DALL'UNITA'

Lo sciopero generale della Cgil. L’Italia si ferma, per i diritti e il lavoro
di Angelo Faccinetto

Diritti, Fiat, occupazione, Finanziaria, immigrazione, scuola, giustizia. Guerra, anche. C’è un intreccio fitto di motivazioni dietro lo sciopero generale proclamato per venerdì 18 dalla Cgil. Un intreccio che si è andato allargando - e rafforzando - in queste settimane. E di cui la crisi del più grande gruppo industriale privato italiano è un po’ la sintesi.
Il quadro che si presenta, in questo inizio autunno 2002, è inquietante. Il miracolo economico promesso da Berlusconi e dal suo governo si sta traducendo in posti di lavoro in pericolo - 280mila, ha denunciato giovedì Guglielmo Epifani -, in un’economia che parla il linguaggio della recessione, in un’industria nazionale sempre più povera e sempre più a rischio colonia, in uno stato sociale in discussione, in progetti di sviluppo dimenticati. Al Sud e non solo. Così, lanciata d’estate per dire no a un Patto per l’Italia che cancellava diritti e non garantiva la crescita, la protesta acquista una valenza più ampia. E si fa portatrice di interessi ed istanze davvero generali.La stessa Cgil, partita isolata, si trova accanto sempre più numerosi, e talvolta inattesi, compagni di lotta.

Venercì si fermeranno le fabbriche, i trasporti. Stop ai treni dalle 9 alle 17, 275 voli cancellati, bus, tram e metropolitane bloccati per otto ore secondo modalità stabilite a livello locale. Chiuderanno le banche, gli uffici. Scuole e poste funzioneranno a singhiozzo. Nei servizi pubblici saranno garantiti solo i servizi essenziali. E ci saranno manifestazioni in tutte le città d’Italia, questa mattina. Centoventi, ha fatto sapere l’ufficio organizzazione di corso d’Italia. Forse saranno di più. A molte parteciperanno gli studenti delle medie superiori che, su invito dell’Uds, diranno «no» alla riforma Moratti e «sì» a una scuola pubblica aperta a tutti. E - soprattutto è il caso di dire - parteciperanno anche molti delegati sindacali di Cisl e Uil oltre a Rsu al completo, cioè unitarie. Le adesioni sono numerose. Nonostante le due confederazioni abbiano continuato ad insistere, ancora ieri, sull’inopportunità dello sciopero. Sulla sua pericolosità, addirittura. Tanto che mentre loro, delegati e lavoratori cislini, sfileranno accanto alle bandiere della Cgil (a Ventimiglia, anzi, 50 lavoratori sono passati armi e bagagli dalla Uil alla confederazione di Epifani), Pezzotta ed Angeletti parteciperanno a Modena ad una tavola rotonda in difesa del Patto per l’Italia. Con Confindustria e rappresentanti del governo.

