centralita' della comunicazione

centralita' della comunicazione

Nicola Labanca

Guerre del periodo postbipolare: la centralità della comunicazione


Gli avvenimenti hanno cominciato ad allontanarsi.
Era tempo che qualcuno provasse un sentimento di vergogna.
Non per l'atteggiamento assunto, per la scelta compiuta, razionale o
emotiva. O non ancora.
Prima di ogni altra considerazione: per essere stato così bene scaldato
dalla propaganda.

Franco Fortini, I casi del Sinai (1967)


Since 9/11 we need peace propagandists, not war propagandists
- people whose job it is to increase communications,
understanding and dialogue between different peoples with different
perspectives.

Philip Taylor, Munitions of the mind (2003)


Guerra e comunicazione

Tra le varie modificazioni conosciute dalle forme storiche della guerra
dopo la fine del bipolarismo, il grande ruolo assunto dalle
comunicazioni è certo una delle più evidenti e rilevanti.

Che il sistema dei massmedia fosse decisivo per società di massa
impegnate in guerre di massa con eccezionali eserciti di massa basati
perlopiù sulla coscrizione universale non era una novità. I maggiori
conflitti del Novecento, a partire dalle due guerre mondiali, lo avevano
dimostrato1. Le guerre della "Guerra fredda", con il loro sovraccarico
ideologico, non avevano potuto che quanto meno confermarlo.

Nel primo decennio postbipolare il controllo dei flussi informativi
prima, durante e dopo i maggiori conflitti internazionali ha assunto
ormai un peso strategico. La seconda guerra del Golfo (1991), le guerre
jugoslave, l'assalto della Nato alla Serbia per il Kossovo (1999) non
sarebbero state possibili, da parte degli opposti contendenti, senza il
tentato controllo dell'informazione interna ed internazionale. Durante
tali conflitti le accuse di corrompere la comunicazione in propaganda e
quelle correlate di non informare ma di mentire sono rimbalzate da un
contendente all'altro. Ciò dimostra non che la propaganda stava da una
parte, o dall'altra, ma che ambedue i fronti stavano conducendo -
assieme a operazioni specificamente militari - le proprie propaganda wars.

Tutto ciò è stato, se possibile, ulteriormente esaltato dalla decisione
assunta della amministrazione statunitense di dichiarare una "guerra", e
una guerra "preventiva" e "infinita", al terrorismo internazionale.
L'attenzione con cui da parte statunitense è stato sviluppato il
controllo dell'informazione durante i due conflitti dell'Afghanistan
(2001) e Iraq (2003) lo dimostra. D'altronde in questi due conflitti
anche gli avversari, nonostante la scarsità degli strumenti a loro
disposizione, hanno giocato una propria "guerra informativa": dalle
videocassette di Osama bin Laden ai messaggi televisivi di Saddam
Hussein prima della sconfitta e a quelli scritti o audio dopo di essa.
Almeno verso certi pubblici, essi sono stati a proprio modo efficaci.

Queste recenti contrapposte serie di flussi informativi rappresentano
un'ulteriore conferma del ricordato ruolo delle comunicazioni nei
conflitti del Novecento. Ma quale specificità si è data per le guerre
del periodo postbipolare?

Storia e communication studies

Risposte a tale interrogativo possono essere, diciamo, interne ed
esterne: cioè relative tanto alle modalità con cui l'informazione è
stata svolta all'interno delle guerre quanto al contesto più generale
dell'evoluzione delle guerre e dei sistemi dei media. Tale punto merita
qualche rigo, anche perché chiama in causa le discipline scientifiche
deputate allo studio dell'informazione in contesto bellico.

A lungo, i rapporti fra comunicazione e guerra sono stati il regno della
pratica più che della teoria2. Da sempre, cioè, almeno a quanto ci
documentano i manuali di storia della propaganda, gli Stati e gli
eserciti hanno fatto ricorso - in modalità diverse - alla risorsa
informativa come "arma" da affiancare alle altre, più nettamente
militari. Ma è stato solo dopo la prima guerra mondiale - e l'enorme
flusso di comunicazione, informazione e propaganda da cui è stata
accompagnata - che una serie di studi scientifici e specifici sono stati
prodotti. Com'è noto, da Ponsonby a Lasswell, gli anni Venti e Trenta
hanno assistito alla nascita degli studi sociologici sulla relazione fra
comunicazione e media.

Gli studi sociologici si sono poi evoluti, dopo la seconda guerra
mondiale e in parallelo al formarsi di una società dei media3, ad un
villaggio globale ed infine ad una globalizzazione culturale, in
communication studies in cui più apporti si sono intrecciati: da quelli
psicologici a quelli semiotici a quelli più tecnici. Nel frattempo,
però, anche gli studi storici si erano interessati sempre più al ruolo
che le comunicazioni di massa avevano svolto in occasione delle guerre4.
Anzi, il loro apporto alla conoscenza della propaganda, del suo operare
nelle società di massa e nelle guerre di massa del Novecento, è stato di
primo livello. In particolare, gli studi storico-militari si sono
accorti che, appunto almeno per il ventesimo secolo (ma non solo per
quello), è difficile fare la storia delle guerre senza fare anche quella
della storia della comunicazione in guerra. La propaganda, la
comunicazione, i flussi informativi, insomma, sono diventati agli occhi
degli storici e degli storici militari degli ultimi decenni
(parafrasando) "una questione troppo importante per lasciarla ai sociologi".

Non si è trattato, a livello internazionale, di un'interazione
conflittuale. Anzi, i due approcci che da sempre si confrontano e si
arricchiscono reciprocamente nell'ambito delle scienze sociali
contemporanee - quello diacronico e quello sincronico, quello
evenemenziale e quello nomotetico - si sono fruttuosamente intrecciati.
Qualsiasi bibliografia di studi sulla propaganda di guerra, sulle
psy-operations, sulle infowars o sul perception management riporta studi
di entrambi le discipline, e di altre ancora5.

L'intreccio e l'arricchimento reciproco (anzi, l'indispensabile
connessione) sono necessari anche nello studio del tema della
comunicazione nelle guerre dell'età bipolare, quale è riscontrabile
negli studi recenti. Per un verso disponiamo di apprezzabili analisi,
dall'interno di ogni singolo conflitto o di ogni singola campagna, di
come la comunicazione abbia operato come "arma" nelle guerre recenti6:
ricerche di sociologia della comunicazione, di semiotica e più in genere
di communication studies sono in questo indispensabili. Per un altro
verso, è necessario comprendere come storicamente si sia formato il
contesto in cui la comunicazione ha assunto una rilevanza grande, e per
molti aspetti nuova: e in questo, invece, un approccio storico appare
indispensabile.

