centralita'
della comunicazione Nicola
Labanca
Guerre del periodo postbipolare: la centralità della
comunicazione
Gli avvenimenti hanno cominciato ad allontanarsi.
Era tempo che qualcuno provasse un sentimento di
vergogna.
Non per l'atteggiamento assunto, per la scelta compiuta,
razionale o
emotiva. O non ancora.
Prima di ogni altra considerazione: per essere stato
così bene scaldato
dalla propaganda.
Franco Fortini, I casi del Sinai (1967)
Since 9/11 we need peace propagandists, not war
propagandists
- people whose job it is to increase communications,
understanding and dialogue between different peoples with
different
perspectives.
Philip Taylor, Munitions of the mind (2003)
Guerra e comunicazione
Tra le varie modificazioni conosciute dalle forme
storiche della guerra
dopo la fine del bipolarismo, il grande ruolo assunto
dalle
comunicazioni è certo una delle più evidenti e
rilevanti.
Che il sistema dei massmedia fosse decisivo per società
di massa
impegnate in guerre di massa con eccezionali eserciti di
massa basati
perlopiù sulla coscrizione universale non era una
novità. I maggiori
conflitti del Novecento, a partire dalle due guerre
mondiali, lo avevano
dimostrato1. Le guerre della "Guerra fredda",
con il loro sovraccarico
ideologico, non avevano potuto che quanto meno
confermarlo.
Nel primo decennio postbipolare il controllo dei flussi
informativi
prima, durante e dopo i maggiori conflitti internazionali
ha assunto
ormai un peso strategico. La seconda guerra del Golfo
(1991), le guerre
jugoslave, l'assalto della Nato alla Serbia per il
Kossovo (1999) non
sarebbero state possibili, da parte degli opposti
contendenti, senza il
tentato controllo dell'informazione interna ed
internazionale. Durante
tali conflitti le accuse di corrompere la comunicazione
in propaganda e
quelle correlate di non informare ma di mentire sono
rimbalzate da un
contendente all'altro. Ciò dimostra non che la
propaganda stava da una
parte, o dall'altra, ma che ambedue i fronti stavano
conducendo -
assieme a operazioni specificamente militari - le proprie
propaganda wars.
Tutto ciò è stato, se possibile, ulteriormente esaltato
dalla decisione
assunta della amministrazione statunitense di dichiarare
una "guerra", e
una guerra "preventiva" e "infinita",
al terrorismo internazionale.
L'attenzione con cui da parte statunitense è stato
sviluppato il
controllo dell'informazione durante i due conflitti
dell'Afghanistan
(2001) e Iraq (2003) lo dimostra. D'altronde in questi
due conflitti
anche gli avversari, nonostante la scarsità degli
strumenti a loro
disposizione, hanno giocato una propria "guerra
informativa": dalle
videocassette di Osama bin Laden ai messaggi televisivi
di Saddam
Hussein prima della sconfitta e a quelli scritti o audio
dopo di essa.
Almeno verso certi pubblici, essi sono stati a proprio
modo efficaci.
Queste recenti contrapposte serie di flussi informativi
rappresentano
un'ulteriore conferma del ricordato ruolo delle
comunicazioni nei
conflitti del Novecento. Ma quale specificità si è data
per le guerre
del periodo postbipolare?
Storia e communication studies
Risposte a tale interrogativo possono essere, diciamo,
interne ed
esterne: cioè relative tanto alle modalità con cui
l'informazione è
stata svolta all'interno delle guerre quanto al contesto
più generale
dell'evoluzione delle guerre e dei sistemi dei media.
Tale punto merita
qualche rigo, anche perché chiama in causa le discipline
scientifiche
deputate allo studio dell'informazione in contesto
bellico.
A lungo, i rapporti fra comunicazione e guerra sono stati
il regno della
pratica più che della teoria2. Da sempre, cioè, almeno
a quanto ci
documentano i manuali di storia della propaganda, gli
Stati e gli
eserciti hanno fatto ricorso - in modalità diverse -
alla risorsa
informativa come "arma" da affiancare alle
altre, più nettamente
militari. Ma è stato solo dopo la prima guerra mondiale
- e l'enorme
flusso di comunicazione, informazione e propaganda da cui
è stata
accompagnata - che una serie di studi scientifici e
specifici sono stati
prodotti. Com'è noto, da Ponsonby a Lasswell, gli anni
Venti e Trenta
hanno assistito alla nascita degli studi sociologici
sulla relazione fra
comunicazione e media.
Gli studi sociologici si sono poi evoluti, dopo la
seconda guerra
mondiale e in parallelo al formarsi di una società dei
media3, ad un
villaggio globale ed infine ad una globalizzazione
culturale, in
communication studies in cui più apporti si sono
intrecciati: da quelli
psicologici a quelli semiotici a quelli più tecnici. Nel
frattempo,
però, anche gli studi storici si erano interessati
sempre più al ruolo
che le comunicazioni di massa avevano svolto in occasione
delle guerre4.
Anzi, il loro apporto alla conoscenza della propaganda,
del suo operare
nelle società di massa e nelle guerre di massa del
Novecento, è stato di
primo livello. In particolare, gli studi storico-militari
si sono
accorti che, appunto almeno per il ventesimo secolo (ma
non solo per
quello), è difficile fare la storia delle guerre senza
fare anche quella
della storia della comunicazione in guerra. La
propaganda, la
comunicazione, i flussi informativi, insomma, sono
diventati agli occhi
degli storici e degli storici militari degli ultimi
decenni
(parafrasando) "una questione troppo importante per
lasciarla ai sociologi".
Non si è trattato, a livello internazionale, di
un'interazione
conflittuale. Anzi, i due approcci che da sempre si
confrontano e si
arricchiscono reciprocamente nell'ambito delle scienze
sociali
contemporanee - quello diacronico e quello sincronico,
quello
evenemenziale e quello nomotetico - si sono
fruttuosamente intrecciati.
Qualsiasi bibliografia di studi sulla propaganda di
guerra, sulle
psy-operations, sulle infowars o sul perception
management riporta studi
di entrambi le discipline, e di altre ancora5.
L'intreccio e l'arricchimento reciproco (anzi,
l'indispensabile
connessione) sono necessari anche nello studio del tema
della
comunicazione nelle guerre dell'età bipolare, quale è
riscontrabile
negli studi recenti. Per un verso disponiamo di
apprezzabili analisi,
dall'interno di ogni singolo conflitto o di ogni singola
campagna, di
come la comunicazione abbia operato come "arma"
nelle guerre recenti6:
ricerche di sociologia della comunicazione, di semiotica
e più in genere
di communication studies sono in questo indispensabili.
Per un altro
verso, è necessario comprendere come storicamente si sia
formato il
contesto in cui la comunicazione ha assunto una rilevanza
grande, e per
molti aspetti nuova: e in questo, invece, un approccio
storico appare
indispensabile.
