da l'unita'

DIFENDIAMO I VALORI DEL SINDACALISMO CONFEDERALE

Cesare Damiano responsabile Lavoro dei Ds. Di fronte a quanto sta accadendo nei rapporti tra sindacati con un accordo separato sui metalmeccanici, le scelte sul Patto per l’Italia e

sull’art. 18 ritiene che si stia creando un bipolarismo, una forbice tra due diversi modelli di fare sindacato?

«Non credo che si possa parlare di bipolarismo sindacale e credo che bisogna combattere una deriva di questa natura qualora dovesse manifestarsi, ci troviamo di fronte a delle divisioni sindacali anche importanti ma che non configurano ancora una tendenza strutturalmente divaricata. Accanto all’accordo separato dei metalmeccanici per fortuna abbiamo piattaforme e accordi unitari per altri contratti, e su argomenti come la pace, il terrorismo, il Mezzogiorno, le pensioni, il confronto con Confindustria sullo sviluppo i sindacati hanno un’importante elaborazione comune. Quindi non c’è una tendenza uniforme. Al tempo stesso credo che vada visto con preoccupazione quanto si è determinato tra i metalmeccanici. Sul bipolarismo sindacale mi pare che si possa dire che Cgil, Cisl e Uil abbiano una visione comune: tutti comprendono che se si dovesse determinare una divisione strutturale corrispondente alla divisione nel campo politico significherebbe la fine dell’esperienza del sindacalismo confederale così come si è determinata dagli inizi degli anni 40 sia pure con le sue alterne fortune. Perché inevitabilmente avremmo una parte del sindacato proiettato in un ambito puramente protestatario e un altro in un ambito corporativo e subalterno ai governi».

L’accordo sui metalmeccanici però è separato ed è pesante, in sé e per i rapporti tra sindacati. Oggi (ieri, ndr) Epifani ribadisce il suo giudizio negativo, ma dice anche che ci vuole una legge sulla rappresentatività e che il centrosinistra dovrebbe metterla tra i punti qualificanti dei suoi programmi. È possibile?

«Intanto mi auguro che la situazione dei metalmeccanici non faccia scuola, ma resti un’anomalia. In ogni caso sono convinto che il nodo della rappresentatività accanto a quello della rappresentanza si ponga sia sul terreno politico che su quello sociale. Il nodo della rappresentatività è stato disciplinato dalla legge Bassanini nel settore pubblico sulla base di una elaborazione di Cgil, Cisl e Uil negli anni 90. Credo quindi che il problema possa trovare soluzione se esiste la capacità di un compromesso sindacale. Nessuna legge può saltare l’opinione unitaria del sindacato altrimenti correremmo il rischio di comportarci come il governo del centrodestra che punta alla divisione sindacale per un suo indebolimento. Per una validazione democratica degli accordi lo schema della Bassanini si basa sul criterio del voto dei lavoratori e il numero degli iscritti certificato, e - ripeto - è stato voluto da Cgil, Cisl e Uil. Può essere trasferito nel settore privato a mio avviso, funziona egregiamente anche se non prevede il ricorso al referendum tra i lavoratori anche perché conferisce ai sindacati stipulanti la legittimità alla firma di un accordo. Sarebbe un forte deterrente per percorsi separati e in qualche modo "obbligherebbe" a percorsi unitari».

Anche perché le divisioni stanno creando situazioni come le contestazioni al leader della Cisl, l’ultima a Lucca. Di fronte a una parte che decide anche per chi non è d’accordo non si corre il rischio di veder moltiplicati questi episodi?

«In trent’anni di sindacato nei metalmeccanici e non solo ho preso la mia dose di fischi soprattutto nel corso degli anni 70, nel ‘76, o anche nel ‘92. L’unità sindacale non è una passeggiata, è sempre stata una conquista. Qui però siamo di fronte a situazioni che non vanno tollerate o comprese: perché un conto è contestare una situazione, un altro è pensare che chi ha un’idea diversa dalla tua sia un "venduto" o un "traditore". È una tendenza da contrastare, è pericolosa per il futuro del sindacato e per il mantenimento della normale dialettica, sono forme di estremismo che non possono trovare indulgenza, tant’è che la Cgil per prima le condanna così come le abbiamo condannati noi. Non possiamo assistere inerti ad elementi di preoccupante degenerazione nelle relazioni sindacali, questa deriva va fermata perché il problema dell’unità del sindacato, della democrazia nel sindacato, del profilo confederale del sindacato, non è un problema solo dei sindacalisti o dei lavoratori, è un bene prezioso per il futuro di questo Paese».

"Per la libertà di stampa il clima sta peggiorando"

ROMA Il rapporto fra politica e informazione sta peggiorando: c’è un clima da «guerra interna». Silvio Berlusconi «si sente un perseguitato» e mostra «avversione e risentimenti contro i giornali che non lo appoggiano». Professore di storia del giornalismo e di comunicazione di massa, Paolo Murialdi ha lavorato al Giorno e al Secolo XIX. È stato presidente della Fnsi nonché consigliere di amministrazione della Rai nei primi anni ‘90. Con la sua storia alle spalle, delle ispezioni aziendali al Tg3 si meraviglia. Mentre sull’emendamento Mormino non ha dubbi: «Una proposta indegna. Un clamoroso errore. Una brutalità politico-morale».

Lei che in Rai c’è stato, come valuta le ispezioni al Tg3 decise dall’azienda?

«La mia prima sensazione è di meraviglia. Mi stupisco, perché nonostante la mia lunghissima esperienza anche alla Federazione nazionale della stampa è la prima volta che questo accade. Può darsi, certo, che un direttore chieda spiegazioni, ma non un amministratore. È giusto appurare se sono stati commessi degli errori, ma a farlo deve essere appunto il direttore».