Di intreccio di motivazioni, si parlava. Ed è proprio questo intreccio che renderà particolari molte delle manifestazioni. Da Torino a Milano, da Napoli a Palermo, da Brescia a Venezia a Roma.
Sarà Torino, la città più colpita dalla crisi della Fiat, il simbolo della protesta. Per questo, là, la manifestazione sarà regionale (sono annunciati più di duecento pullman da tutto il Piemonte e la diretta radiofonica di Popolare Network). E per questo in piazza San Carlo parlerà il numero uno della Cgil, Guglielmo Epifani. Mentre i metalmeccanici della Fiom parteciperanno ai due cortei in programma - da piazza Statuto e da corso Marconi - con altrettanti striscioni che saranno un po’ la parola d’ordine della giornata: «In lotta per il futuro, no alle zero ore». Perché la produzione dell’automobile, sostengono le tute blu torinesi, ha ancora un futuro e continua ad essere strategica per Torino e per tutto il paese. E perché la cassa integrazione a zero ore altro non sarebbe che un velo per mascherare i licenziamenti e determinerebbe nuove rotture nel tessuto sociale della città. Un «no» che va oltre Torino. Il piano Fiat, per la Cgil, è inaccettabile. Nel capoluogo piemontese come in tutte le altre città in cui il Lingotto ha i propri stabilimenti. E come nel resto d’Italia. Esattamente come unificanti sono gli altri temi al centro della protesta Cgil. A Milano, dove parlerà Paolo Nerozzi e sfilerà, come semplice «quadro» della Pirelli, Sergio Cofferati, a Napoli, dove prenderà la parola, Carlo Ghezzi, a Palermo dove ci saranno Titti Di Salvo e i lavoratori di Termini Imerese, a Roma dove la manifestazione sarà chiusa da Nicoletta Rocchi, a Bologna, a Firenze, a Genova, a Bari (dove l’attore Paolo Rossi aderirà allo sciopero mettendo in scena non uno, ma due spettacoli coi cachet devoluti ad Emergency), a Venezia. Difesa dell’articolo 18, un diritto «indisponibile» che va di pari passo con la difesa dell’occupazione, soprattutto in un momento difficile per l’economia come questo. Difesa del sistema pensionistico pubblico, contro ogni ipotesi di decontribuzione che affosserebbe il sistema. Difesa del diritto alla salute e all’istruzione, che tagli e riforme mettono in pericolo. Sviluppo del Mezzogiorno, che la legge Finanziaria, e tutta la politica economica del centrodestra hanno dimenticato. Sostegno al federalismo che rischia di venir cancellato con la compressione della finanza locale. E «no» alle scelte sul fisco, costruite per cercar di mascherare la gigantesca redistribuzione avviata a favore dei contribuenti più ricchi. Ragioni condivise, tra gli altri, anche da Magistratura democratica, che ieri ha inviato una lettera di adesione alla Cgil nazionale.

DALL'UNITA'

Le mille ragioni per esserci
di Cesare Damiano

Oggi, milioni di lavoratrici e di lavoratori sono in sciopero e manifestano in molte piazze d'Italia. La Cgil ha organizzato questa iniziativa di mobilitazione contro una legge finanziaria che non sostiene l'occupazione e lo sviluppo, che penalizza in particolare il mezzogiorno e per la difesa e l'estensione dei diritti, in coerenza con una lunga battaglia sociale iniziata lo scorso autunno. I Democratici di Sinistra condividono i contenuti e le ragioni di questo sciopero e saranno presenti nei cortei che si svolgono in ogni parte del Paese.
Pensiamo che sia necessario saldare la battaglia politica e sociale per porre un argine alla iniziativa controriformatrice del governo che pretende di perseguire la modernizzazione del Paese a scapito dei diritti e diminuendo le coperture dello Stato sociale. Una strada completamente opposta a quella nella quale noi crediamo. La situazione del nostro Paese sta peggiorando di giorno in giorno perché, in un contesto internazionale di rallentamento dell'economia, il governo Berlusconi non produce gli atti necessari e coerenti per sostenere lo sviluppo del Paese e contribuisce in questo modo ad aggravare la situazione.