Dal punto di vista dello storico, alcuni elementi
generali appaiono
ovviamente fondamentali per spiegare quali caratteri la
comunicazione
abbia assunto nelle guerre del periodo postbipolare e
perché essa vi
abbia giocato un ruolo così importante. L'affermarsi
delle tendenze
all'unipolarismo da parte statunitense all'interno di un
mondo invece
sempre più multipolare (o almeno più multipolare
rispetto al periodo
bipolare); la diffusione delle nuove tecnologie in uno
scenario
internazionale segnato dalle più varie globalizzazioni,
l'accresciuta
attenzione delle opinioni pubbliche ai fenomeni della
pace e dei
conflitti una volta che - caduto il bipolarismo - erano
state diffuse
(ingenue ed ingannevoli) illusioni su una "fine
della storia" che
avrebbe dovuto portare alla "fine della
guerra"; la ferma decisione da
parte delle maggiori forze armate di resistere al
pagamento del
"dividendo della pace" a causa della necessità
di fare fronte ad una
conflittualità percepita come sostanzialmente nuova (le
"nuove guerre")
che di per sé richiede una maggiore attenzione ai temi
della
comunicazione e della convinzione tanto del fronte
"interno" e nazionale
quanto di quello avversario e locale: si tratta solo
alcuni di questi
elementi assai generali e assai spesso invocati e citati
negli studi.
Ma troppo spesso è stato perso di vista un altro motivi
generale per cui
la comunicazione ha acquisito un ruolo centrale, almeno
da parte
occidentale, nella programmazione e nella condotta delle
guerre, come
nei dopoguerra.
Si tratta del fatto che, nel periodo postbipolare, e
nonostante le
apparenze, il warfare è arretrato visibilmente. Le
guerre sono
diminuite. I morti sono diminuiti. Persino il numero
degli attacchi
terroristici è diminuito.
Ma, si dirà, come è possibile? Non viviamo noi in un
mondo più incerto e
più instabile? Il panorama internazionale non è solcato
da tante e tanto
diverse guerre di cui quotidianamente ci parlano la
stampa, la
televisione, il grande web di Internet, in una parola i
massmedia? Ma,
allora, se fosse vero che nel periodo postbipolare che le
guerre sono
oggettivamente diminuite com'è possibile che
soggettivamente "noi" ("the
West" vs. "the Rest") ci sentiamo più
insicuri, più minacciati, appunto
più "in guerra"? cos'è che può spiegare
questa contraddizione?
La risposta che si intende suggerire nelle pagine che
seguono - dedicate
a ripercorrere storicamente il posto occupato dalle
guerre nella storia
del ventesimo secolo confrontandolo con quello riempito
nell'ormai quasi
quindicennio postbipolare - è che proprio la
comunicazione ha assunto un
ruolo strategico nell'informare e nel formare le opinioni
pubbliche.
Questo dato, generale e di contesto, che risalta
all'occhio dello
storico, appare propedeutico e più generale rispetto
alle pur necessarie
analisi sociologiche o massmediologiche di come
l'informazione ha
operato in questo o quel conflitto.
Oltre a fornire una prospettiva di analisi ancora poco
diffusa, per più
versi scomoda per diverse stereotipate ideologie, si
intende qui
ribadire che proprio solo un intreccio fra un approccio
storico e
approcci da communication studies possono permettere una
comprensione
più chiara e piena del ruolo che oggi la comunicazione,
la propaganda, i
massmedia hanno ormai conquistato sullo scenario
internazionale e delle
guerre.
Le guerre postbipolari e la retorica della novità
Il primo decennio del periodo postbipolare ha conosciuto
un'eccezionale
retorica della novità.
Tutto è parso nuovo in Occidente una volta finito
l'equilibrio del
terrore fra le due superpotenze, delle quali solo una è
sopravvissuta.
Dopo l'11 settembre 2001 la retorica della novità si è
moltiplicata.
"Niente sarà come prima", è stato ripetuto
troppe volte, anche a
proposito la guerra. Ciò in verità non sorprende lo
storico, consapevole
dell'eccezionalità dell'evento di "Nine
Eleven" accaduto però attorno ad
un passaggio di secolo, anzi di millennio.
Un semiologo come Umberto Eco ha rappresentato meglio di
altri lo
spirito dei tempi7. Nel breve volgere del decennio
successivo alla fine
del periodo bipolare (o della Guerra fredda, come
impropriamente viene
detto) la guerra avrebbe conosciuto, a suo parere, ben
tre eccezionali
trasformazioni che l'avrebbero resa oggi un fenomeno
storico-sociale del
tutto nuovo. Commentando il primo anniversario dell'11
settembre 2001,
egli ha scritto che sino al 1989-91 il pianeta aveva
conosciuto una
lunga storia di "paleoguerra". Fra quella data
e l'attacco alle Twin
Towers, essa si era trasformata dando vita ad un qualcosa
per cui egli
ha coniato il termine di "neoguerra". Dopo l'11
settembre la natura
della guerra sarebbe, a suo avviso, ulteriormente mutata:
cosicché si
dovrebbe parlare di "guerra diffusa".
Ma Eco è solo la punta di un iceberg di pubblicisti e di
militari che
insistono sugli aspetti di novità delle guerre e dei
conflitti del
periodo post1989-91. A suo merito al grande semiologo va
riconosciuto,
rispetto agli altri, di aver accuratamente evitato di
calcare la mano su
quella rappresentazione catastrofista e drammatica di
questa supposta
novità della guerra del primo decennio del periodo
postbipolare che è
invece ricorrente nella pubblicistica.
Tale retorica della novità non sorprende lo storico. In
effetti, le
trasformazioni storiche sono state molte. Pur non
trovando tutti
d'accordo, Eric Hobsbawm ha indicato nel passaggio
1989-1991 il momento
della fine non solo del bipolarismo e della Guerra Fredda
ma dell'intero
secolo ventesimo8. E poiché la natura della guerra non
può non
trasformarsi assieme alla trasformazione della società e
della politica
internazionale di cui è espressione, non sorprende che
con la fine del
"secolo breve" e l'affacciarsi di un mondo e di
un secolo nuovi, anche
la guerra - già a partire dal primo decennio
postbipolare - cambi o sia
cambiata.
I Toffler, ad esempio, avevano già parlato di una
complessa
trasformazione che avrebbe interessato tanto la guerra
quanto
l'"antiguerra"9. Più tecnici, i sostenitori
della Revolution in military
affairs (Rma) hanno sostenuto che - proprio attorno al
passaggio fra
anni Ottanta e Novanta - enormi trasformazioni nei
sistemi d'arma e
negli strumenti di guerra sono venute a maturazione10.
Toeffler e
sostenitori della Rma assieme hanno sostenuto che le
forze armate e le
guerre (occidentali, o in cui gli occidentali sono
coinvolti) hanno
mutato carattere: sarebbero divenute più
"informatizzate" e "costose" ma
anche più "chirurgiche" e in un certo senso
più "umanitarie". Come già
una volta era successo con al momento della comparsa
dell'arma nucleare,
i teorici più fiduciosi nella Rma (fra cui i sostenitori
statunitensi
della National missile defence) hanno vaticinato che la
guerra poteva
addirittura essere definitivamente allontanata, quanto
meno da alcuni
territori del pianeta, qualora si fossero realizzati i
progetti di Nmd,
Tmd ecc. Il vecchio sogno di abolire la guerra attraverso
un incremento
esponenziale dei meccanismi di guerra, come si vede, è
duro a morire.
Guerre "globali"
La retorica della novità è stata moltiplicata dal fatto
che le guerre
del decennio postbipolare sono state definite anche come
guerre della
globalizzazione o - per traslato - "guerre
globali" o addirittura come
"la guerra globale"11.