Dal punto di vista dello storico, alcuni elementi generali appaiono
ovviamente fondamentali per spiegare quali caratteri la comunicazione
abbia assunto nelle guerre del periodo postbipolare e perché essa vi
abbia giocato un ruolo così importante. L'affermarsi delle tendenze
all'unipolarismo da parte statunitense all'interno di un mondo invece
sempre più multipolare (o almeno più multipolare rispetto al periodo
bipolare); la diffusione delle nuove tecnologie in uno scenario
internazionale segnato dalle più varie globalizzazioni, l'accresciuta
attenzione delle opinioni pubbliche ai fenomeni della pace e dei
conflitti una volta che - caduto il bipolarismo - erano state diffuse
(ingenue ed ingannevoli) illusioni su una "fine della storia" che
avrebbe dovuto portare alla "fine della guerra"; la ferma decisione da
parte delle maggiori forze armate di resistere al pagamento del
"dividendo della pace" a causa della necessità di fare fronte ad una
conflittualità percepita come sostanzialmente nuova (le "nuove guerre")
che di per sé richiede una maggiore attenzione ai temi della
comunicazione e della convinzione tanto del fronte "interno" e nazionale
quanto di quello avversario e locale: si tratta solo alcuni di questi
elementi assai generali e assai spesso invocati e citati negli studi.

Ma troppo spesso è stato perso di vista un altro motivi generale per cui
la comunicazione ha acquisito un ruolo centrale, almeno da parte
occidentale, nella programmazione e nella condotta delle guerre, come
nei dopoguerra.

Si tratta del fatto che, nel periodo postbipolare, e nonostante le
apparenze, il warfare è arretrato visibilmente. Le guerre sono
diminuite. I morti sono diminuiti. Persino il numero degli attacchi
terroristici è diminuito.

Ma, si dirà, come è possibile? Non viviamo noi in un mondo più incerto e
più instabile? Il panorama internazionale non è solcato da tante e tanto
diverse guerre di cui quotidianamente ci parlano la stampa, la
televisione, il grande web di Internet, in una parola i massmedia? Ma,
allora, se fosse vero che nel periodo postbipolare che le guerre sono
oggettivamente diminuite com'è possibile che soggettivamente "noi" ("the
West" vs. "the Rest") ci sentiamo più insicuri, più minacciati, appunto
più "in guerra"? cos'è che può spiegare questa contraddizione?

La risposta che si intende suggerire nelle pagine che seguono - dedicate
a ripercorrere storicamente il posto occupato dalle guerre nella storia
del ventesimo secolo confrontandolo con quello riempito nell'ormai quasi
quindicennio postbipolare - è che proprio la comunicazione ha assunto un
ruolo strategico nell'informare e nel formare le opinioni pubbliche.
Questo dato, generale e di contesto, che risalta all'occhio dello
storico, appare propedeutico e più generale rispetto alle pur necessarie
analisi sociologiche o massmediologiche di come l'informazione ha
operato in questo o quel conflitto.

Oltre a fornire una prospettiva di analisi ancora poco diffusa, per più
versi scomoda per diverse stereotipate ideologie, si intende qui
ribadire che proprio solo un intreccio fra un approccio storico e
approcci da communication studies possono permettere una comprensione
più chiara e piena del ruolo che oggi la comunicazione, la propaganda, i
massmedia hanno ormai conquistato sullo scenario internazionale e delle
guerre.

Le guerre postbipolari e la retorica della novità

Il primo decennio del periodo postbipolare ha conosciuto un'eccezionale
retorica della novità.

Tutto è parso nuovo in Occidente una volta finito l'equilibrio del
terrore fra le due superpotenze, delle quali solo una è sopravvissuta.
Dopo l'11 settembre 2001 la retorica della novità si è moltiplicata.
"Niente sarà come prima", è stato ripetuto troppe volte, anche a
proposito la guerra. Ciò in verità non sorprende lo storico, consapevole
dell'eccezionalità dell'evento di "Nine Eleven" accaduto però attorno ad
un passaggio di secolo, anzi di millennio.

Un semiologo come Umberto Eco ha rappresentato meglio di altri lo
spirito dei tempi7. Nel breve volgere del decennio successivo alla fine
del periodo bipolare (o della Guerra fredda, come impropriamente viene
detto) la guerra avrebbe conosciuto, a suo parere, ben tre eccezionali
trasformazioni che l'avrebbero resa oggi un fenomeno storico-sociale del
tutto nuovo. Commentando il primo anniversario dell'11 settembre 2001,
egli ha scritto che sino al 1989-91 il pianeta aveva conosciuto una
lunga storia di "paleoguerra". Fra quella data e l'attacco alle Twin
Towers, essa si era trasformata dando vita ad un qualcosa per cui egli
ha coniato il termine di "neoguerra". Dopo l'11 settembre la natura
della guerra sarebbe, a suo avviso, ulteriormente mutata: cosicché si
dovrebbe parlare di "guerra diffusa".

Ma Eco è solo la punta di un iceberg di pubblicisti e di militari che
insistono sugli aspetti di novità delle guerre e dei conflitti del
periodo post1989-91. A suo merito al grande semiologo va riconosciuto,
rispetto agli altri, di aver accuratamente evitato di calcare la mano su
quella rappresentazione catastrofista e drammatica di questa supposta
novità della guerra del primo decennio del periodo postbipolare che è
invece ricorrente nella pubblicistica.

Tale retorica della novità non sorprende lo storico. In effetti, le
trasformazioni storiche sono state molte. Pur non trovando tutti
d'accordo, Eric Hobsbawm ha indicato nel passaggio 1989-1991 il momento
della fine non solo del bipolarismo e della Guerra Fredda ma dell'intero
secolo ventesimo8. E poiché la natura della guerra non può non
trasformarsi assieme alla trasformazione della società e della politica
internazionale di cui è espressione, non sorprende che con la fine del
"secolo breve" e l'affacciarsi di un mondo e di un secolo nuovi, anche
la guerra - già a partire dal primo decennio postbipolare - cambi o sia
cambiata.

I Toffler, ad esempio, avevano già parlato di una complessa
trasformazione che avrebbe interessato tanto la guerra quanto
l'"antiguerra"9. Più tecnici, i sostenitori della Revolution in military
affairs (Rma) hanno sostenuto che - proprio attorno al passaggio fra
anni Ottanta e Novanta - enormi trasformazioni nei sistemi d'arma e
negli strumenti di guerra sono venute a maturazione10. Toeffler e
sostenitori della Rma assieme hanno sostenuto che le forze armate e le
guerre (occidentali, o in cui gli occidentali sono coinvolti) hanno
mutato carattere: sarebbero divenute più "informatizzate" e "costose" ma
anche più "chirurgiche" e in un certo senso più "umanitarie". Come già
una volta era successo con al momento della comparsa dell'arma nucleare,
i teorici più fiduciosi nella Rma (fra cui i sostenitori statunitensi
della National missile defence) hanno vaticinato che la guerra poteva
addirittura essere definitivamente allontanata, quanto meno da alcuni
territori del pianeta, qualora si fossero realizzati i progetti di Nmd,
Tmd ecc. Il vecchio sogno di abolire la guerra attraverso un incremento
esponenziale dei meccanismi di guerra, come si vede, è duro a morire.
Guerre "globali"

La retorica della novità è stata moltiplicata dal fatto che le guerre
del decennio postbipolare sono state definite anche come guerre della
globalizzazione o - per traslato - "guerre globali" o addirittura come
"la guerra globale"11.