La recente crisi della Fiat preannuncia un rischio di desertificazione industriale, con gravi conseguenze per l'economia, per la capacità di innovazione e di ricerca che sta alla base del successo di qualsiasi paese industrializzato e con il rischio di forti ricadute occupazionali che possono colpire l'azienda e i territori nei quali sono insediati i suoi stabilimenti.
A tre mesi dalla firma del Patto per l'Italia quell'accordo si rivela, come avevamo previsto, complessivamente vano, fragile e contraddittorio, in quanto fondato su ipotesi di sviluppo economico, formulate dal governo, ormai inesistenti. Del resto, questi limiti e queste contraddizioni sono stati già da tempo individuati anche dalle organizzazioni sindacali e da molte associazioni che hanno firmato quel protocollo, a partire dalla Confindustria. Si comprende, finalmente, come l'azione di questo governo non solo vada contro i diritti di chi lavora, ma anche contro gli interessi delle imprese, come dimostra la desolante vicenda del credito d'imposta - voluto dal centrosinistra per favorire l'occupazione stabile ed un contenimento del costo del lavoro - messo oggi in discussione dall'attuale governo.
Il fatto che questo sciopero generale sia promosso solo dalla Cgil, non deve impedire di riprendere un cammino unitario.
Abbiamo apprezzato le dichiarazioni del segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, a proposito della necessità di una ripresa del dialogo tra i sindacati confederali e le recenti aperture dei segretari generali di Cisl e Uil che vanno nella stessa direzione, di fronte ad una situazione di evidente emergenza sociale, come testimoniano gli scioperi unitari dichiarati dai metalmeccanici per il problema della Fiat.
I Democratici di Sinistra ritengono che l'obiettivo dell'unità sindacale sia indispensabile, soprattutto per far fronte alla grave situazione del Paese. Obiettivo per il quale il nostro partito continuerà a battersi e che può sostanziarsi, dopo lo sciopero generale di oggi, con una iniziativa che sia capace di individuare alcuni contenuti comuni dell'azione sindacale: contro l'attacco allo Stato sociale, per lo sviluppo del Mezzogiorno, per una politica industriale capace di affrontare e risolvere le grandi crisi industriali dei settori strategici a partire da quello dell'automobile, per il rinnovo dei contratti nazionali di categoria.
I Democratici di Sinistra sono impegnati ormai da mesi in una larga e approfondita discussione all'interno del partito e nell'Ulivo per la definizione di un programma del centrosinistra sui temi del lavoro. È un passo indispensabile per dare autorevolezza all'azione politica che, oltre ai no sui contenuti del "Libro bianco" del governo, sia capace di individuare le strade alternative. L'elaborazione, da parte dell'Ulivo, della Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e della proposta di legge sui diritti di sicurezza sociale, che hanno avuto un positivo apprezzamento da parte delle organizzazioni sindacali, e la definizione, in corso d'opera, di una proposta di riforma legislativa sul processo del lavoro, rappresentano un «trittico» di iniziative che può consentire l'apertura di una fase di larga discussione sui temi del lavoro e dello Stato sociale e di confronto unitario con Cgil, Cisl e Uil, dopo le centinaia di assemblee tenute in tutto il paese su questi argomenti.
Pensiamo in questo modo di dare un contributo, a partire dai contenuti, ad un confronto politico e sociale che possa portare alla realizzazione di una conferenza programmatica dell'Ulivo sui temi del lavoro entro la fine dell'anno.