Le retorica delle novità del periodo postbipolare
sommata alla ampiezza
(o vaghezza?) del termine "globalizzazione" ha
prodotto il sintagma
"guerre globali" tanto attraente e
onnicomprensivo quanto vago. Ciò è
dovuto anche al fatto l'accordo su cosa contenga la
definizione, in
termini scientifici e storici, di globalizzazione è
ancora abbastanza
incerto. Molto insomma dipende in molta parte da cosa
vogliamo definire
con tale sostantivo. D'altro canto economia, politica,
istituzioni,
società, cultura: tutto è stato investito dalla
globalizzazione, negli
ultimi decenni del bipolarismo e in particolare nel primo
postbipolare.
Poteva la guerra rimanerne estranea?
In quest'ultimo decennio i processi di globalizzazione
hanno raggiunto
un'intensità nuova, al punto che nell'uso comune i due
termini
(globalizzazione e decennio postbipolare) sono stati
considerati come
sinonimi. In realtà storicamente ciò non è corretto.
Alcuni di questi
processi sono stati innescati da almeno un paio di
decenni, altri sono
ancora precedenti. Sia per questo, sia per la difficoltà
ad accordarsi
qui in breve su cosa il termine di globalizzazione posa
voler dire,
precisiamo che non parleremo di "era della
globalizzazione" ma di
"decennio postbipolare" (nel quale peraltro le
tendenze che si
addebitano alla prima sono venute a maturazione).
Fatta questa precisazione, converrà chiosare che appare
discutibile
affermare che tutto il pianeta sia stato ormai
rivoluzionato o abbia
raggiunto una condizione di compiuta globalizzazione.
Analogamente, è
ragionevole sostenere che la guerra del primo decennio
postbipolare sia
ormai integralmente rinnovata e "globalizzata"?
Peraltro, anche al più
sprovveduto lettore di Clausewitz, parlare di
"guerra globale" fa
echeggiare definizioni di "guerra assoluta" che
il generale prussiano
definiva come un orizzonte teorico e non come un fatto
storico concreto.
Per queste ed altre ragioni la definizione di
"guerre della
globalizzazione" o, peggio, di "guerra
globale" (o di "guerre globali")
non riesce a convincere e ricorda - tanto (per dirla con
i Toeffler) nel
campo della "guerra" quanto in quello
dell'"antiguerra" - quelle
drammatizzazioni sull'"ultimo stadio", o
asserito tale, dopo il quale
con disappunto spuntava uno stadio ulteriore, senza per
questo aver
contribuito un granché a comprenderne né
l'"ultimo" né il post-ultimo.
Nine Eleven
La retorica pubblica della novità ha conosciuto con l'11
settembre 2001
e con la politica del presidente statunitense Bush, con
la guerra in
Afghanistan e poi con la guerra in Iraq un decisivo passo
in avanti12.
La reazione del presidente russo Putin all'attacco
terroristico ceceno
al teatro moscovita dell'ottobre 2002 è sembrata
confermare l'avvio di
una fase nuova a livello internazionale. La "guerra
al terrore"
dichiarata da Bush (la "guerra diffusa" di Eco,
la "guerra globale" di
altri autori) rappresenterebbe nell'immaginazione
pubblica e nelle
scelte politiche e di bilancio delle potenze occidentali
a seconda dei
vari interpreti un capitolo, una fase nuova o addirittura
un'era nuova
della storia delle relazioni fra Nord e Sud del mondo, e
della guerra.
Tutta questa retorica della novità, in realtà,
insospettisce lo
storico13. Non si nega che il periodo postbipolare, le
sue forze armate
e le sue guerre abbiano assunto caratteri anche
eccezionalmente nuovi.
Né si nega che l'attacco "irregolare" alle
Twin Towers o i conflitti
internazionali "regolari" che ne sono seguiti
abbiano conosciuto aspetti
radicalmente nuovi. Ma lo storico è piuttosto portato a
interrogarsi su
quanto di nuovo ciò abbia portato con sé, da quando si
siano presentate
queste novità, in quali limiti tali innovazioni si sono
verificate. Egli
insomma non nega la novità. Ma - attento alla più lunga
durata e a
partire da una prospettiva diacronica - vuole definirla
nei suoi propri
limiti.
A prima vista si tratterebbe di un'operazione puramente
storiografica e
intellettuale, se non potesse avere forse anche ricadute
civiche.
Cogliere le trasformazioni è infatti importante, ma
farsene travolgere -
o considerare per nuovo qualcosa che non lo è, o non lo
è del tutto -
può contribuire a quei fenomeni di disorientamento e di
"straniazione"
così diffusi proprio al tempo della globalizzazione.
In ultima analisi, almeno due visioni oggi si
confrontano. Per un verso
il decennio postbipolare può essere visto come una
novità assoluta e
catastrofica, in cui tutti i metri e tutte le posizioni
precedenti (del
periodo bipolare, del "secolo breve") sono
ormai inutili. Da questo
punto di vista, la guerra è tutta nuova, è diffusa,
immanente e
generale. Non fa rilevanza, qui, la possibile diversa
coloritura
ideologica di un tale approccio: l'osservazione si
applica tanto ai
"realisti" dell'asserito inevitabile scontro
fra civiltà14 quanto agli
"utopici" critici della militarizzazione
integrale e della "devastante"
guerra dell'"Impero"15.
Per un altro verso invece il periodo postbipolare
potrebbe essere
giudicato nei suoi caratteri relativi di novità. È
evidente che la
scomparsa dell'equilibrio del terrore, delle ideologie
contrapposte ad
esso legate, nonché i processi di globalizzazione hanno
fortemente
trasformato anche i caratteri della guerra (o, meglio,
delle guerre). Ma
appare discutibile affermare che tale trasformazione sia
integrale.
Analogamente, oltre che nelle sue dimensioni e nei suoi
risultati, anche
il giudizio sulla prospettiva della trasformazione della
guerra può
essere diverso. Da una parte finirebbe per stare chi
sostiene che le
trasformazioni della guerra e la Rma abbiano
definitivamente culminato
il Novecento in quanto "secolo della guerra"16.
Da un'altra parte potrebbe stare chi osserva che il
secolo ventesimo,
pur segnato da tragedie del peso delle guerre mondiali e
della Guerra
fredda, non è stato affatto solo il secolo della guerra
ma anche il
secolo della pace17, nel senso di lento ma inarrestabile
progredire
(sino ad adesso) del diritto internazionale, del
tentativo di limitare i
conflitti e di controllare gli armamenti, di una crescita
di un'opinione
pubblica amante della pace e della rinunzia alle guerre
come mezzi di
risoluzione delle controversie internazionali18.
In particolare, lo storico non può non osservare che il
decennio
postbipolare è stato il primo in cui si è tentato di
riscuotere il
"dividendo della pace", dopo mezzo secolo di
bipolarismo e un intero
"secolo della guerra". Non a caso, nonostante
gli importanti e gravi
conflitti che lo hanno segnato, il primo decennio
postbipolare ha visto
il crollo di quasi un terzo delle spese militari
complessive, e la
riduzione di un quarto degli uomini in armi a livello
mondiale19. A
differenza del pubblicista o del politico immersi nel
presente, lo
storico potrebbe quindi essere più restio a guardare al
primo decennio
del periodo postbipolare in termini di prosecuzione e
culmine
inarrestabile del secolo della guerra e della Guerra
Fredda, e più
incline invece a pensarlo come possibile orizzonte nuovo,
sia pur senza
cadere nella trappola della "retorica della
novità".
