La colpa? L'intervista a Scalfaro sull'incidente col premier
"E' tornata TeleKabul, anzi Tg Soviet. Di Bella ne risponda"
La Cdl contro il Tg3:
"Viola la par condicio"

Ma l'opposizione insorge: "In commissione ci vadano piuttosto
Mimun e Mazza oppure Berlusconi, che ha epurato Biagi e Santoro"

ROMA - "Silvio Berlusconi mi ha sbeffeggiato in aula". E' bastata un'intervista al presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nel corso del Tg3 della sera a far insorgere il Polo. Ed è subito TeleKabul, anzi TgSoviet, nelle feroci critiche della Casa della Libertà che lamentano "una plateale violazione della par condicio" e chiedono la testa del suo direttore. Ma procediamo con ordine.

Tutto nasce ieri al Senato. Scalfaro ha la parola, Berlusconi non lo ascolta e chiacchiera con altri senatori. L'ex capo dello Stato lo richiama al silenzio e il Cavaliere, facendo appello a una mimica inequivocabile, fa capire che non ci pensa proprio. L'opposizione stigmatizza il "gesto villano" mentre la maggioranza minimizza.

Nell'edizione delle 19 il Tg3 sente la vittima dell'incidente. "Ritengo che Berlusconi non abbia assolutamente il concetto di cosa è il Parlamento - dice ai microfoni-, dove si parla, si risponde, si dialoga, avendo dei pensieri in testa che non sono obbligatori, sono facoltativi".

Un servizio che non è affatto piaciuto alla maggioranza, che oggi ne chiede conto. "E' inaccettabile che la linea editoriale del Tg3 sia fatta in palese violazione della legge sulla par condicio - affermano i capigruppo della Cdl - Sembra di essere ritornati ai tempi di Telekabul con una informazione sbilanciata verso la sinistra e senza contraddittorio tra le diverse posizioni".

Aggiunge quindi l'azzurro Barelli, che è membro della Commissione di Vigilanza Rai, "Tg3? Meglio chiamarlo Tg Soviet. Da tempo la redazione del Tg3 faceva informazione a senso unico. Ieri sera si è veramente arrivati allo scandalo. L'edizione delle 19 ha messo a segno un 'uno-due' scandaloso: ha permesso al senatore Scalfaro di insultare e offendere il presidente Berlusconi, su un caso inesistente e ha dato spazio a Luciano Violante che ha fatto un capolavoro di disinformazione sul disegno di legge Cirami raccontando un sacco di falsità propagandistiche".

Infine Lainati, responsabile della Comunicazione del gruppo di Forza Italia alla Camera, parla di "giornalismo scorretto, partigiano e in antitesi con la missione di un servizio pubblico". Quella del TG3 è, per lui, "una aperta violazione delle delle normali regole deontologiche: un gruppo di giornalisti militanti hanno fatto carta straccia in un sol colpo delle regole del pluralismo e della legge sulla par condicio".

Adesso, chiedono all'unisono vari esponenti della Cdl, il direttore del Tg3, Antonio Di Bella, dovrà presto riferire alla commissione di vigilanza.

Una richiesta contro la quale insorge l'opposizione.
"Vorrei invitare questi noti epigoni della libertà di stampa del centrodestra - sottolinea il ds Antonello Falomi - a leggersi i dati diffusi dall'autorità per le garanzie nelle comunicazioni relativi ai mesi di giugno e di luglio di quest'anno. Se lo facessero si accorgerebbero che, a differenza del Tg1 e del Tg2, il Tg3 offre uno spazio equilibrato a tutte le posizioni politiche. Credo che se c'è qualcuno da convocare di fronte alla commissione di vigilanza sono proprio Mimun e Mazza che oltretutto, a differenza del Tg3, continuano a perdere ascolti rispetto allo scorso anno".

E a dargli man forte, sempre dai banchi della Quercia, c'è anche Giuseppe Giulietti: "Le pressioni che la Cdl sta conducendo in queste ore contro Raitre e Tg3 rappresentano un vero e proprio atto di intimidazione teso a impedire che sulla questione giustizia possono esprimersi in piena libertà tutte le voci". E rilancia:
"In commissione parlamentare di vigilanza non deve essere convocato il direttore del Tg3 Di Bella, ma il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che è stato il mandante dell'eliminazione dal video di Biagi e di Santoro".

