DALL'UNITA' Lo sciopero generale
della Cgil. LItalia si ferma, per i diritti e il
lavoro
di Angelo Faccinetto
Diritti, Fiat, occupazione, Finanziaria, immigrazione,
scuola, giustizia. Guerra, anche. Cè un intreccio
fitto di motivazioni dietro lo sciopero generale
proclamato per venerdì 18 dalla Cgil. Un intreccio che
si è andato allargando - e rafforzando - in queste
settimane. E di cui la crisi del più grande gruppo
industriale privato italiano è un po la sintesi.
Il quadro che si presenta, in questo inizio autunno 2002,
è inquietante. Il miracolo economico promesso da
Berlusconi e dal suo governo si sta traducendo in posti
di lavoro in pericolo - 280mila, ha denunciato giovedì
Guglielmo Epifani -, in uneconomia che parla il
linguaggio della recessione, in unindustria
nazionale sempre più povera e sempre più a rischio
colonia, in uno stato sociale in discussione, in progetti
di sviluppo dimenticati. Al Sud e non solo. Così,
lanciata destate per dire no a un Patto per
lItalia che cancellava diritti e non garantiva la
crescita, la protesta acquista una valenza più ampia. E
si fa portatrice di interessi ed istanze davvero
generali.La stessa Cgil, partita isolata, si trova
accanto sempre più numerosi, e talvolta inattesi,
compagni di lotta.
Venercì si fermeranno le
fabbriche, i trasporti. Stop ai treni dalle 9 alle 17,
275 voli cancellati, bus, tram e metropolitane bloccati
per otto ore secondo modalità stabilite a livello
locale. Chiuderanno le banche, gli uffici. Scuole e poste
funzioneranno a singhiozzo. Nei servizi pubblici saranno
garantiti solo i servizi essenziali. E ci saranno
manifestazioni in tutte le città dItalia, questa
mattina. Centoventi, ha fatto sapere lufficio
organizzazione di corso dItalia. Forse saranno di
più. A molte parteciperanno gli studenti delle medie
superiori che, su invito dellUds, diranno «no»
alla riforma Moratti e «sì» a una scuola pubblica
aperta a tutti. E - soprattutto è il caso di dire -
parteciperanno anche molti delegati sindacali di Cisl e
Uil oltre a Rsu al completo, cioè unitarie. Le adesioni
sono numerose. Nonostante le due confederazioni abbiano
continuato ad insistere, ancora ieri,
sullinopportunità dello sciopero. Sulla sua
pericolosità, addirittura. Tanto che mentre loro,
delegati e lavoratori cislini, sfileranno accanto alle
bandiere della Cgil (a Ventimiglia, anzi, 50 lavoratori
sono passati armi e bagagli dalla Uil alla confederazione
di Epifani), Pezzotta ed Angeletti parteciperanno a
Modena ad una tavola rotonda in difesa del Patto per
lItalia. Con Confindustria e rappresentanti del
governo.
Di intreccio di motivazioni, si
parlava. Ed è proprio questo intreccio che renderà
particolari molte delle manifestazioni. Da Torino a
Milano, da Napoli a Palermo, da Brescia a Venezia a Roma.
Sarà Torino, la città più colpita dalla crisi della
Fiat, il simbolo della protesta. Per questo, là, la
manifestazione sarà regionale (sono annunciati più di
duecento pullman da tutto il Piemonte e la diretta
radiofonica di Popolare Network). E per questo in piazza
San Carlo parlerà il numero uno della Cgil, Guglielmo
Epifani. Mentre i metalmeccanici della Fiom
parteciperanno ai due cortei in programma - da piazza
Statuto e da corso Marconi - con altrettanti striscioni
che saranno un po la parola dordine della
giornata: «In lotta per il futuro, no alle zero ore».
