E contro la «guerra preventiva», nacque la «mobilitazione preventiva»
di Piero Sansonetti

Sabato in Italia si sono svolte cento manifestazioni contro la guerra. Il social forum, e le altre associazioni che le hanno organizzate, hanno detto che si è trattato di «una mobilitazione preventiva», categoria politica nuova, nata per rispondere alla «guerra preventiva» teorizzata da Bush. «Cento manifestazioni» non è un modo di dire, un titolo: sono state proprio cento, in cento città diverse.
Nei centri più grandi, come a Milano, a Torino, a Roma, a Bologna, a Firenze, a Napoli, a Genova, sono scese in piazza diverse decine di migliaia di persone. Nelle altre città le manifestazioni sono state più piccole. In tutto si può dire che si sono mobilitate varie centinaia di migliaia di persone, più di mezzo milione, quindi una forza molto grande. Specie se si tiene conto che stavolta gli organizzatori non hanno potuto usare nessun mezzo di comunicazione di massa per annunciare l’iniziativa: giornali e Tv non hanno dedicato all'avvenimento né una riga né un minuto, e quindi le manifestazioni sono state convocate via internet, o con il sistema del passaparola, o con la mobilitazione diretta delle singole organizzazioni. Il successo della "giornata pacifista" di ieri dimostra che ormai esiste una rete piuttosto diffusa e robusta - nel mondo pacifista, e nel mondo no-global - capace di saltare l’informazione ufficiale.
Alle manifestazioni avevano aderito la Cgil e alcuni partiti, e cioè i verdi, Rifondazione comunista, il Pdci e la sinistra dei Ds. In alcune città è stata molto forte la partecipazione dei cattolici, in altre i cortei erano dominati dalla parte più radicale del movimento e dello schieramento pacifista. Al centro delle manifestazioni c’era non solo il no alla guerra di Bush contro l’Irak e all’invio degli alpini in Afghanistan, ma anche l’opposizione ad Israele e la solidarietà coi palestinesi.
A Roma la manifestazione si è svolta in due fasi. Nel primo pomeriggio un gruppo di giovani, guidato dalle "Donne in nero", si è riunito davanti all’ambasciata americana, in via Veneto, e ha bloccato il traffico. La polizia ha circondato l'ambasciata, per proteggerla, ma non ha impedito la manifestazione, che è durata un paio d’ore. A un certo punto tre ragazze sono anche riuscite ad ammanettarsi ai cancelli che recingono l’ambasciata, poi però alcuni funzionari le hanno convinte a desistere. Più tardi è partito il corteo da piazza Esedra e ha sfilato fino all’altare della patria, dove è giunto all’imbrunire e c'e stata una fiaccolata. Il corteo di Roma era guidato dalle donne, subito dietro c’erano i Cobas e poi il camion dei "disobbedienti", che erano i più agguerriti. Slogan duri, specie contro Bush e Israele, ma il clima era di assoluta serenità. La polizia ha controllato il corteo in modo molto discreto e non c’è stata nessuna tensione. Il corteo, quando è partito, non era molto grande, poi lungo il percorso si è aggiunta molta gente. Il corteo ha attraversato il traforo, che è un tunnel lungo tre o quattrocento metri sotto il Quirinale. Dentro il traforo una banda musicale ha iniziato a suonare "bella ciao" e l’effetto sonoro è stato clamoroso e ha investito tutti i manifestanti, che si sono messi a ballare e a cantare.
Poco prima, davanti alla Chiesa di Santa Susanna, un gruppo di disobbedienti dall’aria molto alternativa - vestiti con varie kefiah, sciarpe, maglie con scritte aggressive - avevano salito i gradini della Chiesa e volevano appiccicare dei distintivi sull’antico portone di legno. Ma davanti al portone c’erano due preti, uno in tonaca nera, l’altro coi paramenti verdi ed oro coi quali si celebra la messa. I preti hanno spiegato ai giovani che loro non volevano che quei distintivi fossero appiccicati, i giovani hanno fatto la voce grossa (ed erano grossi) spiegando ai preti che se si opponevano ai distintivi si rendevano complici dei guerrafondai. I preti, sorridendo, hanno insistito: niente adesivi. I giovani, bestemmiando, se ne sono andati. E mentre il corteo sfilava minaccioso su via del Tritone, gridando slogan assai roboanti contro gli Usa e Israele (tipo: "violentano le donne- uccidono i bambini- sono- solo- assassini") molte signore in pelliccia sorbivano l’aperitivo ai tavolini dei bar. Evidentemente, non soltanto questo movimento ha ben poco di violento, ma la gente comune - nonostante le campagne di stampa contro i no-global terroristi - lo avverte come movimento pacifico e tutt’altro che pericoloso. Compresi i sacerdoti, comprese le persone ricche.
Al corteo hanno partecipato vari parlamentari dei Ds, di Rifondazione e dei verdi (tra i quali Tana de Zulueta, Vincenzo Vita, Pasqualina Napoletano, Ramon Mantovani, Paolo Cento) e i leader dei no-global Bernocchi e Agnoletto (che in genere litigano sempre tra loro, ma ieri marciavano a braccetto, ed erano particolarmente soddisfatti e poco litigiosi). L’uno e l’altro non erano affatto dispiaciuti per l’esito del dibattito in Parlamento sulla guerra. Sostenevano che se in novembre i voti contro la guerra furono poche decine, e giovedì scorso sono stati alcune centinaia, vuol dire che in questi mesi il movimento pacifista ha svolto un buon lavoro e ha avuto discreti risultati: non solo nell’opinione pubblica ma anche nel mondo politico.
Le manifestazioni di ieri sono state organizzate dai pacifisti come prima mobilitazione, estesa a tutt’Italia, in attesa della grande manifestazione europea contro la guerra, che si terrà a Firenze ai primi di novembre in occasione del social forum. In quella data si prevede l’arrivo di decine di migliaia di persone da tutti i paesi europei, compresi quelli dell’est. A Firenze la mobilitazione si baserà sull’incontro tra le organizzazioni no-global della sinistra e le associazioni cattoliche. Nel mondo cattolico la mobilitazione pacifista è molto forte. Ieri mattina il cardinal Tettamanzi ha presieduto una preghiera contro la guerra, a Varese, e monsignor Tommaso Valentinetti (che è il nuovo presidente di Pax Christi) ha rilasciato una dichiarazione chiarissima contro l’ipotesi di un attacco americano all’Irak. Ha detto che la guerra non può essere «né giusta, né umanitaria, né preventiva: la guerra non può essere accettata. Non possiamo farci chiudere la bocca da chi ha scelto e vuole convincerci che la guerra, anche se a malincuore, è necessaria e inevitabile: il nostro riferimento, come cristiani, resta il Vangelo come parola di vita e di pace; resta la persona di Gesù Cristo: uomo di verità, di giustizia, di libertà, di amore e di perdono: Gesù non ha mai usato la violenza neanche per legittima difesa».

