Berlusconi e Vespa Uno dei Due Mente


di Antonio Padellaro

Al centro di un salotto (televisivo) c’è un premier, Silvio Berlusconi, che parla, parla, parla. La sua ossessiva verbosità crea vistoso imbarazzo nei due direttori di giornale (Paolo Gambescia: Il Messaggero; Guido Gentili: Il Sole 24ore), chiamati a porre domande impossibili. Non c’è modo, infatti, di arginare la tracimante logorrea dentro cui annaspa e tragicamente affoga qualsiasi pur timida osservazione. Che, anzi, eccita nell’illustre personaggio nuove prolisse precisazioni, altre ridondanti puntualizzazioni, ulteriori copiose parentesi. Bruno Vespa, il padrone del salotto Porta a porta, non fa una piega. Lui è l’onnipotente che dà e toglie la parola all’intero parlamento italiano. Sarebbe, in teoria, un dipendente del servizio pubblico radiotelevisivo, e tuttavia nessuno osa ricordarglielo. Meno che mai il suo presidente, una gentile signora di esemplare riservatezza che, per l’appunto, non si vede e non si sente. Sempre più sprofondati nelle bianche poltrone, e forse in cupe riflessioni esistenziali, dopo un paio di ore i due direttori sotto sequestro, tacciono per sempre sfumando nel limbo triste degli sventurati che cedettero all’incantesimo della sinfonia di Via col vento e al supplizio di una intervista finta. L’Italia sbadiglia. Si spengono le luci. Tacciono le voci. Tranne una.
Riassunto delle puntata precedente. Tocca ai leader dell’opposizione, Fassino e Rutelli i quali si fanno venire un’idea bizzarra. Perché, scrivono a Vespa, lei non organizza un faccia a faccia televisivo tra uno di noi e il premier? In tutto il mondo civile si fa così: dal confronto diretto i cittadini possono farsi un’idea molto più precisa delle proposte in campo. E poi, ne guadagnerebbe sicuramente lo spettacolo. Mi dispiace, risponde l’onnipotente, non si può fare: «il clima è troppo teso e non lo consente».
Così, Fassino e Rutelli vanno in video in un contesto surreale. Uno dei due giornalisti presenti è il direttore di Panorama Carlo Rossella, a cui una regìa superiore ha affidato il privilegio di rappresentare Berlusconi e il suo favoloso mondo. Lo fa di malavoglia. A Fassino e Rutelli che snocciolano cifre e fatti, lui replica qualcosa sbirciando un foglietto che stropiccia tra le mani, un depliant elettorale di Forza Italia. Ogni tanto Vespa prende appunti. Sono le critiche dell’opposizione che l’indomani, promette, egli porterà al presidente del Consiglio. Nasce il dibattito per interposta persona. Una cosa del genere l’avevamo vista in un film sul Dalai Lama, dove le suppliche al Budda reincarnato potevano essere rivolte dai fedeli soltanto attraverso la devotissima madre. Che però al cospetto del dio non doveva neppure alzare gli occhi da terra. A Vespa è andata decisamente meglio.
A questo punto possiamo fare due ipotesi. La nostra è l’unica democrazia al mondo dove per ordine di un satrapo insicuro e capriccioso i cittadini e gli elettori vengono trattati come dei minorati psichici. Oppure: la nostra è l’unica democrazia al mondo dove un conduttore televisivo, ancorché potentissimo e temutissimo, decide se i cittadini e gli elettori devono essere trattati come dei minorati psichici. Cominciamo dal conduttore. Appare incredibile che un professionista della comunicazione si attivi per comunicare di meno, ovvero per impedire un confronto che sarebbe stato il punto alto della vita pubblica italiana in un momento che precede elezioni regionali, provinciali e comunali di una certa importanza. Lo fa notare il giornalista Ceccarelli de La Stampa che vorrebbe chiarimenti sullo strano evento di cui, garbatamente, si dichiara meravigliato. Un Vespa piccatissimo risponde che c’è un equivoco. Volete che non abbia girato a palazzo Chigi la lettera di Fassino e Rutelli? Volete che Berlusconi, che si è rifiutato di incontrare Rutelli prima delle politiche del 2001, cambi idea alla vigilia di elezioni amministrative parziali?
Il mistero s’infittisce il giorno dopo quando il presidente del Consiglio si aggira da solo tra scrivania (di ciliegio) e sedia a Porta a porta e non si accorge dei due direttori (uno dei quali tarda persino a entrare in studio perché nessuno fa caso al din-don che annuncia l’ingresso degli ospiti). Torniamo al punto di partenza. Berlusconi si abbandona al monologo torrenziale e un po’ disperato in cui il Primo ministro sembra rimpiangere (più di lui certo il pubblico) che nessuno si sia presentato all’assemblea di caseggiato. Deliberatamente esagera il Primo ministro con una sequenza di «si figuri, dottor Vespa, mentono sempre. Stia a sentire questa», che qualunque psicologo interpreterebbe come un profondo senso di disagio per tutto quel vuoto. Anche perché il dottor Vespa ha taciuto per due ore. Mentre l’inarrestabile soliloquio sbandava tra l’autoelogio e lunghi elenchi di qualunque cosa (leggi, sedute, consigli dei Ministri, cifre, processi, testimoni, minacce, piccole opere e grandi opere) pur di colmare l’assenza di interlocutori politici su cui tentare di scaricare la responsabilità di due anni di governo deragliati. Resta la domanda. Chi ha mentito? Uno, il giornalista, non poteva farlo perché non tocca a lui escludere l’opposizione dalla tv pubblica. L’altro non lo ha mai detto e ha mostrato a lungo, arrivando fino all’insinuazione e all’insulto, di rimpiangere il vuoto. Qualcuno ci può aiutare?