Perché la produzione dellautomobile, sostengono le
tute blu torinesi, ha ancora un futuro e continua ad
essere strategica per Torino e per tutto il paese. E
perché la cassa integrazione a zero ore altro non
sarebbe che un velo per mascherare i licenziamenti e
determinerebbe nuove rotture nel tessuto sociale della
città. Un «no» che va oltre Torino. Il piano Fiat, per
la Cgil, è inaccettabile. Nel capoluogo piemontese come
in tutte le altre città in cui il Lingotto ha i propri
stabilimenti. E come nel resto dItalia. Esattamente
come unificanti sono gli altri temi al centro della
protesta Cgil. A Milano, dove parlerà Paolo Nerozzi e
sfilerà, come semplice «quadro» della Pirelli, Sergio
Cofferati, a Napoli, dove prenderà la parola, Carlo
Ghezzi, a Palermo dove ci saranno Titti Di Salvo e i
lavoratori di Termini Imerese, a Roma dove la
manifestazione sarà chiusa da Nicoletta Rocchi, a
Bologna, a Firenze, a Genova, a Bari (dove lattore
Paolo Rossi aderirà allo sciopero mettendo in scena non
uno, ma due spettacoli coi cachet devoluti ad Emergency),
a Venezia. Difesa dellarticolo 18, un diritto
«indisponibile» che va di pari passo con la difesa
delloccupazione, soprattutto in un momento
difficile per leconomia come questo. Difesa del
sistema pensionistico pubblico, contro ogni ipotesi di
decontribuzione che affosserebbe il sistema. Difesa del
diritto alla salute e allistruzione, che tagli e
riforme mettono in pericolo. Sviluppo del Mezzogiorno,
che la legge Finanziaria, e tutta la politica economica
del centrodestra hanno dimenticato. Sostegno al
federalismo che rischia di venir cancellato con la
compressione della finanza locale. E «no» alle scelte
sul fisco, costruite per cercar di mascherare la
gigantesca redistribuzione avviata a favore dei
contribuenti più ricchi. Ragioni condivise, tra gli
altri, anche da Magistratura democratica, che ieri ha
inviato una lettera di adesione alla Cgil nazionale.
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DALL'UNITA' Le mille ragioni per
esserci
di Cesare Damiano
Oggi, milioni di lavoratrici e di lavoratori sono in
sciopero e manifestano in molte piazze d'Italia. La Cgil
ha organizzato questa iniziativa di mobilitazione contro
una legge finanziaria che non sostiene l'occupazione e lo
sviluppo, che penalizza in particolare il mezzogiorno e
per la difesa e l'estensione dei diritti, in coerenza con
una lunga battaglia sociale iniziata lo scorso autunno. I
Democratici di Sinistra condividono i contenuti e le
ragioni di questo sciopero e saranno presenti nei cortei
che si svolgono in ogni parte del Paese.
Pensiamo che sia necessario saldare la battaglia politica
e sociale per porre un argine alla iniziativa
controriformatrice del governo che pretende di perseguire
la modernizzazione del Paese a scapito dei diritti e
diminuendo le coperture dello Stato sociale. Una strada
completamente opposta a quella nella quale noi crediamo.
La situazione del nostro Paese sta peggiorando di giorno
in giorno perché, in un contesto internazionale di
rallentamento dell'economia, il governo Berlusconi non
produce gli atti necessari e coerenti per sostenere lo
sviluppo del Paese e contribuisce in questo modo ad
aggravare la situazione.
La recente crisi della Fiat preannuncia un rischio di
desertificazione industriale, con gravi conseguenze per
l'economia, per la capacità di innovazione e di ricerca
che sta alla base del successo di qualsiasi paese
industrializzato e con il rischio di forti ricadute
occupazionali che possono colpire l'azienda e i territori
nei quali sono insediati i suoi stabilimenti.
A tre mesi dalla firma del Patto per l'Italia
quell'accordo si rivela, come avevamo previsto,
complessivamente vano, fragile e contraddittorio, in
quanto fondato su ipotesi di sviluppo economico,
formulate dal governo, ormai inesistenti. Del resto,
questi limiti e queste contraddizioni sono stati già da
tempo individuati anche dalle organizzazioni sindacali e
da molte associazioni che hanno firmato quel protocollo,
a partire dalla Confindustria. Si comprende, finalmente,
come l'azione di questo governo non solo vada contro i
diritti di chi lavora, ma anche contro gli interessi
delle imprese, come dimostra la desolante vicenda del
credito d'imposta - voluto dal centrosinistra per
favorire l'occupazione stabile ed un contenimento del
costo del lavoro - messo oggi in discussione dall'attuale
governo.
Il fatto che questo sciopero generale sia promosso solo
dalla Cgil, non deve impedire di riprendere un cammino
unitario.
Abbiamo apprezzato le dichiarazioni del segretario
generale della Cgil, Guglielmo Epifani, a proposito della
necessità di una ripresa del dialogo tra i sindacati
confederali e le recenti aperture dei segretari generali
di Cisl e Uil che vanno nella stessa direzione, di fronte
ad una situazione di evidente emergenza sociale, come
testimoniano gli scioperi unitari dichiarati dai
metalmeccanici per il problema della Fiat.