27 settembre 2002

Vivendi: venduta Telepiù. News Corp: la firma non c'è ancora
L'accordo dovrà ora essere vagliato dall'Antitrust europeo
Pay tv italiane
targate Murdoch

Cessione da un miliardo di euro
dal nostro corrispondente GIAMPIERO MARTINOTTI

PARIGI - Vivendi Universal ha venduto Telepiù alla News Co. di Rupert Murdoch. Dopo un tira e molla andato avanti per mesi, il gruppo franco-americano si è liberato di un fardello ed ha avviato così la politica di dismissioni annunciata ieri dal suo presidente, Jean-René Fourtou. Murdoch, che ieri a tarda sera ha negato l'accordo ("la firma non c'è ancora") sborserà un miliardo di euro, una cifra inferiore di un terzo a quella che Vivendi sperava di intascare. Grazie a questa cessione, l'indebitamento di Vivendi Universal scenderà di 920 milioni di euro. Un'operazione essenziale, ma non certo determinante, visto che al 30 giugno scorso Vivendi aveva debiti per circa 35 miliardi di euro, risultato della dissennata politica dell'ex presidente, Jean-Marie Messier, al quale è stata negata qualsiasi indennità di licenziamento.

Ora la parola passa all'Antitrust europeo a meno che non venga 'rinviata' all'authority italiana. Già nel giugno scorso il Commissario europeo, Mario Monti, aveva lasciato chiaramente intendere che il caso dovrà essere esaminato dai suoi servizi. Non è però automatico che l'esame antitrust venga eseguito proprio a Bruxelles e non a Roma, sede dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato italiana. Lo stesso Monti infatti aveva ricordato che il governo italiano potrebbe domandare alla Commissione Ue di rinviare l'esame a Roma, all'Autorità guidata da Giuseppe Tesauro.

Ieri, intanto, Fourtou ha riunito il consiglio di amministrazione del gruppo per illustrare la sua strategia, ma molti punti restano ancora poco chiari. Sul fronte finanziario, dopo aver ottenuto nuovi crediti dalle banche, i programmi saranno accelerati: il nuovo obiettivo è di cedere attività per 12 miliardi di euro in diciotto mesi. La lista delle attività in vendita è stata resa nota nei dettagli: le filiali straniere di Canal Plus (fra cui, appunto, Telepiù); le attività di tlc fuori dalla Francia; filiali internet; stampa ed editoria; partecipazioni minoritarie; quote di Canal Plus e di Vivendi Games. Il gruppo dovrebbe essere ricentrato su due poli: le telecom in Francia, l'intrattenimento (musica, cinema, tv via cavo) negli Stati Uniti. Ma Fourtou è rimasto nel vago su alcuni aspetti.

Per quanto riguarda le tlc, le cose sembrano ancora in movimento. Vivendi controlla solo il 44 per cento di Cegetel (telefonia fissa e mobile) e vorrebbe superare il 50 per cento per mettere le mani sul cash slow dell'azienda. Al tempo stesso, Vodafone, socio minoritario, è disposto a fare un'offerta per comprarsi la società ed entrare sull'unico grande mercato europeo dal quale è assente. In un modo o nell'altro, l'azionariato di Cegetel dev'essere ridisegnato, ma Fourtou ha rinviato le decisioni a fine anno.

L'unica vera certezza riguarda invece Messier: il consiglio ha deciso di non dargli neanche un euro. Dopo lo stipendio di luglio, Messier non ha ricevuto più niente e gli avvocati stanno trattando. L'ex presidente ha però deciso di rimanere membro dei consigli di alcune filiali: "I gettoni di presenza sono forse l'unico reddito di cui dispone", ha commentato Fourtou.

(26 settembre 2002)

Dal G7 il ministro dell'economia replica alle critiche: "Siamo sulla buona direzione, soprattutto sui conti pubblici"

Tremonti: "L'Italia sta meglio di altri 'grandi' Paesi"

Ma il commissario Solbes sospende il giudizio: "Non abbiamo ancora esaminato a fondo i vostri conti"

WASHINGTON - In Italia è al centro delle polemiche ma dall'America Giulio Tremonti risponde con un colpo solo a tutte le critiche: "Il nostro Paese è sulla buona direzione, anche se con difficoltà; ora bisogna tenere la rotta e andare avanti". Una dichiarazione che il ministro dell'Economia ha fatto oggi da Washington dove partecipa alla riunione del G7. "I numeri usciti - ha dichiarato - mostrano come l'economia italiana sia in media con quella europea". Non faremmo affatto brutta figura nel consesso internazionale, soprattutto sul fronte dei conti pubblici: "Ci sono Paesi che vanno meno bene di noi e dal lato dei conti pubblici siamo messi meglio di altri 'grandi'". Tutto ciò nonostante le revisioni al ribasso di varie stime che lo stesso Tremonti ha operato di recente, abbassando la crescita del Pil a 0,7% per il 2002 e al 2,3 per il 2003, oltre ad aver rivisto il rapporto deficit-Pil con la previsione di 1,8-1,9% per il 2002, e di 1,4-1,5% per il 2003. Una dichiarazione che il commissario Ue agli affari economici, Pedro Solbes, ha preferito non commentare: "Non abbiamo ancora analizzato a fondo i conti italiani. Ogni bilancio è diverso e deve essere esaminato sul paese a cui si riferisce. Sull'Italia - ha però aggiunto - Bruxelles ha sempre insistito sui problemi dell'alto debito, della sostenibilità e delle misure 'una tantum'. La finanziaria sarà discussa lunedì e allora avremo nuovi dati a disposizione". In patria, invece, le polemiche non si placano, e Gavino Angius esorta Silvio Berlusconi a "licenziare" il ministro dell'economia. "Invece di ingannare ancora gli italiani con inutili e furbette conferenze stampa sulla sicurezza - ha dichiarato il capogruppo ds al Senato - per cercare di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dai fallimenti del suo governo, Berlusconi si preoccupi di impedire che il mago a cui ha affidato il ministero dell'economia con i suoi incantesimi porti allo sfascio il nostro Paese. Insomma, ci liberi da Tremonti" la cui finanziaria avrebbe l'unico paradossale pregio di aver "scontentato tutti". (27 settembre 2002)

