Moretti e Berlusconi: cinema versus televisione?
lanfranco caminiti

lanfranco@apolis.com


  
A me il cinema di Moretti non piace. Lo dico subito - lo dico da sempre
- perché forse sono prevenuto. Perché non mi si dica che sono prevenuto.
Non mi sono mai piaciuti i suoi film - tranne i primi primi -, ho sempre
sentito estraneo il suo linguaggio, il suo mondo di riferimento.
Ma il 14 settembre sono andato in piazza anch'io. Eppure questo non
c'entra niente.
Una manifestazione colossale, piena di facce pulite, preoccupate e
contente.
Ma non mi piacciono neanche Flores d'Arcais o Zaccaria, e Santoro poi lo
trovo proprio insopportabile, un arruffapopolo.
Non riesco a trovare un solo buon motivo per cui dovrei battere le mani
a Federico Orlando [così come non ne trovavo per osannare Indro
Montanelli, buon giornalista, sì, ma che c'entra?].
E altrettante ragioni non trovo per Di Pietro.
Gino Strada sì che mi piace. E il suo fervore.
Tutti gli altri organizzatori di girotondi non li conosco, però penso
che siano tutte persone per bene.
Ma Moretti proprio non mi piace. Eppure questo non c'entra niente.
E' un uomo di successo Moretti, indiscutibilmente: fa film e li vedono
milioni di persone fino a utilizzarne frasi come luoghi comuni di una
lingua di appartenenza; va ai concorsi internazionali e vince i primi
premi e all'estero lo studiano, lo riveriscono, lo considerano un
maestro; decide di prodursi e incassa fior di quattrini; decide di
aprire una sala cinematografica e una nuova distribuzione e gli va
benissimo; decide di indire un festival dei nuovi cortometraggi e va
alla grande; promuove certi autori e quelli sfondano al botteghino; si
mette a organizzare una manifestazione politica e viene giù un
terremoto. Insomma, proprio un Mida, quel che tocca diventa oro, un uomo
protetto dal cielo. Un vincente. Un campione. Viene invidia a pensarci.
Popolare anche, almeno per quella parte del popolo di sinistra fatta di
gente che esercita professioni "intellettuali" e che si sente portatrice
di valori culturali, anche semplici, democratici. Sono quelli che al
cinema ridono alle sue battute, si identificano nei personaggi. Sono
quelli che vivono Moretti non come un intellettuale, un maître à penser
prestato alla politica, uno che firma le petizioni, un consigliere del
Principe, un chierico, un compagno di strada. Ma, letteralmente, un
campione, il loro campione.
Anche Berlusconi è un uomo di successo, un vincente: fa il costruttore e
vende migliaia di appartamenti, fonda vere e proprie piccole città; fa
televisione e sfonda in un mondo rigido, antiquato e ottuso, fino a
affacciarsi all'estero; fa il politico e diventa primo ministro: dove si
mette sbanca. E anche Berlusconi è vissuto dai suoi sostenitori, dai
suoi elettori come qualcosa di più che un loro eletto. Quando esagerano,
un unto dal Signore.
E' curioso che due antagonisti così fieri e così capaci - persino nella
loro fisicità, nel loro parlare, nelle espressioni del viso - nel
rappresentare mondi, valori, modi che si vogliono contrapposti siano
persone che abbiano costruito entrambe la loro popolarità e la loro
"forza" fuori dalla politica eppure in forme così pubbliche.
E è curioso che due personaggi così distanti  e pure con tante
similitudini siano rappresentative di "popoli".
E' come se nella Napoli degli anni cinquanta-sessanta l'antagonista
dell'armatore e devastatore Achille Lauro fosse stato Francesco Rosi
dopo il suo Le mani sulla città.
Ma non era così.
Voglio dire, Moretti e Berlusconi hanno un'aura popolare che precede il
loro fare politica.
Per dire, Cofferati e Fini - sui fronti opposti - sono popolari per il
loro "fare politica", per il loro "mestiere politico", per il ruolo che
svolgono, per come lo svolgono. C'è un esercizio critico di chi li
sostiene nei loro confronti legato ai loro giusti o sbagliati
comportamenti e dichiarazioni. Con Moretti e Berlusconi non è così:
l'aura popolare è "a prescindere".
E' la politica che è cambiata, forse. L'agire pubblico.
Non il potere, quello no. Quello ha poche regole, da sempre.
Ma la popolarità politica, quella sì sembra cambiata.
E sarà pur vero quel che Moretti ripete "per la trecentesima volta", che
lui non vuole entrare in politica: lui "in politica", in questa nuova
rappresentatività  politica c'è già, da sempre.
E' strano che a incarnarsi in due antagonisti così diversi siano in
fondo il cinema e la televisione: Moretti non è "il" cinema, però
sicuramente a esso appartiene fino in fondo. Moretti il cinema lo
conosce bene, ne ha scartato gli aspetti più sperimentali così come
quelli più hollywoodiani, da effetti speciali. Così, Berlusconi non è
"la" televisione, ma a essa, ai suoi linguaggi, ai suoi format, alla sua
diffusione, ai suoi modi di comunicazione, deficiente, volgare,
tetteculi, guardona, patetica, sorrisismaglianti, faziosa, censoria e
censurata eppure così stramaledettamente sociale, domestica, casalinga,
appartiene fino in fondo.
E' accaduto - per quel che ricordo - solo un'altra volta quest'irruzione
delle Muse nella politica: con Giannini - che era un commediografo di
successo - e l'Uomo qualunque. La politica di allora - quella dei
Togliatti e dei De Gasperi, entrambi ne temevano il successo - lo
stritolò. Era un'altra politica, forse.
E è strano che il cinema ["quel" cinema] e la televisione ["quella"
televisione] in Italia siano così fieramente in guerra. E non per
interesse [un interesse materiale, intendo]: ma quasi, diresti, per i
"valori" che rappresentano, che hanno messo in campo, realizzato,
prodotto.
Quasi diresti lo scontro di due linguaggi, soprattutto.
Chissà se stiamo - ancora una volta - anticipando cose che accadranno
poi dappertutto.
Chissà se ho capito qualcosa di quel che sta succedendo. Se pure questo
non c'entra niente.

Roma, 16 settembre 2002

 

 

 

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