I Democratici di Sinistra ritengono che l'obiettivo
dell'unità sindacale sia indispensabile, soprattutto per
far fronte alla grave situazione del Paese. Obiettivo per
il quale il nostro partito continuerà a battersi e che
può sostanziarsi, dopo lo sciopero generale di oggi, con
una iniziativa che sia capace di individuare alcuni
contenuti comuni dell'azione sindacale: contro l'attacco
allo Stato sociale, per lo sviluppo del Mezzogiorno, per
una politica industriale capace di affrontare e risolvere
le grandi crisi industriali dei settori strategici a
partire da quello dell'automobile, per il rinnovo dei
contratti nazionali di categoria.
I Democratici di Sinistra sono impegnati ormai da mesi in
una larga e approfondita discussione all'interno del
partito e nell'Ulivo per la definizione di un programma
del centrosinistra sui temi del lavoro. È un passo
indispensabile per dare autorevolezza all'azione politica
che, oltre ai no sui contenuti del "Libro
bianco" del governo, sia capace di individuare le
strade alternative. L'elaborazione, da parte dell'Ulivo,
della Carta dei diritti delle lavoratrici e dei
lavoratori e della proposta di legge sui diritti di
sicurezza sociale, che hanno avuto un positivo
apprezzamento da parte delle organizzazioni sindacali, e
la definizione, in corso d'opera, di una proposta di
riforma legislativa sul processo del lavoro,
rappresentano un «trittico» di iniziative che può
consentire l'apertura di una fase di larga discussione
sui temi del lavoro e dello Stato sociale e di confronto
unitario con Cgil, Cisl e Uil, dopo le centinaia di
assemblee tenute in tutto il paese su questi argomenti.
Pensiamo in questo modo di dare un contributo, a partire
dai contenuti, ad un confronto politico e sociale che
possa portare alla realizzazione di una conferenza
programmatica dell'Ulivo sui temi del lavoro entro la
fine dell'anno.
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DALL'UNITA' Epurazioni, tre storie
esemplari
di Isaia Sales
Sento il dovere di una testimonianza personale sulla
vicenda dello spoil system. Questa testimonianza riguarda
tre dirigenti che ho avuto il piacere di conoscere e
apprezzare quando sono stato, durante il governo Prodi,
sottosegretario al Tesoro con delega ai problemi del
Mezzogiorno e ai Fondi strutturali. Mi scuso dunque con
gli altri dirigenti (più di 150) che sono stati
cacciati, ma dei tre in questione posso dire in base ad
una conoscenza diretta.
Comincio da Carlo Sappino, fino a pochi giorni fa
direttore generale al ministero delle Attività
Produttive. Per molti lettori potrà essere un nome
sconosciuto, ma per chi, come me, ha dovuto affrontare
dal governo i problemi complessi che si posero dopo la
fine dell'«intervento straordinario». Sappino è stato
uno dei pilastri della costruzione delle nuove politiche
pubbliche nel Sud d'Italia.
Si deve a lui la messa a punto e la gestione della legge
488, una delle migliori leggi di incentivazione alle
imprese che lo Stato italiano abbia mai concepito e
realizzato. Una legge che aveva anche l'ambizione di
contribuire a modificare alcuni comportamenti degli
imprenditori e della pubblica amministrazione. Infatti,
diversamente dal passato, questa legge assegnava maggiore
chance di accedere ai contributi pubblici
all'imprenditore che chiedeva una quota inferiore del
finanziamento ammissibile, riducendo la percentuale di
incentivazione a carico dello Stato, stimolando le
imprese a puntare di più su risorse proprie, e in più
dando certezza dei tempi per la formazione delle
graduatorie. Un passo avanti enorme rispetto ai tempi in
cui il finanziamento pubblico copriva quasi interamente
l'intervento e non c'era nessuna certezza sui tempi di
erogazione.
Di questo dirigente, che ha rilegittimato l'impegno dello
Stato in un campo così delicato come l'incentivazione
alle imprese nelle aree svantaggiate, il governo ha
deciso di fare a meno.