Il giorno prima, in Commissione Giustizia Forza Italia ha tentato di mantenere in vigore il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione. I rapporti fra politica e mondo dell’informazione appaiono sempre meno idilliaci.

«Il clima sta peggiorando. Come del resto peggiorano i rapporti con tutti quelli che Berlusconi considera nemici, si tratti di stampa o di politica. C’è una contrapposizione accanita, i toni non sono mai stati così aspri. Certo anche in passato c’erano contrapposizioni. Io ho vissuto il 18 aprile del 1948 e gli aspetti italiani della guerra fredda. Ma erano altri tempi. Adesso c’è una vera guerra interna, con Berlusconi che si sente un perseguitato».

Contro l’emendamento Mormino c’è stata un’insurrezione. Per la maggioranza è stato un autogol?

«È una proposta indegna. Non so se sia stata fatta per zelo berlusconiano, ma lo stesso presidente del Consiglio si è reso conto che se passava magari ne sarebbero stati colpiti anche giornalisti suoi simpatizzanti o seguaci. Perché i giornalisti possono eccedere nella polemica da destra, da sinistra, dal centro, o senza connotazione politica. Compresi, dunque, quelli cari a Berlusconi o addirittura suoi dipendenti».

Infatti il Cdr del Giornale ha protestato: con tutte le querele milionarie che abbiamo, vi ci mettete pure voi.

«Non mi soprprende che su certe questioni politico-sindacali i giornalisti di Berlusconi siano contro le scelte della destra».

Che lettura dà del tormentato rapporto di Berlusconi con i media: un conto aperto con alcuni o una generica insofferenza alle critiche?

«C’è un’avversione molto risentita nei confronti dei giornali che non lo appoggiano. E l’istinto di Berlusconi sarebbe di intervenire sempre, anche se poi si sforza di non farlo. A volte, come ieri (l’altroieri, ndr), capisce che sarebbe stato peggio e che avrebbe avuto contro anche i suoi. Quindi, direi che ha risentimenti generali sulle idee e particolari verso certi giornalisti. Di certo ce l’aveva con Enzo Biagi. È stato clamoroso, anche peggio che con Santoro perché questi faceva in effetti polemica politica mentre Il Fatto era tutt’altro».

Come si possono contemperare nel modo più adeguato la libertà di informazione e l’onore delle persone offese?

«Scartiamo subito il carcere, tanto che lo stesso Berlusconi - "padrone" di Mormino - ha bloccato l’operazione. È stato un errore clamoroso, o meglio una brutalità politico-morale. Ma certo i giornalisti devono essere corretti. Come sanzione si può ricorrere alle multe. Personalmente, ritengo che sia sempre male applicato lo strumento della rettifica. Detto questo, la libertà di informazione deve essere molto ampia, il mestiere del cronista più libero possibile. Vorrei che fosse disciplinato solo da regole e codici "umanitari". Invece manca una legge chiara, degna, moderna: la Legge sulla Stampa risale al ’48».

"Al Qaeda firma così il suo ritorno alle origini"

Il ritorno di Al-Qaeda, la sfida mortale rinnovata agli Usa, le ricadute sui fragili equilibri interni al regime saudita. Sono questi i temi al centro del nostro colloquio con il professor Renzo Guolo, studioso dei fondamentalismi contemporanei.

I tre sanguinosi attentati che hanno sconvolto Riyad a poche ore dall’arrivo del segretario di Stato Usa Colin Powell, segnalano il ritorno alle origini di Al Qaeda?

«C’è indubbiamente un motivo di continuità nel’azione di Al Qaeda: la tematica dell’avversione nei confronti degli americani per la loro occupazione della Terra dei luoghi santi, è infatti una classica istanza del network terrorista di Osama Bin Laden. Allo stesso tempo, questi attentati segnalano ad un potenziale, e tutt’altro che ristretto, bacino di reclutamento che il modo di colpire gli americani resta quello fissato dall’organizzazione. Per Al Qaeda non è possibile combattere gli americani su un terreno convenzionale, come pensavano anche gli islamisti accorsi in Iraq per contrastare l’occupazione anglo-americana; il campo scelto resta quello del terrorismo che permette di far fronte e rimettere in discussione le asimmetrie sul terreno della forza».

I kamikaze che hanno seminato morte e devastazione sono i portatori di una sfida mortale «Grande Satana» americano, oppure i massacri di Riyad hanno anche ragioni interne alla realtà saudita?

«Sicuramente gli attentati sono un monito al regime saudita. Essi avvengono dopo che la famiglia reale e gli Usa hanno deciso di chiudere le basi statunitensi in Arabia, come da molti anni reclamavano gli stessi islamisti sauditi e Al Qaeda. Ma questo non è bastato a preservare quello che Osama Bin Laden considera un regime empio dai colpi del jihadismo. Gli attentati comunque rivelano la profonda penetrazione dell’organizzazione di Bin Laden nell’ambiente saudita. È difficile pensare che Al Qaeda abbia potuto colpire simultaneamente a Riyad in luoghi molto sorvegliati, senza contare su complicità diffuse ad ogni livello».

Gli attentati di Riyad avvengono mentre è in corso la missione in Medio Oriente del segretario di Stato Usa, volta a rilanciare il negoziato di pace israelo-palestinese. Le bombe di Riyad sono anche legate a questo scenario?