05.10.2002
Cento città in piazza contro la guerra «con o senza l'Onu»
di Antonio Iovane

Forse il momento più suggestivo è nel sottopassaggio. Sembra un film di Ken Loach. Quando il corteo passa sotto il tunnel che collega via del Tritone a via Nazionale, qualcuno comincia a fischiare, qualcun altro grida, come a sperimentare. Poi c’è uno che ha un idea e la mette in pratica. «Una mattina/ mi son svegliato» comincia a intonare. L’idea è buona, i manifestanti lo seguono. In breve migliaia di persone cantano Bella ciao e la canzone non si disperde ma rimbomba nel tunnel. La cantano tutti, le Donne in nero vestite a lutto. «Tra uccidere e morire scegliamo di vivere» è il loro slogan. La canta il verde dei movimenti filo-palestinesi, «Contro il terrorismo dello Stato d’ Israele». La canta il rosso dei Disobbedienti, («Contro la guerra dei potenti ora e sempre disobbedienti») mentre alcuni lasciano nel sottopassaggio alcuni graffiti per poi "imboscare" rapidamente i barattoli di vernice. Fanno le prove generali per la grande manifestazione europea che si terrà a Firenze il 9 novembre in occasione del Forum sociale continentale.

Sono più di diecimila, insomma, i manifestanti partiti da Piazza della Repubblica per raggiungere Piazza Venezia. A Roma come in altre città. Sono lì contro la guerra «con o senza l’Onu», spiega Maria Giovanna, insegnante di inglese, «perché sulla pace non si discute». Ma la manifestazione servirà a fermarla? «Questa manifestazione non serve a fermare la guerra ma a far capire che molte persone non sono d’accordo». E quante sono, secondo lei? «A mio avviso il 75% degli italiani è contrario. Poi c’è da distinguere tra quelli che sono contrari a intervenire senza l’appoggio dell’Onu». Ma per le vie di Roma oggi è il giorno di quelli «con o senza l’Onu».

Sono indirizzati a Bush, Blair, Berlusconi e ai media gli strali dei manifestanti. «Yankee go home», come durante il Vietnam. E poi «Palestina libera», «Non in mio nome» riferito alla guerra. Vittorio Agnoletto, leader dei no-global, si confonde coi manifestanti. «Credo che oggi sia una giornata importante in tutte le città. Basti pensare a Firenze, dove erano in 20mila. Questo movimento ha molte nuove responsabilità, soprattutto dopo il voto sugli alpini dell’altro giorno». Ma la manifestazione di oggi non rischia di essere una goccia in un mare? «No, per me il fatto che un terzo del Parlamento abbia votato contro la guerra è un segnale molto importante. Stiamo spostando politicamente il consenso e la nostra è una campagna, non una semplice mobilitazione. Non è affatto un caso che mediaticamente cerchino di azzerarci» conclude Agnoletto. Dopo di lui si avvicendano gruppi con tamburelli, canzoni, carrelli della spesa con prodotti che non «danneggiano la Palestina». In fondo al corteo, invece, una parte del Centrosinistra. Ci sono i Verdi, i Comunisti italiani e alcuni Ds, tra cui Aprile, che fanno riferimento al correntone) e il gruppo Altri mondi. Anche qui, insomma, l’Ulivo arriva a pezzi.