Le retorica delle novità del periodo postbipolare sommata alla ampiezza
(o vaghezza?) del termine "globalizzazione" ha prodotto il sintagma
"guerre globali" tanto attraente e onnicomprensivo quanto vago. Ciò è
dovuto anche al fatto l'accordo su cosa contenga la definizione, in
termini scientifici e storici, di globalizzazione è ancora abbastanza
incerto. Molto insomma dipende in molta parte da cosa vogliamo definire
con tale sostantivo. D'altro canto economia, politica, istituzioni,
società, cultura: tutto è stato investito dalla globalizzazione, negli
ultimi decenni del bipolarismo e in particolare nel primo postbipolare.
Poteva la guerra rimanerne estranea?

In quest'ultimo decennio i processi di globalizzazione hanno raggiunto
un'intensità nuova, al punto che nell'uso comune i due termini
(globalizzazione e decennio postbipolare) sono stati considerati come
sinonimi. In realtà storicamente ciò non è corretto. Alcuni di questi
processi sono stati innescati da almeno un paio di decenni, altri sono
ancora precedenti. Sia per questo, sia per la difficoltà ad accordarsi
qui in breve su cosa il termine di globalizzazione posa voler dire,
precisiamo che non parleremo di "era della globalizzazione" ma di
"decennio postbipolare" (nel quale peraltro le tendenze che si
addebitano alla prima sono venute a maturazione).

Fatta questa precisazione, converrà chiosare che appare discutibile
affermare che tutto il pianeta sia stato ormai rivoluzionato o abbia
raggiunto una condizione di compiuta globalizzazione. Analogamente, è
ragionevole sostenere che la guerra del primo decennio postbipolare sia
ormai integralmente rinnovata e "globalizzata"? Peraltro, anche al più
sprovveduto lettore di Clausewitz, parlare di "guerra globale" fa
echeggiare definizioni di "guerra assoluta" che il generale prussiano
definiva come un orizzonte teorico e non come un fatto storico concreto.

Per queste ed altre ragioni la definizione di "guerre della
globalizzazione" o, peggio, di "guerra globale" (o di "guerre globali")
non riesce a convincere e ricorda - tanto (per dirla con i Toeffler) nel
campo della "guerra" quanto in quello dell'"antiguerra" - quelle
drammatizzazioni sull'"ultimo stadio", o asserito tale, dopo il quale
con disappunto spuntava uno stadio ulteriore, senza per questo aver
contribuito un granché a comprenderne né l'"ultimo" né il post-ultimo.
Nine Eleven

La retorica pubblica della novità ha conosciuto con l'11 settembre 2001
e con la politica del presidente statunitense Bush, con la guerra in
Afghanistan e poi con la guerra in Iraq un decisivo passo in avanti12.
La reazione del presidente russo Putin all'attacco terroristico ceceno
al teatro moscovita dell'ottobre 2002 è sembrata confermare l'avvio di
una fase nuova a livello internazionale. La "guerra al terrore"
dichiarata da Bush (la "guerra diffusa" di Eco, la "guerra globale" di
altri autori) rappresenterebbe nell'immaginazione pubblica e nelle
scelte politiche e di bilancio delle potenze occidentali a seconda dei
vari interpreti un capitolo, una fase nuova o addirittura un'era nuova
della storia delle relazioni fra Nord e Sud del mondo, e della guerra.

Tutta questa retorica della novità, in realtà, insospettisce lo
storico13. Non si nega che il periodo postbipolare, le sue forze armate
e le sue guerre abbiano assunto caratteri anche eccezionalmente nuovi.
Né si nega che l'attacco "irregolare" alle Twin Towers o i conflitti
internazionali "regolari" che ne sono seguiti abbiano conosciuto aspetti
radicalmente nuovi. Ma lo storico è piuttosto portato a interrogarsi su
quanto di nuovo ciò abbia portato con sé, da quando si siano presentate
queste novità, in quali limiti tali innovazioni si sono verificate. Egli
insomma non nega la novità. Ma - attento alla più lunga durata e a
partire da una prospettiva diacronica - vuole definirla nei suoi propri
limiti.

A prima vista si tratterebbe di un'operazione puramente storiografica e
intellettuale, se non potesse avere forse anche ricadute civiche.
Cogliere le trasformazioni è infatti importante, ma farsene travolgere -
o considerare per nuovo qualcosa che non lo è, o non lo è del tutto -
può contribuire a quei fenomeni di disorientamento e di "straniazione"
così diffusi proprio al tempo della globalizzazione.

In ultima analisi, almeno due visioni oggi si confrontano. Per un verso
il decennio postbipolare può essere visto come una novità assoluta e
catastrofica, in cui tutti i metri e tutte le posizioni precedenti (del
periodo bipolare, del "secolo breve") sono ormai inutili. Da questo
punto di vista, la guerra è tutta nuova, è diffusa, immanente e
generale. Non fa rilevanza, qui, la possibile diversa coloritura
ideologica di un tale approccio: l'osservazione si applica tanto ai
"realisti" dell'asserito inevitabile scontro fra civiltà14 quanto agli
"utopici" critici della militarizzazione integrale e della "devastante"
guerra dell'"Impero"15.

Per un altro verso invece il periodo postbipolare potrebbe essere
giudicato nei suoi caratteri relativi di novità. È evidente che la
scomparsa dell'equilibrio del terrore, delle ideologie contrapposte ad
esso legate, nonché i processi di globalizzazione hanno fortemente
trasformato anche i caratteri della guerra (o, meglio, delle guerre). Ma
appare discutibile affermare che tale trasformazione sia integrale.

Analogamente, oltre che nelle sue dimensioni e nei suoi risultati, anche
il giudizio sulla prospettiva della trasformazione della guerra può
essere diverso. Da una parte finirebbe per stare chi sostiene che le
trasformazioni della guerra e la Rma abbiano definitivamente culminato
il Novecento in quanto "secolo della guerra"16.

Da un'altra parte potrebbe stare chi osserva che il secolo ventesimo,
pur segnato da tragedie del peso delle guerre mondiali e della Guerra
fredda, non è stato affatto solo il secolo della guerra ma anche il
secolo della pace17, nel senso di lento ma inarrestabile progredire
(sino ad adesso) del diritto internazionale, del tentativo di limitare i
conflitti e di controllare gli armamenti, di una crescita di un'opinione
pubblica amante della pace e della rinunzia alle guerre come mezzi di
risoluzione delle controversie internazionali18.

In particolare, lo storico non può non osservare che il decennio
postbipolare è stato il primo in cui si è tentato di riscuotere il
"dividendo della pace", dopo mezzo secolo di bipolarismo e un intero
"secolo della guerra". Non a caso, nonostante gli importanti e gravi
conflitti che lo hanno segnato, il primo decennio postbipolare ha visto
il crollo di quasi un terzo delle spese militari complessive, e la
riduzione di un quarto degli uomini in armi a livello mondiale19. A
differenza del pubblicista o del politico immersi nel presente, lo
storico potrebbe quindi essere più restio a guardare al primo decennio
del periodo postbipolare in termini di prosecuzione e culmine
inarrestabile del secolo della guerra e della Guerra Fredda, e più
incline invece a pensarlo come possibile orizzonte nuovo, sia pur senza
cadere nella trappola della "retorica della novità".