«Lo sono in quanto la questione palestinese, nel momento in cui si discute dell’attuazione della "road map", torna ad avere una sua centralità. Ma va rilevato che Al Qaeda agisce autonomamente per rivendicare la guida del campo islamista in funzione antiamericana. Da questo punto di vista, la causa palestinese rappresenta un elemento della propaganda armata della rete terroristica di Osama Bin Laden».

Il ritorno alle origini di Al Qaeda può essere il segno che il saudita Bin Laden è ancora in vita?

«Può esserlo, ma proprio la forza di questi attentati indica che indipendentemente dalla sorte di Bin Laden, l’Arabia Saudita resta comunque un focolaio diffuso di terrorismo. Quel che appare certo è che la guerra in Afghanistan non è riuscita a distruggere interamente la rete di Al Qaeda. E non solo perché, ad oggi, non vi è certezza alcuna sulla sorte di Bin Laden, ma anche perchè il carattere di movimento diffuso e transnazionale di Al Qaeda, toccato relativamente dalla sconfitta militare afghana, fa sì che possa riorganizzarsi e riprendere la Jihad globale. Gli attentati di Riyad ne sono la tragica e incontestabile conferma».

Questi attentati possono influenzare la discussione all’interno dell’Amministrazione Bush?

«Certamente. Prenderà più forza la linea Wolfowitz-Perle, che ritiene impossibile giungere alla soluzione del problema del terrorismo se non si esporta, anche con la forza militare, la democrazia in tutto il mondo islamico, mentre questi attentati mettono più in difficolatà il partito degli "stabilizzatori", guidato da Donald Rumsfeld, che puntava all’Iraq come alternativa militare e petrolifera all’Arabia Saudita. La linea "Wolfowitz-Perle", riceverà da questi attentati l’indicazione che Al Qaeda, in quanto attore globale della sfida terroristica, può portare i suoi colpi ovunque. Ne deriva, per i sostenitori di questa linea interventista permanente, la considerazione che non è sufficiente abbandonare l’Arabia Saudita, che, anzi, da un minore controllo americano potrebbe incubare ulteriormente il radicalismo armato islamico».

"Il Lodo? Non in mio nome"

ROMA «Non consento a nessuno di farsi scudo del mio nome». Antonio Maccanico è visibilmente infastidito della spregiudicatezza con cui tanti esponenti della maggioranza di governo stanno usando la sua vecchia idea di sospendere i processi giudiziari alle alte cariche dello Stato nel corso dell’esercizio del loro mandato istituzionale. «Ho la presunzione di essere un servitore dello Stato prima ancora che un politico riformatore dedito al dialogo bipartisan», premette alla spiegazione del perché quello che è passato alle cronache come il «lodo Maccanico» non può più essere considerato tale. Porta la mano destra verso un cassetto della scrivania: «La formula è rimasta qui, al chiuso, da cinque mesi. Ricorda? Il centrodestra partì all’offensiva con la legge Cirami, puntando al trasferimento dei processi di Milano contro Cesare Previti e Silvio Berlusconi. Il centrosinistra era contro la forzatura. E io, per evitare l’ennesima lacerazione istituzionale, proposi che ci si confrontasse su una soluzione che tenesse conto del ruolo del premier senza alterare i meccanismi giurisdizionali. Ma l’iniziativa fu snobbata, se non derisa da quanti credevano di fare il colpo grosso. Hanno fatto un buco nell’acqua. E ora...».


Ora il lodo Maccanico serve ad evitare che il premier rischi la stessa sorte di Previti. Troppo comodo?


«Troppo tardi. E, temo, troppo strumentale. Il lodo è un arbitrato tra posizioni differenti, quindi presuppone la disponibilità delle parti contrapposte a una soluzione convergente. Ebbene, sulla giustizia, tema bipartisan per eccellenza, il contrasto non è di oggi: è cominciato sin dall’inizio della legislatura, con le scelte unilaterali della maggioranza, e mi pare prosegua senza soluzione di continuità».


Ma oggi è al centro delle preoccupazioni istituzionali...


«Se è per questo, lo era anche cinque mesi fa. Sono grato al presidente della Repubblica dell’attenzione che allora riservò alla proposta e del suo incoraggiamento a non desistere. Purtroppo, le condizioni politiche per esplorare questa strada sono continuate a mancare».


Nonostante il sostegno del presidente del Senato alla sua proposta? A proposito, è vero che ha incontrato Marcello Pera?


«Sì, ha avuto la cortesia di illustrarmi la sua posizione, espressa domenica in una intervista, e confrontarla con l’opinione che mi sono formato sulla difficoltà del momento. Gli sono riconoscente per tanta sensibilità istituzionale. E anche personale. Che posso ricambiare solo con il doveroso riserbo».


È facile immaginare che Pera voglia essere conseguente alla conclamata esigenza di «sospendere i processi per il bene dello Stato». E se Carlo Azeglio Ciampi era d’accordo con lei cinque mesi fa, a maggior ragione sarà d’accordo oggi che quella vecchia proposta è rimessa in campo dalla seconda autorità istituzionale...


«Un momento. La mia proposta non è mai stata formalizzata, mai depositata...».


Cosa cambia?


«Cambia in chiarezza. Nessuno più di me si augura un rapporto costruttivo tra maggioranza e opposizione sulle regole fondamentali dello Stato di diritto. Ma non vedo alcuna volontà di dialogo. Certamente non migliorano il clima gli attacchi frontali al presidente della Commissione europea e al vice presidente della Convenzione per le riforme dell’Unione alla vigilia del semestre italiano di presidenza dell’Europa. Può servire alla resa dei conti, non certo al raffreddamento degli animi».