Ma allora, per comprendere quanto nuove siano le nuove
guerre, non è
sufficiente solo esaminarle dall'interno, una per una, ma
è necessario
partire da più lontano e prendere in esame - almeno
schematicamente - il
ruolo delle guerre nel Novecento, le loro caratteristiche
e la loro
intensità. Solo dopo questo potremo tornare al primo
decennio
postbipolare per valutarlo più serenamente.
Solo allora potremo comprendere meglio il ruolo centrale
che la
comunicazione sta avendo in esso: non solo nella condotta
(tattica o
strategica) delle singole guerre, ma più in generale.
Il secolo della guerra
A differenza dei cronachisti20, che vedono un secolo come
una semplice
successione di cento anni, per gli storici il dibattito
è aperto persino
sui limiti cronologici del Novecento. È diverso infatti
se guardiamo al
secolo passato come ad un "secolo breve", o ad
un "secolo lungo", o se
addirittura lo periodizziamo sulla base della storia
statunitense, visto
che alcuni hanno parlato di "secolo americano".
Qui il tema, che ha
connessioni con la storia delle guerre, può però solo
essere richiamato21.
D'altro canto, una volta che se ne siano stabiliti i
confini, il
Novecento non può essere considerato come solo il
"secolo della
guerra"22. Molti altri fenomeni storici hanno avuto
un impatto
drammatico sulla vita delle popolazioni del pianeta lungo
questo
"secolo". Le malattie, la fame, lo sfruttamento
coloniale e industriale
lo hanno segnato. Per non parlare dello sterminio di
intere popolazioni
che ha portato a coniare il termine giuridico di
"genocidio": una
vicenda di cui lo sterminio degli ebrei sotto il nazismo
ha
rappresentato al tempo stesso il culmine e un unicum
nella storia umana.
Ma sia pur senza arrivare al genocidio, persino il dramma
degli
spostamenti forzati di popolazione ha avuto nel Novecento
portata e
conseguenze drammatiche, di breve e di lungo periodo.
Anche nella
prospettiva dei più pessimisti, insomma, e nonostante
due guerre
mondiali e una guerra fredda semisecolare, il dramma del
Novecento non è
stato "solo" quello della guerra.
Eppure il secolo ventesimo continua ad essere ricordato
come "il secolo
della guerra". Ciò per ragioni assolute e relative.
In effetti, in
termini assoluti, la guerra ha mietuto nel Novecento un
numero
eccezionalmente alto di vittime. Elemento parallelo e non
meno
importante, questa volta in termini relativi, cioè
rispetto ad altri
secoli, la guerra ha conosciuto nel Novecento dimensioni
assai più
luttuose, più estese e più intense che nei secoli
passati. Ciò non
sorprende se si pensa al numero delle vittime delle due
guerre mondiali.
Com'è noto, però, le vittime delle guerre novecentesche
non sono state
solo militari. Al più tardi a partire dalla seconda
guerra mondiale, per
il combinato effetto di scelte politiche e di progressi
tecnici e
militari, non solo le forze combattenti ma ormai anche le
popolazioni
civili hanno risentito fortemente della guerra.
Le novità del periodo bipolare
A partire dal 1945 la presenza delle due superpotenze Usa
e Urss e la
connessa divisione del mondo in due sfere di influenza,
cui solo la
rivoluzione decolonizzatrice ha saputo in qualche modo
far argine dando
vita al Movimento dei paesi non allineati, hanno
fortemente influenzato
il panorama della guerra. Fra le due, e nonostante i
colossali
investimenti sovietici nel settore degli armamenti, gli
Usa hanno in
questo settore mantenuto un ruolo fondamentale. Tutto
ciò a spinto ad
allestire strumenti di guerra e forze armate
eccezionalmente potenti.
In particolare, sempre a partire dal 1945, il mondo è
entrato non solo
nella fase bipolare ma nell'era nucleare. La
sperimentazione della bomba
A prima ad Alamogordo e poi su Hiroshima e Nagasaki,
coniugatasi con
l'assetto bipolare del dopoguerra, ha stretto il pianeta
in un
equilibrio del terrore, in cui gli arsenali nucleari (e
poi
termonucleari) di ambedue le superpotenze avevano la
capacità di
annientare più e più volte l'intero pianeta.
È vero che l'armamento nucleare non è stato più
utilizzato in guerra,
nonostante in più di un'occasione le crisi
internazionali fossero giunte
ad un passo dal farvi ricorso. D'altro canto, per la
precisione, ciò non
vuol dire che l'arma nucleare non abbia costituito il
più minaccioso
"convitato di pietra" della politica
internazionale. Di più: anche se
pochi lo menzionano, essa è stata costantemente
sperimentata,
perfezionata, allestita e preparata. L'età nucleare non
ha conosciuto la
guerra nucleare ma ben più di 2000 esplosioni nucleari a
titolo di
esperimenti militari.
Per sostenere le proprie forze armate le superpotenze, le
potenze medie
e in genere gli Stati hanno sostenuto eccezionali spese
militari. La
quantità di risorse indirizzata alla preparazione della
guerra e delle
forze armate è stata, in termini assoluti, senza
precedenti. Anche
quando non hanno combattuto, le forze armate - oltre a
produrre
sicurezza - hanno "consumato" eccezionali
risorse. Il loro peso si è
fatto avvertire proporzionalmente meno che in altri
periodi storici
perché il Novecento è stato anche il secolo della
definitiva
industrializzazione delle economie, e perché -
nonostante le gravi crisi
- in alcuni periodi e in alcuni paesi si sono registrati
periodi
eccezionalmente lunghi di eccezionale crescita
complessiva. I "trenta
anni gloriosi" fra la fine della seconda guerra
mondiale e l'aprirsi
della crisi degli anni Settanta hanno reso possibile
eccezionali spese
militari senza per questo congelare
("malthusianamente") il ciclo
economico favorevole. (Più pesante è stato invece
avvertito il carico di
spese militari nella fase successiva, e non a caso più
criticate sono
state le spese militari fra gli anni Settanta e Ottanta.)
In questa grande corrente di spese militari, in
particolare dopo il
1945, gli Usa hanno conquistato un posto di assoluto
rilievo. La
crescita tecnologica militare non solo genericamente
occidentale ma
specificamente statunitense è stata eccezionale. Le
relazioni non solo
militari, ma anche diplomatiche e politiche fra i paesi
dell'Alleanza
Occidentale ne sono state potentemente influenzate. Per
fare solo un
esempio, si potrebbe prendere il campo della
missilistica, dei satelliti
e più in generale dell'utilizzo militare dell'aria e
dello spazio. Sia
pur all'inizio in difficoltà (il lancio sovietico dello
Sputnik creò
qualche problema alla missilistica statunitense), nel
periodo bipolare
gli Usa sono riusciti a costruire in questo campo una
posizione di
assoluta dominanza. La proposta raccolta dal presidente
Reagan della
Strategic defense initiative e delle star wars - per
quanto costosa,
destabilizzante e in ultima analisi forse impossibile -
era al tempo
stesso un riflesso e un moltiplicatore della supremazia
statunitense nel
settore.