«Il premier ha deluso, i suoi elettori lo puniranno»



ROMA Giovanna Melandri è la candidata diessina alla provincia nei quartieri tradizionalmente di destra, dai Parioli al Pinciano, dal Flaminio al Salario e racconta di una campagna elettorale dalla «straordinaria» partecipazione. Percorrendo il collegio in lungo e in largo ha incontrato gli elettori di un ceto medio-riflessivo di destra, a cui «i solisti non piacciono più», perché «se Prodi è la maschera dei comunisti, Berlusconi è il lifting di una politica spettacolare che non convince più neanche i suoi elettori».


Onorevole Melandri, siamo alla vigilia delle elezioni e Berlusconi dice di avere la provincia di Roma in tasca.


«Berlusconi si contraddice. Questo sarà un test nazionale importantissimo, che ha visto la coesistenza di due campagne elettorali parallele, una finta e una vera. Quella finta è stata tutta mediatica, con Berlusconi che ha gettato fumo negli occhi degli italiani e ha tirato fuori dai vecchi sepolcri parole come "anticomunismo", "ulivo pianta nobile ma simbolo dell’illibertà", per poi dire che le queste elezioni non riguardano il governo, con un chiaro timore di perdere la provincia di Roma».


Infatti Moffa ieri ha chiuso la campagna da solo con Storace e Fini.


«È la prova che il governo vuole stare alla larga da una sconfitta. All’opposto c’è la campagna elettorale vera, quella della vita concreta e materiale delle persone. La gente preferisce chi gioca in squadra, Berlusconi ormai sa solo parlare di sé».


Parliamo invece di lei e della sua squadra. Qual è stata la motivazione che l’ha spinta a candidarsi?


«Ripeto che queste elezioni sono un test nazionale importantissimo, e quando il segretario della federazione di Roma mi ha chiesto se volevo dare una mano, ho detto di sì volentieri, in puro spirito di militanza».


E ha scelto uno dei collegi più difficili.


«L’ho fatto di proposito. Ho chiesto a Nicola Zingaretti di individuare il collegio più difficile per noi a Roma e mi sono messa a lavoro. Non mi sentivo di sottrarmi da una richiesta che veniva dalla federazione. C’era una coalizione ampia, un programma condiviso, e poi sarà importante il risultato complessivo dei Ds».


E che cosa ha proposto alla fascia di elettori più lontani dal centrosinistra?