Ma il tempo stringe. Già oggi, al Senato, il fatidico «lodo» può rispuntare come emendamento della maggioranza al disegno di legge di attuazione della riforma costituzionale sull’immunità. Allora?


«Se è una iniziativa unilaterale, non può essere un lodo. Senza contare l’assurdità di appiccicare al primo provvedimento che passa una norma tanto delicata, non solo politicamente ma anche sul piano tecnico-giuridico».


Sta decidendo che, nel caso, ne disconoscerebbe la paternità?


«Se è la logica di parte che continua ad imporsi, se ne assumano l’intera responsabilità. Sarebbe un passo indietro, non il risultato del più avanzato, e meditato, confronto».


Non sarà spinto a tanta chiusura dalle critiche che anche la sua parte, il centrosinistra, muove al «lodo»?


«Avrei depositato la proposta se non avessi condiviso le critiche del centrosinistra alle forzature del centrodestra. Stiamo parlando delle garanzie tra i poteri dello Stato, quindi di un principio fondamentale che non può essere piegato agli interessi di una parte o di questo o quell’imputato. Come si è creduto di fare con la legge Cirami. Hanno sbagliato a sprecare l’occasione? Lo riconoscano, ma non possono credere che si possa ripescare e usare allo stesso modo una proposta che muove in tutt’altra direzione».


E se dovessero riconoscere l’errore, crede sarebbe possibile recuperare qualche margine di dialogo con l’Ulivo?


«Non mi pare che il centrosinistra si sia mai sottratto alle sue responsabilità. Anzi, nella scorsa legislatura, quando era al governo del paese, per primo ha cercato il dialogo sulla riforma del giusto processo, tant’è che la riforma dell’articolo 111 della Costituzione è stata approvata alla quale unanimità. Questa è l’alternativa. Ma la maggioranza ne è capace?».


Ammesso e non concesso...


«Diano il segnale che finora è mancato, contribuiscano a restituire serenità al rapporto con la magistratura. Solo se si fermano le acque, e si discute con cognizione di causa, anche sul piano tecnico-giuridico (se si può procedere con provvedimento ordinario oppure attraverso lo strumento della revisione costituzionale), è possibile segnare una inversione di tendenza nel rapporto tra maggioranza e opposizione. Sarebbe auspicabile addivenire a responsabilità condivise sul delicato tema della giustizia. Ma una tale disponibilità non la vedo ancora, purtroppo».


A maggior ragione, per aggiungervi il ripristino generalizzato dell’immunità parlamentare?


«Questa pretesa suona, semmai, come ennesima conferma della strumentalità delle posizioni del centrodestra. Le due opzioni non sono cumulabili: l’una elide l’altra».


Ma l’una serve a Berlusconi, l’altra a Previti, no?


«L’ipotesi di una tutela delle massime cariche istituzionali sarebbe funzionale a compensare, in un certo senso, lo squilibrio determinatosi con l’abolizione della autorizzazione a procedere: lo si può considerare, insomma, un contrappeso a un ordinamento giudiziario fondato sull’indipendenza del pubblico ministero e sull’obbligatorietà dell’azione penale. Ma se si dovesse sommare al ripristino dell’autorizzazione a procedere si finirebbe per alterare ulteriormente il delicato equilibrio tra il potere esecutivo e l’ordinamento giudiziario. O si sceglie una strada o l’altra».


Si rischia il passo del gambero: verso la controriforma?


«Non credo si possa tornare impunemente al passato. Piuttosto, se ne può apprendere la lezione, e recuperare anche qualche elemento di riflessione positiva. Ad esempio, nel corso del procedimento di revisione costituzionale del ‘93, il Senato approvò una modifica dell’articolo 68 che spostava il l’autorizzazione a procedere dal momento dell’avviso di garanzia a quello della chiusura del rinvio a giudizio, in modo che la Camera di appartenenza dell’inquisito potesse giudicare non sulla base di una richiesta generica bensì dei risultati dell’indagine preliminare se ci fosse o meno fumus persecutionis. Allora non se ne fece nulla perché prevalente era lo spirito, come dire...».


Diciamo giustizialista?


«Diciamo pure così, particolarmente in certe aree del Parlamento. Msi e Lega incluse, particolare che Berlusconi trascura».


Punto e a capo?


«Abbiamo tutti visto, in questi anni, come l’esasperazione della conflittualità nella vita istituzionale non giovi a nessuno. Eppure, si persevera nell’errore. No, non è in questo modo che si servono le istituzioni».

"La furia distruttiva di Berlusconi ci trascina in un clima da guerra civile"

ROMA «Se continuano questi atteggiamenti, è impossibile che vi sia in Parlamento il clima perché maggioranza e opposizione possano lavorare insieme. E questo, nel momento in cui l’Italia assume la presidenza di turno dell’Unione europea, è gravissimo». Il responsabile Economia della Margherita Enrico Letta si definisce un «convinto assertore della logica istituzionale». Da sempre tra i più convinti sostenitori del dialogo tra gli schieramenti, commenta amaramente le vicende politiche e giudiziarie degli ultimi giorni, che investono le istituzioni italiane, ma anche quelle europee: «Purtroppo siamo tutti trascinati dal presidente del Consiglio in una logica di perenne guerra civile. In queste condizioni il dialogo è impossibile. Anche sul Lodo Maccanico. Era stato presentato in una logica di riforma complessiva. Ma ormai è chiaro che a Berlusconi questo non interessa. Lavora per il salvacondotto».


Onorevole Letta, come interpreta l’attacco sferrato dal premier dall’aula del tribunale di Milano contro Romano Prodi e Giuliano Amato?


