DA - LA REPUBBLICA

Oggi la mobilitazione generale di otto ore: previste 120 manifestazioni
Epifani a Torino: "La Finanziaria non fa niente per lo sviluppo"
Lo sciopero della Cgil
contro la manovra

di RICCARDO DE GENNARO

ROMA - Oggi l'Italia che sta con la Cgil si ferma. È l'Italia che protesta contro le modifiche all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, contro il "Patto" firmato da governo, Confindustria, Cisl, Uil e Ugl perché "costruito su previsioni immediatamente smentite dalla realtà dei fatti", contro i tagli ai servizi pubblici e ai trasferimenti agli enti locali e alle Regioni previsti in Finanziaria, contro il piano dei licenziamenti e della "cassa" a zero ore presentato da una Fiat in crisi da tempo. Non è un caso che - prima ancora che uscissero le notizie sui tagli - la Cgil avesse scelto Torino come "centro di gravità" della protesta.

E' qui, in piazza San Carlo, che il segretario generale, Guglielmo Epifani, terrà il primo comizio dopo il suo insediamento. Ed è con i cortei di Torino (uno partirà da corso Marconi, l'ex simbolo del gruppo dirigente Fiat) che hanno scelto di sfilare i leader dei Ds, Piero Fassino, e di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti (Di Pietro sarà a Milano).

Uno sciopero generale di otto ore della sola Cgil (con dei distinguo, a partire dal "no alla concertazione", aderiscono anche i sindacati di base) non accadeva da 40 anni (quello del '68 era di quattro ore). Il più grande sindacato italiano, che il 23 marzo è riuscito a portare a Roma tre milioni di persone, rilancia la sua sfida e nelle 120 manifestazioni provinciali avrà al suo fianco anche studenti e "no global".

Epifani è ottimista: "Lo sciopero riuscirà, la Finanziaria ci porta alla crescita zero". E non ha esitazioni nel delineare il percorso della Cgil a partire da domani, un percorso che avrà come prime tappe "i problemi dello sviluppo del Mezzogiorno, della scuola e della formazione, della sanità e della politica industriale". E' difficile prevedere le proporzioni dell'adesione, ma non è impossibile immaginare che gli operai della grande industria, Fiat in testa, i lavoratori del settore dei trasporti pubblici (Alitalia ha cancellato 275 voli tra le 10 e le 18, le Fs dicono che tra le 9 e le 17 circolerà il 60 per cento dei treni a media e lunga percorrenza), i dipendenti pubblici, in particolare della scuola, metteranno a segno i risultati più significativi e visibili. Cisl e Uil accusano la Cgil di aver proclamato uno sciopero con fini squisitamente politici, ma è lo stesso Epifani che sottolinea una volta per tutte: "Non esiste il partito della Cgil, non esisteva con Cofferati, non esiste con me".

E' certo che al termine della giornata di sciopero si scontreranno perlomeno quattro bollettini diversi targati risprettivamente: Cgil, Cisl-Uil, Fiat-Confindustria, Berlusconi. La Cgil ieri ha incassato un punto a suo favore: a Ventimiglia (Imperia) 50 lavoratori del settore pulizie iscritti alla Uil hanno restituito la tessera a Luigi Angeletti e hanno chiesto l'iscrizione alla Cgil "contro la firma del Patto per l'Italia e la mancata presa di posizione contro la Finanziaria".

Per martedì prossimo, poi, la Uil commercio (Uiltucs) ha organizzato una manifestazione nazionale, sempre a Torino, alla quale ha invitato cinque segretari confederali Uil, ma non il leader Angeletti. Un segnale? A Cisl e Uil che giudicano "sbagliato" e "proclamato preventivamente" lo sciopero generale, la Cgil ricorda che le ragioni dello sciopero si sono moltiplicate negli ultimi mesi e che lo sciopero stesso è lo sbocco sindacale di un percorso nel quale la Cgil ha mantenuto "la massima coerenza".

Alla denuncia contro il ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, per comportamento antisindacale, il sindacato di Epifani ieri è stato costretto ad affiancare un esposto contro l'Enichem di Porto Torres (Sassari), che ha "comandato" i lavoratori turnisti allo sciopero: "Un fatto gravissimo, mai accaduto prima, una prova di regime", dice la Filcea-Cgil, che invita i lavoratori a partecipare senza problemi allo sciopero generale e alla manifestazione in piazza d'Italia a Sassari.

(18 ottobre 2002)

DA - LA REPUBBLICA

IL COMMENTO
Chiusa una stagione
si torni all'unità

di MASSIMO GIANNINI

LA SINISTRA sindacale in piazza: Cofferati a Milano, Epifani a Torino. La sinistra politica in corteo: quella convinta, da Diliberto a Bertinotti, e anche quella perplessa, da Fassino a D'Alema. Lo sciopero generale è un rito identitario e consolatorio. Ma se vuole andare oltre la ritualità, e soprattutto evitare l'inutilità, la protesta di oggi deve essere "conclusiva". Serve se è l'epilogo di una fase che si chiude: la Cgil arroccata in splendida solitudine, a combattere contro il governo del Polo, contro una metà dell'Ulivo e contro un pezzo della sua storia. Serve se è il prologo di un ciclo nuovo che si apre: il ricongiungimento con Cisl e Uil, in nome di una politica economica rigorosamente alternativa ma compiutamente riformista.

Uno sciopero separato non si vedeva in Italia da 34 anni. E' l'ultimo tributo che la Cgil paga al suo ex segretario generale. Lo ha voluto e deciso a maggio Sergio Cofferati, con ostinata coerenza, al culmine di un braccio di ferro contro Berlusconi iniziato per difendere l'istituto della giusta causa nei licenziamenti e poi esteso al Dpef. Lo hanno rifiutato Savino Pezzotta e Luigi Angeletti, con lieve incoerenza, al termine di una trattativa tortuosa che prima li aveva portati a scioperare il 16 aprile insieme con l'alleato maggiore, poi li ha spinti a fare pace con il Cavaliere e a firmare con lui il Patto per l'Italia. Ora procedono tutti in ordine sparso. Ognuno con la segreta coscienza della propria debolezza. C'è qualcosa di innaturale, in quello che sta capitando.

E' stata innaturale la scelta fatta dal governo, che espugnata l'opposizione politica ha scientemente "investito" sulla diaspora sindacale per conquistare il consenso degli industriali e mettere all'angolo il suo più insidioso oppositore sociale. E' stata innaturale la risposta massimalista di un "moderato" come Cofferati, che ha contrastato una manovra ideologica del premier armando il suo sindacato con uno strumento altrettanto ideologico. E' stata innaturale la soggezione culturale e il trasporto fideistico col quale Cisl e Uil hanno appoggiato l'azione del centrodestra, confusa, inefficace e palesemente velleitaria.