Ma allora, per comprendere quanto nuove siano le nuove guerre, non è
sufficiente solo esaminarle dall'interno, una per una, ma è necessario
partire da più lontano e prendere in esame - almeno schematicamente - il
ruolo delle guerre nel Novecento, le loro caratteristiche e la loro
intensità. Solo dopo questo potremo tornare al primo decennio
postbipolare per valutarlo più serenamente.

Solo allora potremo comprendere meglio il ruolo centrale che la
comunicazione sta avendo in esso: non solo nella condotta (tattica o
strategica) delle singole guerre, ma più in generale.

Il secolo della guerra

A differenza dei cronachisti20, che vedono un secolo come una semplice
successione di cento anni, per gli storici il dibattito è aperto persino
sui limiti cronologici del Novecento. È diverso infatti se guardiamo al
secolo passato come ad un "secolo breve", o ad un "secolo lungo", o se
addirittura lo periodizziamo sulla base della storia statunitense, visto
che alcuni hanno parlato di "secolo americano". Qui il tema, che ha
connessioni con la storia delle guerre, può però solo essere richiamato21.

D'altro canto, una volta che se ne siano stabiliti i confini, il
Novecento non può essere considerato come solo il "secolo della
guerra"22. Molti altri fenomeni storici hanno avuto un impatto
drammatico sulla vita delle popolazioni del pianeta lungo questo
"secolo". Le malattie, la fame, lo sfruttamento coloniale e industriale
lo hanno segnato. Per non parlare dello sterminio di intere popolazioni
che ha portato a coniare il termine giuridico di "genocidio": una
vicenda di cui lo sterminio degli ebrei sotto il nazismo ha
rappresentato al tempo stesso il culmine e un unicum nella storia umana.
Ma sia pur senza arrivare al genocidio, persino il dramma degli
spostamenti forzati di popolazione ha avuto nel Novecento portata e
conseguenze drammatiche, di breve e di lungo periodo. Anche nella
prospettiva dei più pessimisti, insomma, e nonostante due guerre
mondiali e una guerra fredda semisecolare, il dramma del Novecento non è
stato "solo" quello della guerra.

Eppure il secolo ventesimo continua ad essere ricordato come "il secolo
della guerra". Ciò per ragioni assolute e relative. In effetti, in
termini assoluti, la guerra ha mietuto nel Novecento un numero
eccezionalmente alto di vittime. Elemento parallelo e non meno
importante, questa volta in termini relativi, cioè rispetto ad altri
secoli, la guerra ha conosciuto nel Novecento dimensioni assai più
luttuose, più estese e più intense che nei secoli passati. Ciò non
sorprende se si pensa al numero delle vittime delle due guerre mondiali.
Com'è noto, però, le vittime delle guerre novecentesche non sono state
solo militari. Al più tardi a partire dalla seconda guerra mondiale, per
il combinato effetto di scelte politiche e di progressi tecnici e
militari, non solo le forze combattenti ma ormai anche le popolazioni
civili hanno risentito fortemente della guerra.
Le novità del periodo bipolare

A partire dal 1945 la presenza delle due superpotenze Usa e Urss e la
connessa divisione del mondo in due sfere di influenza, cui solo la
rivoluzione decolonizzatrice ha saputo in qualche modo far argine dando
vita al Movimento dei paesi non allineati, hanno fortemente influenzato
il panorama della guerra. Fra le due, e nonostante i colossali
investimenti sovietici nel settore degli armamenti, gli Usa hanno in
questo settore mantenuto un ruolo fondamentale. Tutto ciò a spinto ad
allestire strumenti di guerra e forze armate eccezionalmente potenti.

In particolare, sempre a partire dal 1945, il mondo è entrato non solo
nella fase bipolare ma nell'era nucleare. La sperimentazione della bomba
A prima ad Alamogordo e poi su Hiroshima e Nagasaki, coniugatasi con
l'assetto bipolare del dopoguerra, ha stretto il pianeta in un
equilibrio del terrore, in cui gli arsenali nucleari (e poi
termonucleari) di ambedue le superpotenze avevano la capacità di
annientare più e più volte l'intero pianeta.

È vero che l'armamento nucleare non è stato più utilizzato in guerra,
nonostante in più di un'occasione le crisi internazionali fossero giunte
ad un passo dal farvi ricorso. D'altro canto, per la precisione, ciò non
vuol dire che l'arma nucleare non abbia costituito il più minaccioso
"convitato di pietra" della politica internazionale. Di più: anche se
pochi lo menzionano, essa è stata costantemente sperimentata,
perfezionata, allestita e preparata. L'età nucleare non ha conosciuto la
guerra nucleare ma ben più di 2000 esplosioni nucleari a titolo di
esperimenti militari.

Per sostenere le proprie forze armate le superpotenze, le potenze medie
e in genere gli Stati hanno sostenuto eccezionali spese militari. La
quantità di risorse indirizzata alla preparazione della guerra e delle
forze armate è stata, in termini assoluti, senza precedenti. Anche
quando non hanno combattuto, le forze armate - oltre a produrre
sicurezza - hanno "consumato" eccezionali risorse. Il loro peso si è
fatto avvertire proporzionalmente meno che in altri periodi storici
perché il Novecento è stato anche il secolo della definitiva
industrializzazione delle economie, e perché - nonostante le gravi crisi
- in alcuni periodi e in alcuni paesi si sono registrati periodi
eccezionalmente lunghi di eccezionale crescita complessiva. I "trenta
anni gloriosi" fra la fine della seconda guerra mondiale e l'aprirsi
della crisi degli anni Settanta hanno reso possibile eccezionali spese
militari senza per questo congelare ("malthusianamente") il ciclo
economico favorevole. (Più pesante è stato invece avvertito il carico di
spese militari nella fase successiva, e non a caso più criticate sono
state le spese militari fra gli anni Settanta e Ottanta.)

In questa grande corrente di spese militari, in particolare dopo il
1945, gli Usa hanno conquistato un posto di assoluto rilievo. La
crescita tecnologica militare non solo genericamente occidentale ma
specificamente statunitense è stata eccezionale. Le relazioni non solo
militari, ma anche diplomatiche e politiche fra i paesi dell'Alleanza
Occidentale ne sono state potentemente influenzate. Per fare solo un
esempio, si potrebbe prendere il campo della missilistica, dei satelliti
e più in generale dell'utilizzo militare dell'aria e dello spazio. Sia
pur all'inizio in difficoltà (il lancio sovietico dello Sputnik creò
qualche problema alla missilistica statunitense), nel periodo bipolare
gli Usa sono riusciti a costruire in questo campo una posizione di
assoluta dominanza. La proposta raccolta dal presidente Reagan della
Strategic defense initiative e delle star wars - per quanto costosa,
destabilizzante e in ultima analisi forse impossibile - era al tempo
stesso un riflesso e un moltiplicatore della supremazia statunitense nel
settore.

