Il ruolo di Eva nel mir antico-russo

Il ruolo di Eva nel mir antico-russo

di aldo c. marturano

           

            Quando ci siamo accinti a scrivere del ruolo della donna nella società “russa” delle origini abbiamo avuto grandissime difficoltà proprio per l’eterna insufficienza delle fonti.

Siamo partiti entusiasti dalla conclusione di Marianne Weber che nel 1907 in base alle sue ricerche sulla storia antico-russa affermava (La Sposa e la Madre nell’evoluzione del Diritto): “L’asservimento della donna è massimo proprio lì dove la forma generale dell’attività di produzione economica rurale è rappresentata dalla famiglia allargata: La grande famiglia russa e la zadruga slava!” Volendo verificare questo stato di cose abbiamo poi visto che in realtà quanto vero fosse tutto ciò nei secoli IX-XIV d.C. è difficile dirlo con sicurezza ancora oggi.

Nelle Cronache e in altri documenti ecclesiastici russi la posizione della donna a cui ci si riferisce solitamente è quella dell’élite al potere ed essa è tutt’altro che passiva e sottomessa, ma allora perché doveva essere diverso nel mondo chiuso dei villaggi, nel mir? Se esisteva una soggezione femminile e quale essa fosse, non ci sembrava verosimile che potesse risalire ai tempi antichi e così abbiamo dovuto fare confronti su confronti per riuscire a disegnare un quadro che fosse abbastanza convincente e rispondente alla verità storica (!!).

E partiamo dai reperti archeologici! Questi ci indicano molte cose su come le donne del tempo si ornavano e si vestivano, ma si riferiscono sempre all’esteriorità… delle donne dell’élite al potere! Ciò è a dire che, per quanto la società potesse essere ancora poco differenziata dal punto di vista delle classi sociali, non riusciamo a capire ad esempio se degli stessi oggetti della consorte di un nobile potesse disporne anche la moglie dello smierd…e come fosse possibile acquisirli e che segno distintivo fornissero. Fortunatamente ci sono le byline, che in parte ci aiutano a penetrare all’indietro nel tempo, più le corrispondenze molto particolari su corteccia di betulla di Novgorod del XII sec. (berjòsty) e così, aggiungendo i resti delle usanze ancora vive nella cultura e nel folclore russi di oggi, sebbene restiamo incerti su alcuni punti e lo sottolineeremo di volta in volta, abbiamo recuperato il quadro che segue.

Cominciamo col dire che nei villaggi russi dominava il matrimonio esogamico e cioè la scelta della sposa al di fuori della grande famiglia locale. Inoltre il numero di spose per marito non era nemmeno prescritto o limitato: Il maschio che poteva, ne aveva anche più di una! Tutto ciò avveniva, non tanto per una questione biologica per lo più ignota alla scienza del tempo, quanto perché con ogni matrimonio si potevano stabilire solide “alleanze” fra clan e clan, fra villaggio e villaggio, allo scopo rafforzare i legami tribali e rinsaldare l’appartenenza alla stirpe comune che era un aspetto molto importante. Questo sentimento si rispecchiava fortemente nella venerazione religioso-magica del nume Rod che impersonava la sacra tribù originaria di un mondo sacro e lontano alla quale tutti i villaggi poi pretendevano di appartenere. La donna perciò, come riproduttrice della specie, mescolando il suo sangue con quello di un’altra comunità, legava indissolubilmente la sua persona alla nuova grande famiglia del suo compagno, ma non ne inquinava la purezza, non appena avesse partorito un po’ di figli. E’ anche chiaro che questa purezza della stirpe era un’illusione rituale…

L’allontanamento della donna dal suo luogo d’origine in modo definitivo (benché fosse concesso in casi particolari che la donna rivisitasse i “suoi”, otpravit’sja vosvojasi) spiega anche perché nelle cerimonie prematrimoniali che si sono conservate fino ad oggi la promessa sposa deve rimanere chiusa in casa per qualche giorno in gramaglie perché il matrimonio per lei è pari alla morte e nasconde molte altre negatività da affrontare nella nuova famiglia. Tanto è vero che molti pregiudizi “in vigore” fino a qualche decennio fa sulla posizione della nuova sposa nel villaggio russo che l’accoglieva ancora in tempi sovietici permetteva che circolasse il detto: “Ti batterà un marito tutto capriccioso e una suocera ti piegherà tre volte!” (Budet bit’ tebjà muzh-priverèdnik i svekròv’ v tri pogìbeli gnut’) ossia, in altre parole: Rassegnati ad essere sottoposta sia all’autorità di tuo marito che a quella della donna più anziana della nuova famiglia! Qui vediamo due figure femminili: una giovane e una vecchia, una che ancora crede di essere libera e un’altra invece che ha il compito di piegarla all’ordine dominante che lei stessa ormai ha accettato, sposandosi.