«Ho parlato con tanti moderati, con un ceto medio-riflessivo di destra, che si sta interrogando sul fatto che in questa destra di moderato c’è molto poco. Ho incontrato gli elettori di An, che forse non voteranno mai per noi, ma con loro ho discusso a lungo del declino economico di questo paese, dell’inflazione che galoppa, della destrutturazione delle politiche sociali, del patrimonio culturale messo in vendita, delle politiche ambientali che non esistono e ho riscontrato una grande delusione per il solista ideologico che oggi è a capo del governo. Poi ho ricordato agli elettori quanto è importante questo ente Provincia, che sentono molto lontano, al quale noi vorremmo esportare il modello di governo della giunta Veltroni. Penso che una buona fetta dell’elettorato più distante sia recuperabile.


Gasbarra ha promesso una «giunta rosa». Ci sono tutte le premesse?


Le donne di Roma hanno promosso Enrico, e apprezziamo che Enrico non abbia inserito il capitoletto delle donne nel programma per poi non affrontare il vero problema della condivisione delle politiche e del potere. Le donne sono state il lievito di questa campagna positiva, con una coalizione ampissima ed un candidato autorevole. Sono sicura che Gasbarra ne terrà conto.

"Il vostro governo non esiste"



PARIGI Alain Touraine, sociologo e politologo francese di fama mondiale, ha sempre avuto un occhio di riguardo per le vicende italiane. Gli abbiamo quindi chiesto, alla luce delle ultime performances di Silvio Berlusconi - in particolare la chiamata in causa di Romano Prodi e Giuliano Amato nel corso della sua «deposizione spontanea» al processo di Milano - quale sia non solo l’immagine, ma anche il ruolo politico del nostro paese nel concerto europeo, quando manca qualche settimana al cambio di testimone alla presidenza dell’Unione tra Grecia e Italia.


Professor Touraine, come le sembra l’Italia due anni dopo l’ascesa al potere di Berlusconi?


«Mi sembra che l’Italia dia di sé stessa un’immagine assolutamente eccezionale. È un paese che apparentemente va benone non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale e persino politico. Mostra una capacità di reazione e di mobilitazione che non ha eguali. Da nessuna parte le piazze si riempiono come qui da voi. Possiede una vitalità straordinaria, è un esempio per il mondo intero. Anche da altri punti di vista: lo stile italiano, per esempio, è quasi egemone sul pianeta.


Grazie dei complimenti: tutto bene, dunque?


La cosa eccezionale è però che non ha governo.


Come sarebbe?


Non ha governo. Non che non abbia un presidente del consiglio e i suoi ministri, lo sappiamo bene. Ma il fatto è che in Europa proprio non se ne percepisce l’esistenza, l’azione, le opinioni, le scelte. Si sa che a palazzo Chigi c’è un uomo d’affari che si occupa dei suoi affari. Si sa che la cosa pubblica per lui non esiste, se non per farne oggetto di privatizzazione. Questo si sa. Lo si è visto nella vicenda irachena: qualcuno si è mai accorto dell’esistenza dell’Italia nel coro internazionale? Mai, nessuno.


Quindi?


Quindi la domanda sorge spontanea: perché diavolo gli italiani sono incapaci di avere un governo, di destra o di sinistra che sia, che corrisponda all’importanza reale del paese? Adesso si arriva alla presidenza semestrale italiana dell’Unione europea, e il presidente si porta dietro il lezzo di affari giudiziari di basso livello...


Si possono immaginare conseguenze politiche piuttosto serie.


Ecco, su questo punto non sono molto d’accordo. Per conto mio non ci saranno conseguenze politiche gravi. L’Italia partecipa comunque al concerto europeo: c’è un italiano alla presidenza della Commissione, un altro italiano al fianco di Giscard d’Estaing alla Convenzione. È gente che pesa e peserà sull’avvenire dell’Europa. E poi non starò qui a ricordare che l’Italia è uno dei paesi fondatori dell’Unione, che il primo Trattato venne firmato a Roma... Voglio dire che per quanto sia priva di un governo e di un leader degni di questo nome l’Italia gioca comunque un ruolo: sarà il generale Mosca Moschini a presiedere il Comitato militare dell’Ue, è notizia di ieri. L’Italia non è assente, è il suo governo a non esserci.