Mentre le due superpotenze si fronteggiavano
militarmente, sia pur senza
sfidarsi direttamente, e mentre l'Europa, il Giappone e i
nuovi poli
industriali sorti alla periferia degli imperi si
rafforzavano, il resto
del pianeta conosceva quella guerra che la
"triade" occidentale aveva
accantonato per quasi mezzo secolo. Mentre la Guerra
fredda sembrava
congelare Usa e Urss, le guerre in tempo di pace erano
combattute nel
Sud del mondo. Nella prima metà del secolo - esclusi
quelli mondiali - i
conflitti erano stati prevalentemente coloniali. Nella
seconda metà del
"secolo breve", passate le crisi legate alla
decolonizzazioni, ai
conflitti interstatuali si erano affiancati e sempre più
spesso
sostituiti i conflitti infrastatuali. Le guerre civili,
alimentate dalla
Guerra fredda, si erano fatte più numerose, più lunghe
e più difficili
da essere composte. Alcune aree del pianeta si erano
avvitate in zone di
crisi permanente.
In alcune di quelle aree, già prima del 1989-91 l'Onu
aveva tentato di
mettere argine alla violenza, inviando osservatori, forze
di
interposizione e persino operazioni di peacekeeping (poi,
si è detto,
"di prima generazione"). Ma raramente
quell'intervento è stato decisivo.
In questo contesto è intervenuta la fine del
bipolarismo, e con esso del
"secolo breve". Essa non era avvenuta a causa
della potenza militare
Usa: i fattori di crisi interna al blocco sovietico
avevano avuto un
peso maggiore. Ma certo la forza militare accumulata in
più di
quarant'anni dalla Nato e in particolare dagli Usa aveva
contato.
Il periodo postbipolar: guerra endemica.
È solo a questo punto e con questa prospettiva storica
che è possibile
comprendere meglio i caratteri militari del periodo
postbipolare. Solo
adesso è possibile vagliare se esso abbia costituito un
periodo
totalmente nuovo: o, meglio, identificare quanto di nuovo
esso abbia
conosciuto.
Già a partire dagli anni Ottanta, ma poi con più forza
e successo negli
anni Novanta, vari osservatori militari hanno sostenuto
che si era ormai
realizzata una Rma che aveva trasformato le forze armate.
La conduzione
di una parte della Guerra del Golfo con sistemi d'arma
assai evoluti
aveva diffuso la sensazione che - più o meno assieme
alla fine della
Guerra fredda - le forze armate e di conseguenza le
guerre fossero del
tutto cambiate.
Anche fra chi si opponeva a tali trasformazioni si era
nel frattempo
diffusa l'opinione che le guerre del dopo-Guerra fredda
(cioè del
periodo postbipolare) erano ormai radicalmente diverse da
quelle del
passato. Anche se nel titolo originale era alquanto
cauto, il volume di
Mary Kaldor riassumeva e finiva per rilanciare la
definizione di "nuove
guerre" (da notare che il titolo inglese suonava
come "Old e new wars",
più seccamente tradotto in italiano come "Le nuove
guerre": traduttore
traditore.)23. I più acuti degli opinionisti militari
coglievano
l'occasione per slanciarsi in non sempre ponderate se non
proprio
improvvisate teorizzazioni sul carattere di queste
"neoguerre".
Ovviamente, consistenti segnali e indici di novità non
mancavano. Mentre
le opinioni pubbliche nazionali, soprattutto europee, si
dividevano a
proposito della partecipazione alla Guerra del Golfo (che
aveva invece
assistito ad un'eccezionalmente ampia coalizione di stati
a guida
statunitense), la guerra tornava sul suolo europeo per la
prima volta
dopo mezzo secolo e disintegrava la Jugoslavia. Conflitti
crudeli e, a
giudizio dell'"uomo comune", inspiegabili se
non proprio "primitivi" si
sviluppavano in Africa, dalla Somalia al Rwanda. La
potenza militare
statunitense si delineava ormai senza più rivali. La
guerra e la
minaccia della guerra sembravano smentire i teorici della
"fine della
storia".
L'informazione su (alcuni) conflitti in corso pareva
aumentare, anche se
si trattava spesso di propaganda di guerre e di guerras
de las
mentiras24, moltiplicandone l'impatto sulla mentalità
collettiva.
L'opinione pubblica era stata dapprima illusa dai cantori
della "fine
della storia" e dalle aspirazioni alla pace perpetua
per essere
successivamente presto delusa dallo scatenarsi da tutti
questi conflitti
del periodo postbipolare. Svanito l'equilibrio del
terrore bipolare le
principali cancellerie internazionali - ma anche le
opinioni pubbliche -
si trovavano di colpo impreparate a gestire le turbolenze
e le novità
del dopo-Guerra fredda. L'aspirazione alla pace era
sollecitata da
queste "nuove" guerre e dall'informazione che
se ne faceva. Il primo
decennio postbipolare veniva insomma ad essere percepito,
già prima di
esserlo, come un decennio di guerre.
. o "dividendo della pace"?
In realtà, a confrontare con attenzione i dati, il primo
decennio
postbipolare ha visto un numero di conflitti - e in
particolare di gravi
conflitti - inferiore alla media dei decenni precedenti.
La Guerra
fredda era finita portando con sé la fine di vari
conflitti.
Soprattutto, il primo decennio postbipolare ha portato
con sé un taglio
sensibile alle spese militari. Non si è trattato solo
del "disarmo"
della superpotenza sconfitta e dei suoi alleati. In
particolare i paesi
europei occidentali, "sparito" il nemico della
Guerra fredda, hanno
"riconvertito" parti importanti dei loro
bilanci statali dal militare al
civile. Le spese militari mondiali, la quantità di
soldati in armi, in
una parola la minaccia della guerra si sono ridotte.
Nella prima metà degli anni Novanta, addirittura, si era
fatta avanti la
stessa Onu. Essa era stata impegnata in operazioni non
più solo di
peace-keeping ma anche di peace-enforcing. Tenuti
impreparati e
sottofinanziati dalle superpotenze in cinquant'anni di
bipolarismo, non
sorprende se in più di un'occasione i corpi militari
dell'Onu o da essa
assemblati non sono però riusciti a congelare i
conflitti o a farli
de-escalare. È avvenuto così che, in particolare nei
Balcani sin dal
1994, all'Onu si è sostituita la potenza Usa, alleanze
regionali (la
stessa Nato) o singoli coalizioni di volontà (coalition
of the
willings). Ciò detto, le "guerre dell'Onu"
erano a ragione apparse come
un altro segnale - da taluni auspicato, da altri
paventato - della
novità della situazione: ma in un'ottica di riduzione, e
non di
moltiplicazione, dei conflitti.
Intanto, gli Usa si avviavano ad essere - dal punto di
vista militare -
la "iperpotenza" mondiale. Le politiche
adottate dei presidenti, tanto
repubblicani quanto democratici; la scelta di intervenire
militarmente
non meno che diplomaticamente in varie e lontane aree di
crisi; il ciclo
economico favorevole, che ha offerto ampi margini per
tenere alti i
bilanci militari; gli eccezioni investimenti in ricerca
tecnologica,
soprattutto di ambito militare, che permetteva alle forze
armate
statunitensi di contare su sistemi d'arma eccezionalmente
avanzati ed
efficaci: tutto questo assieme ha aumentato, nel primo
decennio
postbipolare, lo iato fra il sistema militare Usa e
quello delle potenze
immediatamente inferiori.