«Mi sembra una mossa dettata dalla disperazione. È evidente quello che perde, Berlusconi, in termini di consenso, di credibilità, di relazioni istituzionali nazionali e internazionali».


La prima conseguenza dell’attacco al presidente della Commissione Ue e al vicepresidente della Convenzione Ue?


«Siamo alla vigilia della presidenza di turno dell’Unione. E partiamo con il piede sbagliato».


Qual è l’immagine che offre l’Italia in questo momento?


«Di un paese dal quale stare alla larga. Qualche settimana fa avevamo insistito sulla favorevole "congiunzione astrale" che si prospettava all’Italia: presidente del Consiglio europeo, presidente della Commissione Ue e vicepresidente della Convenzione Ue. Berlusconi è riuscito a rovesciare la cosa: invece di alzarsi lui al livello degli altri due, creando un importante triangolo istituzionale dell’Italia in europa, ha semplicemente tentato di distruggere quello che Prodi e Amato stanno facendo. In una logica distruttiva che, appunto, è tipica della disperazione».


Come giudica le repliche a Berlusconi?


«Mi sembra importante sottolineare la correttezza della risposta diProdi: nonostante gli atteggiamenti del premier, bisogna lavorare per il bene dell’Europa, perché i prossimi sei mesi siano forieri di buoni risultati. E credo che l’atteggiamento dell’opposizione debba andare nella stessa direzione».


Ovvero?


«Il centrosinistra deve riuscire a distinguere tra l’irresponsabilità di cui dà prova il primo ministro e l’importanza della posta in gioco, per l’Europa e per l’Italia, Berlusconi o non Berlusconi».


Perché altrimenti, quali sarebbero le ricadute sulle istituzioni italiane ed europee?


«Intanto, per quel che riguarda l’Italia, è evidente che se continuano certi atteggiamenti è impossibile che vi sia in Parlamento il clima perché maggioranza e opposizione facciano qualcosa in comune. E questo, sotto semestre di presidenza Ue, è gravissimo».


Italia pecora nera dell’Unione?


«Le dico soltanto questo: in Germania Schroeder e la Cdu trovano la convergenza per dar vita alla riforma delle pensioni. Di fronte a questo fatto non posso fare a meno di guardare a quel paese come a un paese lontano anni luce dal nostro».


La causa?


«Noi purtroppo siamo tutti trascinati da Berlusconi in una logica di perenne guerra civile».


Rispetto alla quale, quale deve essere l’atteggiamento dell’Ulivo?


«Dobbiamo essere pronti a reagire, e nello stesso tempo avere i nervi saldi. Quindi sono state importanti le repliche di questi giorni. È stato ed è importante non far passare la disinformazione, per esempio sulla vicenda Sme. Il centrosinistra deve però, allo stesso tempo, saper distinguere, ed essere in condizione di tener distinti gli interessi del paese rispetto a queste vicende».


Che vuole dire, che l’Ulivo per il semestre di presidenza Ue potrebbe dare una mano al Polo a togliere dal fuoco i carboni ardenti?


«Bisogna lavorare per il successo del semestre. Questo è fuori dubbio. Perché è un interesse dell’Europa, e quindi dell’opposizione. Questo potrebbe essere il nostro slogan: se il governo è irresponsabile, l’opposizione sia doppiamente responsabile verso l’Europa. Che non vuol dire però essere deboli o accondiscendenti nei confronti dell’esecutivo».


Con l’apertura del semestre di presidenza potrebbe arrivare anche la sentenza del processo Sme. E il Polo sta lavorando per ripristinare l’immunità. Se il centrodestra vi proporrà un accordo sul Lodo Maccanico, cosa risponderete?


«Intanto, l’intervento di Berlusconi a Milano mi sembra fatto apposta per evitare che ci sia una sentenza. Dopodiché, ribadisco che con questo clima un accordo è impossibile».


Anche sul Lodo Maccanico?


«Anche. Era stato presentato in una logica di riforma complessiva. Ma ormai è chiaro che a Berlusconi una riforma complessiva non interessa. Lavora per il salvacondotto».


Il clima può cambiare?


«In teoria sarebbe possibile. Però, bisogna che ci sia la volontà da parte di tutti e due gli interlocutori. Qui, invece, c’è da una parte un’opposizione che è disponibile al dialogo su questioni di interesse nazionale. Dall’altra parte c’è un premier, e la vera novità è questa, che ha teorizzato l’inutilità di cercare accordi con l’opposizione. E questo mi sembra un discorso che chiude ogni strada».


Qual è, secondo lei, il dato centrale che emerge da questa vicenda?


«Che nel Polo hanno vinto i falchi. Dopo due anni di legislatura i falchi hanno completamente vinto la partita contro le colombe. Al punto che oggi non si sente più neanche parlare di colombe. E questo ovviamente preoccupa».


Insomma, nessun cambiamento in vista? Si va verso la presidenza italiana dell’Ue nella situazione di oggi?


«Sì, la peggiore che potrebbe esserci. La situazione del muro contro muro, ed è il premier che l’ha cercata. È difficile dialogare con chi non vuole. Lo dico da convinto assertore della logica istituzionale. Però, con un primo ministro che teorizza lo scontro permanente, le conseguenze sono facili da trarre. L’Ulivo cercherà di far di tutto perché l’Italia e l’Europa siano il più possibile risparmiate da questa furia distruttrice di Berlusconi».