DALL'UNITA'

Epurazioni, tre storie esemplari
di Isaia Sales

Sento il dovere di una testimonianza personale sulla vicenda dello spoil system. Questa testimonianza riguarda tre dirigenti che ho avuto il piacere di conoscere e apprezzare quando sono stato, durante il governo Prodi, sottosegretario al Tesoro con delega ai problemi del Mezzogiorno e ai Fondi strutturali. Mi scuso dunque con gli altri dirigenti (più di 150) che sono stati cacciati, ma dei tre in questione posso dire in base ad una conoscenza diretta.
Comincio da Carlo Sappino, fino a pochi giorni fa direttore generale al ministero delle Attività Produttive. Per molti lettori potrà essere un nome sconosciuto, ma per chi, come me, ha dovuto affrontare dal governo i problemi complessi che si posero dopo la fine dell'«intervento straordinario». Sappino è stato uno dei pilastri della costruzione delle nuove politiche pubbliche nel Sud d'Italia.
Si deve a lui la messa a punto e la gestione della legge 488, una delle migliori leggi di incentivazione alle imprese che lo Stato italiano abbia mai concepito e realizzato. Una legge che aveva anche l'ambizione di contribuire a modificare alcuni comportamenti degli imprenditori e della pubblica amministrazione. Infatti, diversamente dal passato, questa legge assegnava maggiore chance di accedere ai contributi pubblici all'imprenditore che chiedeva una quota inferiore del finanziamento ammissibile, riducendo la percentuale di incentivazione a carico dello Stato, stimolando le imprese a puntare di più su risorse proprie, e in più dando certezza dei tempi per la formazione delle graduatorie. Un passo avanti enorme rispetto ai tempi in cui il finanziamento pubblico copriva quasi interamente l'intervento e non c'era nessuna certezza sui tempi di erogazione.
Di questo dirigente, che ha rilegittimato l'impegno dello Stato in un campo così delicato come l'incentivazione alle imprese nelle aree svantaggiate, il governo ha deciso di fare a meno.
L'altro dirigente di cui vorrei parlare è Elisabetta Midena, cacciata via, assieme ad altri 13 dirigenti, dal Ministero dell'Istruzione. La dottoressa Midena ha lavorato con me alle politiche per le aree depresse, poi è stata capo dell'ufficio legislativo con Mattarella alla vice presidenza del Consiglio dei ministri. Allieva di uno dei padri del Diritto amministrativo italiano, è stata nominata dirigente del Ministero dell'Istruzione, addetta a seguire, tra l'altro, i Fondi comunitari. In un anno di lavoro i risultati sono stati eccezionali. Il programma del Ministero è il primo per utilizzo dei Fondi. È un fatto incontestabile, non una mia opinione. Nella relazione sullo stato di attuazione del Quadro Comunitario di sostegno (2000-2006) per le Regioni dell'obiettivo 1, redatta dal Ministero dell'Economia, a pag. 15 si legge: «il Programma Operativo Nazionale Scuola presenta le performance di spesa tra le migliori di tutto il Quadro Comunitario di Sostegno e fa registrare un notevole avanzamento anche sotto il profilo dell'esecuzione del bilancio consuntivo».
Una dirigente che fa fare alla sua Amministrazione una così bella figura dovrebbe essere premiata, invece è stata cacciata.
Infine la dottoressa Antonella Manno. Al Ministero del Tesoro si occupava della gestione delle «Intese istituzionali di programma» tra Stato e Regioni, uno degli strumenti più delicati tra quelli messi in atto dal governo Prodi. Ho avuto la possibilità di apprezzarne le qualità professionali e umane sia quando ero sottosegretario al Ministero, sia come consulente del Presidente della Giunta regionale della Campania. Tutti i problemi complessi relativi a questo strumento sono stati affrontati con grande disponibilità, competenza e celerità. Anche la dottoressa Manno è stata allontanata.
Il Ministro Frattini ha sempre sostenuto che lo spoil system rispondeva ad un bisogno di efficienza, e che dunque sarebbero stati sostituiti solo i dirigenti che non avevano svolto al meglio il compito loro affidato.
Nei tre casi che ho citato l'ipocrisia di tale affermazione è lampante. Il governo Berlusconi si libera di dirigenti non graditi, ma lo Stato italiano perde un po' di quel capitale di credibilità che si stava conquistando nei settori da loro gestiti. Ma chiedere senso dello Stato e dell'interesse pubblico a questo governo è fiato sprecat