Il presidente Usa rilancia il suo ultimatum all'Iraq
mentre crescono le critiche interne al Congresso


Bush: "O Saddam si disarma
o saranno gli Usa a farlo"


E in una telefonata Chirac ribadisce la posizione francese:
"Sì al disarmo ma nella cornice delle Nazioni Unite"

WASHINGTON - "Non ci sono negoziati con mister Saddam Hussein, non c'è nulla da discutere: o lui distrugge i suoi arsenali o gli Stati Uniti guideranno una coalizione per disarmarlo". George W. Bush non cambia idea e torna a lanciare un ultimatum all'Iraq ricordando che "sono 11 anni che permettiamo a quest'uomo di mentire e ingannarci".
Il presidente degli Stati Uniti ha sottolineato che bisogna impedire che l'America e i suoi alleati siano "ricattati con armi di distruzione di massa" e "bisogna assicurarci che questi dittatori non siano in grado di addestrare terroristi" su come utilizzarle.

Bush ha poi ricordato come Washington voglia agire per il bene delle Nazioni Unite: "Il mio messaggio è che noi vogliamo il successo di questa organizzazione - ha detto -. Per garantire la libertà nel 21esimo secolo è importante avere un'istituzione efficace".
Il presidente si è detto altresì convinto che sia repubblicani che democratici comprenderanno questa necessità e, riferendosi ai negoziati per mettere a punto il testo finale della risoluzione con cui il Congresso autorizzerà l'uso della forza, ha detto che "vogliono lavorare con noi per inviare un chiaro messaggio, una forte risoluzione che definisca una missione di pace".

Sul versante interno, però, il dibattito si fa sempre più infuocato. Tra quelli sicuramente non d'accordo c'è il senatore democratico Edward Kennedy, che si unisce a quelle di altri democratici che esprimono dissenso sulla linea della Casa Bianca. Dopo lo sdegnato discorso di ieri del capogruppo democratico Tom Daschle - che ha accusato il presidente e molti dei suoi ministri di "politicizzare" la questione irachena a fini elettorali - oggi anche Kennedy ha rotto il suo silenzio lamentando che un attacco all'Iraq in questo momento può provocare un contraccolpo, inducendo l'uso di armi di sterminio e peggiorando la già critica situazione in Mediorioente.

Sul versante internazionale oggi Bush ha parlato con Jacques Chirac che gli ribadito che il suo governo non si allontana dalla linea già indicata nei confronti dell'Iraq, ovvero una strategia in due fasi e un ampio sostegno alle Nazioni Unite per il disarmo del regime di Baghdad. "Il presidente - ha detto la portavoce dell'Eliseo - gli ha ribadito la posizione della Francia per cui disarmare l'Iraq è necessario, e che deve essere fatto all'interno di una iniziativa dell'Onu. L'obiettivo è il ritorno rapido e incondizionato degli ispettori dell'Onu in Iraq; su questo fronte potrebbe essere utile una risoluzione semplice e salda, che dimostri l'unità e la determinazione della comunità internazionale".

(27 settembre 2002)

Finita la ripresa economica, le statistiche mostrano le prime conseguenze della recessione

Usa, 33 milioni di poveri Cresce il numero degli indigenti

Le nuove "vittime" sono famiglie bianche che vivono nelle metropoli del Sud. E anche il ceto medio è a rischio

di LUCIA MARANI

L'AMERICA si riscopre più povera. I dati del rapporto 2001 su redditi e povertà pubblicato ieri dal Census Bureau sono chiari: negli Stati Uniti i poveri sono 32,9 milioni, 1,3 milioni in più rispetto all'anno precedente. E per la prima volta in otto anni il numero degli americani che vivono al di sotto della soglia di povertà torna a crescere in modo preoccupante. Il tasso di povertà è infatti aumentato dopo quattro anni di significativa diminuzione, ed è passato dall'11,3 per cento del 2000 all'11,7 per cento dell'anno scorso. Non solo: il rischio sfiora anche le famiglie appartenenti al ceto medio, il cui reddito medio annuo è diminuito, passando a 42.228 (circa 42.000 euro) dollari nel 2001, 934 dollari in meno (il 2,2 per cento) rispetto all'anno precedente. Secondo l'analisi dell'istituto di ricerca americano e del suo presidente Daniel Weinberg, all'origine di questa situazione c'è la recessione iniziata nel marzo del 2001. -