In attesa del discorso alla nazione previsto per lunedì
il presidente invita il Congresso a votare una risoluzione decisiva
Bush:
"La guerra contro l'Iraq
potrebbe essere inevitabile"

L'unica condizione per evitarla è che Bagdad disarmi completamente
"Saddam è un uomo crudele e pericoloso". Ma all'Onu si tratta

WASHINGTON - Il presidente americano non desiste: la guerra contro l'Iraq potrebbe essere inevitabile, a meno che Bagdad non accetti un disarmo totale. E ha invitato di nuovo il Congresso a votare una risoluzione definitiva affermando che l'Iraq si dovrà attenere alla volontà della comunità internazionale e che il tempo per farlo è limitato. "Il nostro Paese attribuisce un grande valore alla vita e non cercherà mai la guerra a meno che essa non sia indispensabile per la sicurezza e la giustizia", ha dichiarato George W. Bush nel suo discorso radiofonico settimanale, registrato nella località marina di Kennebunkport, nel Maine, dove sta trascorrendo il week-end con la famiglia. Nel messaggio Bush ha anche definito Saddam Hussein "un uomo crudele e pericoloso" che per undici anni ha mentito al mondo sul suo vero arsenale di armi di sterminio. E ha concluso rivolgendosi al Congresso: "Sostenere questa risoluzione mostrerà la determinazione degli Stati Uniti e aiuterà a spingere le Nazioni Unite ad agire".

Le sue parole arrivano a due giorni dall'atteso discorso alla nazione sulla crisi irachena in programma per lunedì, quando il presidente dirà perché sia così determinato a rovesciare Saddam, nonostante l'accordo sulla ripresa delle verifiche dell'Onu agli armamenti iracheni raggiunto a Vienna nei giorni scorsi dal capo degli ispettori Onu Hans Blix e dagli inviati di Bagdad. Il presidente parlerà alle 20 di lunedì ora locale (le 2 di notte di martedì in Italia) da Cincinnati, nell'Ohio.

Di certo le sue parole saranno rivolte soprattutto al Senato che, dopo il "sì" della Camera, sta ancora discutendo se concedere a Bush il via libera incondizionato a una futura azione militare e al Consiglio di sicurezza dell'Onu diviso su una nuova risoluzione. "Gli Usa non desiderano un conflitto militare perché conosciamo la natura terribile della guerra", ha spiegato il capo della Casa Bianca, ma "il pericolo che il regime iracheno rappresenta per l'America è grave e crescente". Bush è certo che Bagdad sia entrata in possesso di armi chimiche e biologiche, in aperta sfida all'Onu, e stia riallestendo i suoi impianti per fabbricarne altre. Saddam, infatti, avrebbe lunghi e consolidati rapporti con gruppi terroristici in grado di fornirgli "armi di sterminio".

Ma, mentre il presidente fa la voce grossa contro Bagdad e cerca di mettere la massima pressione sull'opposizione democratica, all'Onu si continua a trattare per cercare una soluzione che vada bene anche ai paesi europei e ad altre nazioni moderate e amiche degli Usa, ma contrarie alla guerra preventiva. Così prende forza l'ipotesi di mediazione "alla francese" che prevede
due risoluzioni distinte una sugli ispettori che partirebbero per i controlli in Iraq e l'altra che darebbe via libera all'intervento militare in caso di inadempienze di Saddam.

Intanto il
Washington Post dedica un lungo articolo ai tempi previsti per un eventuale attacco contro l'Iraq, che non potrà avvenire prima del mese di gennaio. Non solo per ragioni politiche o diplomatiche, quanto, soprattutto, per i tempi necessari ad assicurare la logistica delle operazioni nel teatro di guerra del Golfo, secondo diverse fonti del Pentagono citate dal quotidiano.

(5 ottobre 2002)

Il vicepresidente leghista del Senato sulle manifestazioni di oggi
"In piazza solo barboni e studenti che fanno cagnara"
Calderoli:
"Dietro i pacifisti
si nascondono i terrorristi"

"A questa marmaglia serve una maggiore consuetudine con la pulizia"

MILANO - I pacifisti? Dietro di loro si nascondono i terroristi. I No global? Marmaglia. E gli studenti in piazza contro la guerra? Quelli hanno solo voglia di far cagnara. Il vicepresidente del Senato, il leghista Giuseppe Calderoli, spara a zero contro le manifestazioni che oggi in tutta Italia diranno no alla guerra contro l'Iraq. E, soprattutto, spara a zero contro chi vi partecipa.

"Temo che dietro il pacifismo si nasconda la peggior violenza, quella del terrorismo", dice Calderoli, che aggiunge di aver visto in televisione le immagini della manifestazione che si è svolta a MIlano e di essersi trovato di fronte a una riedizione del '68: "Con la differenza che oggi mancano del tutto i lavoratori".

Secondo il vicepresidente del Senato, insomma, "la gente che lavora ha capito che per avere una vera politica sociale e quindi 'di sinistra' c'è stato bisogno di un governo di centrodestra e soprattutto della presenza della Lega Nord".

E allora chi è sceso in piazza? Per Calderoli si è trattato di una "marmaglia" che avrebbe bisogno di un buon parrucchiere e di maggior consuetudine con la pulizia. E se ciò non bastasse, Calderoli precisa ulteriormente il suo pensiero quando dice che "accanto ai barboni" sono scesi in piazza solo studenti che "in ogni epoca non disdegnano mai le occasioni per fare cagnara".

Poi l'affermazione più forte, sulle possibili "coperture" al terrorismo. "Non riesco a capire - dice Calderoli - se chi ha manifestato oggi lo ha fatto per la pace e contro la guerra oppure a favore del terrorismo e quindi per la guerra più vigliacca e infame che ci sia. Temo infatti che dietro il finto pacifismo di oggi si nasconde la peggiore violenza, quella del terrorismo".