Questa sua fotografia delle cose non testimonia di una grande vittoria dell’Europa, della sua rete di protezione, delle sue dinamiche irreversibili?


Si potrebbe dire, sì. Malgrado lentezze e anche vergogne - penso alla Bosnia, era solo ieri - l’Europa continua a costruirsi quasi da sola. E questo costituisce senz’altro la sua grande forza. Per contro l’Europa non esprime una sua visione del mondo. La sua opinione pubblica, così sensibile a quanto accade nel mondo, non trova espressione politica in un progetto di marchio europeo. In questo gli americani hanno ragione, quando dicono che l’Europa non ha né anima né idee. Ne deriva che l’Europa in quanto tale non ha nessun peso: basta pensare al Medio Oriente e all’ininfluenza dell’Ue. Gigante economico, ma nano politico a causa di un’assenza di volontà politica gravissima. E in questo l’Italia porta una grande responsabilità.


Vuole dettagliare?


È uno dei paesi che più di altri potrebbe usare la sua esperienza e comprensione dei rapporti tra occidente e islam, per esempio. Ma Berlusconi e i suoi hanno scelto il silenzio, una stupefacente assenza di parola circonda la loro azione internazionale. Beninteso, trovo che nessun paese europeo esprima una visione. Solo la Gran Bretagna, ma in senso antieuropeo: è una visione semplicemente americana. Chi, se non l’Europa - con l’Italia in prima fila - può proporre un progetto, un’idea capace di combinare la modernità mondializzata con le culture proprie ad ogni paese?


Lei parla di assenza di volontà politica. Ma non è forse precisa volontà politica quella di lasciare l’Unione vivere di solo mercato?


Forse è vero, forse è così. Ma allora a che serve manifestare contro gli Stati Uniti che vanno in guerra se non si ha un altro progetto da opporre? È come dire: americani, per favore, lasciateci in pace, non disturbate le nostre domestiche occupazioni. Gli americani hanno armi e idee, per quanto nocive esse siano. Noi rischiamo di ridurci al rango di piccoli borghesi impauriti, esitanti.


Come giudica il percorso diplomatico di Chirac nel corso della crisi irachena?


Positivamente, per la difesa delle ragioni del diritto internazionale. Era in sintonia con l’opinione pubblica europea. Ma ripeto: Chirac ha detto no agli Stati Uniti senza dire sì a qualcos’altro, e la sua opposizione si è fatta sterile.


Come faceva, da solo?


Appunto. Se l’Italia è silenziosa, se la Gran Bretagna sceglie un’altra soluzione, se la Germania è indebolita dai suoi crucci economici, è evidente che Chirac appare come il solito galletto francese che canta in solitudine. Se solo l’Italia avesse detto una parola a Parigi e Berlino nel corso della crisi irachena le cose sarebbero probabilmente andate diversamente, forse lo scontro con gli Usa si sarebbe evitato, o comunque si sarebbe salvaguardato il dialogo. Ma no: da Roma non un vagito. Gli europei complessivamente sono stati deludenti, d’accordo, ma l’assenza di parola italiana è stata estrema. C’è per esempio adesso la necessità assoluta, e la possibilità di parlare ad un paese-chiave: l’Iran, in bilico tra il ritorno all’estremismo religioso e la strada democratica. Se non lo fa l’Europa, non lo farà nessuno al suo posto. E in Europa, se ben ricordo, era stata l’Italia ad aprire il dialogo con Teheran nel dopo-Khomeini. Ma l’Italia di oggi appare immemore, e soprattutto muta. È un peccato, per l’Europa e per il mondo.

