IL CASO
MONDADORI
di
Marco Travaglio
"Basta, non voglio piu' restare sul sedile
posteriore della Mondadori". Morde il freno, Silvio
Berlusconi, nel 1988. Non gli bastano Canale 5, Italia1 e
Rete4, non gli bastano il Giornale di Montanelli (dove
oltretutto non puo' metter naso) e Sorrisi e canzoni tv.
Vuole portare a casa anche la Mondadori, di cui e' un
azionista minore dopo aver rilevato le azioni di
Leonardo. Tutta la Mondadori, con i suoi libri e
soprattutto i suoi giornali: Repubblica, Espresso,
Panorama, Epoca e quotidiani locali Finegil. Praticamente
tutta la stampa indipendente d'opposizione ai suoi amici
del Caf. Per portarla, si capisce, su posizioni
governative. C'e' pero' un ostacolo: l'azionista di
maggioranza, che si chiama Carlo De Benedetti, col quale
il Cavaliere ha gia' incrociato le spade nel 1985-'86 per
l'affare Sme, vincendo la partita. Stavolta e' piu'
difficile, anche perche' il 21 dicembre 1988 la Cir
dell'Ingegnere sigla un accordo con Cristina Formenton
Mondadori (figlia di Arnoldo Mondadori e vedova di Mario
Formenton) e i figli Luca, Pietro, Silvia e Mattia. I
Mondadori-Formenton si impegnano a vendergli, entro il 30
gennaio 1991,13.700.000 azioni dell'Amef (pari al 25.7%
della finanziaria che controlla il gruppo editoriale)
contro 6.350.000 azioni ordinarie Mondadori. E cosi'
mette definitivamente al sicuro la maggioranza del
gruppo, relegando il Cavaliere sul sedile posteriore.
Ribaltone a sorpresa
Senonche', un anno piu' tardi, meta' novembre
1989, gli eredi Mondadori ribaltano le alleanze e fanno
blocco con Berlusconi che, il 25 gennaio 1990, si insedia
alla presidenza della casa editrice. De Benedetti non ci
sta: "Pacta sunt servanda". E, forte
dell'accordo del 1988, rivendica le "sue"
azioni e denuncia la violazione del patto di sindacato.
Il 28 febbraio 1990 la "guerra di Segrate"
approda davanti a un collegio arbitrale super partes:
Pietro Rescigno designato da De Benedetti, Natalino Irti
per i Formenton, Carlo Maria Pratis (presidente) nominato
dal primo presidente della Cassazione. Le due parti si
impegnano a rispettarne il verdetto. Intanto la societa'
berlusconiana che controlla le azioni Amef si da' un
nuovo amministratore unico: si chiama Mario Iannilli ed
e' il factotum dello studio Previti. Il quale - lo
raccontera' lo stesso Iannilli al processo - gli ordina
immediatamente di rendersi irreperibile per qualche mese,
cosi' da evitare eventuali sequestri delle azioni,
casomai l'arbitrato andasse male. Iannilli parte con la
fidanzata (che trovera' un impiego in Fininvest, come
pure la di lui sorella) e svolazza fra Londra e Parigi.
Tutto a spese di Previti.
Il "lodo" arbitrale viene depositato il 20
giugno 1990 e da' ragione a De Benedetti: le azioni
Mondadori devono tornare all'Ingegnere, Berlusconi deve
sloggiare dalla presidenza. Il 10 luglio s'insediano due
amministratori delegati fedelissimi dell'Ingegnere, Carlo
Caracciolo e Antonio Coppi. Nuovo direttore generale:
Corrado Passera. Ma, nella filosofia berlusconiana, se
l'arbitro fischia a sfavore, non vale. Dunque, i
suoi alleati Formenton impugnano il lodo arbitrale per
farlo annullare dalla Corte d'appello di Roma, assistiti
da uno schieramento di legali predisposto dall'apposito
cesare Previti: Agostino Gambino, Romano Vaccarella e
Carlo Mezzanotte (il primo diventera' "saggio per il
blind trust" nel primo governo Berlusconi e ministro
delle Telecomunicazioni nel governo Dini; gli altri due,
costituzionali). La causa finisce davanti alla I sezione
civile, presieduta da Arnaldo Valente, il "giudice
col papillon" indicato da Stefania Ariosto come
frequentatore di casa Previti. Valente nomina relatore
(ed estensore della sentenza) Vittorio Metta, pure lui
legato a Previti.