(5 ottobre 2002)

A maggio una lite tra il procuratore Grasso
e Scarpinato è stato il primo segnale della crisi
I cento giorni del pentito Giuffrè
dietro il terremoto in Procura
Dopo Caselli è cambiato il metodo di lavoro
e non a tutti piace il nuovo sistema

di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO

PALERMO - Qualcuno fa sapere in giro che i due erano quasi venuti alle mani. Quel qualcuno forse esagera un po', comunque della lite furibonda tra Piero Grasso e Roberto Scarpinato ne parlano tutti e tutti sussurrano che a dividere i due è stato Guido Lo Forte. Volarono parole grosse quel giorno nella stanza del procuratore Grasso durante la solita riunione di Dda, il summit settimanale dell'Antimafia palermitana. Era un pomeriggio di maggio, vigilia del decimo anniversario della strage di Capaci. In quella riunione Grasso si lamenta con vigore di un'intervista che Roberto Scarpinato ha appena rilasciato a una tivù, Scarpinato risponde con durezza al suo capo, il battibecco si accende, testimoni una mezza dozzina di magistrati che ascoltano allibiti. Poi, quando la discussione sta davvero degenerando, ci pensa Lo Forte a calmare tutti. Il suo collega Scarpinato ai giornalisti aveva raccontato che "la Procura era un deserto" in quei lunghi pomeriggi di primavera, con molte stanze vuote come non lo erano state più negli ultimi tempi. Il procuratore capo si infuriò.

Quest'alterco violento segna l'inizio della fine dell'ultimo pool antimafia di Palermo. Un mese prima viene catturato Antonino Giuffrè in circostanze assai misteriose, un mese dopo il boss si pente cominciando a parlare solo con due o tre procuratori mentre tutti gli altri ne sono all'oscuro. Le tensioni latenti dentro gli uffici al secondo piano del Palazzo di giustizia si materializzano settimana dopo settimana, fino a poche ore prima dell'annuncio ufficiale della collaborazione di Giuffrè. Tutte le incomprensioni represse nei due anni del nuovo corso voluto dal procuratore Grasso esplodono all'improvviso, qualcuno come Guido Lo Forte è a conoscenza del pentimento del boss di Caccamo, altri come il procuratore aggiunto Scarpinato e una mezza dozzina di "senatori" della Procura quando vengono a sapere del fatto rimangono a bocca aperta. E' avvenuta una rivoluzione lì dentro, dove ai tempi di Caselli tutto era gestito da tutti, massima circolazione delle notizie sulle investigazioni di mafia, piccoli gruppi di sostituti che si scambiavano carte e dichiarazioni di pentiti, riunioni durante le quali non c'era magistrato del pool che non fosse informato sulle inchieste degli altri colleghi. E' avvenuto qualcosa in Procura che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Anche se qualche avvisaglia c'era già stata. Un pentito minore (Gaetano Grado) ascoltato in solitudine dal pm Michele Prestipino, atti acquisiti sempre da Prestipino (su mafiosi che parlavano di appoggi elettorali a Forza Italia) transitate a fatica per i troppi omissis nel processo che si sta celebrando contro Marcello Dell'Utri, un'indagine di criminalità minore (un duplice omicidio al Borgo Vecchio a sfondo sessuale) iniziata da Prestipino come magistrato di turno e che lui non vuole cedere ad altri. E' sempre Michele Prestipino il sostituto che ascolta da cento giorni Antonino Giuffrè. E' un quarantenne molto capace e molto serio, ha lavorato tanto anche al fianco di Caselli, con Grasso è diventato "l'asso pigliatutto" della Procura. Da lui oggi passano tutte le più delicate indagini su Cosa nostra siciliana. Ha praticamente scalzato tutti i procuratori che per dieci anni avevano indagato sui misteri mafiosi, di fatto tutti emarginati mese dopo mese dalle grandi inchieste. Giuste o sbagliate - vedremo dove porterà la "cantata" di Antonino Giuffrè - queste sono state le scelte del procuratore Pietro Grasso che hanno provocato il terremoto al Palazzo di giustizia di Palermo. E' una "guerra" tutta inedita quella che si sta combattendo. Nulla a che fare con le vicende degli anni 80 e quelle degli anni 90, quando alcuni vecchi magistrati odiavano Giovanni Falcone o quando altre toghe eccellenti cercarono di far fuori il pool di Antonino Caponnetto. Questa volta non ci sono i "buoni" schierati da una parte e i "cattivi" dall'altra, c'è solo una grande confusione nell'antimafia giudiziaria e una grandissima attesa per ciò che si svelerà quando Antonino Giuffrè avrà finito di raccontare la sua verità.

Il "caso Giuffrè" non è però sospeso nell'aria, è legato alle grandi manovre in corso dentro Cosa nostra siciliana, i Corleonesi di Riina e Bagarella che vorrebbero ancora usare le bombe e gente come Pietro Aglieri che propone dissociazioni "dolci". Al centro di tutto c'è il mistero di un uomo che dopo 40 anni tutti cercano e nessuno ancora trova, il mistero del latitante Bernardo Provenzano. Si bisbiglia di catture mancate per un soffio nelle ultime settimane, si parla di scontri anche negli apparati polizieschi per chi deve avere la "titolarità" della caccia al boss corleonese, gelosie e divisioni su deleghe ricevute e rifiutate dalla Procura. Materia incandescente. Giochi pericolosi. Paure di fughe di notizie. Forse anche per questo il procuratore capo Grasso ha deciso di cambiare sistema e tenere tutto segreto. Anche il pentimento di un boss.