Guglielmo Epifani ha "ereditato" la protesta, e la difende come sa e come può. Il merito sta dando ragione a Cofferati: Berlusconi ha sbagliato e continua a sbagliare tutto. Il metodo gli dà torto: lo sciopero separato divide, e non riesce ad unire. Per cerchi concentrici, trasferisce la spaccatura dentro il centrosinistra. E scivola da giorni su un piano inclinato che nessuno sembra in grado di fermare. Tutti i protagonisti della vicenda la "subiscono", con un misto di ineluttabilità e di rassegnazione. Prigionieri di un ruolo predefinito, imbozzolati in un contesto cristallizzato a cinque mesi fa, che ora è stato dolorosamente spazzato via dall'enormità degli eventi.

Questo, forse, è l'aspetto più surreale sul quale i dirigenti sindacali devono riflettere. Oggi l'agenda del Paese non vive sui dubbi di Epifani, sugli umori di Pezzotta e sugli scarti di Angeletti. Oggi ci sono due fatti nuovi e clamorosi, che impongono immediatamente l'abbandono degli ideologismi e la pragmatica riscrittura delle priorità e delle responsabilità: la spaventosa crisi della Fiat e la recessione economica.

Di fronte a questi fatti nuovi è politicamente impensabile e sindacalmente suicida che Cgil, Cisl e Uil continuino a marciare da sole. Da domani, l'impegno del sindacato deve diventare uno solo: riaprire una fase unitaria. Sarebbe troppo semplicistico arrivarci attraverso un'abiura unilaterale di Epifani, che nessuno può e deve chiedergli. Serve piuttosto un reciproco riavvicinamento delle singole posizioni e un mutuo riconoscimento dei rispettivi errori. Il primo nasce dalla ritrovata consapevolezza dell'orizzonte comune, che vede ammassate sulla stessa barca le migliaia di lavoratori di Termini Imerese a un passo dalla mobilità e di impiegati in esubero nelle banche, ma anche le migliaia di operai licenziati in tronco nelle piccole imprese, di "collaboratori coordinati e continuativi" assoldati senza statuti né contributi dai padroncini del Nord e di "sommersi" privi di tutela nelle micro-aziende del Mezzogiorno.

Il secondo nasce dalla drammatica asprezza di questo autunno, che dovrebbe costringere i leader sindacali a un esame di coscienza. La Cgil dovrebbe riconoscere di aver sbagliato a impostare in chiave difensiva e quasi resistenziale una campagna di opposizione sociale, strenua e solitaria, di cui si fa ormai qualche fatica a cogliere il contenuto preciso. E' partita dall'articolo 18, si è allargata alle deleghe sul fisco e sulla previdenza, poi ha convogliato le proteste sulla sanità e sul pubblico impiego, contro la Finanziaria e contro il piano Moratti per la scuola. Uno sciopero generale, per definizione, contesta la generalità di una politica. Quella del centrodestra si sta rivelando per quello che è: un totale fallimento. Ma non per le ragioni invocate a suo tempo da Cofferati, e cioè la thatcheriana "macelleria sociale" che comporta.

Semmai per i motivi opposti, cioè il doroteistico nulla che contiene. Il misto di pauperismo demagogico e di corporativismo populista che la ispira, e che produce solo galleggiamento politico e declino economico. Di fronte a tanta pochezza - che i riformisti dell'opposizione hanno denunciato per tempo e che solo i ciechi e i complici hanno voluto ignorare - un radicalismo antagonista imperniato sugli scioperi a oltranza sa davvero troppo di vecchio. E condanna la Cgil al ruolo di una "Solidarnosc" italiana, testimoniale ma sterile. Epifani lo riconosca, e passi dalla fase della lotta sistematica alla fase della proposta programmatica. Questo è riformismo.

La Cisl e la Uil dovrebbero riconoscere di aver commesso un errore madornale, a fidarsi di un falso premier operaio, di un superministro prestigiatore e di un leader industriale furbo e un po' opportunista. Dovrebbero avere il coraggio di un outing coraggioso, ma doveroso. Dovrebbero dire che, loro malgrado, il Patto per l'Italia enfaticamente firmato a luglio con Berlusconi, Tremonti e D'Amato è stato solo un bluff propagandistico. Oggi, un po' come il famoso "contratto con gli italiani" della vigilia elettorale del maggio 2001, è carta straccia. Nessuno si ricorda più a cosa serviva, né cosa c'era scritto.

Dovrebbero aggiungere che non è valsa la pena sacrificare il bene attuale dell'unità del sindacato, in nome di un bene futuro che quell'accordicchio (modesto nei contenuti e strumentale negli obiettivi) non poteva e non può garantire. La concertazione è un metodo, un sistema di governo dell'economia che si sceglie e che implica regole condivise. Cisl e Uil non hanno capito (o hanno finto di non capire) che questa maggioranza non vuole concertare politiche dei redditi o strategie anti-inflattive con le parti sociali, ma ha puntato esclusivamente a isolarne una, per lasciarla fuori dal tavolo e impartirgli una lezione definitiva. Pezzotta e Angeletti lo confessino. Rinuncino al modello di sindacato gregario e para-statale e ritornino alla "via alta della rappresentanza", autonoma e collettiva, che è iscritta nella migliore tradizione del sindacalismo confederale. Questo è riformismo.

L'unità sindacale, come non si è fatta in trent'anni, non si recupera in tre giorni. Ma in questa stagione di emergenze un sindacato responsabile ha il dovere etico-morale di ricercare un fronte comune. Di superare quelle che Amato chiama le "verità incomponibili" di ciascuno, di sintetizzarle e rimetterle in fase con la minacciosa involuzione dei tempi. Non servono irrealistici proclami strategici, né finte aperture tattiche. Ma c'è un vasto e concreto terreno negoziale, che va dalla legge sulla rappresentanza ai rinnovi contrattuali, sul quale è possibile riannodare i fili del dialogo. Ne ha bisogno il sindacato. Ne ha bisogno anche l'Ulivo, che chiede alle confederazioni non certo di essere "cinghia di trasmissione", ma leva di un processo di riaggregazione sociale che facilita la ricomposizione politica del centrosinistra.