Una sentenza annunciata
Gia' diverse settimane prima dell'udienza, si
rincorrono voci di corridoio e indiscrezioni
giornalistiche sui principali quotidiani, che danno per
certo l'annullamento del lodo. Come del resto ha
preannunciato con largo anticipo il presidente della
Consob, Bruno Pazzi, all'avvocato della Cir, Vittorio
Ripa di Meana. Ma e' una corsa contro il tempo. Per
servire a Berlusconi, la sentenza deve assolutamente
arrivare prima del 30 gennaio 1991, quando scattera' il
patto di vendita delle azioni Formenton a De Benedetti. E
per il Cavaliere sara' la fine. I giudici pero' fanno il
miracolo. Annullano il lodo, e a tempo di record: la
camera di consiglio si conclude il 14 gennaio '91. Ma
riusciranno i nostri eroi a depositare una sentenza in
due settimane? Visti i tempi medi della giustizia, e' una
missione impossibile. Ma non per Vittorio Metta, che il
giorno 15 gia' si presenta tutto trafelato dal suo
presidente con la sentenza fresca d'inchiostro. Una
sentenza-spider: 168 (centosessantotto) pagine scritte a
mano in una sola notte. Una rapidita' di scrittura che
nemmeno Balzac, come ha osservato di recente il professor
Franco Cordero. Rapidita' decisamente sospetta, visto che
Metta, di solito, non e' proprio uno Speedy Gonzales
della penna: la media delle sue sentenze e' di 2-3 mesi,
salvo per quelle di 4 o 5 pagine. "Metta era
superimpegnato - raccontera' al processo il collega
Paolini, giudice a latere in quella causa - sempre in
ritardo nelle consegne". "Questa attivazione e'
stata comprata", dira' Ilda Boccassini nella
requisitoria, "quella sentenza e' stata scritta
sotto dettatura". O forse preparata altrove, con
largo anticipo. Magari "nello studio Acampora",
come qualcuno aveva rivelato all'entourage
dell'Ingegnere.
Nonostante il trionfo, comunque, Berlusconi non riuscira'
a portare a casa l'intera posta. I direttori e molti
giornalisti di Repubblica, Espresso e Panorama si
ribelleranno ai nuovi padroni. Giulio Andreotti, temendo
le mani di Craxi sull'informazione, imporra' una
"transazione" perche' i duellanti si
spartiscano la torta. Il suo mediatore e' Giuseppe
Ciarrapico: il Cavaliere restituisce parte del maltolto
(Repubblica, L'Espresso, Finegil) e si tiene Panorama,
Epoca e il resto della Mondadori.
Bugie e quattrini
Che cosa ha convinto la Procura e il Tribunale
di Milano del fatto che quella sentenza fosse
"comprata"? Che Metta, il quale si definisce
"integerrimo", fosse un corrotto? Anzitutto la
biografia di Metta. E' amico dell'avvocato romano
Giovanni Acampora (ex ufficiale delle Fiamme Gialle
coinvolto nello scandalo delle frodi petrolifere e poi
consulente Fininvest), cosi' amico da lasciargli tutti i
suoi numeri riservati, persino quello della suocera. Ma
non si fa scrupoli a scrivere una sentenza che lo assolve
in una coda del processo petroli. Ne' tantomeno ad
affidargli la gestione di un'eredita' lasciatagli da un
ex collega, Orlando Falco, ovviamente su conti esteri,
senza una lira di tasse. Nel '94, poi, il giudice va
anzitempo in pensione per diventare avvocato. A Roma gli
studi legali sono alcune migliaia, ma Metta sceglie
proprio quello di Cesare Previti, portando con se' anche
la figlia Sabrina. Per un compenso annuo di 100 milioni.
Il giudice giura di aver conosciuto Previti solo dopo la
pensione, nel '94. Ma dai tabulati telefonici risultano
parecchie chiamate fra i due fin dal 1992-'93: segno di
una familiarita' che non avrebbe senso negare, se non si
avesse qualcosa da nascondere.
Poi c'e' la sentenza Metta sull'Imi-Sir, quella di
appello che liquida definitivamente ai Rovelli il
maxi-risarcimento di 1000 miliardi, anche quella -
secondo i giudici milanesi - comprata. E ci sono le bugie
del giudice sulla sentenza-lampo che annullo' il lodo
Mondadori: "La sentenza fu dattiloscritta nella
segreteria della Corte d'appello dalla dattilografa
Gabriella B. Man mano che procedevo nella stesura della
motivazione, a lei consegnavo parte del manoscritto, che
veniva battuto in videoscrittura". Ma la segretaria,
interrogata al processo, lo smentisce. E nessun' altra in
servizio in quell'ufficio ricorda di aver battuto in quei
giorni a macchina sentenze di Metta.