(28 settembre 2002)

Formiche e cicale
LUIGI PINTOR
Chi era Luigi Einaudi? Un economista stimato che fu anche un presidente della Repubblica discutibile, il quale mi pare sostenesse che bisogna risparmiare e che il risparmio, il piccolo risparmio in specie, è la molla dell'economia. Magari perché i governi e le banche lo rastrellavano e lo reinvestivano felicemente per il bene comune. Chi è Silvio Berlusconi? Un economista stimato soprattutto per quel che riguarda gli affari suoi, che è anche un presidente del consiglio discutibile e speriamo non sia mai un presidente della Repubblica discutibile, il quale sostiene che non bisogna risparmiare bensì spendere e consumare, essendo il consumo la molla dell'economia in quanto la domanda sostiene l'offerta e viceversa ed entrambe congiurano al bene comune.

Vorrei che gli esperti di macro e micro economia mi spiegassero questo divario di opinioni, magari Galapagos, o un altro premio Nobel, il prof. Modigliani o il governatore Fazio, o il signor Schumpeter che però forse non è più in vita. Certo il mondo è in rapidissima evoluzione, gli spiriti animali del capitalismo non hanno requie, come si vede anche dall'andamento delle borse, perfino Carlo Marx si troverebbe in serio imbarazzo. Anche la matematica è un'opinione, del resto, figuriamoci l'economia.

Ma che cosa vorrà mai dire, non risparmiate ma spendete e consumate? Capisco che venga detto da un mercante in fiera, in un suq, a porta portese, da un venditore di almanacchi, da un petroliere che si guadagna da vivere. Ma cosa devo comprare e perché? E tu cosa mi vendi e perché? Devo comprare un pedalino al giorno, un'automobile di cilindrata superiore, la quinta casa? Devo fare indigestione di caviale? Così pare. Quando sono crollate le due torri la preoccupazione principale è stata che lo shopping continuasse con maggior lena di prima anche tra le macerie per tenere alto il morale, ossia i consumi e la produzione, ovvero la produzione e i consumi, questa fantastica macchina autopropulsiva che se si ferma tutto è perduto. Dove va nessuno lo sa, salvo i bidoni della spazzatura.

Non mi persuade. Essendo di poco appetito, quando ceno in una trattoria spreco una quantità di cibo che moltiplicata per alcuni milioni di commensali abituali basterebbe a una generazione. Non c'è dubbio che ognuno ha diritto alla felicità e che questo spreco glorioso, questa libertà duratura dal bisogno e dalla nausea, appaga esercenti, clienti, agricoltori, gastroenterologi e molta umanità. E se giova all'economia non può essere considerato immorale, perché l'homo è sapiens in quanto faber ed oeconomicus.

Però non è tanto bello, non funziona già tanto bene e non si sa come andrà a finire. A occhio e croce, preferisco la parsimonia di Luigi Einaudi alla crapula di Silvio Berlusconi anche perché il primo non faceva un'orrenda televisione ma un buon vino. Ma è inutile scegliere, il difetto è nel manico. Un direttore del giornale dove lavoravo da ragazzo scrisse un articolo che finiva così: è pur bello essere comunista! Sbagliato, non è così chiaro. Ma quant'è brutto essere capitalista.
La rettifica del Colle
Ciampi corregge il premier sulla guerra degli Usa: «Nessuno può agire da solo». Mozione unitaria dell'Ulivo contro la guerra. Mercoledì il voto sull'Afghanistan
ANDREA COLOMBO
ROMA
Dell'Iraq non parla, non esplicitamente almeno. Ma non c'è dubbio su cosa abbia in mente il presidente della repubblica quando avverte che «nessuno può pensare di rispondere da solo» ai rischi e alle sfide rappresentati «dalle armi di distruzione di massa, dall'ipoteca del deterioramento dell'ambiente, dalla povertà in vaste zone del mondo». E quando Ciampi prosegue affermando che «la miglior garanzia di stabilità internazionale è data dalla stretta collaborazione tra Usa e Ue» non c'è bisogno di ricorrere alla malizia per indovinare un commento, quasi una risposta, al pronunciamento a stelle e strisce del premier. Ciampi non ricorre invece ad alcuna perifrasi per affrontare il nodo della crisi israelo-palestinese. «In Medio oriente - dice - bisogna arrivare alla costituzione della stato palestinese e realizzare la convivenza tra i due popoli». E anche qui si richiederebbe, afferma, un maggiore impegno europeo: «Potremmo fare di più se avessimo una politica europea più unitaria».

Se il presidente della repubblica prende le distanze da Berlusconi evitando però l'incidente diplomatico, l'Ulivo non ha di queste preoccupazioni. La mozione partorita al termine di 24 ore di trattative parola per parola, pur mantenendo un margine di ambiguità, rappresenta un passo avanti notevole rispetto alle prime due stesure, bocciate dai Verdi, dal correntone e dal Pdci. La versione approvata ieri contiene un passaggio fondamentale, quello in cui l'Ulivo «esprime ferma contrarietà alla guerra, considerando necessario in questa situazione compiere ogni sforzo per evitare l'intervento armato in Iraq».

Il testo è fermo nel denunciare le violazioni dei diritti umani e il pericolo rappresentato dal dittatore iracheno. Saluta però con soddisfazione «la disponibilità del governo di Baghdad ad accetare le ispezioni» e impegna il governo italiano a «non assumere determinazione senza il coinvolgimento del parlamento».