Mentre le due superpotenze si fronteggiavano militarmente, sia pur senza
sfidarsi direttamente, e mentre l'Europa, il Giappone e i nuovi poli
industriali sorti alla periferia degli imperi si rafforzavano, il resto
del pianeta conosceva quella guerra che la "triade" occidentale aveva
accantonato per quasi mezzo secolo. Mentre la Guerra fredda sembrava
congelare Usa e Urss, le guerre in tempo di pace erano combattute nel
Sud del mondo. Nella prima metà del secolo - esclusi quelli mondiali - i
conflitti erano stati prevalentemente coloniali. Nella seconda metà del
"secolo breve", passate le crisi legate alla decolonizzazioni, ai
conflitti interstatuali si erano affiancati e sempre più spesso
sostituiti i conflitti infrastatuali. Le guerre civili, alimentate dalla
Guerra fredda, si erano fatte più numerose, più lunghe e più difficili
da essere composte. Alcune aree del pianeta si erano avvitate in zone di
crisi permanente.

In alcune di quelle aree, già prima del 1989-91 l'Onu aveva tentato di
mettere argine alla violenza, inviando osservatori, forze di
interposizione e persino operazioni di peacekeeping (poi, si è detto,
"di prima generazione"). Ma raramente quell'intervento è stato decisivo.

In questo contesto è intervenuta la fine del bipolarismo, e con esso del
"secolo breve". Essa non era avvenuta a causa della potenza militare
Usa: i fattori di crisi interna al blocco sovietico avevano avuto un
peso maggiore. Ma certo la forza militare accumulata in più di
quarant'anni dalla Nato e in particolare dagli Usa aveva contato.
Il periodo postbipolar: guerra endemica.

È solo a questo punto e con questa prospettiva storica che è possibile
comprendere meglio i caratteri militari del periodo postbipolare. Solo
adesso è possibile vagliare se esso abbia costituito un periodo
totalmente nuovo: o, meglio, identificare quanto di nuovo esso abbia
conosciuto.

Già a partire dagli anni Ottanta, ma poi con più forza e successo negli
anni Novanta, vari osservatori militari hanno sostenuto che si era ormai
realizzata una Rma che aveva trasformato le forze armate. La conduzione
di una parte della Guerra del Golfo con sistemi d'arma assai evoluti
aveva diffuso la sensazione che - più o meno assieme alla fine della
Guerra fredda - le forze armate e di conseguenza le guerre fossero del
tutto cambiate.

Anche fra chi si opponeva a tali trasformazioni si era nel frattempo
diffusa l'opinione che le guerre del dopo-Guerra fredda (cioè del
periodo postbipolare) erano ormai radicalmente diverse da quelle del
passato. Anche se nel titolo originale era alquanto cauto, il volume di
Mary Kaldor riassumeva e finiva per rilanciare la definizione di "nuove
guerre" (da notare che il titolo inglese suonava come "Old e new wars",
più seccamente tradotto in italiano come "Le nuove guerre": traduttore
traditore.)23. I più acuti degli opinionisti militari coglievano
l'occasione per slanciarsi in non sempre ponderate se non proprio
improvvisate teorizzazioni sul carattere di queste "neoguerre".

Ovviamente, consistenti segnali e indici di novità non mancavano. Mentre
le opinioni pubbliche nazionali, soprattutto europee, si dividevano a
proposito della partecipazione alla Guerra del Golfo (che aveva invece
assistito ad un'eccezionalmente ampia coalizione di stati a guida
statunitense), la guerra tornava sul suolo europeo per la prima volta
dopo mezzo secolo e disintegrava la Jugoslavia. Conflitti crudeli e, a
giudizio dell'"uomo comune", inspiegabili se non proprio "primitivi" si
sviluppavano in Africa, dalla Somalia al Rwanda. La potenza militare
statunitense si delineava ormai senza più rivali. La guerra e la
minaccia della guerra sembravano smentire i teorici della "fine della
storia".

L'informazione su (alcuni) conflitti in corso pareva aumentare, anche se
si trattava spesso di propaganda di guerre e di guerras de las
mentiras24, moltiplicandone l'impatto sulla mentalità collettiva.
L'opinione pubblica era stata dapprima illusa dai cantori della "fine
della storia" e dalle aspirazioni alla pace perpetua per essere
successivamente presto delusa dallo scatenarsi da tutti questi conflitti
del periodo postbipolare. Svanito l'equilibrio del terrore bipolare le
principali cancellerie internazionali - ma anche le opinioni pubbliche -
si trovavano di colpo impreparate a gestire le turbolenze e le novità
del dopo-Guerra fredda. L'aspirazione alla pace era sollecitata da
queste "nuove" guerre e dall'informazione che se ne faceva. Il primo
decennio postbipolare veniva insomma ad essere percepito, già prima di
esserlo, come un decennio di guerre.

. o "dividendo della pace"?

In realtà, a confrontare con attenzione i dati, il primo decennio
postbipolare ha visto un numero di conflitti - e in particolare di gravi
conflitti - inferiore alla media dei decenni precedenti. La Guerra
fredda era finita portando con sé la fine di vari conflitti.

Soprattutto, il primo decennio postbipolare ha portato con sé un taglio
sensibile alle spese militari. Non si è trattato solo del "disarmo"
della superpotenza sconfitta e dei suoi alleati. In particolare i paesi
europei occidentali, "sparito" il nemico della Guerra fredda, hanno
"riconvertito" parti importanti dei loro bilanci statali dal militare al
civile. Le spese militari mondiali, la quantità di soldati in armi, in
una parola la minaccia della guerra si sono ridotte.

Nella prima metà degli anni Novanta, addirittura, si era fatta avanti la
stessa Onu. Essa era stata impegnata in operazioni non più solo di
peace-keeping ma anche di peace-enforcing. Tenuti impreparati e
sottofinanziati dalle superpotenze in cinquant'anni di bipolarismo, non
sorprende se in più di un'occasione i corpi militari dell'Onu o da essa
assemblati non sono però riusciti a congelare i conflitti o a farli
de-escalare. È avvenuto così che, in particolare nei Balcani sin dal
1994, all'Onu si è sostituita la potenza Usa, alleanze regionali (la
stessa Nato) o singoli coalizioni di volontà (coalition of the
willings). Ciò detto, le "guerre dell'Onu" erano a ragione apparse come
un altro segnale - da taluni auspicato, da altri paventato - della
novità della situazione: ma in un'ottica di riduzione, e non di
moltiplicazione, dei conflitti.

Intanto, gli Usa si avviavano ad essere - dal punto di vista militare -
la "iperpotenza" mondiale. Le politiche adottate dei presidenti, tanto
repubblicani quanto democratici; la scelta di intervenire militarmente
non meno che diplomaticamente in varie e lontane aree di crisi; il ciclo
economico favorevole, che ha offerto ampi margini per tenere alti i
bilanci militari; gli eccezioni investimenti in ricerca tecnologica,
soprattutto di ambito militare, che permetteva alle forze armate
statunitensi di contare su sistemi d'arma eccezionalmente avanzati ed
efficaci: tutto questo assieme ha aumentato, nel primo decennio
postbipolare, lo iato fra il sistema militare Usa e quello delle potenze
immediatamente inferiori.