L'impulso può partire dal basso. Ieri i metalmeccanici delle tre sigle hanno annunciato uno sciopero unitario, entro il 10 novembre, contro le chiusure degli stabilimenti Fiat. È un primo segnale, da raccogliere e da valorizzare. Negli anni '80, nelle fasi più dure della vertenza a Mirafiori, con i 61 licenziati in odore di terrorismo, la crisi dei 35 giorni e poi la marcia dei 40 mila, la mitica Flm diventò l'emblema di una sconfitta ma anche il luogo fisico che consentì al sindacato "buono" di rinascere dalle sue ceneri, e di proporsi come laboratorio dell'unità confederale. Oggi Fiom, Fim e Uilm possono ritentare quell'esperienza, fino a imporre quello sforzo a tutti i gruppi dirigenti. Uno sciopero separato è una iattura, uguale e contraria a un accordo separato. Da domani, i tre leader dovranno dimostrarsi capaci di rinchiuderli entrambi, una volta per tutte, nell'armadio degli errori e degli orrori di questo decennio.

(18 ottobre 2002)

DA LA REPUBBLICA

LA SCHEDA
L'articolo 18, ma non solo
ecco i motivi dello sciopero


QUELLO del 18 ottobre sarà uno "sciopero per l'Italia", come lo ha definito il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani. Uno sciopero contro il "Patto per l'Italia" raggiunto dal governo con Cisl, Uil, Confindustria e tutte le altre parti sociali. Nel mirino del sindacato la modifica all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la riforma del mercato del lavoro. Ma anche le linee di politica economica del governo, la Finanziaria, le proposte di palazzo Chigi in materia di politica sanitaria e scolastica. Lo sciopero è anche a sostegno delle vertenze per i rinnovi contrattuali. Ecco i punti caldi.

ARTICOLO 18
La Cgil continua a definirlo un diritto indisponibile e contesta la modifica allo Statuto dei lavoratori introdotta con il Patto per l'Italia, firmato da Cisl e Uil. Nuovi istituti contrattuali, sostiene la Cgil, hanno reso più precario il lavoro e più debole il lavoratore. In particolare la normativa sul trasferimento del diritto d'azienda consente la frantumazione di imprese che, in questo modo, potranno non applicare più l'articolo 18.

MERCATO DEL LAVORO
Le misure contenute nella Finanziaria, secondo Epifani, "nel quadro di un rallentamento dell'economia e in presenza di gravi crisi settoriali, mettono a rischio tra i 260.000 e i 280.000 posti di lavoro".

PENSIONI
La Cgil attacca la legge delega ferma in Parlamento che, se approvata, "affosserebbe" il sistema previdenziale.

SANITA'
Secondo la Cgil il taglio dei trasferimenti aumenta i ticket e riduce le prestazioni del sistema sanitario pubblico.

SCUOLA
La Finanziaria prevede, spiega la Cgil, tagli e riduzione del personale e penalizza la scuola pubblica a favore di quella privata.

FISCO, MEZZOGIORNO E FEDERALISMO
Per spiegare le sue ragioni in tema fiscale la Cgil ricorre ad uno slogan: "Con una mano danno e con due tolgono". Giudizio critico anche nei confronti delle politiche per il Sud ("il governo ha ridotto gli stanziamenti e annullato gli incentivi per il Mezzogiorno"). Infine il federalismo. Per la Cgil, il governo mira a ridurre il ruolo delle autonomie locali con un nuovo centralismo.

(16 ottobre 2002)

DA - IL MANIFESTO

«Il lavoronon è un intralcio»


«Mi spiace e mi sorprende che a sinistra ci sia chi non vede l'ora di liberarsi di questo sciopero. Non è un intralcio, ma un'opportunità». Intervista a Guglielmo Epifani. Il segretario generale della Cgil manda un messaggio al governo in difficoltà sull'economia, sulla Fiat e sui conti pubblici: «Nessuno pensi in primavera, quando i nodi verranno al pettine, di chiamare la Cgil in soccorso, come garante del sacrificio dei lavoratori. Trattare si può sempre, ma alle condizioni della Cgil e dei lavoratori occupati e disoccupati che rappresenta»


VALENTINO PARLATO


Lo conoscevo da tempo, ma questo è il mio primo incontro con Guglielmo Epifani segretario generale della Cgil. La conversazione è cordiale, ci si intende e c'è anche una sorta di impegno a continuare. Non parliamo di Sergio Cofferati, ma c'è una linea della Cgil, con radici antiche e che continua. Nella stanza c'è un ritratto di Di Vittorio, quello di Carlo Levi, ed Epifani mi ricorda che la Cgil di Di Vittorio era il sindacato degli occupati e dei disoccupati, cioè il rifiuto dell'associazione corporativa. Poi, sorridendo, aggiunge che quando andrà in pensione quel ritratto se lo porterà a casa, fa parte della sua personalità, anche se il legale proprietario è la Cgil.

Domani (oggi per il giornale) c'è lo sciopero generale. Dovremmo concentrare la nostra attenzione su due temi: i fondamenti di questo sciopero (è tantissimo tempo che non c'è uno sciopero generale proclamato dalla sola Cgil) e il dopo sciopero. Molti, anche a sinistra, pensano che questo sciopero sia un ingombro e che toglierselo di mezzo sarebbe una liberazione.

Provo a rispondere sul primo punto. Abbiamo detto e confermiamo che questo è uno sciopero per l'Italia, cioè uno sciopero politico nel senso più alto del termine. Questo anno e mezzo che sta alle nostre spalle conferma che il paese è entrato in una spirale di declino e divisione. Declino economico e sociale e tra nord e sud, tra poteri locali e potere centrale. Si tratta di un mix assai pericoloso per la democrazia italiana. Il sostanziale populismo di questo governo produce individualismo, massificazione e rassegnazione: la negazione della politica e della democrazia. Lo sciopero di domani è per il futuro degli italiani, è diretto a coniugare diritti, interessi e sviluppo non solo economico, ma anche sociale e culturale e, lo sottolineo, la componente culturale è importantissima.

Scusa, in che senso?

Alle origini del nostro attuale declino c'è il declino della scuola. Non dico della ricerca che sta agli stracci, ma della scuola, del luogo di formazione dei lavoratori e dei cittadini. Per questo è importante che lo sciopero abbia successo nei luoghi di lavoro e nelle scuole. E penso che nelle piazze i giovani prevarranno sui capelli grigi e questo dovrebbe insegnare qualcosa a quelli che ci accusano di essere conservatori, solo perché disturberemmo i loro astuti giochetti.

Ma c'è anche in ballo la cultura del lavoro.

Certamente. La malintesa e miope modernizzazione, che fa adepti anche a sinistra, celebra la fine del lavoro. Non solo non ci sarebbero più le classi, ma il lavoro sarebbe ridotto a entità trascurabile. Tutto questo secondo noi è assurdo e antistorico e su questo terreno c'è un'intesa, fino a ieri inimmaginabile, con il mondo cattolico, che continua a considerare il lavoro fondativo della personalità umana. Lo sai quante parrocchie si sono schierate a sostegno dello sciopero?