Sul no alla guerra unilaterale, quella senza mandato Onu, l'Ulivo è netto. «Qualora prevalesse una strategia dell'unilateralismo - recita la mozione - si produrrebbero conseguenze drammatiche». Non altrettando chiara e definitiva la posizione sul comprtamento da adottarsi in caso di guerra approvata dall'Onu. La prima bozza del documento affidava alle Nazioni unite il giudizio finale sulla giustezza della spedizione militare. E' questo il passaggio che aveva provocato l'insurrezione dei Verdi, del correntone e della sinistra diessina. Ed è su questo passaggio che anche ieri si è sfiorato lo scontro tra i parlamentari della Quercia, quando Piero Fassino ha risposto con uno scatto di nervi a Fulvia Bandoli, che insisteva nel portare a esempio la posizione limpida e priva di ambiguità di Schroeder. «Comincio - è sbottato il segretario - ad avene le scatole piene di discutere sui `se' e sui'ma'. Ho solo detto che bisognerà modulare la nostra posizione in base agli eventi».

Alla fine, la formulazione adottata indica nell'Onu «l'unica sede legittimata a indicare modalità e strumenti idonei per la ripresa delle ispezioni in Iraq e il disarmo totale di eventuali armi di distruzione di massa», procedendo però anche alla «revoca dell'embargo». Non è ancora una porta sbarrata di fronte alle tentazioni (che nel'Ulivo sono senza alcun dubbio forti) di cambiare parere in seguito a un eventuale mandato Onu. Ma è di certo un ostacolo serio. Anche perché non sarebbe facile spiegare il dietrofront, dopo aver preso in queti giorni una posizione netta e dopo che i Ds hanno convocato, per il 5 ottobre a Firenze, una manifestazione per la pace con tanto di comizio del segretario.

Per ovviare al rischio, che comuqnue c'è, l'ala sinistra dell'Ulivo punta a un'azione comune con il prc, che ha già presentato la sua mozione. «Dato che l'Ulivo è contro la guerra - spiega il verde Paolo Cento - dobbiamo arrivare a un dispositivo comune con il Prc, almeno su una parte delle due mozioni. Allo stesso tempo è importantissimo organizzare ovunque manifestazioni per il 5 ottobre». Un'altra ipotesi, se non si arrivasse al dispositivo comune, potrebbe essere quella del voto incrociato. In ogni caso è quasi certo che parecchi deputati verdi e della sinistra diessina voteranno entrambe le mozioni, quella dell'Ulivo e quella del Prc.

La mozione ulivista è stata depositata ieri. Potrebbe essere discussa e votata già la settima prossima. Prima però l'Ulivo dovrà affrontare una prova difficile il voto sulla spedizione di altri mille alpini in Afghanistan, calendarizzato per mercoledì alla camera.

Per evitare rischi di spaccatura, i capigruppo del centrosinistra avevano tentato di rinviare il voto, chiedendo che la faccenda venisse prima affrontata dalla commissione Esteri. Il capogruppo del Prc Giordano, che aveva chiesto la calendarizzazione per il 2 ottobre ha insistito, la maggioranza lo ha appoggiato e il gioco dell'Ulivo non è riuscito. Ma il tentativo di ieri non è un buon segnale, dal momento che il voto sull'Afghanista sarà, come sottolinea Cento « la prima prova della tenuta dell'unità dell'Ulivo sulla guerra».
27.09.2002
I ds voteranno no alla spedizione degli alpini in Afghanistan
di Toni Fontana

Toccherà al ministro della Difesa Martino l’arduo compito di dimostare che la richiesta di George W. Bush relativa all’invio di mille alpini in Afghanistan non ha nulla a che vedere con i progetti di guerra in Iraq. Questo sarà comunque il tema al centro del dibattito parlamemtare in programma per mercoledì prossimo. L’Ulivo definirà oggi il proprio giudizio. A giudicare dalle prese di posizione che si stanno moltiplicando in queste ore, l’orientamento prevalente dovrebbe essere il no alla missione indicata da Berlusconi. In tal senso si è espresso il capogruppo Ds al Senato Gavino Angius. Verdi e Pdci hanno già annunciato il loro no, una mozione contraria sarà presenta da Rifondazione Comunista. La Margherita ha convocato per oggi l’esecutivo.
All’inizio dell’estate il ministro della Difesa, e successivamente Berlusconi al meeting di Cl, annunciarono che la Casa Bianca aveva chiesto all’Italia e ad altri governi occidentali, un contingente da spedire sulle montagna afghane per prendere parte alla caccia a Bin Laden. Martino ha successivamente precisato che «mille soldati» sono stati stati richiesti dagli americani (che avrebbero il comando delle operazioni) per sostituire i Royal marines britannici, cioè per un «avvicendamento». Martino, che indica il mese di marzo per l’inizio della missione, nega che la richiesta debba essere messa in relazione con i propositi di guerra all’Iraq espressi dal presidente americano, ma questo è stato uno dei temi centrali nell’incontro avvenuto a Camp David tra Bush e Berlusconi, poche ore dopo il minaccioso discorso tenuto dal capo della Casa Bianca all’assemblea dell’Onu.