da l'unita'.

16.10.2002
Uno sciopero per l’unità sindacale
di MASSIMO ROCCELLA

Lo sciopero generale del 18 ottobre può rappresentare un ostacolo sulla strada della ricomposizione dell'unità sindacale? Molti, nelle file dell'opposizione, lo credono ed altri, anche fra quelli che hanno dichiarato di sostenere l'iniziativa della Cgil, nutrono forse, in cuor loro, la stessa preoccupazione. Vale la pena, anche in questo caso, di provare a riflettere e cercare di formare i propri convincimenti in forza di una fredda disamina logica.
Le ragioni dello sciopero, innanzi tutto. Si potrebbe parlare di sciopero superato dai fatti, se gli avvenimenti successivi alla sua proclamazione fossero tali da attenuare almeno le motivazioni alla base della scelta della Cgil. È vero, purtroppo, l'esatto contrario. Con la firma del Patto per l'Italia non solo si è concordata una manomissione dell'art. 18 molto più grave di quanto si vorrebbe far credere (come è stato già puntualmente documentato su questo giornale), ma si è dato implicitamente il via libera ad un più ampio progetto di deregolazione del mercato del lavoro, che ha poi trovato la sua prima sanzione formale con l'approvazione da parte del senato del disegno di legge n. 848. Dopo quella firma, d'altra parte, le ragioni dello sciopero si sono moltiplicate, a fronte di una politica economica e sociale non più limitata a colpire i lavoratori sul terreno dei diritti, ma che ha allungato il tiro, investendo direttamente la questione della tutela del potere d'acquisto dei salari e, più in generale, del mantenimento dei livelli di reddito e di consumi degli strati sociali più poveri.
Basti ricordare, sotto il primo aspetto, la pretesa governativa (e confindustriale) che i contratti di lavoro, privati e pubblici, si rinnovino con riferimento ad un tasso programmato d'inflazione dell'1,4%, che si sa già dall'inizio lontanissimo dal dato dell'inflazione effettiva: il che, in buona sostanza, equivale alla provocatoria richiesta alle organizzazioni dei lavoratori di farsi agenti della riduzione dei salari reali, come nella nostra esperienza sindacale si è verificato soltanto in una contingenza storica (guarda caso nel ventennio corporativo: forse davvero dal Dna della destra italiana è impossibile cancellare le tracce di un passato che non passa).
Quanto al secondo aspetto, è già stato ampiamente dimostrato il carattere ingannevole della tanto sbandierata riduzione fiscale «più grande di sempre» a favore dei ceti meno abbienti. Anche a volerne trascurare la funzione di foglia di fico populista, meramente preparatoria rispetto all'obiettivo di riversare la gran parte delle diminuzioni d'imposta, a «riforma» completata, a vantaggio di ricchi e ricchissimi, già adesso quella riduzione non potrà valere ad incrementare il reddito disponibile dei beneficiari. Servirà soltanto ad attenuarne il peggioramento delle condizioni di vita, dovuto alla contrazione della spesa sociale che il governo, per il momento, non si propone di realizzare in via diretta, ritenendo preferibile affidarne il compito agli enti locali, che vi saranno costretti dai tagli ai trasferimenti previsti nei loro confronti dalla legge finanziaria: evidentemente, come spesso accade quando si ha a che fare con il governo ottimamente presieduto dal cav. Berlusconi, gli impegni di segno contrario assunti col Patto per l'Italia erano stati scritti con inchiostro simpatico.
Quali sarebbero dunque le ragioni per le quali la Cgil dovrebbe rinunciare allo sciopero del 18 ottobre? Si può forse fare una colpa ai dirigenti di Corso d'Italia di avere realisticamente previsto con largo anticipo quale sarebbe stata l'evoluzione dello scenario economico-sociale (fallimento del Patto per l'Italia compreso)? Ed è davvero ipotizzabile, di fronte ad uno sciopero che coinvolge l'idea stessa di coesione sociale messa a repentaglio dalle politiche della destra, che l'opposizione, anche soltanto in qualche sua rilevante componente, possa correre il rischio di comunicare un messaggio privo della nettezza che dovrebbe essere indispensabile rispetto a questioni essenziali per il futuro del paese (ed anche, vale la pena di ricordarlo, per le sorti politiche dell'opposizione medesima)?
Il travaglio dell'opposizione, ed in particolare di alcune sue componenti come la Margherita e lo Sdi, è comprensibile, in ragione degli storici legami di queste formazioni con Cisl e Uil, e comunque va rispettato. Non si può fare a meno di rilevare, peraltro, che al fondo di certe preoccupazioni per l'unità sindacale s'intravede una concezione alquanto astratta della logica dell'azione sindacale ed anche, a guardar bene, una scarsa considerazione per le scelte recenti di Cisl e Uil. L'adesione di queste organizzazioni al Patto per l'Italia, in effetti, può ben essere considerata un errore, ma solo dal punto di vista della Cgil e dell'opposizione. L'invito da taluni rivolto alla Cgil di soprassedere allo sciopero del 18 ottobre, come se ciò potesse bastare per ripristinare condizioni di unità sindacale ed aprire la strada ad iniziative di lotta congiunte in tempi politicamente utili (i tempi, si sa, in politica ed anche nell'azione sindacale sono determinanti), è davvero privo di qualsiasi senso della realtà.
Cisl e Uil, infatti, se davvero lo volessero, avrebbero già tutti gli elementi a disposizione per cambiare rotta. Si comincia ad ammettere, infatti, da esponenti delle due confederazioni, che sul Mezzogiorno il Governo sta tradendo gli impegni, ma per il resto, si aggiunge, il Patto per l'Italia sarebbe rispettato: ed invece, a parte il fatto che le scelte governative sul Sud dovrebbero bastare da sole a far saltare il banco, è ormai evidente che l'intero Patto per l'Italia è ridotto a carta straccia, in particolare per quanto riguarda il vincolo di mantenere invariata la spesa sociale.
La verità è che l'appoggio, obbiettivamente assicurato al governo Berlusconi da Cisl ed Uil, risponde a scelte di fondo, a convincimenti radicati che non possono essere rimessi in discussione, come se si fosse trattato di una semplice svista, con gli appelli all'unità sindacale, ma soltanto dall'evolversi della dinamica sociale.
È un'esperienza, del resto, conosciuta a suo tempo, sulla propria pelle, dalla Cgil: quando negli anni '50, prima di cambiare linea sulla questione della contrattazione aziendale, dovette toccare con mano, esponendosi ad una dura sconfitta sindacale, la perdita di consenso fra i lavoratori rispetto alla propria politica di accentramento contrattuale.
Anche oggi non v'è ragione di pensare che un mutamento di orientamenti possa prodursi senza incidere su quella variabile fondamentale, costituita dal consenso dei destinatari dell'azione sindacale. Da questo punto di vista, e nonostante ciò che si potrebbe superficialmente (o, in qualche caso, strumentalmente) essere portati a sostenere, le iniziative assunte in questi mesi dalla CGIL, ivi compreso lo sciopero generale di venerdì prossimo, possono contribuire anche all'obiettivo di ripristinare migliori rapporti con le altre due confederazioni più di mille giaculatorie sull'unità sindacale.