Gigante militare e politico, gli Usa si sono confrontati
con altri
raggruppamenti di paesi - in primo luogo l'Europa -
rivelatisi sinora
altri giganti temibili dal punto di vista economico ma
politicamente
divisi e militarmente (se si considerano le istituzioni
militari comuni
europee, e non quelle delle singole potenze del vecchio
Continente)
quasi inesistenti. Le divisioni emerse nel caso delle
guerre jugoslave e
il ruolo per lungo tempo secondario delle forze militari
europee (che
insieme hanno aperto la strada all'intervento della Nato)
lo hanno
dimostrato. In più di un'occasione e in più di una
crisi, quindi, la
comunità internazionale è dovuta ricorrere agli Usa (o
ha dovuto
accettare l'intervento militare statunitense).
Non che il decennio postbipolare sia stato inutile dal
punto
dell'ulteriore sviluppo dei regimi internazionali e del
diritto
internazionale umanitario. Importanti convenzioni e
fondamentali
istituzioni sono state varate. Anzi, a questo avanzamento
troppo spesso
non è stato dato - a livello di opinione pubblica - il
dovuto risalto.
Ma la massima istituzione multilaterale, l'Onu, in più
di un conflitto
si è trovata con le mani legate di fronte ad una ripresa
dell'unilateralismo statunitense. Analogamente, troppo
spesso le misure
non militari (a partire dall'embargo) si sono dimostrate
insufficienti
ed inefficaci. Importanti conflitti (dal Golfo ai Balcani
al Kossovo
all'Afghanistan e da ultimo all'Iraq) si sono aperti e
svolti senza che
la legalità internazionale fosse pienamente rispettata,
con atti - anche
da parte occidentale e statunitense - lesivi del diritto
internazionale.
Già con il presidente democratico Clinton e soprattutto
con quello
repubblicano Bush, gli Usa hanno chiaramente dimostrato
di ritenersi
svincolati dal rispetto dovuto alle decisioni dell'Onu.
In questo
quadro, i pur avvenuti avanzamenti in vari settori del
diritto
internazionale sono rimasti, appunto, settoriali.
La Rma, invece di permettere di instaurare un sistema di
fiducia
reciproca e invece di contribuire a controllare meglio,
in fase
preventiva, le mosse dei più irrequieti degli attori del
sistema
internazionale, è servita a condurre guerre
"chirurgiche" con armamenti
"intelligenti" che hanno inferto danni gravi
alle popolazioni e
interventi militari non sempre risolutivi (quando non
"stupidi").
Dopo l'11 settembre 2001, infine, la ricerca affannosa di
un nemico è
parsa sfociare nell'individuazione di un piuttosto
inafferrabile
"terrorismo internazionale". In realtà, come
per i conflitti
interstatuali e per quelli civili, il decennio
postbipolare aveva visto
sino a quella data un calo quantitativo tanti del numero
quanto della
letalità degli attacchi del "terrorismo
internazionale". Le stesse fonti
Usa lo ammettono. La calante attività di quest'altro
nemico, svuotata da
molti dei caratteri ideologici propri del periodo
bipolare, si è invece
drammaticamente risvegliata: spingendo alcuni, troppi, a
vedere in esso
un'altra forma del contrasto politico che, anche in fase
di
globalizzazione, contrappone il Sud al Nord del mondo.
Comunicazione e conflitti nel periodo postbipolare
Ma, se i conflitti diminuiscono e si riducono in
intensità e severità,
com'è che la guerra ci pare onnipresente? È qui a
nostro avviso che
emerge il ruolo grande, fondamentale, diremmo
costituzionale e
costituente, della comunicazione rispetto alle guerre nel
periodo
postbipolare. Nonostante una riduzione oggettiva dei
conflitti, è
purtroppo diffusa una percezione soggettiva di
insicurezza e di
"bellicosità" del sistema internazionale
(insicurezza del sistema, si
badi, e non di suoi singoli attori la cui bellicosità -
dagli Usa al
terrorismo internazionale - è sotto gli occhi di tutti).
L'informazione, la comunicazione, lo stesso management
della percezione
hanno avuto un ruolo appunto fondamentale.
In effetti le guerre contemporanee non sono mai state
vinte solo contro
l'avversario esterno ma anche sul fronte interno. Ciò è
tanto più vero a
partire proprio dal Novecento, con le sue guerre di massa
dalla morte di
massa, combattute da società di massa, innervate da
complessi e delicati
sistemi di comunicazioni di massa. È su questo ultimo
fronte che, nelle
società occidentali, proprio il periodo postbipolare ha
visto notevoli
cambiamenti. È possibile parlare di trasformazioni nella
quantità, nella
forma e nella qualità della comunicazione che ha avuto
oggetto le
guerre. Si tratta di trasformazioni assai rilevanti,
spesso già avviate
durante il periodo bipolare, ma che hanno conosciuto in
Occidente la
loro piena attuazione solo in coincidenza con il
postbipolarismo.
Per quanto concerne la quantità, è sotto gli occhi di
tutti che
l'opinione pubblica è stata letteralmente
"bombardata" di informazione
dai fronti dei principali conflitti internazionali. I
più di 1500
giornalisti accreditati nella Guerra del Golfo del 1991,
i quasi 900
giornalisti embedded in quella del 2003 - cui sarebbero
da aggiungersi
le centinaia di altri corrispondenti stazionati nelle
varie capitali e
campi militari del Medio Oriente - danno l'idea della
mole di
comunicazione che ha accompagnato queste guerre
(lasciando per adesso da
parte il problema se questo ha comportato anche un
miglioramento
dell'informazione). Certo, questo non vuol dire che molte
guerre non
siano state "dimenticate"25: ma è un dato di
fatto che la guerra è
diventata un business informativo, che è stata fatta
diventare molto più
che in passato uno show.
Ma perché? Le risposte e le spiegazioni possono essere
varie, non
necessariamente autoescludentesi. In primo luogo non
vanno sottovalutati
in questo i perversi effetti, noti da antica data, del
sommarsi di
patriottismo sciovinista e sensazionalismo che da sempre
- almeno dai
tempi del jingoismo operaio e popolare ai tempi dei
conflitti coloniali
e della guerra angloboera - accompagna le opinioni
pubbliche europee. In
secondo luogo, una spiegazione apparentemente più
"neutra" potrebbe
collegare questo ai notevoli sviluppi conosciuti in
questi ultimi anni
delle tecnologie della comunicazione: rimanendo a
qualcosa che la
recente guerra in Iraq ha dimostrato a sufficienza, il
drastico
alleggerimento del telefono satellitare, il
perfezionamento delle
macchine da presa portatili, la diffusione di Internet e
della stessa
semplice posta elettronica hanno trasformato parecchio il
numero e la
qualità di quel lavoro del corrispondente di guerra che,
una volta, era
avvolto nel manto dell'eccezionalità e del fascino.
Altre risposte
possono allinearsi, e risultano diverse a seconda
dell'interpretazione
generale adottata. Certo è legittimo osservare in questo
l'effetto della
gigantesca macchina di propaganda che ha accompagnato
queste guerre26 (e
i pessimisti del Novecento come "secolo della
guerra" finirebbero per
ridurre il tutto a "complotto" antidemocratico
contro l'opinione
pubblica27). Ciò è, per la sua parte, senza dubbio
vero. Propaganda
pianificata e controllo delle informazioni, qualunque
forma di
news-management venga scelta, costituiscono ormai un must
della
pianificazione e della conduzione dei conflitti. D'altro
canto i
pessimisti dovrebbero ammettere che anche la spiegazione
opposto
potrebbe essere accettata: si potrebbe infatti spiegare
questa crescita
di comunicazione anche con la rinnovata ed anzi aumentata
volontà da
parte dell'opinione pubblica di controllare l'operato dei
propri
governi, delle proprie forze armate. Grasping the
democratic peace non
si può, senza comunicazione e controllo da parte delle
opinioni pubbliche28.