"Parla di giustizia, ma pensa solo ai suoi processi"

MILANO Silvio Berlusconi parla a ruota libera alla convention azzurra di Udine: «C'è un manipolo di magistrati combattenti che stanno lì a fare a colpi di giustizia ciò che non riescono a fare a colpi di democrazia». Niente meno. L’ex procuratore di Milano Gerado D’Ambrosio eviterebbe volentieri qualunque commento, ma proprio lui ha sempre sostenuto che era necessaria una soluzione del conflitto di interessi tra il premier e la giustizia e qualche mese fa aveva rispolverato l’ipotesi di una sospensione dei processi a suo carico, fino all’easurimento del mandato.


Signor Procuratore, pensa che sia ancora praticabile una strada di questo tipo?


«Adesso si riparla di sospensione dei procedimenti a carico del presidente del consiglio, ma bisognava farlo immediatamente. Invece si sono scelte strade diverse: prima si è tentato di bloccare i processi con la legge sulle rogatorie e con quella sul falso in bilancio. Non ci sono riusciti e ci hanno provato con la Cirami, fallito anche questo tentativo, adesso rispunta l’immunità per il premier».


Qualche mese fa, se ricordo bene, non le sembrava un’ipotesi da scartare a priori.


«All’inizio della legislatura, e in alternativa alle leggi citato, avrebbero potuto subito fare una legge per la sospensione dei processi a carico del premier, fino al termine del suo mandato, aggiungendo la clausola che impedisce però di ricandidarsi fino a quando non si è chiarita la propria posizione giudiziaria. Che dire? Penso ancora che questa potrebbe essere una soluzione, sulla quale forse si troverebbe un accordo, quanto meno per non continuare a logorare le istituzioni. Perchè a questo punto si tratta anche di salvare la credibilità delle istituzioni nazionali e internazionali. Ma temo che ormai una legge di questo tipo non la voglia neppure Berlusconi, perchè non risolverebbe i problemi degli altri imputati e neppure i suoi, dato che dovrebbe quantomeno rinunciare a un secondo mandato. Il presidente del consiglio del resto ha detto chiaramente che non si accontenta del cosiddetto Lodo Maccanico e che vuole il ripristino dell’immunità parlamentare, ma per questo i tempi sono lunghi».


E allora che cosa accadrà?


«È molto difficile prevederlo. I difensori potrebbero tentare di nuovo una pratica dilatoria, posto che gli impegni del presidente del consiglio sono sicuramente numerosi, quanto meno a partire dal primo luglio. Questo però in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione, potrebbe comportare la necessità di stralciare la sua posizione, per assicurare agli altri imputati la ragionevole durata del processo. Cosa che potrebbe avvenire anche se venisse approvato il cosiddetto Lodo Maccanico».


Facciamo un’ipotesi: se questi processi non ci fossero lei crede che ci sarebbe lo stesso grado di logoramento nei rapporti tra potere politico e magistratura?


«Credo proprio di no, nessuno può pensare che se Berlusconi e Previti non fossero imputati ci sarebbe ugualmente questa conflittualità nei confronti del potere giudiziario. Certamente non ci sarebbe stata quest’opera di delegittimazione della magistratura».


E allora cosa significa tutto questo?


«Significa che non esiste il problema giustizia in sè, esiste solo un problema legato a questi procedimenti: gli imputati non hanno la certezza di un proscioglimento e nel timore di una condanna, tutti devono ritenere che si tratti di una persecuzione giudiziaria messa in atto da giudici politicizzati manipolati dall’opposizione, cosa che nei fatti è esclusa nella maniera più assoluta dalle decisioni più volte prese a favore di Berlusconi dagli stessi giudici di Milano, oltre che naturalmente dalle argomentazioni delle sezioni unite della Cassazione che hanno rigettato l’istanza di rimessione».


Berlusconi oggi lo ha ribadito: deve salvare l’Italia dai comunisti che si son messi d’accordo con la magistratura per farlo fuori.


«Le pare che possano esserci commenti? Nella mia carriera mi hanno accusato di essere fascista o socialista, adesso mi considerano una toga rossa. Potrei ricordare di aver scarcerato Pino Rauti in una data emblematica, il 25 aprile e di non averlo tenuto in galera un minuto solo in più perchè la mia coscienza di magistrato mi impediva di privare della libertà personale un imputato in assenza di indizi».


Berlusconi aveva assicurato che avrebbe risolto il conflitto di interessi entro un anno. Non solo non lo ha fatto, ma oggi utilizza il servizio pubblico televisivo come un prolungamento delle reti Mediaset: Excalibur insegna.


«È evidente che c’è un’anomalia derivante dal fatto che non sono stati risolti i due conflitti: quello con la magistratura e il conflitto derivante dal totale controllo dei mezzi di informazione».

Cofferati: articolo 18, io non vado a votare



«Io non vado a votare». Sergio Cofferati scioglie la sua riserva sul referendum del 15 giugno sull’articolo 18 in quest’intervista a l’Unità in cui denuncia la «grave emergenza» causata dagli attacchi di Silvio Berlusconi alla magistratura e al mondo dell’informazione e dal suo irrisolto conflitto d’interesse. Una deriva drammatica per il nostro Paese che va fronteggiata da un’opposizione parlamentare «senza sbavature», con un Ulivo unito e forte: «Non è questo il momento per la ricerca consolatoria di piccole identità».


Cofferati, perchè non andrà a votare il 15 giugno?


«Penso sempre che sia indispensabile estendere e modulare i diritti verso tanti lavoratori che non ne hanno o non ne hanno a sufficienza. Ho dedicato a questo obiettivo un parte consistente del mio lavoro passato perchè ritengo che i diritti sono fondamentali per ogni cittadino, che qualsiasi modello competitivo deve rispettare. In una parte consistente del mercato del lavoro in Italia esistono lavoratori senza diritti oppure lavoratori che dispongono di una quota non sufficiente di diritti. Questa diversità rende necessario l’uso di uno strumento che renda possibile insieme l’estensione e la modulazione dei diritti. L’unico strumento efficace è la legge, non esistono altenative e scorciatoie


Quale legge?