Un megalomane che si fa dettar legge da Ferrara

MILANO «Hai letto l’editoriale di Ferrara? Bene cavaliere, devi fare così, cavaliere avanti, due passi avanti, mai uno indietro, ogni giorno una richiesta nuova, su con la voce... Quel tipo lo porta alla rovina...».
Non dice esattamente «quel tipo».
Giorgio Bocca usa un’espressione di maggior calore. L’editoriale del Foglio di ieri, ripensando al Porta a Porta dell’altro ieri, sembra un incitamento alla violenza (metaforicamente): « Presidente, attento ai serpenti... Si decida a usare tutta la sua forza politica... e blocchi subito con la solenne e inflessibile decisione di una maggioranza unita le tagliole pronte a scattare. Se le dicono di abbassare i toni, li alzi...». Esemplare per la chiarezza delle intenzioni.


Quanto alla rovina, c’è da credere che quel tipo lo porti alla rovina?


«Se continua questa battaglia senza frontiere, contro l’universo mondo. Si sta facendo nemici tutti, si è inimicato i magistrati, si sta inimicando persino la Confindustria».


D’Amato non mi pare gli sia diventato nemico, però.


«D’Amato è una parentesi nella storia della Confindustria. D’Amato pensa a se stesso, a tenere in piedi la baracca, la propria e quella di Berlusconi. Altrimenti come si giustificano i suoi attacchi ai giudici? Che cosa avranno mai da rimproverare gli industriali ai giudici? Ti pare che gli industriali possano comprendere e condividere un simile assalto alla magistratura?»


Chissà se, insieme con Ferrara, anche la gente lo porterà alla rovina?


«La gente è imperscrutabile. Potrebbe votarlo ancora e allo stesso modo potrebbe abbandonarlo».


Avrà convinto qualcuno, seduto alla scrivania di Porta a Porta, con il sorriso del venditore, senza offesa, cantando a raffica numeri e imprese?


«In questo senso erano stati molti efficaci, preventivamente, Fassino e Rutelli, che hanno dimostrato come le grandi opere di Berlusconi siano sogni senza soldi e lavori che vedranno la luce fra dieci anni».


La sera prima però. Una volta c’erano le tribune politiche con i gironalisti che interrogavano e contraddicevano i leader politici. Con Vespa si è arrivati alla sceneggiata solitaria dell’incantore di serpenti. Ci va di mezzo anche l’onore della categoria.


«Siamo entrati nella terza repubblica, come dice Ferrara. La terza repubblica è la dittatura».


Che cosa deve temere di più Berlusconi?


«Il suo governo, che fa acqua da tutte le parti, impotente di fronte alla crisi economica. È anche scalognato, perchè è un periodo nero per tutti. Ma si capisce che si sente in difficoltà. E allora segue il consiglio di quel pazzoide di Ferrara: siccome abbiamo la maggioranza assoluta, facciamo di corsa tutto e tutte le riforme che ci fanno comodo. Ma è davvero un brutto segno se Berlusconi si lascia convincere da uno come Ferrara».


La vicenda giudiziaria gli crea angoscia?


«Nella sua onnipotenza la sorpresa che lo abbiano indirettamente condannato condannando l’amico Previti lo ha fatto uscire dai gangheri. Lo fa uscire dai gangheri qualsiasi segnale di contestazione...».


Non tollera i contestatori. Lo ha ripetuto anche in tv. Criticare diventa delitto di lesa maestà.


«È vittima della su stessa megalomania. Che cresce».


Magari è in fibrillazione perchè s’è accorto d’essere troppo al di sotto del compito?


«Credo che pesi il suo passato recente. Quando si è ritrovato carico di debiti e politicamente sull’orlo del disastro ha bluffato come un giocatore di poker e gli è andata bene. Si è convinto d’essere fortunato e che la fortuna gli permetta di superare qualsiasi ostacolo. Vedeva davanti a sè il disastro, questione di sei anni fa. Si ritrova con la maggioranza schiacciante in parlamento, mentre si moltiplicano i guadagni delle sue aziende. Si capisce la megalomania».


Megalomania che fa a pugni con la realtà. Ad esempio dietro l’esibizione di tante strette di mano con i potenti della terra c’è il vuoto della sua politica estera. Se ne sarà accorto?


