ci sono almeno due tipi di risposte. La prima: alcuni di questi Paesi hanno delle forti opposizioni interne e potrebbero rischiare un rovesciamento di regime. L’opposizione non è fatta di masse diseredate, ma da fasce benestanti della popolazione, di ottima istruzione, in grado perciò di prendere il potere e di gestirlo. Si è creata pertanto una convergenza di interessi fra le presenti leadership e gli Anglo-Americani; questi ultimi temono che la caduta di questi regimi apra un vaso di Pandora e, soprattutto, non si fidano delle nuove élite che potrebbero subentrare, di posizioni forse più radicali. L’opzione più realistica parrebbe quindi quella di rafforzare anche militarmente le forze al governo, soprattutto in Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein, dove sono già presenti basi operative militari americane e inglesi, le quali ospitano già decine di migliaia di soldati o comandi. E’ documentato, per esempio, che il Qatar sta ricevendo armamenti statunitensi a basso costo».


E l’altra risposta?


«Il secondo motivo, e il più realistico, sta nella paura di alcuni Stati arabi che quello che avviene oggi a Saddam Hussein non possa toccare domani a qualcun altro, anche perché in fatto di armi chimiche e batteriologiche sono in tanti a non avere la coscienza pulita».


Quale può essere l’effetto sui Paesi Arabi di una guerra in Iraq?


«Una destabilizzazione generale e generalizzata. La situazione è tuttavia molto diversificata. Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein, non avendo alternative, stanno già pensando a come fare valere il loro peso strategico nel dopoguerra. Quello che potrebbe risultare dal probabile conflitto iracheno è un rimodellamento dell’intera regione mediorientale. E a questo rimodellamento vogliono partecipare tutti i Paesi arabi. Nell’area del Golfo, il problema del futuro, dopo l’esaurimento delle risorse energetiche, è particolarmente sentito sia in termini economico-finanziari che di risorse umane e formazione. Da alcuni anni, le leadership locali hanno allo studio piani di riconversione economico-finanziaria e industriale, che vedono l’impiego di forza lavoro esterna, a livello anche di alta qualificazione (perlopiù asiatici). Se questi "expatriates" fuggissero per paura del conflitto, le economie di questi Stati si troverebbero ad affrontare crisi gravissime, con non meno gravi ripercussioni sulla stabilità interna. Se conflitto deve essere, sostengono i vari sceicchi, è pertanto auspicabile che questo avvenga al più presto e sia rapido; l’obiettivo principale diviene quello successivo, la "ricostruzione" – una sorta di amministrazione fiduciaria da affidare, sempre secondo gli auspici arabi, a Lega Araba e Nazioni Unite per un periodo transitorio imprecisato. In altri Stati arabi, non della regione del Golfo, il timore principale è quello della "non tenuta" dell’attuale leadership di fronte a un’opposizione interna forte e fortemente animata da sentimenti di solidarietà».


Un conflitto non potrebbe avere l’effetto di rinforzare le opposizioni antiamericane?


«Le leadership attuali non possono permetterselo, essendo perlopiù sostenute o economicamente o militarmente (o entrambi) dagli Stati Uniti. Ma quando le opposizioni sono autosufficienti sul piano finanziario, favorite dalla globalizzazione post-bipolare nella gestione delle proprie ricchezze e nella mobilità, e motivate ideologicamente, come si fa a tenerle sotto controllo?


Il problema cruciale è quello dell’Arabia Saudita...


«La monarchia sta investendo molte risorse nella ristrutturazione del Paese e nella diversificazione della ricchezza nazionale. L’opposizione proviene essenzialmente dal Hijaz, dove si trovano La Mecca e Medina, i luoghi santi dell’Islam, i cui profitti vengono dal Pellegrinaggio, obbligo di ogni musulmano almeno una volta nella vita; il che porta nel bilancio saudita introiti immensi. Si tratta di un’opposizione dura, esclusa dalla partecipazione al potere politico, tuttavia istruita, fortemente antiamericana. Il rischio è che la famiglia reale non sia in grado di controllare queste forze. Sia gli Al Saud sia gli Hijazeni sono fortemente motivati sul piano religioso islamico; la corrente Wahhabita – propria della famiglia reale - ha sostenuto con mezzi e uomini la diffusione dell’Islam nel mondo; all’epoca della guerra fredda, fu strumento di destabilizzazione anti-sovietica in Afghanistan e Asia Centrale; questa politica continua però a trovare una solida sponda nel fratellastro di re Fahd, Abdallah, che dal 1995, in seguito alla malattia del monarca, gode di un’ampia delega di potere. Il rimodellamento geo-politico del Medio Oriente a seguito di un conflitto con l’Iraq non potrebbe trovare passiva l’Arabia Saudita: ma "quale" Arabia?».


Dunque la guerra è inevitabile?


«Nessuna guerra è auspicabile. Si tratta di un ragionamento pragmatico. Se si calcolano gli enormi costi anche economici che gli Stati Uniti hanno sostenuto in otto mesi di preparativi militari, la guerra sembrerebbe proprio inevitabile. L’Onu avrebbe potuto rappresentare un’uscita di sicurezza, il consenso della comunità internazionale a un’operazione chirurgica. Se tale consenso non sarà raggiunto, l’azione delle Nazioni Unite diviene quanto mai indispensabile soprattutto nella fase di un dopo-conflitto e della ricostruzione. Potrebbe essere una spiegazione del fatto che gli Americani continuino a coinvolgere l’Onu, pur essendo convinti dell’inutilità delle ispezioni. In altri termini, si ripeterebbe l’equazione: 'A noi i costi della Guerra, a noi la nuova mappa mediorientale, alla comunità internazionale il compito della ricostruzione e delle peace-operations successive'.»


Cosa c'è da aspettarsi?


«Fare la guerra non è mai facile; tirare le fila del dopo è ancora più difficile, soprattutto quando si ha a che fare con una regione tormentata e frammentata sia sul piano etnico e culturale sia su quello religioso come il Medio Oriente: le rivendicazioni dei Curdi, le pretese dei Turchi, le aspirazioni degli Arabi sciiti, le rivendicazioni degli Arabi sunniti, i timori degli Arabi cristiani (cattolici, protestanti, greco-ortodossi, melchiti, assiro-caldei, armeni ecc.), l’esistenza di Israele, e, non dimentichiamolo, la presenza attiva di forti movimenti e partiti comunisti. L’ordine e la stabilità sono questioni complicate non solo da fattori etnici e religiosi, ma anche da precise rivendicazioni politiche ed economiche (le risorse energetiche, il loro controllo, le vie del petrolio e del gas, gli sbocchi al mare). Se gli Stati Uniti si sono tirati fuori da situazioni intricate come quelle del Libano e della Somalia, non sembra che ora vogliano abdicare».

Paolo Ferrari

 

 

 

 

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