Ma tutto questo non porta, e forse sarebbe pericoloso, a una supplenza politica della Cgil.

No, la Cgil è un sindacato e resta sindacato, non ha e non deve avere ambizioni di egemonia, ma è suo dovere costitutivo essere un punto di riferimento e questo sarà confermato dallo sciopero. Chi si illude, e magari spera, che si possa ripetere il vecchio detto, «passata la festa, gabbato lo santo» si sbaglia di grosso. Vedi, a me dispiace e preoccupa pure, che ci siano dei compagni che valutino questo sciopero come un intralcio e non come un'opportunità. Un'opportunità anche per l'unità sindacale che non si fa su accordi mediocri, direi contabili, ma sulla condivisione dei valori della cultura del lavoro, dell'importanza del lavoro anche nel nostro nuovo secolo. E questa condivisione di valori è la base di pluralismo e unità.

Bene, ma dopo lo sciopero generale?

Vedremo, non credo in una ripetizione a catena di scioperi, ma certamente la Cgil si impegnerà, è già impegnata, in qualcosa che sia la replica, trasformata e adeguata al presente, del non dimenticato Piano del Lavoro di Giuseppe Di Vittorio. Le questioni centrali, posso elencarti i titoli, sono: Sud, politica industriale (la Thatcher demolì, ma con un progetto di ricostruzione alternativa, tant'è che l'Inghilterra è ancora in piedi, invece in Italia si demolisce e si balbetta), scuola, informazione, sanità. Si tratta di ridefinire le condizioni di un nuovo contratto sociale. Abbiamo conquistato il welfare, ma ora non possiamo rimanere in tiepida difesa del vecchio stato sociale e farci anche accusare di conservatorismo. L'obiettivo è un nuovo contratto sociale che rilanci diritti e sviluppo. E mi pare che questo orientamento cominci a percorrere anche l'Europa, dove i sindacati sono in ripresa.

Ma oltre il mondo del lavoro e, forse, la scuola, chi c'è con voi?

Se mi consenti un po' di retorica ti dirò che c'è buona parte dell'Italia. Lavoratori, insegnanti, studenti, alcune parrocchie e anche tutti i poteri locali di centrosinistra; sindaci, presidenti di regione e di provincia hanno aderito allo sciopero generale. E hanno aderito non solo per condivisione dei valori, ma anche perché il cosiddetto decentramento sta portando a un arbitrio centralistico. Molte di quelle che erano regole automatiche (per questa iniziativa c'è questo contributo) dipendono ora da una decisione del centro e ancora, va aggiunto, che i tagli di spesa agli enti locali non sono stati cosa da poco. Penso che uno sciopero al quale aderiscono tanti eletti del popolo con responsabilità di governo locale sia abbastanza una novità e una novità positiva.

Previsioni per il prossimo avvenire?

Le cose dell'economia non vanno bene e non parlo solo della Fiat. Ma soprattutto non vanno bene i conti dello stato: il documento della Corte dei Conti è pesantissimo. Il concordato fiscale non darà quel che Tremonti annuncia e ci sarà una caduta delle entrate fiscali ordinarie. Con tutta probabilità tra marzo e aprile il governo (sempre più rissoso al suo interno) verrà, anche dalla Cgil, per dire che siamo al rischio di fallimento e che i lavoratori debbono pagare il loro obolo per la salvezza del paese. Ci riproporranno anche la concertazione. Ebbene sia chiaro fin da oggi che la Cgil non sarà il garante del sacrificio dei lavoratori, dei tagli alla sanità e a tutto il resto. Questo, governanti e parlamentari se lo debbono togliere dalla testa: non ci sarà governo istituzionale, di salute pubblica o di unità nazionale che ci convincerà. Trattare si può sempre, il sindacato e la Cgil in particolare non sono «massimalisti»: trattare si può, ma alle condizioni della Cgil e dei lavoratori occupati e disoccupati che rappresenta.

E domani, cioè oggi per i nostri lettori?

Sarà una grande giornata, una giornata da osservare e studiare con passione e freddezza. Ci saranno centoventi manifestazioni e cortei in tutti i capoluoghi di provincia e in ogni posto ci sarà una diversità, un segno da individuare per cogliere il filo rosso che percorre tutto il paese. Di un paese che le stesse difficoltà inducono al risveglio, alla riacquisizione della propria soggettività. E la nostra Cgil vuole essere una buona levatrice, come lo è stata in anni più bui, pensiamo al 1955, quando una precedente modernizzazione riteneva (e appariva vincente) di poter ridurre il lavoro a poco più di zero.


DA IL MANIFESTO

SCONTRO SUI GIORNALI


Aspro confronto ieri tra la Fieg, associazione degli editori italiani, e la Fnsi, sindacato unitario dei giornalisti. La Fieg ha attaccato dicendo che il sindacato «ha assunto una posizione grave invitando i giornalisti a partecipare allo sciopero proclamato dalla Cgil, ledendo così la propria autonomia». Inoltre, gli editori hanno anche criticato l'invito rivolto dalla Fnsi ai cdr e ai giornalisti di attivarsi per evitare la pubblicazione di giornali che risultino qualitativamente insufficienti a causa dello sciopero. La Fnsi ha risposto all'attacco dicendo che «non ha invitato i propri iscritti a partecipare allo sciopero della Cgil, ma, su richiesta di strutture di base e di singoli giornalisti, ha ritenuto di precisare che i giornalisti possono collettivamente decidere di proclamare uno sciopero di solidarietà con la Cgil, o individualmente aderire ad astensioni proclamate dalla stessa confederazione, partecipazione consentita dalla Costituzione, che riconosce il diritto di sciopero». Inoltre, la Fnsi ribadisce «la necessità di difendere con ogni mezzo lecito la qualità, la completezza e l'identità dei giornali, cosa che alla Fieg sembra non interessare, perché, come è stato dimostrato in molteplici circostanze, l'unico interesse degli editori è vendere copie anche di prodotti ampiamente dequalificati sui quali veicolare la pubblicità».