DA LA STAMPA

Si rischia di finire come nel Seicento quando il paese non seguì i mutamenti e divenne all'improvviso una provincia
Il «sistema Italia» è affaticato, deve rimettersi in discussione

18 ottobre 2002

di Mario Deaglio

La crisi della Fiat rappresenta il più recente episodio di una malattia italiana di lunga durata: l'arrancamento di questa grande società automobilistica trova il suo contrappunto in un generale arrancamento dell'economia italiana che, per circa un decennio, ha perso terreno nei confronti delle altre economie avanzate. Nel corso degli anni novanta, la sua velocità media di crescita era pari a poco più della metà di quella dei suoi partners dell'Unione Europea e solo nel 2000 e nel 2001 le cose sono un poco migliorate.

Perché questa "fatica" del sistema? L'idea che potesse trattarsi di qualcosa di più di una congiuntura deludente, che ci fosse qualche malfunzionamento piuttosto grave nel sistema Italia, cominciò a farsi strada sul finire di quel decennio; questa presa di coscienza si può datare all'autunno 2000. Parlando all'Aquila il 23 settembre, il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi dichiarò, senza mezzi termini, che l'Italia stava perdendo terreno in maniera preoccupante rispetto agli altri paesi europei; pochi giorni più tardi, il 6 ottobre, illustrando in Senato le grandi linee della nuova legge finanziaria, il ministro del Tesoro, Giuliano Amato, pronunciò la parola fatidica, "declino". La paura del declino - e la parallela paura di cambiamenti scomodi indispensabili per opporvisi - viene sovente accantonata in maniera scaramantica e le si preferisce certo un ottimismo volontaristico; ci segue, però, come un'ombra e riaffiora ogni volta che ci sono novità sgradevoli.

Per misurare l'importanza di questo declino occorre partire dalla seconda metà degli anni ottanta, epoca d'oro dell'imprenditoria italiana, quando le grandi riviste internazionali esaltavano il "modello italiano" di conduzione delle imprese. La Ferruzzi acquistava il gruppo francese Béghin Say, De Benedetti comprava imprese in Germania e in Spagna e aveva la grande finanziaria belga Sgb nel mirino, Pirelli aveva posto le mani sulla tedesca Continental. Poi De Benedetti fu sconfitto nella battaglia per il colosso belga, Pirelli fu costretta a rivendere la partecipazione tedesca, il gruppo Ferruzzi subì un'eclisse. Si aggiunga l'insuccesso delle Generali nel tentativo di assumere il controllo della francese Axa mentre alla Banca Commerciale gli americani impedirono di acquistare la Bank of New York. L'Italia fu spinta in un angolo e da allora ci è rimasta.

L'indebolimento italiano ebbe una manifestazione clamorosa precisamente con la crisi del gruppo Ferruzzi che si ripercosse fortemente sul mondo bancario e investì di riflesso la Montedison. Nel 1994, il colosso chimico fu costretto a vendere Erbamont, la maggiore impresa farmaceutica italiana, decretando, di fatto l'uscita del paese dal ramo avanzato di questo settore. L'anno seguente, l'ENI vendette alla tedesca Rwe il 70 per cento di Enichem e ancora la Montedison costituì una società paritaria con la Shell in cui confluì una parte importante della chimica delle materie plastiche, settore in cui l'Italia aveva vantato un primato mondiale.