«Tra le ipotesi avanzate dallo schieramento di centro sinistra credo che la più efficace, anche se tutte hanno una ragione positiva, sia il disegno di legge di iniziativa popolare della Cgil. L’approvazione dunque di una legge con quelle caratteristiche deve restare una delle priorità fondamentali delle forze che oggi sono all’opposizione»


Perchè non le piace il referendum?


«Il referendum abrogativo della soglia dei 15 dipendenti per l’applicazione del reintregro previsto dall’art.18 è uno strumento inefficace e distorsivo. Non risolve nessun problema e ne crea di nuovi. Ho detto all’epoca ai promotori, e non ho cambiato idea, che consideravo e considero la loro scelta, al di là delle intenzioni dichiarate, un grave errore e oggettivamente diversa, per ragioni di merito e di effetti prodotti, dalla strategia che la Cgil in quel momento praticava».


Lei si chiama Cofferati, ha guidato la Cgil alla più grande manifestazione del dopoguerra nella difesa dell’articolo 18. Questo referendum, secondo molti osservatori e suoi critici, è figlio di quella stagione.


«Nemmeno per sogno, è uno stravolgimento strumentale. Oggi di fronte al referendum mi pongo come credo che laicamente occorrerebbe fare sempre. Non ho nessuna funzione di rappresentanza dunque non devo dare indicazioni ad alcuno ma semplicemente esercitare un diritto-dovere di fronte a una scelta fatta da altri che considero sbagliata. Se nella consultazione referendaria prevalessero i "no" si determinerebbe una condizione politica equivalente alla negazione dell’esistenza del problema dell’estensione e della modulazione. E per chissà quanto tempo l’esigenza di dare diritti ad una parte ormai rilevante dei nuovi lavori resterebbe lettera morta. E’ bene non sottovalutare che il referendum non parla in alcun modo a milioni di lavoratori atipici che sono completamente privi di diritti e che non sono in alcun modo interessati agli esiti referendari».


Ma se vincesse il "sì"?


«E’ sorprendente per me la sottovalutazione anche degli effetti che produrrebbe la vittoria del "sì". Il quadro normativo che ne deriverebbe finirebbe con l’essere in pari tempo inappropriato e in larghissima parte inapplicabile. Infatti tutti sanno che le condizioni organizzative e i rapporti delle aziende piccole o piccolissime sono del tutto diversi rispetto a quelli delle aziende più consistenti. E per questa ragione il legislatore dell’epoca opportunamente aveva tenuto conto di queste diversità di contesto e di condizioni oggettive. Il disegno di legge della Cgil è potenzialmente efficace e corretto perchè continua a tenerne conto. Il meccanismo referendario invece cancella automaticamente queste diversità, dunque la prevalenza del "sì" renderebbe improponibile la legge di iniziativa popolare della Cgil. Chi sostiene che una vittoria dei "sì" faciliterebbe l’attuazione di una legge sostiene una tesi priva di fondamento. Non ci sarebbe in quel caso nessun vuoto legislativo da colmare e non a caso i proponenti del referedum non hanno mai indicato soluzioni legislative diverse dall’estensione automatica del reintegro e ancora, non a caso, quella parte di promotori presente in Cgil ha votato contro l’ipotesi di legge che è la più efficace».


L’astensione, dicono i referendari, è poco di sinistra. Non le pare?


«Questa è la strada migliore secondo me: non andare a votare. Il referendum è uno strumento democratico dagli effetti semplificati a volte addirittura rozzi, è un istituto di fronte al quale bisogna porsi laicamente scegliendo tra le tre ipotesi possibili: sì, no, non voto. Sono tre le ipotesi, a tal punto che lo stesso ordinamento costituzionale lo esplicita attraverso la fissazione di un quorum minimo per la validazione dell’esito referendario. Quorum che non è richiesto infatti a nessun altra modalità elettorale. Per questo penso che si possa decidere consapevolmente, ripeto consapevolmente, come esercizio attivo il non partecipare al voto e non capisco per quale ragione bisognerebbe sottostare alla semplificazione rozza di chi, come Rifondazione Comunista, si pone obiettivi strumentali».


I contrari all’astensione sostengono che così cresce la disaffezione al voto.


«Considero una mancanza di rispetto verso gli elettori l’insistenza sulla tesi che se non si vota si favorisce la disaffezione. In tempi passati, ma non lontani, gruppi di quesiti referendari hanno incontrato una scarsissima attenzione da parte degli elettori e gli stessi elettori sono tornati a votare nelle occasioni successive sia nelle elezioni politiche o ammnistrative che per altri voti referendari. Le intenzioni della maggioranza dei proponenti sono oggettivamente diverse, addirittura alternative alla strategia alla quale avevo dato qualche contributo. Sarebbe utile non nascondere questo aspetto della vicenda. Poi ognuno, nel rispetto dell’altro, scelga come meglio crede, in libertà. L’etica della responsabilità presuppone che sia chiara la ragione della propria scelta. Immaginare che l’esercizio di un diritto sia la stessa cosa in un’azienda di tre persone come in una di sedici è tesi che non ho mai sostenuto perchè la considero priva di fondamento».


La sua scelta è diversa da quella della Cgil, ammetterà che è una notizia clamorosa.


«Rispetto le scelte dell’organizzazione della quale oggi sono un semplice iscritto, ma la mia opinione è quella che le ho appena raccontato».