ACCENDI RADIO LIBERA


Le radio di informazione libera si scateneranno oggi per dare voce ai lavoratori. Radio Gap seguirà in diretta tutta la giornata di sciopero, con collegamenti da diverse città. Le interviste audio realizzate si potranno ascoltare anche sul sito
www.radiogap.net/it. Da Napoli, indymedia trasmetterà sul web un programma radio: a partire dalle ore 20, «Radio Barrio Maradona», con interviste e notizie sullo sciopero e omaggi al Diego (http://radio.uk1.indymedia.org:8100/napoli)


 

DA IL - MANIFESTO

La finanziaria emendata


L'Udc presenta le sue proposte. Berlusconi: «Necessaria la riforma delle pensioni»
PAOLO ANDRUCCIOLI


No, in questa finanziaria la riforma delle pensioni non ci sarà. Però arriverà presto. Dopo mille ambiguità Berlusconi lo afferma infine chiaramente, dal podio del congresso del Ppe a Estoril, in Spagna. «La riforma previdenziale - dice - è difficile, perché va contro gli interessi dei lavoratori, ma è fondamentale». Berlusconi lancia un appello all'Europa, perché gli offra la copertura che il suo governo invoca da mesi, quella che gli permetterà di dire che è la Ue, non la destra italiana, a imporre la riforma. «L'Europa - prosegue infatti - deve darci una mano. Si era detto che nel 2006 si sarebbe lavorato fino a 65 anni. Poi un premier socialista ci ha negato quella decisione, che certamente sarebbe stata un passo avanti. Serve una riforma che prolunghi l'età lavorativa». E' un impegno minaccioso per il futuro quello che assume il Cavaliere, proprio mentre la finanziaria del presente fa riemergere la spaccatura nella sua maggioranza, Gli emendamenti alla finanziaria dell'Udc saranno presentati questa mattina con una conferenza stampa alla camera. Da quanto si è capito ieri pomeriggio, le proposte dell'Udc tendono a modificare a fondo il testo della finanziaria soprattutto nella parte che riguarda il Mezzogiorno. L'Udc sarebbe intenzionata a salvare la legge 488, il credito di imposta, e a rivedere magari anche gli interventi sulla Dit. Un cambiamento di 360 gradi rispetto all'impostazione del ministro dell'economia, Giulio Tremonti, che ha bloccato il credito di imposta e trasformato gli incentivi e gli stanziamenti pubblici in prestiti alle imprese. L'Udc è intervenuta anche sul decreto legge blocca spesa del ministro Tremonti e ieri il percorso dello stesso dl è stato temporaneamente bloccato al senato. Una questione molto delicata, forse ancora di più della stessa finanziaria, dato che originariamente il decreto di Tremonti autoassegnava allo stesso ministro un potere straordinario e inedito nel controllo delle spese di tutti i ministeri.

Nonostante lo scontro duro con la Lega di Umberto Bossi che non vuole toccare nulla del testo di Tremonti (Bossi ha definito la finanziaria «ottima»), l'Udc ha intenzione di andare fino in fondo nella sua battaglia per un Sud che altrimenti uscirebbe distrutto dalla finanziaria. E nel senso di una disponibilità a «trattare» qualche modifica, ci sono stati ieri due segnali: le dichiarazioni di Berlusconi e un lunghissimo incontro fra Tremonti e i rappresentanti della Confindustria. «Stiamo discutendo - ha detto Berlusconi - degli emendamenti dell'Udc sulla conferma della 488 e sulla limitazione del bonus per l'occupazione al Sud all'area obiettivo 1». Il solo problema, dice poi Berlusconi «è che bisogna trovare un'altra copertura: ne ho suggerita una che sta per essere esaminata».

Intanto ieri sera alle 20 è scaduto il termine ultimo per la presentazione degli emendamenti alla finanziaria e sempre ieri si è chiuso il lavoro della commissione bilancio della camera che ha analizzato, attraverso decine di audizioni, tutto l'impianto della legge finanziaria per il 2003. Sul testo del ministro Tremonti è piovuta una valanga di emendamenti. Ieri la riunione fra Tremonti e D'Amato è durata circa quattro ore e si è chiusa senza dichiarazioni ufficiali né della Confindustria, né del governo. Tremonti si è però mostrato per la prima volta disponibile a mettere in discussione alcuni punti, soprattutto le norme sugli incentivi alle imprese, dalla 488 al bonus per l'occupazione, passando per la Dit. Si tratterà ora di vedere quanto potrà fare il governo per venire incontro alla Confindustria. E per tentare di recuperare un qualche consenso. «In pochi mesi - commenta Giorgio Benvenuto - il governo è riuscito a disperdere tutto il consenso che aveva ottenuto. La finanziaria andrà radicalmente cambiata visto che non è in grado di togliere il paese dalle sabbie mobili».

Intanto critiche ed emendamenti arrivano anche dal volontariato e dal non profit, sia laico che cattolico. «Abbiamo chiesto - dice Sergio Marelli, presidente delle Ong italiane - che venga modificato l'articolo 42 che fissa le risorse per la cooperazione. Dallo 0,13% dovrà essere portato allo 0,33% del Pil come negli altri paesi europei».

DAL CORRIERE DELLA SERA

CRONACHE Previsti disagi nei trasporti Cgil sciopera da sola,

cortei in 120 città Fini: una mobilitazione politica. Manifestazione ieri degli operai di Termini Imerese a Roma

ROMA - È il giorno della verità per la Cgil. Che da sola, senza la Cisl e la Uil, chiama oggi i lavoratori a uno sciopero generale di 8 ore contro le modifiche dell’articolo 18 dello statuto (licenziamenti), il Patto per l’Italia e la Finanziaria. Sono previste 120 manifestazioni, da Nord a Sud.
La più importante a Torino, città simbolo della crisi Fiat, dove parlerà il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. Il suo predecessore, Sergio Cofferati, come dipendente della Pirelli, sarà invece tra i lavoratori che manifesteranno a Milano. In piazza anche i leader dei Ds: Piero Fassino a Torino, Massimo D’Alema a Napoli. A Torino ci sarà anche il segretario di Rifondazione Fausto Bertinotti. Tra i lavoratori anche i leader del Pdci e quelli dei Verdi. A Milano, Antonio Di Pietro.
PROBLEMI NEI SERVIZI - Lo sciopero causerà disagi nei trasporti. Aerei a rischio dalle 10 alle 18. Nelle ferrovie lo sciopero ci sarà dalle 9 alle 17. Secondo Trenitalia circolerà il 60% dei treni. Problemi anche per chi deve prendere tram, bus e metro, che si fermeranno secondo modalità locali. Difficoltà potranno esserci anche nelle scuole e agli sportelli postali e bancari, secondo il livello di partecipazione allo sciopero. In piazza, ci sarà anche il movimento dei girotondi. Scioperano anche i Cobas: contro la guerra e la concertazione. La Cgil è sicura che lo sciopero sarà un successo. Il termine di paragone è l’ultimo sciopero generale di Cgil, Cisl e Uil, dello scorso 16 aprile. Allora, secondo i sindacati, si fermarono 13 milioni di lavoratori, il 90% dei lavoratori dipendenti. Il 60%, secondo la Confindustria. «UNO SCIOPERO POLITICO» - Per il vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini: «È uno sciopero politico contro il governo». Cisl e Uil non scioperano perché difendono il Patto per l’Italia firmato col governo e le imprese a luglio. Dopo lo sciopero però, Cgil, Cisl e Uil potrebbero riavvicinarsi. Sulla Fiat, sul pubblico impiego e sul Mezzogiorno le tre confederazioni già marciano abbastanza unite. Ieri i sindacati dei metalmeccanici hanno proclamato uno sciopero della categoria, a sostegno della vertenza Fiat, entro il 10 dicembre in una data da definirsi. La manifestazione di ieri a Roma degli operai dello stabilimento Fiat di Termini Imerese (Palermo) ha anticipato uno dei temi centrali dello sciopero generale di oggi. OPERAI FIAT A ROMA - Più di 1.500 lavoratori dello stabilimento siciliano che rischia la chiusura hanno bloccato a più riprese il centro di Roma e hanno tentato di rompere il cordone delle forze dell’ordine attorno a Palazzo Chigi. Alla fine una delegazione è stata ricevuta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, ma i lavoratori sono rimasti insoddisfatti. Con gli operai di Termini è arrivato a Roma anche il presidente della Regione Sicilia Salvatore Cuffaro (Forza Italia) che, col cappellino rosso e la giacca azzurra dei lavoratori dello stabilimento Fiat ha voluto partecipare alla protesta. Fini ha detto che il governo «è accanto ai lavoratori», aggiungendo che c’è «la volontà piena dell’esecutivo di garantire che lo stabilimento non venga chiuso». In serata, il segretario della Cisl, Savino Pezzotta, è andato a Piazza Venezia, ancora bloccata dalla manifestazione, e ha incontrato gli operai. Contemporaneamente, a Termini Imerese, dove lo stabilimento e rimasto presidiato dalle mogli e dai figli degli operai, si è svolta una fiaccolata durante la quale l’arciprete don Francesco Anfuso ha definito «grave» il comportamento delle forze dell’ordine che a Roma hanno impedito ai manifestanti di raggiungere Palazzo Chigi. Enrico Marro
18 ottobre 2002