Proprio l’evidente relazione tra gli scenari afghano e irakeno sta sollevando non pochi dubbi nell’opposizione che si sta orientando a votare contro la missione di guerra.
«Sembra - osserva ad esempio il capogruppo Ds al Senato, Gavino Angius - che i nostri militari andrebbero a sostituire il contingente anglo-americano che verrebbe spostato per l’attacco all’Iraq. Se così fosse dicendo sì alla nuova missione in Afghanistan si direbbe sì anche alla guerra in Iraq. E noi invece dobbiamo dire no alla guerra. Ho quindi l’impressione che dovremo votare no».

Angius si aspetta che gli esponenti del governo colgano l’occasione del dibattito parlamentare per tracciare un bilancio della missione dei militari italiani a Kabul (ve ne sono oltre 400 inquadrati nella forza di pace multinazionale che opera sotto bandiera Onu) ma fin da ora osserva che il piano per l’invio dei mille alpini «rientra nell’ambito della missione Enduring Freedom» e «presuppone un cambiamento della natura della missione» rispetto alle decisioni prese un anno fa perchè «si chiede di mandare gli alpini per sostituire appunto gli angloamericani da utilizzare in Iraq». All’Ulivo si rivolge il Verde Paolo Cento che auspica un «no secco» all’invio di truppe.

La Margherita - come osserva il responsabile Esteri Lapo Pistelli vuole «conoscere nel dettaglio» la posizione del governo dal quale si attende «un bilancio di questo anno di missione Enduring Freedom».
Tra i tanti aspetti che il governo non ha ancora chiarito vi è quello economico. I tagli al bilancio della Difesa compresi nella legge finanziaria fanno pensare che non ci sono i soldi per sostenere una missione che oltre ad essere «rischiosa» (sono parole del ministro Martino) appare molto costosa.

E Montecitorio precisa: "Il vice presidente Alfredo Biondi
cui è stato consegnato si è riservato di valutare il documento"
Il j'accuse di Mancuso a Previti
"sparisce" dagli atti della Camera

ROMA - Finisce sulle pagine di Repubblica e "sparisce" dagli atti della Camera il documento in otto punti con cui l'ex Guardasigilli Filippo Mancuso accusa Cesare Previti di condizionare Silvio Berlusconi. Montecitorio "non autorizza" e così il documento non compare nei documenti ufficiali della Camera. E' durissimo il documento presentato dall'ex ministro. In quel testo si accusa Previti di "ricattare" il premier e tenere in scacco i parlamentari della Casa delle libertà, condizionando l'attività politica in materia di giustizia. In otto punti, l'ex ministro della Giustizia elenca i "fatti dimostrativi" dei rapporti tra Cesare Previti e Silvio Berlusconi.

La vicenda è cominciata ieri pomeriggio. Filippo Mancuso ha parlato alla Camera sul disegno di legge Cirami non facendo cenno alle accuse a Previti, ma alla fine del suo intervento è andato da Alfredo Biondi, che in quel momento presiedeva la seduta, e gli ha chiesto di mettere agli atti il suo intervento, compreso il dossier in otto punti che ha consegnato. Poi è andato dai cronisti in Transatlantico e ha spiegato che il testo integrale del suo intervento sarebbe stato pubblicato sul resoconto dei lavori parlamentari.

Ma negli atti ufficiali della Camera non c'è traccia del dossier su Previti, quegli otto punti, che dimostrerebbero come l'avvocato Previti condizioni Silvio Berlusconi. A riportarne ampi stralci è stato invece il nostro giornale. Da Montecitorio, le spiegazione sono affidate a un comunicato ufficiale. "L'onorevole Filippo Mancuso - afferma la nota di Montecitorio - al termine del suo intervento di ieri in aula nell'ambito della discussione generale sulla proposta di legge Cirami ha consegnato al vice presidente Alfredo Biondi, che in quel momento presiedeva i lavori, un testo aggiuntivo chiedendo che venisse incluso negli atti della seduta. Il vice presidente Biondi si è riservato di valutare il documento per la eventuale pubblicazione in calce al resoconto. La pubblicazione non è stata poi autorizzata, alla luce dei criteri costantemente seguiti per tali autorizzazioni. Il testo è stato restituito dagli Uffici all'onorevole Filippo Mancuso nella stessa serata di ieri".

Le accuse sono pesanti e non passano inosservate. Mancuso chiama direttamente in causa Silvio Berlusconi, il presidente della commissione Giustizia della Camera Gaetano Pecorella, il capogruppo di Fi in commissione Affari Costituzionali Michele Saponara, il sottosegretario alla Giustizia, Iole Santelli. Fornisce una cronologia a sostegno della tesi del condizionamento temporale sul Parlamento in base alla tempistica dei processi milanesi a carico di Previti. E riferisce di "minacce di scioglimento delle Camere" subite dai parlamentari della Casa delle libertà nel caso di defezioni rispetto a merito e tempi di voto del disegno di legge Cirami. "Intimidazione ripetuta", denuncia l'ex Guardasigilli, della quale attribuisce la paternità in particolare a Berlusconi e Pecorella.

Immediata la reazione di Gaetano Pecorella, presidente della commissione Giustizia della Camera che, nel racconto di Mancuso, si sarebbe lamentato delle continue pressioni di Previti. "La tarda età di Filippo Mancuso - ribbatte Pecorella in una smentita inviata a
Repubblica - mi esonera dal fare polemiche con lui, ma non dallo smentire radicalmente le sue 'delazioni'. Con Cesare Previti ho un rapporto di stima e amicizia tale che mai avrei proferito le espressioni che mi attribuisce Filippo Mancuso. Del resto, se mai con Previti avessi avuto un dissenso, l'ultima persona con cui mi sarei confidato sarebbe stato proprio Filippo Mancuso, la cui instabilità nei rapporti politici e personali è ben nota".