L'altro dirigente di cui vorrei parlare è Elisabetta
Midena, cacciata via, assieme ad altri 13 dirigenti, dal
Ministero dell'Istruzione. La dottoressa Midena ha
lavorato con me alle politiche per le aree depresse, poi
è stata capo dell'ufficio legislativo con Mattarella
alla vice presidenza del Consiglio dei ministri. Allieva
di uno dei padri del Diritto amministrativo italiano, è
stata nominata dirigente del Ministero dell'Istruzione,
addetta a seguire, tra l'altro, i Fondi comunitari. In un
anno di lavoro i risultati sono stati eccezionali. Il
programma del Ministero è il primo per utilizzo dei
Fondi. È un fatto incontestabile, non una mia opinione.
Nella relazione sullo stato di attuazione del Quadro
Comunitario di sostegno (2000-2006) per le Regioni
dell'obiettivo 1, redatta dal Ministero dell'Economia, a
pag. 15 si legge: «il Programma Operativo Nazionale
Scuola presenta le performance di spesa tra le migliori
di tutto il Quadro Comunitario di Sostegno e fa
registrare un notevole avanzamento anche sotto il profilo
dell'esecuzione del bilancio consuntivo».
Una dirigente che fa fare alla sua Amministrazione una
così bella figura dovrebbe essere premiata, invece è
stata cacciata.
Infine la dottoressa Antonella Manno. Al Ministero del
Tesoro si occupava della gestione delle «Intese
istituzionali di programma» tra Stato e Regioni, uno
degli strumenti più delicati tra quelli messi in atto
dal governo Prodi. Ho avuto la possibilità di
apprezzarne le qualità professionali e umane sia quando
ero sottosegretario al Ministero, sia come consulente del
Presidente della Giunta regionale della Campania. Tutti i
problemi complessi relativi a questo strumento sono stati
affrontati con grande disponibilità, competenza e
celerità. Anche la dottoressa Manno è stata
allontanata.
Il Ministro Frattini ha sempre sostenuto che lo spoil
system rispondeva ad un bisogno di efficienza, e che
dunque sarebbero stati sostituiti solo i dirigenti che
non avevano svolto al meglio il compito loro affidato.
Nei tre casi che ho citato l'ipocrisia di tale
affermazione è lampante. Il governo Berlusconi si libera
di dirigenti non graditi, ma lo Stato italiano perde un
po' di quel capitale di credibilità che si stava
conquistando nei settori da loro gestiti. Ma chiedere
senso dello Stato e dell'interesse pubblico a questo
governo è fiato sprecat
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da l'unita'. 16.10.2002
Uno
sciopero per lunità sindacale
di MASSIMO
ROCCELLA
Lo sciopero generale del 18 ottobre può rappresentare un
ostacolo sulla strada della ricomposizione dell'unità
sindacale? Molti, nelle file dell'opposizione, lo credono
ed altri, anche fra quelli che hanno dichiarato di
sostenere l'iniziativa della Cgil, nutrono forse, in cuor
loro, la stessa preoccupazione. Vale la pena, anche in
questo caso, di provare a riflettere e cercare di formare
i propri convincimenti in forza di una fredda disamina
logica.
Le ragioni dello sciopero, innanzi tutto. Si potrebbe
parlare di sciopero superato dai fatti, se gli
avvenimenti successivi alla sua proclamazione fossero
tali da attenuare almeno le motivazioni alla base della
scelta della Cgil. È vero, purtroppo, l'esatto
contrario. Con la firma del Patto per l'Italia non solo
si è concordata una manomissione dell'art. 18 molto più
grave di quanto si vorrebbe far credere (come è stato
già puntualmente documentato su questo giornale), ma si
è dato implicitamente il via libera ad un più ampio
progetto di deregolazione del mercato del lavoro, che ha
poi trovato la sua prima sanzione formale con
l'approvazione da parte del senato del disegno di legge
n. 848. Dopo quella firma, d'altra parte, le ragioni
dello sciopero si sono moltiplicate, a fronte di una
politica economica e sociale non più limitata a colpire
i lavoratori sul terreno dei diritti, ma che ha allungato
il tiro, investendo direttamente la questione della
tutela del potere d'acquisto dei salari e, più in
generale, del mantenimento dei livelli di reddito e di
consumi degli strati sociali più poveri.
Basti ricordare, sotto il primo aspetto, la pretesa
governativa (e confindustriale) che i contratti di
lavoro, privati e pubblici, si rinnovino con riferimento
ad un tasso programmato d'inflazione dell'1,4%, che si sa
già dall'inizio lontanissimo dal dato dell'inflazione
effettiva: il che, in buona sostanza, equivale alla
provocatoria richiesta alle organizzazioni dei lavoratori
di farsi agenti della riduzione dei salari reali, come
nella nostra esperienza sindacale si è verificato
soltanto in una contingenza storica (guarda caso nel
ventennio corporativo: forse davvero dal Dna della destra
italiana è impossibile cancellare le tracce di un
passato che non passa).