La crisi ha ridotto i guadagni di milioni di americani, e il divario tra ricchi e poveri continua ad aumentare. Una famiglia di quattro persone è classificata "povera" se la somma di denaro a disposizione in un anno non supera 18.104 dollari. Più in dettaglio, ecco quanto "vale" la povertà delle famiglie secondo le statistiche ufficiali. Le stime, aggiornate ogni anno per essere adeguate all'indice dei prezzi al consumo, sono di 14.128 per un nucleo di tre persone, 11.569 per una coppia sposata e poco più di 9.000 dollari per un individuo solo. La crisi, del resto, ha condizionato ampie fasce della popolazione, e le differenze di razza, provenienza geografica, classe sociale stavolta non contano, o almeno non secondo gli schemi tradizionali: stranamente, ha commentato Weinberg, l'ultima recessione ha colpito più i bianchi che altri gruppi sociali. Gli estensori del rapporto hanno lavorato per mesi sulle cifre provenienti dai cinquanta stati dell'Unione, e alla fine le statistiche del rapporto presentano una fotografia del paese per certi versi inedita: i poveri-tipo appartengono a una famiglia che vive nei quartieri periferici delle grandi metropoli degli stati del sud, bianca e di origine non ispanica. La Casa Bianca ha commentato che i risultati scoraggianti sono, in parte, il risultato di un rallentamento dell'economia iniziato durante la presidenza di Bill Clinton. Per il leader dei democratici al Congresso Richard Gephardt, invece, questi dati sono il risultato lampante del fallimento della gestione dell'economia da parte di George W. Bush, accusato di essere più incline a lamentarsi della gestione del suo predecessore che di preoccuparsi della situazione attuale. I democratici insistono perché il Congresso aumenti la spesa sociale, un'esigenza ritenuta non pressante dai repubblicani. Il rapporto fornirà abbondante materiale di scontro tra democratici e repubblicani, in vista della campagna elettorale per il rinnovo del Congresso, a novembre. Intanto, in attesa dello scontro elettorale, per quasi 33 milioni di americani vale l'amaro risultato evidenziato da Weinberg: "Il declino è diffuso ovunque".

(26 settembre 2002)

Il fondatore di Emergency, l'associazione che ha lanciato
un appello contro l'intervento in Iraq, spiega le sue ragioni


Perché non esistono
le guerre necessarie


di GINO STRADA

Caro direttore, ieri Miriam Mafai scriveva su La Repubblica: "E tuttavia c'è qualcosa che non mi convince in quell'appello, che io non firmerò". L'appello in questione è quello di Emergency, "Fuori l'Italia dalla guerra" (www.emergency.it). Sarebbe utile discuterne a fondo, prima di passare alle "dichiarazioni di firma", perché Miriam Mafai, per la quale ho stima e rispetto, espone ragioni molto serie e opinioni diffuse sulla guerra e sulla pace. "Non mi convince il pacifismo assoluto, di tipo ideologico che lo ispira".

Non credo sia così, almeno per quanto riguarda Emergency: la scelta della non violenza e della pace deriva, al contrario, dall'aver avuto a che fare, negli otto anni di vita della associazione, con più di trecentomila vittime di guerra che abbiamo operato, curato, conosciuto. Non dall'ideologia, ma dal vedere sui tavoli operatori dei nostri ospedali migliaia di esseri umani straziati da bombe e mine il trenta per cento bambini - nasce il nostro rifiuto e disgusto per la guerra. Siamo convinti, perché lo vediamo ogni giorno, che le vittime siano la prima e forse l'unica verità della guerra, e che l'alternarsi di governi e dittatori ne siano soltanto, questi sì, effetti collaterali.

La libertà di cui godiamo è nata dal bagno di sangue che si è consumato attorno a Stalingrado e sulle spiagge di Normandia", ha scritto Miriam Mafai. È vero, è andata così. Ma è indispensabile che quel bagno di sangue non si ripeta, perché ci lascia molto amaro in bocca, per usare un eufemismo, una libertà conquistata e goduta al prezzo di milioni di morti.

Il mondo non è più lo stesso dopo l'11 settembre, si sente ripetere da molte parti. Il mondo e la guerra sono cambiati ben prima. Il 6 agosto 1945, il fungo atomico su Hiroshima ha fatto svanire centomila esseri umani in un minuto e ne ha uccisi molti di più nei decenni successivi. E' stato allora, nello stesso periodo in cui in Europa le città venivano rase al suolo dai bombardamenti e si consumava l'Olocausto, che il mondo e la guerra sono cambiati per sempre.