DAL CORRIERE DELLA SERAI pacifisti pensanti... e quelli incoscienti

IL MONDO IRREALE DEI «CIECOPACISTI»

Chi vuole la guerra è un demente che vuole una cosa orribile. E dopo gli spaventosi bagni di sangue delle ultime guerre mondiali, in Europa la guerra non la vuole più nessuno. Pertanto chi oggi distingue tra pacifisti e guerrafondai disegna una distinzione fuorviante. La distinzione che ci divide è tra pacifisti incoscienti - che dirò «cieco-pacisti» - e pacifisti pensanti. Il cieco-pacista non sente ragioni, è tutto cuore e niente cervello. Il guru pacifista del momento, Gino Strada, scrive così: «Può darsi che il movimento per la pace non sia in grado di far cadere un dittatore, ma una cosa è assolutamente certa, che... non ne ha mai creati né aiutati a imporsi». Purtroppo no. Purtroppo Strada è assolutamente certo di cose assolutamente false. I pacifisti degli anni ’30 hanno aiutato Hitler a imporsi, così come i pacifisti della guerra fredda - gridando better red than dead , meglio rossi che morti - invitavano l’Unione Sovietica a invadere una Europa che non si sarebbe difesa. Il Paternostro recita: «Non indurci in tentazione». Lo recitano ancora, il Paternostro, i nostri pacifisti chiesastici? E se lo recitano, perché non si chiedono se il loro pacifismo assoluto - che è in sostanza un pacifismo di resa - non induca in tentazione i malintenzionati non ancora convertiti in agnelli? Quanto ai nostri cieco-pacisti laici, a loro ricordo il detto che è l’occasione che fa l’uomo ladro. Non ci credono? Provino a lasciare spalancate le porte delle loro case. Saranno svaligiate anche e proprio da ladri creati dall’occasione.
Fortuna vuole che ai pacifisti incoscienti si contrappongano i pacifisti pensanti che rifiutano la guerra offensiva ma approvano la guerra difensiva, che distinguono tra guerra ingiusta e guerra giusta e che fanno sapere che si difenderanno se attaccati. Il mondo libero deve la sua libertà a questo pacifista con la testa sul collo. Ma anche lui si trova a disagio al cospetto della nuova idea della guerra preventiva.
Mi si dirà che la guerra preventiva è sempre esistita. Sì; ma no. No nel senso che oggi la dottrina della guerra preventiva si fonda su una nuova ragion d’essere che si inserisce in un nuovo contesto: il contesto di quella guerra che Umberto Eco ha battezzato «guerra diffusa». Nelle guerre del passato esistevano due (o più) nemici ben riconoscibili i cui eserciti si fronteggiavano lungo una frontiera che era il limite da superare. Queste guerre erano dunque caratterizzate da una frontalità territoriale. Nella nuova guerra l’attaccante è un terrorismo globale ispirato da un fanatismo religioso - e quindi senza precisa patria - che non si lascia localizzare, che è dappertutto, e che opera nascondendosi. In questa guerra diffusa, latente, ma per ciò stesso sempre pronta a colpire, l’attaccato non sa più chi contrattaccare. O meglio: può solo attaccare le infrastrutture dove vengono prodotte le armi dei terroristi e gli Stati che li «supportano».
L’altro aspetto del problema è che la guerra terroristica dispone di nuove armi chimiche e batteriologiche. Qui la novità è tecnologica. E il fatto è che oggi disponiamo di una tecnologia facilmente nascondibile il cui potenziale distruttivo è terrificante. Prima c’era il cannone e c’era la corazza. Oggi la corazza non c’è quasi più, e il cannone è diventato gigantesco. Una sola persona può avvelenare l’acqua potabile di un milione di persone. Il cieco-pacista non lo vede, ma il problema è questo.
Si sarà notato che non ho mai menzionato l’Iraq. Difatti qui interessa capire quale sia la ragion d’essere di una guerra preventiva. Se questo nuovo diritto di guerra si applichi o no (e con quali procedure) ai vari casi concreti, e oggi al caso di Saddam Hussein, è una questione a parte. Una cosa alla volta. E questa volta il punto è che, a fronte della altissima vulnerabilità e facile «uccidibilità» delle società industriali avanzate, il pacifista di oggi è ancor più cieco e malconsigliante di quello del passato.

di GIOVANNI SARTORI
DALL'UNITA'

17.10.2002
Piazza del lavoro
di Guglielmo Epifani

Quella di oggi è una giornata importante. Per la Cgil, per le lavoratrici e i lavoratori, per tanti giovani e anziani, per l’Italia. Centoventi manifestazioni nelle città capoluogo e otto ore di astensione dal lavoro in tutti i settori. Il nostro sciopero - quello che abbiamo voluto chiamare «uno sciopero per l’Italia» - è oggi in campo. In molti hanno lavorato perché questo sciopero non riuscisse, molti media hanno cercato di mettere la sordina alle ragioni della nostra mobilitazione. A tutti costoro oggi risponderanno moltissime persone in tutta Italia. Lo faranno con determinazione e con serenità a sostegno delle motivazioni che abbiamo messo alla base della nostra iniziativa di lotta.