Gigante militare e politico, gli Usa si sono confrontati con altri
raggruppamenti di paesi - in primo luogo l'Europa - rivelatisi sinora
altri giganti temibili dal punto di vista economico ma politicamente
divisi e militarmente (se si considerano le istituzioni militari comuni
europee, e non quelle delle singole potenze del vecchio Continente)
quasi inesistenti. Le divisioni emerse nel caso delle guerre jugoslave e
il ruolo per lungo tempo secondario delle forze militari europee (che
insieme hanno aperto la strada all'intervento della Nato) lo hanno
dimostrato. In più di un'occasione e in più di una crisi, quindi, la
comunità internazionale è dovuta ricorrere agli Usa (o ha dovuto
accettare l'intervento militare statunitense).

Non che il decennio postbipolare sia stato inutile dal punto
dell'ulteriore sviluppo dei regimi internazionali e del diritto
internazionale umanitario. Importanti convenzioni e fondamentali
istituzioni sono state varate. Anzi, a questo avanzamento troppo spesso
non è stato dato - a livello di opinione pubblica - il dovuto risalto.
Ma la massima istituzione multilaterale, l'Onu, in più di un conflitto
si è trovata con le mani legate di fronte ad una ripresa
dell'unilateralismo statunitense. Analogamente, troppo spesso le misure
non militari (a partire dall'embargo) si sono dimostrate insufficienti
ed inefficaci. Importanti conflitti (dal Golfo ai Balcani al Kossovo
all'Afghanistan e da ultimo all'Iraq) si sono aperti e svolti senza che
la legalità internazionale fosse pienamente rispettata, con atti - anche
da parte occidentale e statunitense - lesivi del diritto internazionale.
Già con il presidente democratico Clinton e soprattutto con quello
repubblicano Bush, gli Usa hanno chiaramente dimostrato di ritenersi
svincolati dal rispetto dovuto alle decisioni dell'Onu. In questo
quadro, i pur avvenuti avanzamenti in vari settori del diritto
internazionale sono rimasti, appunto, settoriali.

La Rma, invece di permettere di instaurare un sistema di fiducia
reciproca e invece di contribuire a controllare meglio, in fase
preventiva, le mosse dei più irrequieti degli attori del sistema
internazionale, è servita a condurre guerre "chirurgiche" con armamenti
"intelligenti" che hanno inferto danni gravi alle popolazioni e
interventi militari non sempre risolutivi (quando non "stupidi").

Dopo l'11 settembre 2001, infine, la ricerca affannosa di un nemico è
parsa sfociare nell'individuazione di un piuttosto inafferrabile
"terrorismo internazionale". In realtà, come per i conflitti
interstatuali e per quelli civili, il decennio postbipolare aveva visto
sino a quella data un calo quantitativo tanti del numero quanto della
letalità degli attacchi del "terrorismo internazionale". Le stesse fonti
Usa lo ammettono. La calante attività di quest'altro nemico, svuotata da
molti dei caratteri ideologici propri del periodo bipolare, si è invece
drammaticamente risvegliata: spingendo alcuni, troppi, a vedere in esso
un'altra forma del contrasto politico che, anche in fase di
globalizzazione, contrappone il Sud al Nord del mondo.
Comunicazione e conflitti nel periodo postbipolare

Ma, se i conflitti diminuiscono e si riducono in intensità e severità,
com'è che la guerra ci pare onnipresente? È qui a nostro avviso che
emerge il ruolo grande, fondamentale, diremmo costituzionale e
costituente, della comunicazione rispetto alle guerre nel periodo
postbipolare. Nonostante una riduzione oggettiva dei conflitti, è
purtroppo diffusa una percezione soggettiva di insicurezza e di
"bellicosità" del sistema internazionale (insicurezza del sistema, si
badi, e non di suoi singoli attori la cui bellicosità - dagli Usa al
terrorismo internazionale - è sotto gli occhi di tutti).

L'informazione, la comunicazione, lo stesso management della percezione
hanno avuto un ruolo appunto fondamentale.

In effetti le guerre contemporanee non sono mai state vinte solo contro
l'avversario esterno ma anche sul fronte interno. Ciò è tanto più vero a
partire proprio dal Novecento, con le sue guerre di massa dalla morte di
massa, combattute da società di massa, innervate da complessi e delicati
sistemi di comunicazioni di massa. È su questo ultimo fronte che, nelle
società occidentali, proprio il periodo postbipolare ha visto notevoli
cambiamenti. È possibile parlare di trasformazioni nella quantità, nella
forma e nella qualità della comunicazione che ha avuto oggetto le
guerre. Si tratta di trasformazioni assai rilevanti, spesso già avviate
durante il periodo bipolare, ma che hanno conosciuto in Occidente la
loro piena attuazione solo in coincidenza con il postbipolarismo.

Per quanto concerne la quantità, è sotto gli occhi di tutti che
l'opinione pubblica è stata letteralmente "bombardata" di informazione
dai fronti dei principali conflitti internazionali. I più di 1500
giornalisti accreditati nella Guerra del Golfo del 1991, i quasi 900
giornalisti embedded in quella del 2003 - cui sarebbero da aggiungersi
le centinaia di altri corrispondenti stazionati nelle varie capitali e
campi militari del Medio Oriente - danno l'idea della mole di
comunicazione che ha accompagnato queste guerre (lasciando per adesso da
parte il problema se questo ha comportato anche un miglioramento
dell'informazione). Certo, questo non vuol dire che molte guerre non
siano state "dimenticate"25: ma è un dato di fatto che la guerra è
diventata un business informativo, che è stata fatta diventare molto più
che in passato uno show.

Ma perché? Le risposte e le spiegazioni possono essere varie, non
necessariamente autoescludentesi. In primo luogo non vanno sottovalutati
in questo i perversi effetti, noti da antica data, del sommarsi di
patriottismo sciovinista e sensazionalismo che da sempre - almeno dai
tempi del jingoismo operaio e popolare ai tempi dei conflitti coloniali
e della guerra angloboera - accompagna le opinioni pubbliche europee. In
secondo luogo, una spiegazione apparentemente più "neutra" potrebbe
collegare questo ai notevoli sviluppi conosciuti in questi ultimi anni
delle tecnologie della comunicazione: rimanendo a qualcosa che la
recente guerra in Iraq ha dimostrato a sufficienza, il drastico
alleggerimento del telefono satellitare, il perfezionamento delle
macchine da presa portatili, la diffusione di Internet e della stessa
semplice posta elettronica hanno trasformato parecchio il numero e la
qualità di quel lavoro del corrispondente di guerra che, una volta, era
avvolto nel manto dell'eccezionalità e del fascino. Altre risposte
possono allinearsi, e risultano diverse a seconda dell'interpretazione
generale adottata. Certo è legittimo osservare in questo l'effetto della
gigantesca macchina di propaganda che ha accompagnato queste guerre26 (e
i pessimisti del Novecento come "secolo della guerra" finirebbero per
ridurre il tutto a "complotto" antidemocratico contro l'opinione
pubblica27). Ciò è, per la sua parte, senza dubbio vero. Propaganda
pianificata e controllo delle informazioni, qualunque forma di
news-management venga scelta, costituiscono ormai un must della
pianificazione e della conduzione dei conflitti. D'altro canto i
pessimisti dovrebbero ammettere che anche la spiegazione opposto
potrebbe essere accettata: si potrebbe infatti spiegare questa crescita
di comunicazione anche con la rinnovata ed anzi aumentata volontà da
parte dell'opinione pubblica di controllare l'operato dei propri
governi, delle proprie forze armate. Grasping the democratic peace non
si può, senza comunicazione e controllo da parte delle opinioni pubbliche28.