Per quanto concerne le forme della comunicazione di
guerra, abbiamo già
accennato che esse cambiate e sono in costante
modificazione. Il
newsmanagement è storicamente mutato, dal Vietnam alle
Falklands, dal
Golfo 1991 al Golfo 2003. La comunicazione televisiva ha
conquistato un
ruolo centrale. Essa ha trascinato la comunicazione
giornalistica. Ad
esse si è aggiunta la comunicazione via Internet, in
forme diverse: dai
primi esitanti e solitari messaggi clandestini via e-mail
ai più
organizzati blogger. Parallelamente, si è trasformato ed
è aumentato il
numero dei soggetti attivi della comunicazione di guerra.
Non si tratta
più di un affare solo di agenzie informative ufficiali
militari o
comunque pubbliche, agenzie giornalistiche e singoli
corrispondenti di
guerra. In questo ultime decennio gli operatori freelance
si sono ormai
definitivamente e stabilmente installati nel meccanismo
"produttivo"
della comunicazione di guerra. più di recente, persino
singoli cittadini
(cioè né professionisti né freelance) hanno potuto
improvvisarsi
operatori della comunicazione di guerra: le e-mail dalle
città della
ex-Jugoslavia bombardata e assediata, o le immagini dalle
città della
Palestina attaccate dalle truppe di Israele sono ormai
segni
storicamente significativi che l'informazione di guerra
sta
trasformandosi (se in meglio o in peggio, con un più
alto o un più basso
tasso informativo non è qui la sede per discutere).
Oltre che in quantità e nelle sue forme di produzione,
la comunicazione
di guerra che in questi ultimi anni è stata scaraventata
sulle opinioni
pubbliche è stata però diversa anche in qualità. Come
sarebbe d'altronde
spiegabile se non anche con modificazioni qualitative
della
comunicazione ricevuta da parte delle opinioni pubbliche
la creazione di
quella apparente contraddizione che abbiamo più avanti
rilevato, cioè di
un mondo (statisticamente) più "in pace" ma
che si sente più insicuro e
più "in guerra"? È questo forse il punto più
delicato del ragionamento,
quello in cui la generalizzazione cui siamo in questa
sede costretti
appare meno soddisfacente, e in cui infatti sarebbe
necessario
articolare il discorso a livello nazionale, nei vari
momenti storici, a
seconda dei diversi canali comunicativi ecc.
Qualsiasi professione di necessaria articolazione,
comunque, non
cancella l'impressione (generale) per cui il livello
qualitativo della
comunicazione di guerra si sia, in questo periodo
postbipolare,
sostanzialmente abbassato29. Le cause possono essere
diverse: la
maggiore complessità del panorama internazionale
(nonostante l'apparente
semplificazione unipolare) e degli stessi conflitti, il
loro carattere
inedito rispetto a quelli cui il bipolarismo aveva
abituati,
l'impreparazione quindi tanto delle opinioni pubbliche
quanto degli
operatori dei media, sono fra le cause più evidenti.
Altrettanto
importanti anche se meno evidenti possono essere altre
cause, quali la
forza rinnovata degli apparati di propaganda che hanno
avvolto questi
conflitti. Altre cause ancora sono generali e relative a
tutto il mondo
della comunicazione, anche se assumono un valore
particolare nel caso
della comunicazione di guerra: l'eccezionale passo in
avanti dei
processi di concentrazione dell'intero sistema
internazionale dei media,
lo scadimento di tanta parte dell'informazione televisiva
come
giornalistica e radiofonica con il dilagare
dell'infotainment30 ecc. La
stessa crescita dei costi economici della informazione
non deve essere
sottovalutata: inviare un corrispondente di guerra
all'estero e
mantenervelo oggi comporta costi (giudicati)
semplicemente insostenibili
da molte testate, e spesso anche dalle maggiori: con
tutto ciò che
questo comporta in termini di sudditanza delle testate
stesse rispetto
ai messaggi stereotipati e non confrontabili delle
agenzie. Altre cause
infine sono specifiche al lavoro della comunicazione di
guerra: proprio
nei conflitti del periodo postbipolare il processo di
espulsione del
corrispondente di guerra dal fronte e dal terreno di
battaglia sembrava
aver raggiunto un punto estremo (fino a che esso non vi
ha invece fatto
ritorno, ma embedded.). Inoltre, sempre fra le cause
specifiche, si
dovrebbe annoverare lo stesso "gioco al
rilancio" che caratterizza gran
parte della comunicazione contemporanea, con notizie
accettate e
ricercate solo se "colpiscono" il pubblico per
il loro "innalzare" il
livello dello scontro, della tragedia, del dramma: come
la compassion
fatigue ha finito per rendere meno sensibili di fronte ai
drammi del
Terzo Mondo, così l'enfasi tanto sulle novità
tecnologiche di alcuni
singoli conflitti quanto sulla loro drammaticità avrebbe
potuto
comportare spingere l'opinione pubblica a comprendere
meno il quadro
generale della conflittualità del periodo postbipolare.
Per tutte queste ed altre ragioni, insomma, è difficile
negare che - in
genere e in media - la comunicazione di guerra del tempo
dei conflitti
postbipolari, anche se quantitativamente assai
ampliatasi, appare
qualitativamente piuttosto impoverita31. Il modo con cui
una catena come
la Fox ha fatto comunicazione, più che informazione,
dall'Iraq nel 2003
ha rappresentato un caso limite ma esemplare, con i
"Wow!!" lanciati dal
"giornalista" in studio per accompagnare
entusiasticamente l'ingresso
delle truppe americane in Iraq: quasi si trattasse di una
telecronaca
brasiliana di una partita di calcio. La notevole
diffusione della
ripresa televisiva in diretta ha potuto sul momento forse
confondere
qualcuno circa l'impoverimento informativo che, sia pur
nel diluvio
delle immagini, si stava concretando. Ma non sempre il
vedere (e cosa? e
quanto? e quando?) aiuta il capire32.
Certo, gran parte del sin qui detto non si applica ai
canali informativi
per le élite. Anzi gli organi di comunicazione più
qualificati si sono
distinti in genere, in questo periodo, per una
riqualificazione ed un
ampliamento del tasso informativo della loro
comunicazione. Una nuova
generazione di corrispondenti, commentatori e analisti si
è affacciata,
offrendo i propri servigi alle istituzioni e ai mezzi di
comunicazione,
innalzando e perfezionando la comunicazione di qualità.
Ma ciò che
decide in democrazia, al momento del vaglio elettorale,
non è purtroppo
la qualità dell'informazione delle élite ma quella
complessiva della
massa dei cittadini.
Si potrebbe quindi concludere che, anche senza addebitare
tutto alle
"oscure" forze della propaganda (che pure hanno
operato, ma che da sole
non sarebbero state in grado di produrre simili
consistenti effetti), le
opinioni pubbliche delle democrazie non sono state messe
in grado di
poter valutare il reale andamento della conflittualità
del mondo
postbipolare. In questo, un ruolo rilevante - e infine è
legittimo dire,
una responsabilità - non poteva non avere la
comunicazione.