Per quanto mi sforzi di trovare altre parole per definire quel momento, una sola mi ritorna in mente, mi pare adeguata: terrorismo. Da allora, tutte le guerre hanno assunto sempre più un carattere terrorista. Tremila esseri umani, tra le macerie del World Trade Center, hanno tragicamente sperimentato un atto di terrore. Prima di loro, altri milioni di esseri umani per il 90 per cento civili ne avevano sperimentati altri, ciascuno il suo.

Chi è stato bombardato, chi bruciato dal napalm o soffocato dai gas, chi è finito nei gulag o nei campi di sterminio, chi è stato fatto a pezzi da un'autobomba e chi è sparito senza lasciare traccia. Nella lista infinita delle vittime del terrorismo ci sono anche lo capiamo bene, se pensiamo a loro come se fossero figli nostri anche le centinaia di migliaia di bambini iracheni uccisi dall'embargo nell'ultimo decennio. Il negare loro la possibilità di essere curati non permettendo l'arrivo di medicinali è stato, ne siamo convinti, un atto di terrorismo.

"Non mi convince in primo luogo il discorso di che mette sullo stesso piano Bin Laden e Bush". Mi sembra una semplificazione ad effetto, e nulla ha a che vedere con il testo dell'appello di Emergency. Ma forse è il caso di fare una precisazione. Resto convinto che le vittime, cioè gli esseri umani morti e mutilati, non si possano dividere in cittadini di prima e di seconda categoria. Credo che un bambino che sparisce nelle Torri Gemelle valga quanto un bambino afgano che resta ucciso sotto le bombe. Non vale di meno, ma neanche di più. E siccome quei bambini mi interessano, entrambi, ho anche la stessa opinione su chi li ha fatti fuori, l'uno e l'altro.

"Un pacifismo assoluto (...) se può essere proposto come valore da uomini di Chiesa, può non reggere alla dura prova della politica". Questo, mi sembra, è un altro punto importante della discussione. Mi verrebbe da dire, da laico quale sono, che forse è proprio il fatto che i valori e l'etica siano andati da una parte e la politica da tutt'altra, la causa prima del mondo ingiusto e violento che è davanti ai nostri occhi, un mondo dove per molti è "11 settembre" tutto l'anno.

La tesi della "guerra necessaria" per porre fine a feroci dittature è anche la critica più comune al movimento per la pace. Anche di ciò si dovrebbe discutere a lungo. Può darsi che il movimento per la pace non sia in grado di far cadere un dittatore, ma una cosa è assolutamente certa, che il movimento per la pace non ne ha mai creati né aiutati ad imporsi con armi e fiumi di denaro. Mi piacerebbe, e non credo di essere il solo, che ci fosse un ampio dibattito su questi temi, ed è una della ragioni dell'appello di Emergency e delle iniziative che prenderemo nei prossimi mesi.

Senza dimenticare tuttavia, quando si scrive di "guerre necessarie" e si fanno paralleli storici, che ci troviamo una nuova guerra all'orizzonte, oggi, contro l'Iraq. E che la nuova guerra, più che di libertà, ha una maledetta puzza di petrolio.

L'autore è il fondatore dell'associazione umanitaria Emergency

(26 settembre 2002)

L'eccezione contro la nuova legge del governo Berlusconi
è stata sollevata in aula da Gherardo Colombo


'Falso in bilancio incostituzionale'
Pm all'attacco nel processo Sme


Il reato sarebbe perseguito in modo diverso da due articoli
del codice civile. I legali del premier: "Inamissibile e infondata"

MILANO - Botta e risposta, in punto di diritto, tra Procura di Milano e avvocati del processo Sme. Questa mattina, in aula, è andato all'attacco il pm Gherardo Colombo sollevando un'eccezione di legittimità costituzionale della nuova legge sul falso in bilancio.

Secondo il documento depositato dalla Procura i due articoli del Codice civile introdotti dalla nuova legge (2621 e 2622) perseguono in modo differente il reato: "La disparità di trattamento - ha detto Colombo - è evidente: il fatto meno grave è procedibile d'ufficio, quello più grave a querela". Per Colombo, inoltre, la legge prevede pene non adeguate al reato e non è in linea con le normative europee.

Netta e immediata la risposta dei difensori di Silvio Berlusconi che hanno definito la questione di illegittimità "manifestamente irrilevante, inammissibile e infondata". Lo hanno sostenuto in aula al processo stralcio per il falso in bilancio Sme in corso davanti ai giudici della prima sezione penale del Tribunale di Milano.