Quanto al secondo aspetto, è già stato ampiamente
dimostrato il carattere ingannevole della tanto
sbandierata riduzione fiscale «più grande di sempre» a
favore dei ceti meno abbienti. Anche a volerne trascurare
la funzione di foglia di fico populista, meramente
preparatoria rispetto all'obiettivo di riversare la gran
parte delle diminuzioni d'imposta, a «riforma»
completata, a vantaggio di ricchi e ricchissimi, già
adesso quella riduzione non potrà valere ad incrementare
il reddito disponibile dei beneficiari. Servirà soltanto
ad attenuarne il peggioramento delle condizioni di vita,
dovuto alla contrazione della spesa sociale che il
governo, per il momento, non si propone di realizzare in
via diretta, ritenendo preferibile affidarne il compito
agli enti locali, che vi saranno costretti dai tagli ai
trasferimenti previsti nei loro confronti dalla legge
finanziaria: evidentemente, come spesso accade quando si
ha a che fare con il governo ottimamente presieduto dal
cav. Berlusconi, gli impegni di segno contrario assunti
col Patto per l'Italia erano stati scritti con inchiostro
simpatico.
Quali sarebbero dunque le ragioni per le quali la Cgil
dovrebbe rinunciare allo sciopero del 18 ottobre? Si può
forse fare una colpa ai dirigenti di Corso d'Italia di
avere realisticamente previsto con largo anticipo quale
sarebbe stata l'evoluzione dello scenario
economico-sociale (fallimento del Patto per l'Italia
compreso)? Ed è davvero ipotizzabile, di fronte ad uno
sciopero che coinvolge l'idea stessa di coesione sociale
messa a repentaglio dalle politiche della destra, che
l'opposizione, anche soltanto in qualche sua rilevante
componente, possa correre il rischio di comunicare un
messaggio privo della nettezza che dovrebbe essere
indispensabile rispetto a questioni essenziali per il
futuro del paese (ed anche, vale la pena di ricordarlo,
per le sorti politiche dell'opposizione medesima)?
Il travaglio dell'opposizione, ed in particolare di
alcune sue componenti come la Margherita e lo Sdi, è
comprensibile, in ragione degli storici legami di queste
formazioni con Cisl e Uil, e comunque va rispettato. Non
si può fare a meno di rilevare, peraltro, che al fondo
di certe preoccupazioni per l'unità sindacale
s'intravede una concezione alquanto astratta della logica
dell'azione sindacale ed anche, a guardar bene, una
scarsa considerazione per le scelte recenti di Cisl e
Uil. L'adesione di queste organizzazioni al Patto per
l'Italia, in effetti, può ben essere considerata un
errore, ma solo dal punto di vista della Cgil e
dell'opposizione. L'invito da taluni rivolto alla Cgil di
soprassedere allo sciopero del 18 ottobre, come se ciò
potesse bastare per ripristinare condizioni di unità
sindacale ed aprire la strada ad iniziative di lotta
congiunte in tempi politicamente utili (i tempi, si sa,
in politica ed anche nell'azione sindacale sono
determinanti), è davvero privo di qualsiasi senso della
realtà.
Cisl e Uil, infatti, se davvero lo volessero, avrebbero
già tutti gli elementi a disposizione per cambiare
rotta. Si comincia ad ammettere, infatti, da esponenti
delle due confederazioni, che sul Mezzogiorno il Governo
sta tradendo gli impegni, ma per il resto, si aggiunge,
il Patto per l'Italia sarebbe rispettato: ed invece, a
parte il fatto che le scelte governative sul Sud
dovrebbero bastare da sole a far saltare il banco, è
ormai evidente che l'intero Patto per l'Italia è ridotto
a carta straccia, in particolare per quanto riguarda il
vincolo di mantenere invariata la spesa sociale.
La verità è che l'appoggio, obbiettivamente assicurato
al governo Berlusconi da Cisl ed Uil, risponde a scelte
di fondo, a convincimenti radicati che non possono essere
rimessi in discussione, come se si fosse trattato di una
semplice svista, con gli appelli all'unità sindacale, ma
soltanto dall'evolversi della dinamica sociale.