Per quanto concerne le forme della comunicazione di guerra, abbiamo già
accennato che esse cambiate e sono in costante modificazione. Il
newsmanagement è storicamente mutato, dal Vietnam alle Falklands, dal
Golfo 1991 al Golfo 2003. La comunicazione televisiva ha conquistato un
ruolo centrale. Essa ha trascinato la comunicazione giornalistica. Ad
esse si è aggiunta la comunicazione via Internet, in forme diverse: dai
primi esitanti e solitari messaggi clandestini via e-mail ai più
organizzati blogger. Parallelamente, si è trasformato ed è aumentato il
numero dei soggetti attivi della comunicazione di guerra. Non si tratta
più di un affare solo di agenzie informative ufficiali militari o
comunque pubbliche, agenzie giornalistiche e singoli corrispondenti di
guerra. In questo ultime decennio gli operatori freelance si sono ormai
definitivamente e stabilmente installati nel meccanismo "produttivo"
della comunicazione di guerra. più di recente, persino singoli cittadini
(cioè né professionisti né freelance) hanno potuto improvvisarsi
operatori della comunicazione di guerra: le e-mail dalle città della
ex-Jugoslavia bombardata e assediata, o le immagini dalle città della
Palestina attaccate dalle truppe di Israele sono ormai segni
storicamente significativi che l'informazione di guerra sta
trasformandosi (se in meglio o in peggio, con un più alto o un più basso
tasso informativo non è qui la sede per discutere).

Oltre che in quantità e nelle sue forme di produzione, la comunicazione
di guerra che in questi ultimi anni è stata scaraventata sulle opinioni
pubbliche è stata però diversa anche in qualità. Come sarebbe d'altronde
spiegabile se non anche con modificazioni qualitative della
comunicazione ricevuta da parte delle opinioni pubbliche la creazione di
quella apparente contraddizione che abbiamo più avanti rilevato, cioè di
un mondo (statisticamente) più "in pace" ma che si sente più insicuro e
più "in guerra"? È questo forse il punto più delicato del ragionamento,
quello in cui la generalizzazione cui siamo in questa sede costretti
appare meno soddisfacente, e in cui infatti sarebbe necessario
articolare il discorso a livello nazionale, nei vari momenti storici, a
seconda dei diversi canali comunicativi ecc.

Qualsiasi professione di necessaria articolazione, comunque, non
cancella l'impressione (generale) per cui il livello qualitativo della
comunicazione di guerra si sia, in questo periodo postbipolare,
sostanzialmente abbassato29. Le cause possono essere diverse: la
maggiore complessità del panorama internazionale (nonostante l'apparente
semplificazione unipolare) e degli stessi conflitti, il loro carattere
inedito rispetto a quelli cui il bipolarismo aveva abituati,
l'impreparazione quindi tanto delle opinioni pubbliche quanto degli
operatori dei media, sono fra le cause più evidenti. Altrettanto
importanti anche se meno evidenti possono essere altre cause, quali la
forza rinnovata degli apparati di propaganda che hanno avvolto questi
conflitti. Altre cause ancora sono generali e relative a tutto il mondo
della comunicazione, anche se assumono un valore particolare nel caso
della comunicazione di guerra: l'eccezionale passo in avanti dei
processi di concentrazione dell'intero sistema internazionale dei media,
lo scadimento di tanta parte dell'informazione televisiva come
giornalistica e radiofonica con il dilagare dell'infotainment30 ecc. La
stessa crescita dei costi economici della informazione non deve essere
sottovalutata: inviare un corrispondente di guerra all'estero e
mantenervelo oggi comporta costi (giudicati) semplicemente insostenibili
da molte testate, e spesso anche dalle maggiori: con tutto ciò che
questo comporta in termini di sudditanza delle testate stesse rispetto
ai messaggi stereotipati e non confrontabili delle agenzie. Altre cause
infine sono specifiche al lavoro della comunicazione di guerra: proprio
nei conflitti del periodo postbipolare il processo di espulsione del
corrispondente di guerra dal fronte e dal terreno di battaglia sembrava
aver raggiunto un punto estremo (fino a che esso non vi ha invece fatto
ritorno, ma embedded.). Inoltre, sempre fra le cause specifiche, si
dovrebbe annoverare lo stesso "gioco al rilancio" che caratterizza gran
parte della comunicazione contemporanea, con notizie accettate e
ricercate solo se "colpiscono" il pubblico per il loro "innalzare" il
livello dello scontro, della tragedia, del dramma: come la compassion
fatigue ha finito per rendere meno sensibili di fronte ai drammi del
Terzo Mondo, così l'enfasi tanto sulle novità tecnologiche di alcuni
singoli conflitti quanto sulla loro drammaticità avrebbe potuto
comportare spingere l'opinione pubblica a comprendere meno il quadro
generale della conflittualità del periodo postbipolare.

Per tutte queste ed altre ragioni, insomma, è difficile negare che - in
genere e in media - la comunicazione di guerra del tempo dei conflitti
postbipolari, anche se quantitativamente assai ampliatasi, appare
qualitativamente piuttosto impoverita31. Il modo con cui una catena come
la Fox ha fatto comunicazione, più che informazione, dall'Iraq nel 2003
ha rappresentato un caso limite ma esemplare, con i "Wow!!" lanciati dal
"giornalista" in studio per accompagnare entusiasticamente l'ingresso
delle truppe americane in Iraq: quasi si trattasse di una telecronaca
brasiliana di una partita di calcio. La notevole diffusione della
ripresa televisiva in diretta ha potuto sul momento forse confondere
qualcuno circa l'impoverimento informativo che, sia pur nel diluvio
delle immagini, si stava concretando. Ma non sempre il vedere (e cosa? e
quanto? e quando?) aiuta il capire32.

Certo, gran parte del sin qui detto non si applica ai canali informativi
per le élite. Anzi gli organi di comunicazione più qualificati si sono
distinti in genere, in questo periodo, per una riqualificazione ed un
ampliamento del tasso informativo della loro comunicazione. Una nuova
generazione di corrispondenti, commentatori e analisti si è affacciata,
offrendo i propri servigi alle istituzioni e ai mezzi di comunicazione,
innalzando e perfezionando la comunicazione di qualità. Ma ciò che
decide in democrazia, al momento del vaglio elettorale, non è purtroppo
la qualità dell'informazione delle élite ma quella complessiva della
massa dei cittadini.