Infine, i soldi. "I piccioli", come li chiama
alla siciliana Ilda Boccassini. Le carte bancarie parlano
chiaro. Il 15 febbraio 1991, esattamente un mese dopo la
sentenza Mondadori, dal conto Ferrido alimentato dalla
All Iberian (la societa' occulta e parallela della
Fininvest, con sede nelle Isole del canale) e aperto dal
tesoriere berlusconiano presso il Credito Svizzero di
Chiasso, parte un bonifico di 3 miliardi e 36 milioni di
lire a favore del conto "Mercier" di Previti.
Il 26 febbraio l'esatta meta' della somma (un miliardo e
mezzo) riprende il volo alla volta del conto
"Careliza Trade" di Acampora. Questi, il 1°
ottobre, bonifica 425 milioni a Previti, che li dirotta
in due tranche (225 e 200 milioni, l'11 e il 16 ottobre)
sul conto "Pavoncella" dell'avvocato Attilio
Pacifico. Questi, a sua volta, preleva entrambe le somme
in contanti, il 15 e il 17 ottobre, e le fa recapitare in
Italia a un misterioso destinatario: secondo l'accusa e'
Vittorio Metta. Il quale, nei mesi successivi, riceve da
un misterioso donatore 400 e rotti milioni, sempre in
contanti, che versa a titolo di caparra per acquistare da
un'anziana signora un appartamento a Roma. Tutto in
contanti, tutto in nero.
Il "privato corruttore"
Dell'ultimo passaggio di denaro - da Pacifico a
Metta - mancano i riscontri documentali: l'operazione e',
appunto, cash. Ma ogni giustificazione fornita
dall'ex giudice sulla provenienza di tanta liquidita' e'
stata smentita dai fatti. Metta sostiene che i 400
milioni arrivavano dall'eredita' Falco. Ma dai conti di
Falco, in quel periodo, non risultano uscite paragonabili
a quella cifra. Ne' risultano prelievi analoghi dai conti
di Metta, sui quali anzi il giudice in quel periodo
verso' un sacco di quattrini.
Infine, le bugie degli altri imputati. Previti spiega
quel miliardo e mezzo ad Acampora come un normale
investimento. Acampora conferma: "Previti partecipo'
cosi' al capitale della societa' Mochi-Craft". Ma
nessuno dei due riesce a esibire un solo documento
dell'affare. E poi, se era un investimento, perche' mai
pochi mesi dopo Acampora "restitui'" 425
milioni a Previti? "Erano - spiega Acampora -
la sua meta' di una parcella di 800 milioni pagataci dal
gioielliere Gianni Bulgari per una causa che avevamo
seguito io e Previti". Poi pero' si scopre che c'era
pure un terzo avvocato: il professor Gambino. Come far
uscire la sua parte, se Previti da solo aveva intascato
piu' della meta'? Imbarazzo nelle difese. Poi Acampora si
supera: "Gambino lo pagammo molto meno, 150-200
milioni, o roba del genere". Ma i conti non tornano
ugualmente. Come pure l'ultimo passaggio: quello fra
Previti e Pacifico. I due parlano di una
"compensazione": Previti bonifica in Svizzera
certe somme che poi Pacifico ritira in contanti e gli
consegna in Italia. Ma queste compensazioni, dal 1990,
Previti non le affidava piu' a Pacifico ("troppo
caro: chiedeva una provvigione del 3%"), bensi' al
gioielliere Carlo Eleuteri. Strano che, proprio e
soltanto quella volta, fosse tornato all'antico amore. Il
perche', secondo Ilda Boccassini, e' semplice:
"Perche' quella volta la somma riportata in Italia
non era destinata a Previti". Ma "a Metta
Vittorio". In cambio della sentenza Mondadori. Una
tangente che arriva da lontano: dalla All Iberian. Cioe'
dalla Fininvest. Una tangente che - come hanno scritto la
Corte d'appello e la Cassazione salvandolo per
prescrizione- ha un preciso mandante, un "privato
corruttore". Silvio Berlusconi. Il quale ieri ha
parlato di "sentenza golpista contro il
governo". Il suo governo, di cui Previti non fa
parte. A suo modo, il Cavaliere ha confessato.
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