In una pausa dell'udienza l'avvocato Niccolò Ghedini, uno dei due legali del Presidente del Consiglio, ha riassunto la sua posizione: "E' singolare che la Procura della Repubblica si ponga questo problema, guarda caso in un processo in cui è imputato Silvio Berlusconi".

Entrando nel merito della questione il legale ha aggiunto: "Questa legge tutela assolutamente le problematiche del falso in bilancio perché prevede sanzioni interdittive e sanzioni pecuniarie che, secondo me, sono molto più efficaci di una misura cautelare che poi nel concreto non andava mai applicata. Perché ho visto pochissime persone andare in galera per il falso il bilancio".

A dargli man forte Gaetano Pecorella, l'altro difensore di Berlusconi, che ha dichiarato che "l'eccezione sollevata dal pm è irrilevante: il presupposto è che sia chiesta la prescrizione del reato e, in subordine, che sia sollevata la questione di incostituzionalità. In questo momento la richiesta di prescrizione non è stata fatta".

A queste ultime argomentazioni ha replicato Colombo: "Mi sembra - ha detto - che la richiesta di prescrizione sia pregiudiziale: io la chiederei se non dipendesse da una norma che io stesso ritengo incostituzionale".

Alla fine il Tribunale, chiudendo l'udienza del processo stralcio, si è riservato di decidere il 26 ottobre, data della prossima udienza.

(21 settembre 2002)