Sa cosa le diranno? Che lei ha la stessa posizione della Confindustria. E poi ci sono i suoi compagni dei Ds, quelli di Aprile, molti dei quali sono a favore del "sì".


«Non mi preoccupo dell’uso strumentale che si potrà fare di questa mia opinione, quello che per me conta è la trasparenza delle posizioni anche quando queste possono non essere condivise. Non mi sono mai sottratto alle mie responsabilità, sarebbe fuori luogo che lo facessi adesso».


Il referendum cade in un momento tremendo per il Paese. Berlusconi ha scatenato l’attacco alla magistratura, all’informazione, alle stesse istituzioni democratiche.


«Siamo di fronte a quella che considero una vera e propria emergenza. Delle caratteristiche dello schieramento di centro destra e delle intenzioni del presidente del Consiglio in passato ho più volte detto, anche in polemica con chi pensava che in fondo questa destra potesse avere caratteristiche simili a quelle dei più tenaci conservatori europei come Margaret Thatcher, sottovalutando invece la vocazione a cancellare e a stravolgere le regole istituzionali e il tessuto connettivo della democrazia sostanziale. L’immagine dell’Italia, la nostra credibiltà nella comunità internazionale è in caduta libera, ciò che avevamo riconquistato con tanta fatica nel corso del lungo periodo di risanamento che ci aveva portato in Europa è oggi messo in discussione. L’adesione subalterna a una guerra illegittima ci ha portato ad essere considerati in una larga parte della comunità internazionale come corresponsabili della lesione dell’efficacia delle funzioni dell’Onu. Lo stesso vale in Europa, la nostra credibilità è ancora più compromessa proprio mentre toccherà all’Italia il semestre della presidenza comunitaria nel quale si conclude il lavoro della Convenzione. Si deciderà dunque qui quale sarà il futuro per milioni e milioni di cittadini e il governo italiano e il suo presidente sono considerati dai commentatori e dall’opinione pubblica europea inaffidabili per svolgere questo delicato compito»


Negli ultimi giorni c’è stata una "svolta" radicale nella linea di Berlusconi. Come mai?


«L’accelerazione prodotta dal presidente del Consiglio, come dimostrano le affermazioni di ieri a Udine, è determinata dalle vicende giudiziarie che hanno interessato prima Cesare Previti e poi lui. L’attacco sistematico alla magistratura e alla sua autonomia ed indipenddenza è la messa in discussione di uno degli assi importanti dell’assetto istituzionale e del suo equilibrio. Il centro destra vuole ricavarsi spazi di azione protetta destinati a stravolgere le regole istituzionali e quelle della corretta rappresentanza politica».


Le minacce non sono solo per le "toghe rosse", adesso Berlusconi ce l’ha anche col tg3, con i giornalisti...


«La vera novità è l’accentuazione sul sistema della comunicazione dell’effetto della mancata soluzione del conflitto d’interessi. Non solo permane quella anomalia considerata un’aberrazione nel resto del mondo, ma il monopolio del sistema della comunicazione che ne consegue è oggi usato dal presidente del Consiglio per aggredire la magistratura, i suoi avversari politici e tutti coloro che non sono d’accordo con lui. I pessimi e inaccettabili comizi che ci vengono oramai inflitti quotidianamente non a caso passano da questa forma di monopolio. C’è una lesione dei diritti fondamentali di cittadinanza che viene reiterata sistematicamente. Personalmente osservo con preoccupazione quella che mi pare una rabbia da assuefazione a queste brutture da parte di molti commentatori che un tempo si definivano orgogliosamente liberali. Negli ultimi giorni questa furia distruttiva si è manifestata con attacchi verso alti livelli istituzionali, penso alla presidenza della Repubblica, alla presidenza dell’Unione europea, alla vice presidenza della Convenzione».


Anche sul fronte dell’economia le cose stanno peggiorando, per stessa ammissione di Berlusconi. Miracoli non se ne vedono.


«Disinvoltamente, il presidente del Consiglio gioca con i numeri dell’economia come se parlasse di una partita di calcio: adesso la ripresa si è ulteriormente allontanata nel tempo e non contento ha aggiunto valutazioni sulla quantità della crescita dell’anno in corso ovviamente ben lontane da quelle presentate solo qualche giorno fa. A Berlusconi sfugge completamente che cosa ciò possa significare per milioni di persone e migliaia e migliaia di imprese. Molte persone e imprese hanno cominciato a rendersi conto dell’incapacità del governo di produrre buona politica e scelte economiche efficaci. Credo che il governo abbia percezione di questi scricchiolii soprattutto al Nord».


In questa situazione cosa deve fare l’opposizione di centro-sinistra?


«Ho la sensazione che si produrranno rapidamente ulteriori drammatizzazioni a causa di Berlusconi. Per questa ragione credo sia indispensabile una forte ed efficace azione parlamentare senza sbavature. E’ necessario, ad esempio, tenere ben fermo il principio che i cittadini sono uguali davanti la legge. Le ipotesi di immunità parlamentare e di sospensione dei processi sono profondamente sbagliate e dunque da contrastare. E’ poi indispensabile una fortissima azione della società attorno a questi temi. L’opposizione e l’Ulivo hanno conosciuto momenti di importante unità e anche di dannose divisioni in tempi recenti. Io credo tuttavia, che pur scontando queste diversità, occorra programmare in tempi brevi uno sforzo straordinario per affrontare questa emergenza. Non è il momento della ricerca consolatoria della piccola identità, ma del rilancio della ricerca di una nuova identità comune nell’Ulivo. Come si può ben vedere il referendum sull’articolo 18 era l’ultima cosa di cui c’era bisogno in questo momento».