«Sto scrivendo un libro sull’impero americano e mi sto leggendo molti saggisti americani: non c’è uno che lo citi. Non citano nè lui nè l’Italia. Scrivono della Francia, della Germania, persino della Spagna. L’Italia per loro semplicemente non esiste. Credo che di questo se ne stia accorgendo: anche se fa tanto il ganassa, in un quadro di politica internazionale lui non compare mai e il suo ministro degli esteri è costretto a subire figuracce da peracottaro».


Ganassa nel senso di bauscia, nel senso di sbruffone. Ai vertici internazionali lo hanno ignorato più di una volta.


«È chiarissimo che non lo considerano proprio».

«L'anomalia Berlusconi» un pericolo per l'Europa, scrive Le Monde


di red.

Un editoriale e un'intera pagina del quotidiano parigino Le Monde datato 25 maggio (ma in edicola dalle 13 del 24 maggio) sono dedicati alle vicende si Silvio Berlusconi, ai suoi processi, alla politica italiana ridotta ad un tema unico. Ma soprattutto alla prospettiva, vista con una certa apprensione, che il nostro premier diventi, dal 1° luglio, presidente di turno dell'Unione europea. Qualcosa di simile aveva scritto, il 9 maggio, anche il settimanale britannico The Economist e questi interventi sulla stampa europea rischiano di moltiplicarsi nelle prossime settimane.

In un momento così delicato della sua storia, «l'Europa, che deve molto all'Italia, avrebbe potuto sognare di essere guidata da un uomo dall'indiscussa leadership politica e morale. Non sarà questo il caso», scrive Le Monde in un editoriale intitolato «Le cas Berlusconi». Il quotidiano francese sottolinea che la presidenza italiana dell'Unione Europea arriva «in un momento particolarmente difficile per Berlusconi mai come ora sotto i riflettori della giustizia del suo Paese» e tutto questo inevitabilmente avrà ripercussioni sull'Europa.

L'editoriale di Le Monde si apre con una premessa: «Venendo dalla Francia, le lezioni di morale sulle relazioni tra la politica e la giustizia, e più precisamente sull'atteggiamento di questa a indagare sui vertici dello Stato, non sono necessariamente le benvenute». Ma fatta la dovuta premessa, «è difficile non tornare sull'argomento, mentre il premier italiano si appresta ad assumere, per sei mesi, la presidenza dell'Ue». Presidenza che inizia il primo luglio in «un momento particolarmente delicato: crisi economica quasi generale, identità politica scossa dalla questione irachena, infine, momento chiave per le nuove istituzioni», che dovranno garantire il funzionamento dell'Europa a 25.

È dunque in questo panorama che comincerà il semestre italiano, con Berlusconi oggetto di un'azione, «una volta di più, della giustizia milanese»: «I capi di imputazione sono gravi - scrive Le Monde - Il primo ministro e futuro presidente dell'Unione rischia da tre a otto anni di carcere. Lui smentisce, contrattacca, si indigna, si dice vittima di un complotto fomentato da una manica di «magistrati faziosi». Vuole guadagnare tempo, per ottenere la prescrizione. E, confermando la sensazione che dà di essere entrato in politica per proteggersi dalla giustizia, cerca di far passare un progetto di legge che gli garantirebbe l'immunità giudiziaria, almeno temporaneamente».

Ricordati i guai giudiziari, il quotidiano sottolinea che tutto ciò «riguarda l'Europa», avendo Berlusconi chiamato in causa «due uomini, che la giustizia milanese ha scagionato, Romano Prodi e Giuliano Amato, rispettivamente presidente della Commissione europea e vice presidente della Convenzione. L'attacco quanto meno cade male, perché annuncia relazioni poco serene tra il futuro presidente dell'Unione e due dei responsabili con cui dovrà collaborare strettamente».

Ma «l'anomalia» Berlusconi non finisce qui, conclude Le Monde, ricordando che da due anni «il patron di Forza Italia promette di risolvere il conflitto di interessi, aberrante e scioccante per la democrazia, tra la sua occupazione delle tre principali emittenti private del Paese e la sua funzione di premier. Si attende sempre una decisione soddisfacente su questo argomento, come, più in generale, un gesto che indichi che uno degli uomini più ricchi del Paese separa radicalmente gli interessi del suo gruppo da quelli dello Stato».