Motivazioni che partono da lontano e che legano questa giornata al grande movimento che nel corso del 2002 ha portato più volte in piazza milioni e milioni di persone contro la modifica dell’articolo 18 e contro le deleghe sul mercato del lavoro, sul fisco e sulla previdenza.
Contro la linea del governo e di Confindustria di puntare su una competitività bassa, basata solo sui costi, calpestando diritti e aspettative delle persone. Di chi oggi ha un lavoro e di chi lo vorrebbe. Contro la linea che ha portato a luglio a un Patto per l’Italia non solo sbagliato, perché modificava l’articolo 18, ma anche drammaticamente insufficiente, basato com’era su previsioni campate in aria (si parlava per il 2003 di una crescita del 2,9 per cento!), a risolvere i veri problemi che il Paese ha di fronte.

Motivazioni che oggi, con questa Finanziaria e con la difficile situazione che abbiamo di fronte, vengono drammaticamente confermate e ampliate.
Il nostro sciopero è generale non soltanto perché riguarda tutti ma perché ha al suo centro problemi concreti e generali che oggi sono resi ancor più urgenti dalle ultime emergenze. Dal Mezzogiorno al caso Fiat, ai problemi occupazionali all’orizzonte in un Paese che è ormai vicinissimo a una vera e propria recessione: il prodotto interno lordo quest’anno crescerà, se crescerà, al massimo dello 0,3 per cento.

Oggi, per l’effetto combinato delle misure sbagliate della Finanziaria, del rallentamento dell’economia, di crisi settoriali e locali sono a rischio quasi 300 mila posti di lavoro. Ma invece di porre mano a strumenti anticiclici, la politica del governo - niente per il Mezzogiorno, tagli nei trasferimenti agli enti locali e in settori chiave come scuola e ricerca - rischia di spingere il Paese lungo la china di un declino che va avanti da troppo tempo.

In questo quadro il governo è riuscito a presentare una legge finanziaria perfino peggiore di quanto il Dpef facesse prevedere. Una Finanziaria regressiva e populista, che non fa sviluppo, non fa equità, non fa rigore. Una manovra economica che, se non cambiata profondamente, rischia di far arretrare le condizioni generali del nostro Paese.

Questo governo ha sbagliato tutte le previsioni negli ultimi mesi (e in questo, va ricordato, era in buona compagnia, assieme al governatore della banca d’Italia e al presidente di Confindustria). Oggi, invece di ammettere gli errori e cambiare strada, continua a sbagliare: la manovra infatti consta di tagli iniqui e insieme difficili da concretizzare e di entrate del tutto aleatorie (che per di più, con i condoni che premiano i disonesti, danno anche un segnale sbagliato al Paese). Cosicché anche tra le previsioni di oggi e i saldi di domani rischia di esserci un divario insopportabile. Non vorremmo che a marzo, con la prima Trimestrale di cassa e la scoperta di una situazione ben più grave di quella che oggi si ammette, la soluzione proposta dal governo fosse la solita: tagli alle pensioni e alla spesa sociale. Oggi per allora la Cgil dice al governo (a questo come a qualsiasi altro governo) che a questa ricetta non ci sta. Oggi per allora è l’Italia a dire il suo no, chiaro e forte, nelle piazze e con lo sciopero. Ci hanno accusato in questi mesi di avere opinioni insieme preconcette e catastrofiste. I fatti si sono incaricati di confermare la giustezza delle nostre analisi, su cui oggi concorda anche chi ieri ha dato troppo credito al governo. Ma noi a quel declino non vogliamo rassegnarci. Per questo diciamo al governo che è ora di voltare pagina, di fare quello che si deve fare per rilanciare l’economia, di ripristinare, per fare solo un esempio, gli strumenti per il Mezzogiorno che hanno funzionato, anzi di potenziarli, di dare insomma il segno di una svolta.

La Cgil comunque continuerà nella sua iniziativa anche dopo il 18 ottobre. Sono molti i terreni sui quali vogliamo incalzare governo e Confindustria nella nostra battaglia per la coesione, per i diritti, per un’Italia migliore: Mezzogiorno, politica industriale (a partire dal caso Fiat), scuola e formazione, sanità e salute, informazione.

Su questi terreni, o almeno su alcuni di essi, crediamo sia possibile riaprire confronti unitari con Cisl e Uil (come del resto sta avvenendo sul fronte dei contratti pubblici e su quello della Fiat). Senza fughe in avanti, con la consapevolezza che ci dividono molte cose e tante scelte fatte, ma anche con la consapevolezza delle molte elaborazioni comuni che già esistono, sulle quali, se esiste la volontà da ambo le parti e se si trovano punti di merito condivisibili, può partire una fase di lavoro comune sui temi più drammatici, occupazione e Mezzogiorno in testa.


DALL'UNITA'

17.10.2002
Ds e un pezzo di Ulivo a fianco della Cgil
di a.f.

«Mi auguro che lo sciopero abbia successo, perché è uno sciopero contro il governo. Da un minuto dopo, però, mi auguro che per il sindacato ricominci il processo di ricomposizione unitaria». Anche l’ex ministro della Sanità, Rosi Bindi, oggi «farà la sua parte». E probabilmente parteciperà ad una delle due manifestazioni provinciali in programma a Siena o ad Arezzo.
Non sarà sola, però, Rosi Bindi. Dopo le polemiche e i distinguo dei giorni scorsi - nell’Ulivo e nella Quercia - sull’opportunità dello sciopero generale proclamato dalla Cgil con l’ostilità dichiarata di Cisl e Uil, saranno molti i leader diessini ed ulivisti a scendere in piazza a fianco di Guglielmo Epifani. Piero Fassino sarà a Torino dove, insieme a Luciano Violante e a Livia Turco, prenderà parte al corteo che partirà alle 10.30 da piazza Statuto. Sempre a Torino, ma nel corteo che prenderà le mosse da corso Marconi, ci sarà anche il leader di Rifonsazione comunista Fausto Bertinotti. Il presidente dei Democratici di sinistra, Massimo D’Alema, invece, sarà a Napoli, insieme al responsabile del partito per il Mezzogiorno, Roberto Barbieri. A Firenze manifesteranno il coordinatore della segretria nazionale, Vannino Chiti, e Fabio Mussi. Cesare Salvi, Pietro Folena, Luciano Pettinari, Gavino Angius e il responsabile Lavoro, Cesare Damiano, saranno a Roma. Mentre Anna Finocchiaro parteciperà alla manifestazione di Catania.