Berlusconi inciampa nell'Europa


di Gian Giacomo Migone

A ben vedere, quella di Berlusconi a Copenhagen, non è stata una semplice gaffe. O, quantomeno, è stata una gaffe che ha lasciato il segno, come tutte quelle del nostro presidente del Consiglio.
Fino al momento in cui egli non aveva annunciato un «orientamento dell’Italia» favorevole ad un accordo bilaterale con gli Stati Uniti che garantisse l’immunità dei cittadini americani da incriminazioni per delitti di guerra o contro l’umanità da parte del Tribunale penale internazionale (perché di questo si tratta), solo la Romania e Israele si erano impegnate in questo senso. Al rifiuto della Svizzera si affiancavano un «fin de non recevoir» di tutti i paesi dell’Unione alla richiesta scritta di Colin Powell e la diffida di Prodi agli altri paesi candidati, in attesa di una presa di posizione comune.
Malgrado la successiva marcia indietro, resta il fatto che il massimo rappresentante di uno dei quattro maggiori Stati membri, proprio l’Italia che ha ospitato e guidato la conferenza istitutiva del Trattato di Roma, abbia rotto il fronte unitario europeo, cedendo alle pressioni di Washington. Quali saranno le conseguenze sulla posizione complessiva che l’Ue assumerà al Consiglio generale del 30 settembre resta da vedere.
È almeno altrettanto grave che in tal modo il nostro Paese abbia dato una mano a chi negli Stati Uniti vuole affossare una nobile tradizione di quel Paese, legata alla legalità e alle istituzioni internazionali, in nome di un unilateralismo sempre più protervo. Per l’Italia uno strano modo di mostrare la propria amicizia alla grande democrazia americana, quella di assecondarne l’involuzione e forse il declino!
Gli Stati Uniti si sono costituiti nel nome di un’opposizione rivoluzionaria al colonialismo europeo e anche ad un modo di concepire i rapporti internazionali, fondato su equilibri e contrapposizioni di ispirazione nazionalistica. È vero che la conquista talora violenta del proprio continente è il primo ad affacciarsi al novero delle grandi potenze, alla fine dell’Ottocento, con la guerra ispano-americana e le imprese di Theodore Roosevelt, contraddicono questa impostazione.
Ma è anche vero che il sostegno al primo tribunale dell’Aja, i contributi all’evolversi del diritto internazionale di uomini come Philip Jessup e Elihu Root (tra l’altro di fede repubblicana), soprattutto il disegno wilsoniano dei 14 punti e della Società delle Nazioni riprendono l’ispirazione originaria, di segno kantiano, della rivoluzione americana. Un’ispirazione che non si rassegna al darwinismo sociale di Spencer, di sopravvivenza del più forte, o al neoimperialismo navale di Alfred T. Mahan, e che vuole regolare e organizzare stabilmente i rapporti internazionali per realizzare un mondo più pacifico. Gli interventi risolutivi degli Stati Uniti nei due conflitti mondiali conciliano l’interesse nazionale con obiettivi di interesse generale, guerre «per porre fine alle guerre» o per «rendere il mondo sicuro per la democrazia», come a suo tempo si espresse Woodrow Wilson. L’istituzione del Tribunale di Norimberga si colloca in questa logica. Persino la Guerra fredda fu condotta in maniera tale da non lacerare questa tradizione, se si pensa al modo in cui la leadership americana si sforzò di articolare lo schieramento occidentale con il Piano Marshall, la Nato e il sostegno originario al processo di unificiazione europea. Con l’accettazione della sconfitta nella guerra del Vietnam, determinata dalla forza morale e politica del fronte interno, oltreché dalla resistenza vietnamita, gli americani ancora una volta rifiutano una vocazione per la democrazia imperiale (come la definisce criticamente Arthur Schlesinger, Jr.) che riprende vigore dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Visto il disorientamento dovuto al venir meno del nemico di mezzo secolo favorisce il tentativo più ambizioso di rifondare una politica estera unilaterale, alimentata da una forza soprattutto (ma non solo) militare preponderante, che prescinda da alleanze, regole internazionali e persino dai calcoli della diplomazia, come dimostra il modo in cui viene progettata la seconda guerra contro l’Irak da parte dell’amministrazione Bush.
Secondo questa logica, trattati internazionali vecchi e nuovi - che si tratti del trattato antimissili o della Corte penale internazionale - diventano inutili orpelli se non ostacoli all’iniziativa unilaterale del più forte, non più secondo un disegno di pax americana con tutte le sue ambivalenze, ma nel nome di interessi nazionali, nel senso più crudo ed immediato del termine. Se la polizia non è al servizio della comunità internazionale, ma braccio armato della potenza più che egemone dominante, essa sola può giudicarla ed eventualmente condannarla. Ne scaturisce una profonda ripugnanza ideologica oltre che pratica per qualsiasi forma di giurisdizione che non sia unilateralmente imposta dagli Stati Uniti d’America.
Di fronte a questo tipo di determinazione, che arriva a minacciare la crisi della Nato nel caso soldati americani possano essere sottoposti al giudizio della nuova Corte, le argomentazioni di Silvio Berlusconi - che riprendono quelle di commentatori come Angelo Panebianco (Corriere della Sera) ed Aldo Rizzo (La Stampa), senza per altro spingersi a spostare la posizione di Washington - assumono il carattere di balbettii giustificatori. Infatti, Berlusconi afferma che gli Stati Uniti - sono stati bruciati da una precedente esperienza: l’esclusione dalla «Commissione dei diritti umani» dell’Onu, dove «sedevano tanti Stati che non hanno dei regimi propriamente democratici».
L’Italia poi «ha ceduto il suo posto a Washington», ma «questo mi porta a capire le loro perplessità». Per questo «ho insistito affinché questa situazione non credi una divaricazione tra Europa e Stati Uniti che si caricano della responsabilità di intervenire nel mondo; non vorrei che ad un certo punto venissero fuori delle spinte isolazionistiche (sic) e si dicesse "ora pensateci voi"».
Stia pur tranquillo Berlusconi ché non sarà il nostro atteggiamento sulla Corte internazionale a impedire all’amministrazione Bush di intervenire ogni qualvolta serva a tutelare i suoi interessi e a giustificare l’aumento di spese militari che essa impone ai contribuenti americani. Anche la natura dei regimi può essere variamente valutata, visto che sono proprio i cosiddetti Stati canaglie a tenere compagnia agli Stati Uniti e il rifiuto del Tribunale. E che dire dell’argomento di Panebianco e di Rizzo (che è poi quello di Washington) secondo cui i soldati americani, essendo i più impegnati all’estero, potrebbero essere i più esposti alle vendette di un Tribunale non fosse superpartes? È comprensibile che esso trovi ascolto nell’attuale governo di Roma, perché assomiglia molto a quanto esso afferma sulla magistratura italiana.
Perché non ricordare, piuttosto gli episodi del Cermis e di Okinawa (in cui una giovane donna giapponese fu stuprata e uccisa da un soldato americano) in cui i rapporti di amicizia con le popolazioni locali furono danneggiate in maniera forse permanente perché accordi internazionali sottrassero i colpevoli alle giurisdizioni locali? Significa essere amici degli americani, nel senso di condividerne i valori, favorire la tendenza in atto a ricreare tanti «uggly americans» (brutti americani) in giro per il mondo?
Lasciare soli coloro che, negli Stati Uniti, si battono per la difesa di un immenso patrimonio storico fondato sulla legalità dei comportamenti sia interni che internazionali? Siamo alla vigilia dell’11 settembre. Non è questo il modo migliore per fare il gioco degli attentatori?