È un'esperienza, del resto, conosciuta a suo tempo,
sulla propria pelle, dalla Cgil: quando negli anni '50,
prima di cambiare linea sulla questione della
contrattazione aziendale, dovette toccare con mano,
esponendosi ad una dura sconfitta sindacale, la perdita
di consenso fra i lavoratori rispetto alla propria
politica di accentramento contrattuale.
Anche oggi non v'è ragione di pensare che un mutamento
di orientamenti possa prodursi senza incidere su quella
variabile fondamentale, costituita dal consenso dei
destinatari dell'azione sindacale. Da questo punto di
vista, e nonostante ciò che si potrebbe superficialmente
(o, in qualche caso, strumentalmente) essere portati a
sostenere, le iniziative assunte in questi mesi dalla
CGIL, ivi compreso lo sciopero generale di venerdì
prossimo, possono contribuire anche all'obiettivo di
ripristinare migliori rapporti con le altre due
confederazioni più di mille giaculatorie sull'unità
sindacale.
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DA LA STAMPA Si
rischia di finire come nel Seicento quando il paese non
seguì i mutamenti e divenne all'improvviso una provincia
Il «sistema
Italia» è affaticato, deve rimettersi in discussione
18 ottobre 2002
di Mario Deaglio
La crisi della
Fiat rappresenta il più recente episodio di una malattia
italiana di lunga durata: l'arrancamento di questa grande
società automobilistica trova il suo contrappunto in un
generale arrancamento dell'economia italiana che, per
circa un decennio, ha perso terreno nei confronti delle
altre economie avanzate. Nel corso degli anni novanta, la
sua velocità media di crescita era pari a poco più
della metà di quella dei suoi partners dell'Unione
Europea e solo nel 2000 e nel 2001 le cose sono un poco
migliorate.
Perché questa
"fatica" del sistema? L'idea che potesse
trattarsi di qualcosa di più di una congiuntura
deludente, che ci fosse qualche malfunzionamento
piuttosto grave nel sistema Italia, cominciò a farsi
strada sul finire di quel decennio; questa presa di
coscienza si può datare all'autunno 2000. Parlando
all'Aquila il 23 settembre, il presidente della
Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi dichiarò, senza mezzi
termini, che l'Italia stava perdendo terreno in maniera
preoccupante rispetto agli altri paesi europei; pochi
giorni più tardi, il 6 ottobre, illustrando in Senato le
grandi linee della nuova legge finanziaria, il ministro
del Tesoro, Giuliano Amato, pronunciò la parola
fatidica, "declino". La paura del declino - e
la parallela paura di cambiamenti scomodi indispensabili
per opporvisi - viene sovente accantonata in maniera
scaramantica e le si preferisce certo un ottimismo
volontaristico; ci segue, però, come un'ombra e
riaffiora ogni volta che ci sono novità sgradevoli.
Per misurare
l'importanza di questo declino occorre partire dalla
seconda metà degli anni ottanta, epoca d'oro
dell'imprenditoria italiana, quando le grandi riviste
internazionali esaltavano il "modello italiano"
di conduzione delle imprese. La Ferruzzi acquistava il
gruppo francese Béghin Say, De Benedetti comprava
imprese in Germania e in Spagna e aveva la grande
finanziaria belga Sgb nel mirino, Pirelli aveva posto le
mani sulla tedesca Continental. Poi De Benedetti fu
sconfitto nella battaglia per il colosso belga, Pirelli
fu costretta a rivendere la partecipazione tedesca, il
gruppo Ferruzzi subì un'eclisse. Si aggiunga
l'insuccesso delle Generali nel tentativo di assumere il
controllo della francese Axa mentre alla Banca
Commerciale gli americani impedirono di acquistare la
Bank of New York. L'Italia fu spinta in un angolo e da
allora ci è rimasta.
L'indebolimento
italiano ebbe una manifestazione clamorosa precisamente
con la crisi del gruppo Ferruzzi che si ripercosse
fortemente sul mondo bancario e investì di riflesso la
Montedison. Nel 1994, il colosso chimico fu costretto a
vendere Erbamont, la maggiore impresa farmaceutica
italiana, decretando, di fatto l'uscita del paese dal
ramo avanzato di questo settore. L'anno seguente, l'ENI
vendette alla tedesca Rwe il 70 per cento di Enichem e
ancora la Montedison costituì una società paritaria con
la Shell in cui confluì una parte importante della
chimica delle materie plastiche, settore in cui l'Italia
aveva vantato un primato mondiale.