La seconda metà degli anni settanta vede l'acquisto da parte di società straniere di imprese importanti per il contenuto tecnologico (il Nuovo Pignone, che aveva sviluppato importanti tecnologie petrolifere, fu ceduta dall'ENI alla General Electric) o per caratteristiche tipiche, come gran parte dell'industria degli aperitivi, finita sotto controllo di grandi multinazionali delle bevande e solo in parte rivenduta poi a imprese italiane.

L'Italia uscì dalla grande industria del vetro con la cessione della Siv all'inglese Pilkington e, pur avendo le maggiori risorse turistiche del mondo si trovò in difficoltà a consolidare la propria presenza in quel settore. Così gli alberghi della CIGA vennero ceduti alla catena americana Sheraton.

L'elenco potrebbe continuare a lungo; certo, esistono anche episodi di espansione italiana all'estero, come quello della Luxottica, leader mondiale degli occhiali, e di vitalità imprenditoriale, come quelli dei "distretti industriali" ma, in ogni caso, l'entità dei singoli investimenti è minore e i settori di espansione italiana non sono, si regola, particolarmente avanzati dal punto di vista tecnologico. E non bastano, purtroppo, i successi della Ferrari a ribaltare questa tendenza.

Per questo, anche se il termine può suonare poco gradevole, è necessario affrontare la realtà di un declino industriale e imprenditoriale italiano di cui le vicende della Fiat rappresentano il più recente e clamoroso episodio, del quale occorre analizzare le cause e cercare rimedi. Analisi e ricerca dovrebbero svolgersi in maniera indipendente dalla politica o essere, come usa dire oggi bipartisan.

Procedendo per esclusione, non sembra che i guai italiani siano di tipo tecnologico. Nel loro complesso, gli stabilimenti appaiono tecnicamente adeguati se non all'avanguardia. Occorre invece indagare all'interno delle imprese sui metodi di finanziamento e sui caratteri dell'imprenditoria e, all'esterno, sui vincoli che il "sistema Italia" pone all'attività produttiva.
Si osserva, in primo luogo, uno "scollamento" tra proprietà e finanza: nonostante il grande rinnovamento della Borsa italiana, le "matricole" sono piuttosto poche e occorrerebbe trovare qualche adattamento tra il radicato carattere famigliare del capitalismo italiano e le logiche impersonali della finanza mondiale.

Occorrerebbe poi infrangere qualche tabù e domandarsi, magari per concludere negativamente, se non vi sia una certa stanchezza imprenditoriale, un minor gusto di nuove iniziative, legato forse all'invecchiamento della popolazione; e infine è necessario affrontare il discorso delle "ingessature" che possono scoraggiare l'attività delle imprese. Non tanto, o non solo dell'articolo 18, ma dell'insieme di vincoli che, tanto per cominciare, dissuadono le imprese straniere dall'effettuare forti investimenti in Italia se non con un partner italiano.
Dobbiamo, insomma, rimetterci tutti in discussione, altrimenti potrebbe finire come nel Cinquecento e nel Seicento: nella prima grande apertura dell'Europa sull'orizzonte mondiale, si verificò un improvviso cambiamento di fronti che tolse al Mediterraneo la sua precedente centralità in favore dei paesi che si affacciavano sull'Atlantico e l'Italia si ritrovò paese provinciale e venne rapidamente ridotta a un insieme di province.

I mutamenti tecnologici di oggi tengono luogo, in qualche modo, dei rivolgimenti di tipo geografico, "spiazzando" procedure e tecniche tradizionali di lavoro. La posta della partita, oggi come allora, è di evitare l'emarginazione e l'impoverimento relativo. Ed è troppo importante perché facciamo finta che non stia succedendo nulla.