D'Alema, l' "inemendabile"

Rina Gagliardi

Ai vertici dell’Ulivo, Ds e Margherita, i girotondini in tutta evidenza non piacciono: li percepiscono come estremisti, anche se nella realtà sono portatori di istanze semplicemente democratiche. Li avvertono come "disordine" dei percorsi "ordinati" (?) della Politica, quella con la P maiuscola. Li vivono, insomma, come gente che disturba il manovratore. Perciò, nei loro confronti, oscillano tra diffidenza e arroganza, tra toni paternalistici e messaggi di malevolenza. Che dire del sublime Rutelli quando avverte, dalle colonne della Repubblica che «i girotondi non bastano»? Se fossi uno dei promotori della manifestazione del 14 settembre, mi sentirei alquanto offesa da un’osservazione così ridondante e così banalotta - nemmeno Nanni Moretti (che pure non scherza quanto a senso d’onnipotenza di sé) può aver mai pensato davvero di stare svolgendo una missione politica risolutiva. Ma che dire, soprattutto, di Massimo D’Alema che, da un altro importante quotidiano, il Corriere della sera, lancia una specie di scomunica? ll presidente dei Ds non solo fa sapere che, lui, il 14 settembre non ci sarà (e questa libertà di scelta appartiene in effetti agli inalienabili diritti di ogni persona), ma spiega che, nella sostanza, il movimento dei *girotondini* aiuta soprattutto il governo Berlusconi. Finalmente, un po’ di chiarezza. Manca solo un avverbio, tante volte detto e nel ’900 sentito: oggettivamente. Ma il concetto è proprio quello lì: la radicalità è sempre complice (appunto "oggettivamente") del nemico. E chi protesta troppo fa, "oggettivamente" il gioco dei padroni. Come dire: D’Alema perde il pelo, ma non il vizio

In realtà, la vera novità di questo ultimo D’Alema a tutto campo è un’altra: la sua adesione ad un’idea espliicitamente neo-autoritaria, ultradecisionista, quasi schmittiana, della politica. Nell’intervista al Corriere, il leader della Quercia dichiara testualmente: «Sono così favorevole al sistema maggioritario che, fosse in me, la legge finanziaria non dovrebbe essere emendabile». Un’affermazione che ha dell’incredibile, ma che non ha nulla di casuale: è il punto di arrivo di una cultura politica dove l’assolutizzazione della dimensione del governo si salda "logicamente" con la rinuncia ad ogni ottica di classe e con l’idea, conseguente, della neutralità delle «leggi dell’economia». Alla politica in senso proprio resta solo uno spazio, quello riservato alle questioni di coscienza, alla morale. Perché D’Alema vorrebbe una finanziaria non emendabile? Perché, nella visione postcomunista (e nella sua), la politica sociale ed economica, appunto definita da questo tipo di legge, è una prerogativa per eccellenza dell’esecutivo, del governo: il quale deve poter esercitare le sue scelte fuori e oltre ogni mediazione, e ogni concessione alla logica della rappresentanza. E perché è concepita come un’operazione di natura sostanzialmente tecnica, non connessa cioé a un’idea di società, a ideologie politiche, o a rapporti di classe. In effetti, non è questa la modalità con la quale i governi di centrosinistra hanno presentato le loro ultime finanziarie? Più in generale, la sinistra moderata ha davvero rotto con la sua storia quando ha assunto il capitalismo come l’unico modo di produzione possibile. Correggibile, magari, in qualcuna delle sue storture più gravi, ma pur sempre nella sua essenza eterno - anzi, "naturale", proprio come le leggi dell’economia (?). Proprio come le leggi finanziarie.
Quello di D’Alema, in fondo, è un approdo politico annunciato: un conservatorismo che ha pochissimo di liberale e ancor meno di democratico. Solo una domanda: ma da dove gli viene la persuasione, così pertinace e insistita, di avere «governato bene» quando ha governato, di essere ancor oggi a a capo di una una «classe dirigente» credibile, insomma di essere il migliore? Non è forse vero che, almeno negli ultimi dieci anni anni, non ne ha azzeccata una?

4 settembre 2002

Arthur Miller: «Preghiamo perché Bush non invada l'Iraq»


«Come volete che ci sia un dibattito con dei politici di questo livello?» Ad intervenire nel dibattito sulla nuova avventura bellica di Bush è l'86.enne, lucidissimo e franco, scrittore americano Arthur Miller, intervistato dal settimanale francese L'express, in edicola oggi. «Occorre pregare perché Bush non invada l'Iraq, perché, dal momento in cui l'Air force americana sarà impegnata da qualche parte, tutti i diritti più elementari saranno violati, il paese si accoda al presidente e smette di pensare. E' quello che è successo l'11 settembre: in nome della lotta al terrorismo, chiunque osasse avanzare un minimo commento negativo sulla politica di Bush era immediatamente accusato di fare il gioco del nemico». Senza mezzi termini, Miller accusa Bush di portare gli Usa all'isolamento, oltre «ad aver distrutto il sistema assistenza sociale, le riserve d'acqua e l'ambiente...» E alla domanda: questo significa che la democrazia è minacciata negli Usa? Risponde: «Sì, la democrazia è minacciata dall'amministrazione Bush». Dopo aver condannato gli atti di terrorismo, Miller prevede solo cambiamenti in peggio: «gli Usa diventeranno sempre più reazionari, meno liberali, meno aperti all'Altro, chiunque sia».

 

 

 

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