La seconda
metà degli anni settanta vede l'acquisto da parte di
società straniere di imprese importanti per il contenuto
tecnologico (il Nuovo Pignone, che aveva sviluppato
importanti tecnologie petrolifere, fu ceduta dall'ENI
alla General Electric) o per caratteristiche tipiche,
come gran parte dell'industria degli aperitivi, finita
sotto controllo di grandi multinazionali delle bevande e
solo in parte rivenduta poi a imprese italiane.
L'Italia uscì
dalla grande industria del vetro con la cessione della
Siv all'inglese Pilkington e, pur avendo le maggiori
risorse turistiche del mondo si trovò in difficoltà a
consolidare la propria presenza in quel settore. Così
gli alberghi della CIGA vennero ceduti alla catena
americana Sheraton.
L'elenco
potrebbe continuare a lungo; certo, esistono anche
episodi di espansione italiana all'estero, come quello
della Luxottica, leader mondiale degli occhiali, e di
vitalità imprenditoriale, come quelli dei
"distretti industriali" ma, in ogni caso,
l'entità dei singoli investimenti è minore e i settori
di espansione italiana non sono, si regola,
particolarmente avanzati dal punto di vista tecnologico.
E non bastano, purtroppo, i successi della Ferrari a
ribaltare questa tendenza.
Per questo,
anche se il termine può suonare poco gradevole, è
necessario affrontare la realtà di un declino
industriale e imprenditoriale italiano di cui le vicende
della Fiat rappresentano il più recente e clamoroso
episodio, del quale occorre analizzare le cause e cercare
rimedi. Analisi e ricerca dovrebbero svolgersi in maniera
indipendente dalla politica o essere, come usa dire oggi
bipartisan.
Procedendo per
esclusione, non sembra che i guai italiani siano di tipo
tecnologico. Nel loro complesso, gli stabilimenti
appaiono tecnicamente adeguati se non all'avanguardia.
Occorre invece indagare all'interno delle imprese sui
metodi di finanziamento e sui caratteri
dell'imprenditoria e, all'esterno, sui vincoli che il
"sistema Italia" pone all'attività produttiva.
Si osserva, in primo luogo, uno "scollamento"
tra proprietà e finanza: nonostante il grande
rinnovamento della Borsa italiana, le
"matricole" sono piuttosto poche e occorrerebbe
trovare qualche adattamento tra il radicato carattere
famigliare del capitalismo italiano e le logiche
impersonali della finanza mondiale.
Occorrerebbe
poi infrangere qualche tabù e domandarsi, magari per
concludere negativamente, se non vi sia una certa
stanchezza imprenditoriale, un minor gusto di nuove
iniziative, legato forse all'invecchiamento della
popolazione; e infine è necessario affrontare il
discorso delle "ingessature" che possono
scoraggiare l'attività delle imprese. Non tanto, o non
solo dell'articolo 18, ma dell'insieme di vincoli che,
tanto per cominciare, dissuadono le imprese straniere
dall'effettuare forti investimenti in Italia se non con
un partner italiano.
Dobbiamo, insomma, rimetterci tutti in discussione,
altrimenti potrebbe finire come nel Cinquecento e nel
Seicento: nella prima grande apertura dell'Europa
sull'orizzonte mondiale, si verificò un improvviso
cambiamento di fronti che tolse al Mediterraneo la sua
precedente centralità in favore dei paesi che si
affacciavano sull'Atlantico e l'Italia si ritrovò paese
provinciale e venne rapidamente ridotta a un insieme di
province.
I mutamenti
tecnologici di oggi tengono luogo, in qualche modo, dei
rivolgimenti di tipo geografico, "spiazzando"
procedure e tecniche tradizionali di lavoro. La posta
della partita, oggi come allora, è di evitare
l'emarginazione e l'impoverimento relativo. Ed è troppo
importante perché facciamo finta che non stia succedendo
nulla.
MARIO DEAGLIO
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da la stampa PEZZOTTA PROPOSTE
IRRICEVIBILI, MA ORA C´E´ ATTENZIONE AL PROBLEMA FIAT.