Smentisce tutto anche Michele Saponara, capogruppo di Forza Italia in Commissione affari costituzionali, tirato in ballo da Mancuso che racconta di aver saputo di due lettere di Previti al premier sulla possibile conclusione dei processi di Milano. In una di queste lettere Previti citerebbe una frase latina molto allusiva sul destino che li legherebbe: "Insieme staranno in piedi insieme cadranno". Saponara commenta così: "Provo amarezza per il comportamento sleale di ieri di Filippo Mancuso, uomo che ho sempre stimato e difeso. Se Mancuso avesse avuto il coraggio di dire quelle cose in aula, avrebbe assistito alla mia reazione sdegnata".

(26 settembre 2002)

Gli avvocati della Casa delle libertà hanno prodotto un testo base
Una norma transitoria per sospendere il processo di Milano
Ecco l'emendamento salva-Previti
ma da Ciampi arriva un altro no
Violante:
"Così è persino peggio della Cirami"
E il Quirinale fa sapere che non va: "Riscrivetelo"
di LIANA MILELLA

ROMA - Sette cartelle per una proposta di compromesso, un maxi emendamento sul testo Cirami che il diessino Luciano Violante, ieri sera durante la riunione dei capigruppo a Montecitorio, ha già bocciato dopo averlo definito "addirittura peggiorativo rispetto al disegno di legge originario". Un testo che è il frutto dello sforzo delle teste d'uovo di Forza Italia per aggirare le forti perplessità del capo dello Stato e il rischio di una mancata firma, e quindi di una bocciatura della legge approvata.

Ma, proprio dal Quirinale, con cui le consultazioni sono state febbrili fino all'ultimo, arriva un nuovo diniego: no, il maxi emendamento non risolve né i dubbi di costituzionalità, né tantomeno la questione scottante dell'applicazione delle nuove norme ai processi in corso, in particolare ai dibattimenti contro Berlusconi e Previti per la corruzione dei giudici a Milano. È un "niet", quello del Colle che, almeno fino a ieri sera, ha bruciato la mediazione dei forzisti.

Il rinvio della discussione al 10 ottobre potrebbe consentire, se il partito di Berlusconi e gli avvocati che lavorano alla Cirami dovessero giungere a più miti consigli, una mediazione ulteriore. Ma cosa fa a dire a un esperto come Violante che "il testo in circolazione è fatto con un'astuzia particolare" e in pratica sembra "cucito" addosso ai dibattimenti sulle Toghe sporche? Il passaggio più delicato - indicato in alcune anticipazioni del Sole 24 Ore - riguarda le modifiche all'articolo 49 del codice di procedura penale, in particolare nel passaggio che rivisita la possibilità di applicare le nuove norme ai processi in corso.

Se, nella versione attualmente in calendario alla Camera, la questione veniva sbrigata in tre righe scrivendo che "la presente legge si applica anche ai processi in corso alla data della sua entrata in vigore", la proposta del maxi emendamento è di fatto ritagliata ad hoc sui dibattimento milanesi che già si trovano sotto la scure di una richiesta di rimessione. Scrivono gli esperti di Forza Italia: "Le richieste di rimessione che risultano già presentate alla data di entrata in vigore della legge conservano efficacia" e ad esse, di conseguenza, si applicano le nuove norme. Questo fa dire a Violante: "Leggendo tra le righe il nuovo testo emerge che sarebbero sospesi automaticamente tutti i processi per i quali sia stata già presentata l'istanza di rimessione mentre gli altri no".

La proposta di modifica, che avrebbe dovuto avere invece un effetto mediatorio e di "pacificazione" con il Quirinale, sortisce un effetto del tutto opposto, nonostante proprio la questione della sospensione automatica dei processi, già bocciata da un pronunciamento della Consulta nel '96, fosse stata caldeggiata come insuperabile dagli esperti che lavorano alla presidenza della Repubblica.

Ma non basta. Il maxi emendamento ritocca anche la prima parte della Cirami, cioè le modifiche all'articolo 45 del codice di procedura che disciplina i casi di rimessione. E anche stavolta, anziché verso una formulazione più "morbida", le maglie e la casistica dei casi e delle possibilità di ottenere lo spostamento del processo ad altra sede si ampliano anziché restringersi. Sono quattro righe, inserite proprio nel primo comma, a chiarire che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando la sicurezza o l'incolumità pubblica ovvero la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo sono pregiudicate da situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo" è inevitabile il ricorso alla Corte di Cassazione.

Come non bastasse, in un'ulteriore aggiunta, si precisa che "per motivi di legittimo sospetto s'intendono quelli idonei a menomare l'imparzialità o la serenità funzionale del giudice". Un inequivoco passaggio che mira a dare un'ulteriore legittimità, secondo il punto di vista e l'interpretazione giuridica degli avvocati della Casa delle libertà ovviamente, per le eccezioni e il trasferimento dei processi. Com'era inevitabile, simile modifiche non potevano trovare aperta la porta del Quirinale. L'invito garbato poteva essere soltanto uno. Riassumibile così: "Il testo non va bene. Dovete riscriverlo".

(27 settembre 2002)

 

 

 

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