Non solo. Allo sciopero di oggi aderisce anche l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. E lo stesso Di Pietro interverrà alla manifestazione di Milano con Sergio Cofferati. «La difesa dei diritti assunta dalla Cgil - dice l’ex magistrato simbolo di Mani Pulite - è un fatto che nobilita il mero ruolo di rivendicazione salariale del sindacato. È necessario che questa attività di difesa sia svolta in sinergia tra partiti e movimento dei lavoratori». Piena adesione alle ragioni della protesta è stata espressa anche dai Verdi. «È importante - afferma il presidente del partito, Alfonso Pecoraro Scanio - sostenere lo sciopero contro le politiche economiche e sociali del governo». In piazza ci sarà anche lo stato maggiore dei Comunisti italiani. Armando Cossutta parteciperà alla manifestazione di Milano, mentre il segretario del partito, Oliviero Diliberto, sarà a Roma. «Questo sciopero - afferma Diliberto - valeva dieci essendo in discussione la questione dei diritti. Oggi, dopo la Finanziaria, vale cento».
Dal leader dei socialisti italiani, Enrico Boselli, e da quello dell’area liberal dei Ds, Enrico Morando, viene intanto un auspicio. Che quello di oggi, tra Cgil, Cisl e Uil, sia l’ultimo atto di divisione. Mentre in Toscana la Margherita invierà migliaia di Sms via cellulare. Per ricordare a tutti che è l’ora dell’unità. Contro la Finanziaria, tanto per cominciare.


DALL'UNITA'

17.10.2002
Questo sindacato «isolato», assieme a milioni di cittadini
di Bruno Ugolini

C’era una volta la Cgil «isolata», come una tragica vestale nel deserto. Intenta a additare scenari giudicati «catastrofici», frutto solo d’ossessivi paraocchi politici, incapace di vedere il radioso futuro, i coloriti orizzonti. Sola a proclamare lo sciopero generale, per un giorno non ancora precisato, convinta delle proprie analisi e delle proprie proposte. Eravamo ancora prima dell’estate. Quel giorno è venuto. E’ oggi. Staremo a vedere come risponderà all’appello il popolo del lavoro, dei mille lavori. Una cosa però si può dire subito. La Cgil, semmai è stata sola, oggi non lo è più. Non intendiamo tirare in ballo i vari movimenti che stanno dalla sua parte, magari guardati con sospetto da benpensanti anche di sinistra. Alludiamo ad associazioni al di sopra d’ogni sospetto, care a chi è ossessionato dalla voglia di coccolare i cosiddetti ceti moderati. Qualche nome? La Confindustria, la Confcommercio. Sono venute dal loro seno, per ragioni diverse, voci aspre di condanna e di preoccupazione. Spesso suggerite dal documento più importante emanato dal governo onde incidere sulla realtà economico sociale: la Legge Finanziaria. E’ la peggiore del dopoguerra ha sostenuto Antonio D’Amato, infrangendo, magari a malincuore, perché assediato da imprenditori incattiviti, quel patto di Parma.

E poi hanno parlato i fatti. A cominciare dalla messa in discussione dell’impero Fiat con tutte le conseguenze che rischiano di buttar fuori l’Italia dal Club dei Paesi più industrializzati. Un tracollo a cui il governo rispondicchia, cercando di trarne qualche vantaggio, e lasciando fuori dai suoi negoziati, più o meno sotterranei, addirittura quello che dovrebbe essere il suo maggior esperto, il responsabile delle cosiddette attività produttive.

E’ uno scenario che dimostra come la Cgil avesse ragione a proclamare quello sciopero e a mantener fede alla parola data. Ed è un vero peccato che oggi debbano mancare all’appuntamento la Cisl e la Uil. Anche se siamo convinti che in qualche modo saranno presenti. Lo saranno con molti dirigenti e lavoratori delle due organizzazioni che non saranno assenti dall’impegno, non faranno i crumiri. Questo soprattutto per un fatto: nello sciopero generale non ci saranno le loro sigle, ma ci saranno molte delle loro ragioni, molti motivi delle proteste spesso riproposte in questi giorni.

Le ragioni del Sud, del Mezzogiorno dimenticato, le ragioni dei contratti da fare e che fanno a pugni con le cifre della Finanziaria, le ragioni dei lavoratori della Fiat e di una politica industriale sgangherata, le ragioni dei professori, degli studenti. Non c’è, certo, in campo, la difesa di quel patto con l’Italia che Cisl e Uil hanno firmato. C’ da chiedersi però, oggi, che cosa sarebbe accaduto se anche la Cgil, paradossalmente, avesse firmato quell’intesa e si fosse legata le mani. Quali contraccolpi si sarebbero avuti, ad esempio, per le forze politiche d’opposizione, a cominciare dall’Ulivo? E oltretutto quel Patto - con le briciole che dava per gli ammortizzatori sociali e quel tanto che chiedeva per il mercato del lavoro, a cominciare dalle ipoteche sull’articolo diciotto - sembra sparito. Nessuno lo considera più la panacea di tutti i mali.

Sciopero generale, dunque, con motivazioni concrete, forti. Non mancano però coloro che sostengono, anche in queste ore, scuotendo la testa, che è uno sciopero inutile. Lo fa, buon ultimo, il mio amico Antonio Polito, inaugurando il numero zero del suo nuovo giornale, , uscito in Internet proprio ieri, qualche giorno prima della prevista apparizione nelle edicole. Una cantilena già sentita, sempre sentita. Perché scioperare? A che cosa serve? Che cosa cambia? Devono averla ascoltata, nel secolo che ci sta alle spalle, anche tutti quei lavoratori che hanno scioperato, lottato, magari per ottenere otto ore di lavoro, magari per ottenere il diritto ad ammalarsi, il diritto a riunirsi in fabbrica, il diritto a fare un sindacato. E’ sempre stato così. Loro scioperavano, chiedevano, spesso ottenevano. E sempre c’era qualcuno che diceva: . Invece no, sono sempre serviti, magari a volte solo per dare la sveglia, hanno accompagnato la vera crescita moderna di un Paese, quella vera, non quella fasulla. Hanno dato fiato e speranze a chi non si accontenta di guardare, aspettare e votare ogni quattro anni. Oggi, in fondo, il sindacato torna a fare il suo mestiere. Non il mestiere di una corporazione, ma di un soggetto politico autonomo. Torna ad avanzare possibili vie d’uscita alla crisi che mette in gioco i destini di tante persone e a dire la verità: il re è nudo, urgono rimedi.


 

 

 

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