Si potrebbe quindi concludere che, anche senza addebitare tutto alle
"oscure" forze della propaganda (che pure hanno operato, ma che da sole
non sarebbero state in grado di produrre simili consistenti effetti), le
opinioni pubbliche delle democrazie non sono state messe in grado di
poter valutare il reale andamento della conflittualità del mondo
postbipolare. In questo, un ruolo rilevante - e infine è legittimo dire,
una responsabilità - non poteva non avere la comunicazione.

L'aumento quantitativo dei programmi e delle rubriche della
comunicazione di guerra, la sensazione di tutto vedere di molto sapere
di tanti singoli conflitti, in realtà ha permesso 1) sia che si perdesse
di vista il dato storicamente e politicamente nuovo, e che cioè per la
prima volta in misura così significativa il mondo contemporaneo
conosceva una demilitarizzazione e un disarmo assai notevoli, 2) sia che
non si riuscisse a contrastare l'operato delle propagande di guerra.

Così, mentre poteva esigere di riscuotere il dividendo della pace, il
mondo postbipolare ha pensato di essere assediato dalle guerre. E quando
infine il presidente della unica superpotenza rimasta ha dichiarato
guerra duratura ad un avversario certamente odioso ma difficilmente
eliminabile con per l'appunto con una guerra regolare, ciò è apparso
confermare un dato di fatto già presente, mentre invece rappresentava
una scelta politica.

Come raramente è avvenuto nella storia, la comunicazione ha svolto un
ruolo decisivo e generale rispetto ai destini della guerra e della
pace33. Questa realtà, esterna e generale, può sfuggire al sociologo
delle comunicazioni che si interessi, anche in maniera approfondita ma
"interna", a come è stato comunicato questo o quel conflitto: ma risalta
agli occhi dello storico generale e dello storico militare in
particolare34.

Conclusione

In conclusione, le guerre del primo decennio postbipolare sono tali da
legittimare l'accesa retorica della novità che da tanti parti si è
voluto attorno ad esse lanciare? O, meglio, quanta e quale novità le ha
caratterizzate? E queste novità vanno tutte nel senso di una guerra
endemica e "diffusa", tecnologizzata e "americana", senza altre
alternative, come la propaganda continua ad affermare?

Praticamente non vi è fenomeno fra quelli che hanno portato a definire
il profilo delle "nuove guerre" che non abbia precedenti nel periodo
bipolare, se non più addirittura nelle guerre del "secolo breve".
Nessuno, da solo, connota la novità delle guerre del primo decennio
postbipolare. Già prima del 1989-1991 le guerre erano già più
infrastatuali che interstatuali e già mietevano vittime fra i civili più
che fra militari. E prima della caduta del bipolarismo le guerre
dell'Occidente già erano ad altissimo tasso tecnologico, in esse il
divario (tecnologico e più in genere di potenza) fra gli Usa e il resto
del mondo era già notevole, già poggiavano su una quantità eccezionale
di spese militari.

C'è stato, sia chiaro, qualcosa di effettivamente nuovo. Di nuovo c'è
stato in primo luogo il combinarsi di elementi già noti: ma proprio
questo riapparire di fenomeni e tendenze già note di per sé dovrebbe
consigliare - non di negare - di ridimensionare la "novità" dei
conflitti del primo decennio postbipolare. Inoltre, aspetti
effettivamente nuovi sono sussistiti.

Nuovi sono stati alcuni importanti elementi politici, tecnici e
militari. Nuovo è il contesto generale unipolare che - mentre mette in
difficoltà le istituzioni internazionali multilaterali e sino a che
altri raggruppamenti di potenze (in primo luogo l'Europa) non
adotteranno politiche e identità estere e di difesa comuni - lascia
eccezionali spazi d'azione agli Usa. Nuovo è lo sviluppo dei sistemi
satellitari di ricognizione e di avvistamento. Nuova è una
mediatizzazione di (alcuni) conflitti, che accresce il potere
condizionante delle opinioni pubbliche (ma anche più facile il loro
condizionamento). Nuova, legata alla precedente, è la compattezza con
cui i governi occidentali stanno indirizzandosi verso l'adozione di
forze armate basate sul reclutamento volontario tramite l'abolizione,
sospensione o forte riduzione della coscrizione. Anche in rapporto a
questo, nuova è l'aspirazione tutta occidentale dei politici e dei
militari a condurre guerre a "zero morti": come nuova, grazie agli
sviluppi tecnologici, è la possibilità effettiva di condurle (non sempre
ancora di vincerle definitivamente) a condizione che ci sia qualcuno sul
terreno ad occuparsi del "lavoro sporco". I casi del Kossovo e
dell'Afghanistan dimostrano tutto ciò. Nuova è la minaccia del
terrorismo internazionale (come nuova è l'illusione che esso possa
essere sradicato con mezzi militari).

Ma altri aspetti poco ricordati delle "nuove guerre" del primo decennio
postbipolare vanno in senso contrario a chi sostiene (o desidera) la
militarizzazione delle relazioni internazionali, gli scontri fra
civiltà, la necessità di incrementare le spese militari. Questo decennio
è stato infatti caratterizzato da una riduzione nel numero, nell'entità
e nella luttuosità dei conflitti: e questo tanto rispetto all'intero
"secolo breve" quanto rispetto al periodo bipolare. Questo decennio è
stato connotato dalla riduzione delle spese militari mondiali. È stato
il decennio in cui è sembrato possibile non tanto (idealisticamente) il
superamento della guerra e la fine della storia quanto piuttosto
concretamente la riscossione del "dividendo della pace", lo stabilirsi
di un mondo multipolare, il rafforzamento delle istituzioni
multilaterali e del diritto internazionale. La stessa pericolosità, sino
all'11 settembre, della minaccia del terrorismo internazionale era stata
calante. Tutto ciò non vuol dire, ovviamente, che il pianeta andasse
"nel migliore dei modi possibili verso il migliore dei mondi possibili".
Ma, rispetto al "secolo della guerra" e alla Guerra fredda, si era
prospettata un'inversione di tendenza, o quanto meno un'altra direzione.
Una tendenza e una direzione che forze importanti oggi vogliono abbandonare.

In un caso o nell'altro, la comunicazione ha svolto un ruolo centrale:
come e ancor più che nel periodo precedente35. Gli studi hanno
scandagliato - per quanto sia oggi possibile senza un accesso alle fonti
dirette e d'archivio - le forme della comunicazione "dal fronte al
Paese" per questo o quel conflitto. Qui si è insistito sul fatto che,
più in generale, la comunicazione non ha aiutato l'opinione pubblica a
rendersi conto che, nel periodo postbipolare, la conflittualità era in
diminuzione.

Purtroppo, quello della conflittualità non è un dato immobile. Non
mancano le divergenze fra gli Stati e dentro di essi, prima e più che
fra le civiltà. Nuovi e pericolosi conflitti possono emergere, se al
multilateralismo delle Nazioni Unite e al diritto internazionale vengono
sostituiti l'unilateralismo di qualche grande potenza e il suo interesse
nazionale.

È in conclusione sempre presente il rischio che i conflitti aumentino di
nuovo, e che l'immagine offerta dai mezzi di comunicazione per la
conflittualità del primo decennio postbipolare - per molti versi
falsante - possa purtroppo finire per rivelarsi adeguata e anticipare la
realtà del secondo decennio.