UNICREDIT CONFERMA IL GRADIMENTO
I sindacati: entro fine mese il
«tavolo» sull´auto
All´azienda richiesto un nuovo
piano. L´11 novembre scioperano i metalmeccanici
L´avvio del confronto. Ieri
prima discussione fra il governo e i sindacati sulle
difficoltà dell´industria automobilistica. Nei prossimi
giorni partirà un «tavolo triangolare», ovvero la
discussione sulla situazione della Fiat con la
partecipazione del governo, dell´azienda e delle
organizzazioni dei lavoratori. Il tavolo vede la luce su
sollecitazione dei sindacati. Come dichiarato dal
segretario della Cisl, Savino Pezzotta, potrebbe essere
attivato prima della fine di ottobre, ma in ogni caso
dopo che il governo avrà acquisito maggiori informazioni
dalla Fiat. Il coordinamento dovrebbe essere affidato al
sottosegretario alla presidenza Gianni Letta.
Contemporaneamente all´incontro di ieri tra governo e
sindacati, svoltosi a Palazzo Chigi, c´è l´annuncio
dei metalmeccanici di indire una giornata di sciopero
entro l´11 novembre a sostegno della vertenza Fiat.
Sciopero definito da Pezzotta la risposta «normale e
naturale» agli avvenimenti di questi giorni.
Nell´incontro di ieri a Palazzo Chigi non si entra nel
merito delle possibili misure da adottare per
fronteggiare la situazione. Sia il governo che i
sindacati hanno rinviato una presa di posizione a quando
la Fiat sarà pronta a presentare un nuovo piano: su
questo punto «c´è assoluta sintonia» dice il ministro
per gli Affari regionali Enrico La Loggia. Il segretario
confederale della Uil Franco Lotito si dichiara
sconcertato perché il governo «ha detto che ancora non
ha in mano il piano industriale della Fiat». Pezzotta ha
definito «interessante e positivo» l´incontro di ieri
perché ha corrisposto alla richiesta avanzata al governo
«di assumere la Fiat come fatto importante». Per il
sindacato, aggiunge Pezzotta, è essenziale «una
riformulazione del piano, per salvaguardare il settore
auto in Italia e salvaguardare l´occupazione, chiedendo
anche un maggiore impegno gli azionisti». Il segretario
confederale della Cgil Carla Catone sostiene che fino a
quando la Fiat non presenterà nel dettaglio il piano di
ristrutturazione non potrà partire alcun confronto, nè
con il governo nè con l´azienda. La Cgil e la Fiom
chiedono al governo la sospensione da parte dell´azienda
delle procedure per la cassa integrazione annunciata a
partire dal 2 dicembre. La revisione del piano è
richiesta anche dalla Ugl. Gianni Letta puntualizza che
la priorità assoluta è quella dell'occupazione. E per
questo chiede un piano che contenga elementi di sviluppo
per il settore dell'auto e nuove opportunità
occupazionali per compensare gran parte degli esuberi,
soprattutto nell'area di Termini Imerese. Il ministro
delle Attività produttive, Antonio Marzano, si aspetta
un piano realistico: dalla sua efficacia dipendono le
prospettive dell´azienda. Il piano è giudicato
preliminare a qualsiasi intervento finanziario da parte
del governo. Per Marzano non è possibile immaginare
«provvedimenti tampone» senza disporre di «un piano
industriale strutturato». E il ministro dell´economia
Giulio Tremonti rende noto che per «valutare fino in
fondo» l´impatto finanziario e occupazionale del piano
Fiat, il governo intende nominare un advisor, ovvero un
consulente specializzato. Fra i partecipanti
all´incontro di Palazzo Chigi, il viceministro
dell´economia Gianfranco Miccichè sostiene che «di
chiusura dello stabilimento di Termini Imerese non
bisogna nemmeno parlare». E «questo è il punto fermo
del governo. Il ministro del Lavoro e delle politiche
sociali Roberto Maroni afferma che solo duecento
dipendenti sui 1.951 di Termini Imerese hanno i requisiti
per accedere alla mobilità lunga verso il pensionamento.
Di Fiat si è parlato ieri anche nel cda Unicredit, in
programma da tempo e definito di natura ordinaria. Il
presidente e l'amministratore delegato, Carlo Salvatori e
Alessandro Profumo, avrebbero illustrato al consiglio lo
stato dell'arte delle trattative per il piano di
risanamento del Lingotto, dopo il giro di incontri avuti
con le altre principali banche coinvolte nell'operazione,
e sarebbe emerso un giudizio positivo sul progetto, in
linea con quanto reso noto ieri nel comunicato congiunto
delle banche. Ribadita, allo stesso tempo, la
disponibilità a valutare altri piani, naturalmente
migliorativi.
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