L'aumento quantitativo dei programmi e delle rubriche
della
comunicazione di guerra, la sensazione di tutto vedere di
molto sapere
di tanti singoli conflitti, in realtà ha permesso 1) sia
che si perdesse
di vista il dato storicamente e politicamente nuovo, e
che cioè per la
prima volta in misura così significativa il mondo
contemporaneo
conosceva una demilitarizzazione e un disarmo assai
notevoli, 2) sia che
non si riuscisse a contrastare l'operato delle propagande
di guerra.
Così, mentre poteva esigere di riscuotere il dividendo
della pace, il
mondo postbipolare ha pensato di essere assediato dalle
guerre. E quando
infine il presidente della unica superpotenza rimasta ha
dichiarato
guerra duratura ad un avversario certamente odioso ma
difficilmente
eliminabile con per l'appunto con una guerra regolare,
ciò è apparso
confermare un dato di fatto già presente, mentre invece
rappresentava
una scelta politica.
Come raramente è avvenuto nella storia, la comunicazione
ha svolto un
ruolo decisivo e generale rispetto ai destini della
guerra e della
pace33. Questa realtà, esterna e generale, può sfuggire
al sociologo
delle comunicazioni che si interessi, anche in maniera
approfondita ma
"interna", a come è stato comunicato questo o
quel conflitto: ma risalta
agli occhi dello storico generale e dello storico
militare in
particolare34.
Conclusione
In conclusione, le guerre del primo decennio postbipolare
sono tali da
legittimare l'accesa retorica della novità che da tanti
parti si è
voluto attorno ad esse lanciare? O, meglio, quanta e
quale novità le ha
caratterizzate? E queste novità vanno tutte nel senso di
una guerra
endemica e "diffusa", tecnologizzata e
"americana", senza altre
alternative, come la propaganda continua ad affermare?
Praticamente non vi è fenomeno fra quelli che hanno
portato a definire
il profilo delle "nuove guerre" che non abbia
precedenti nel periodo
bipolare, se non più addirittura nelle guerre del
"secolo breve".
Nessuno, da solo, connota la novità delle guerre del
primo decennio
postbipolare. Già prima del 1989-1991 le guerre erano
già più
infrastatuali che interstatuali e già mietevano vittime
fra i civili più
che fra militari. E prima della caduta del bipolarismo le
guerre
dell'Occidente già erano ad altissimo tasso tecnologico,
in esse il
divario (tecnologico e più in genere di potenza) fra gli
Usa e il resto
del mondo era già notevole, già poggiavano su una
quantità eccezionale
di spese militari.
C'è stato, sia chiaro, qualcosa di effettivamente nuovo.
Di nuovo c'è
stato in primo luogo il combinarsi di elementi già noti:
ma proprio
questo riapparire di fenomeni e tendenze già note di per
sé dovrebbe
consigliare - non di negare - di ridimensionare la
"novità" dei
conflitti del primo decennio postbipolare. Inoltre,
aspetti
effettivamente nuovi sono sussistiti.
Nuovi sono stati alcuni importanti elementi politici,
tecnici e
militari. Nuovo è il contesto generale unipolare che -
mentre mette in
difficoltà le istituzioni internazionali multilaterali e
sino a che
altri raggruppamenti di potenze (in primo luogo l'Europa)
non
adotteranno politiche e identità estere e di difesa
comuni - lascia
eccezionali spazi d'azione agli Usa. Nuovo è lo sviluppo
dei sistemi
satellitari di ricognizione e di avvistamento. Nuova è
una
mediatizzazione di (alcuni) conflitti, che accresce il
potere
condizionante delle opinioni pubbliche (ma anche più
facile il loro
condizionamento). Nuova, legata alla precedente, è la
compattezza con
cui i governi occidentali stanno indirizzandosi verso
l'adozione di
forze armate basate sul reclutamento volontario tramite
l'abolizione,
sospensione o forte riduzione della coscrizione. Anche in
rapporto a
questo, nuova è l'aspirazione tutta occidentale dei
politici e dei
militari a condurre guerre a "zero morti": come
nuova, grazie agli
sviluppi tecnologici, è la possibilità effettiva di
condurle (non sempre
ancora di vincerle definitivamente) a condizione che ci
sia qualcuno sul
terreno ad occuparsi del "lavoro sporco". I
casi del Kossovo e
dell'Afghanistan dimostrano tutto ciò. Nuova è la
minaccia del
terrorismo internazionale (come nuova è l'illusione che
esso possa
essere sradicato con mezzi militari).
Ma altri aspetti poco ricordati delle "nuove
guerre" del primo decennio
postbipolare vanno in senso contrario a chi sostiene (o
desidera) la
militarizzazione delle relazioni internazionali, gli
scontri fra
civiltà, la necessità di incrementare le spese
militari. Questo decennio
è stato infatti caratterizzato da una riduzione nel
numero, nell'entità
e nella luttuosità dei conflitti: e questo tanto
rispetto all'intero
"secolo breve" quanto rispetto al periodo
bipolare. Questo decennio è
stato connotato dalla riduzione delle spese militari
mondiali. È stato
il decennio in cui è sembrato possibile non tanto
(idealisticamente) il
superamento della guerra e la fine della storia quanto
piuttosto
concretamente la riscossione del "dividendo della
pace", lo stabilirsi
di un mondo multipolare, il rafforzamento delle
istituzioni
multilaterali e del diritto internazionale. La stessa
pericolosità, sino
all'11 settembre, della minaccia del terrorismo
internazionale era stata
calante. Tutto ciò non vuol dire, ovviamente, che il
pianeta andasse
"nel migliore dei modi possibili verso il migliore
dei mondi possibili".
Ma, rispetto al "secolo della guerra" e alla
Guerra fredda, si era
prospettata un'inversione di tendenza, o quanto meno
un'altra direzione.
Una tendenza e una direzione che forze importanti oggi
vogliono abbandonare.
In un caso o nell'altro, la comunicazione ha svolto un
ruolo centrale:
come e ancor più che nel periodo precedente35. Gli studi
hanno
scandagliato - per quanto sia oggi possibile senza un
accesso alle fonti
dirette e d'archivio - le forme della comunicazione
"dal fronte al
Paese" per questo o quel conflitto. Qui si è
insistito sul fatto che,
più in generale, la comunicazione non ha aiutato
l'opinione pubblica a
rendersi conto che, nel periodo postbipolare, la
conflittualità era in
diminuzione.
Purtroppo, quello della conflittualità non è un dato
immobile. Non
mancano le divergenze fra gli Stati e dentro di essi,
prima e più che
fra le civiltà. Nuovi e pericolosi conflitti possono
emergere, se al
multilateralismo delle Nazioni Unite e al diritto
internazionale vengono
sostituiti l'unilateralismo di qualche grande potenza e
il suo interesse
nazionale.
È in conclusione sempre presente il rischio che i
conflitti aumentino di
nuovo, e che l'immagine offerta dai mezzi di
comunicazione per la
conflittualità del primo decennio postbipolare - per
molti versi
falsante - possa purtroppo finire per rivelarsi adeguata
e anticipare la
realtà del secondo decennio.
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