MARIO DEAGLIO


da la stampa

PEZZOTTA PROPOSTE IRRICEVIBILI, MA ORA C´E´ ATTENZIONE AL PROBLEMA FIAT. UNICREDIT CONFERMA IL GRADIMENTO

I sindacati: entro fine mese il «tavolo» sull´auto

All´azienda richiesto un nuovo piano. L´11 novembre scioperano i metalmeccanici

L´avvio del confronto. Ieri prima discussione fra il governo e i sindacati sulle difficoltà dell´industria automobilistica. Nei prossimi giorni partirà un «tavolo triangolare», ovvero la discussione sulla situazione della Fiat con la partecipazione del governo, dell´azienda e delle organizzazioni dei lavoratori. Il tavolo vede la luce su sollecitazione dei sindacati. Come dichiarato dal segretario della Cisl, Savino Pezzotta, potrebbe essere attivato prima della fine di ottobre, ma in ogni caso dopo che il governo avrà acquisito maggiori informazioni dalla Fiat. Il coordinamento dovrebbe essere affidato al sottosegretario alla presidenza Gianni Letta. Contemporaneamente all´incontro di ieri tra governo e sindacati, svoltosi a Palazzo Chigi, c´è l´annuncio dei metalmeccanici di indire una giornata di sciopero entro l´11 novembre a sostegno della vertenza Fiat. Sciopero definito da Pezzotta la risposta «normale e naturale» agli avvenimenti di questi giorni. Nell´incontro di ieri a Palazzo Chigi non si entra nel merito delle possibili misure da adottare per fronteggiare la situazione. Sia il governo che i sindacati hanno rinviato una presa di posizione a quando la Fiat sarà pronta a presentare un nuovo piano: su questo punto «c´è assoluta sintonia» dice il ministro per gli Affari regionali Enrico La Loggia. Il segretario confederale della Uil Franco Lotito si dichiara sconcertato perché il governo «ha detto che ancora non ha in mano il piano industriale della Fiat». Pezzotta ha definito «interessante e positivo» l´incontro di ieri perché ha corrisposto alla richiesta avanzata al governo «di assumere la Fiat come fatto importante». Per il sindacato, aggiunge Pezzotta, è essenziale «una riformulazione del piano, per salvaguardare il settore auto in Italia e salvaguardare l´occupazione, chiedendo anche un maggiore impegno gli azionisti». Il segretario confederale della Cgil Carla Catone sostiene che fino a quando la Fiat non presenterà nel dettaglio il piano di ristrutturazione non potrà partire alcun confronto, nè con il governo nè con l´azienda. La Cgil e la Fiom chiedono al governo la sospensione da parte dell´azienda delle procedure per la cassa integrazione annunciata a partire dal 2 dicembre. La revisione del piano è richiesta anche dalla Ugl. Gianni Letta puntualizza che la priorità assoluta è quella dell'occupazione. E per questo chiede un piano che contenga elementi di sviluppo per il settore dell'auto e nuove opportunità occupazionali per compensare gran parte degli esuberi, soprattutto nell'area di Termini Imerese. Il ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano, si aspetta un piano realistico: dalla sua efficacia dipendono le prospettive dell´azienda. Il piano è giudicato preliminare a qualsiasi intervento finanziario da parte del governo. Per Marzano non è possibile immaginare «provvedimenti tampone» senza disporre di «un piano industriale strutturato». E il ministro dell´economia Giulio Tremonti rende noto che per «valutare fino in fondo» l´impatto finanziario e occupazionale del piano Fiat, il governo intende nominare un advisor, ovvero un consulente specializzato. Fra i partecipanti all´incontro di Palazzo Chigi, il viceministro dell´economia Gianfranco Miccichè sostiene che «di chiusura dello stabilimento di Termini Imerese non bisogna nemmeno parlare». E «questo è il punto fermo del governo. Il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Roberto Maroni afferma che solo duecento dipendenti sui 1.951 di Termini Imerese hanno i requisiti per accedere alla mobilità lunga verso il pensionamento. Di Fiat si è parlato ieri anche nel cda Unicredit, in programma da tempo e definito di natura ordinaria. Il presidente e l'amministratore delegato, Carlo Salvatori e Alessandro Profumo, avrebbero illustrato al consiglio lo stato dell'arte delle trattative per il piano di risanamento del Lingotto, dopo il giro di incontri avuti con le altre principali banche coinvolte nell'operazione, e sarebbe emerso un giudizio positivo sul progetto, in linea con quanto reso noto ieri nel comunicato congiunto delle banche. Ribadita, allo stesso tempo, la disponibilità a valutare altri piani, naturalmente migliorativi.

Roberto Ippoli
 
 
 
 

 

 

 

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