Vediamo allora come si delinea il ruolo femminile in questa cornice. Possiamo immaginare che una figlia, una volta cresciuta e giunta al menarca (che probabilmente si notava intorno ai 10-11 anni!), non rappresenta una forza lavoro in più come nel caso di un figlio poiché, quale generatrice di esseri umani, non farà altro che aumentare le bocche da sfamare… Ricordiamolo! L’economia dello smierd è basata sullo sfruttamento di un certo appezzamento di terreno in comune col resto del villaggio e quindi un aumento di domanda di cibo preannuncia una diminuzione proporzionale delle razioni già stabilite fino a quel momento. Insomma, la ragazza, anche prima che sia sessualmente matura, deve essere “data via” al più presto! Naturalmente ci sono alcune regole: La più grande delle figlie si sposa per prima, chi la prenderà dovrà pagare un prezzo che copra il costo di crescita che la famiglia ha sostenuto: il cosiddetto “veno” in russo (corrispondente all’incirca all’analogo venum degli antichi latini o al qalim dei nomadi del Centro Asia!) e qualche altra. Solo in caso di infertilità la donna tornerà a casa sua e il veno sarà rimborsato o sarà offerta in cambio la sorella minore della ripudiata, se è ancora disponibile! Quando si conoscono i due promessi o quando s’incontrano? Di regola solo al momento dello sposalizio! Fino ad allora i loro futuri legami sono un affare che viene trattato dai genitori attraverso l’intermediazione di due pronubi (lo svat e la svaha) che sono stati incaricati di trovare il “giusto” sposo per lei e di proporre la “giusta” sposa a lui. Sappiamo però che in certe occasioni quando un ragazzo voleva dichiararsi ad una ragazza, le spruzzava dell’acqua addosso, ma oltre non si andava… in pubblico!

D’altronde il sentimento dell’amore, come l’intendiamo noi oggi, trova poco posto in tutto questo discorso e non è considerato un solido fondamento del nuovo legame famigliare. L’amore e il sesso fantasioso e divertente è roba che si può provare soltanto in occasioni diverse dal matrimonio!

Tuttavia c’erano anche altri riti matrimoniali delle genti russe più sbrigativi di quello sopra descritto, più in voga fra le famiglie nobili, che ci sono stati tramandati. Le Cronache però li marchia come primitivi e da aborrire: Il matrimonio per ratto dei “selvaggi” Drevljani (gli antenati dei Polesciuki!) delle Paludi del Pripjat, ad esempio…

Durante l’anno c’erano sempre occasioni di feste orgiastiche in cui i giovani provavano la loro potenza e la loro disposizione ad amare e a far sesso con le ragazze. Non sempre queste pratiche dovevano sfociare nell’unione dei due partners e, se la donna risultava incinta, il figlio veniva “adottato” da tutta la famiglia di lei, senza discussioni.

Chiaramente la prostituzione era praticamente inutile…

Una volta sposatasi la donna entra nella grande famiglia dell’uomo e, come abbiamo notato subito in un altro luogo del nostro lavoro, raramente si costituisce un nuovo focolare che lascia il villaggio avito per fondarne un altro lontano. Una ragione c’è: Se ciò avvenisse, significherebbe ricostruire tutta una nuova comunità che forse non troverebbe terra e neppure riceverebbe alcun aiuto da quelle di provenienza. Solo con l’introduzione del Cristianesimo le cose cambieranno…

Ciò detto la donna, una volta sposa, deve fare il suo dovere e mettere al mondo molti figli. L’aborto non è accettato per nessuna ragione perché la mortalità perinatale è molto alta. Tocca alla donna poi educare figli e portarli in buona salute fino alla maggiore età, ma deve anche curare e assistere il suo uomo…E qui ci sorgono delle complicazioni.

La donna ha vissuto nella vecchia e continuerà a vivere anche ora in promiscuità nella nuova grande famiglia. Lo spazio esiguo a disposizione nell’izbà e i costumi del tempo permettevano infatti molte relazioni fra i sessi che oggi condanneremmo per semplici ragioni culturali o religiose. Al suocero ad esempio competeva il diritto di dormire con la nuora, se il marito di questa era via per lungo tempo, oppure con la propria figlia, se era necessario per avere altra prole. Dunque poligamia, incesto etc. non erano concetti o problemi psicologici e legali di quei tempi! Con tale situazione la donna si trovava a doversi prendere cura non solo del suo uomo, ma anche del suocero, dello zio del marito, del nonno… com’è ancora oggi!

Allora, ha senso dire che la donna si dedichi ad un solo uomo? Non sembra invece che, quale oggetto sessuale maturo, passi da un “proprietario” o “tutore” (il padre, il fratello maggiore o chi per loro) ad un altro? Dai documenti appare però un’altra circostanza: Solo la donna madre acquista nuovi diritti… Ritorneremo su questi punti.

E che accade se uno dei genitori di un bimbo muore? Non ha grande importanza perché il bimbo è figlio della… zadruga! Qui è doveroso sottolineare subito come questa protezione dell’infanzia (insieme con quella degli adulti) fosse una delle grandi garanzie di assistenza che la zadruga offriva senza pregiudizio a tutti i suoi componenti, ma… sfruttando l’operosità femminile!

Una specie di infermeria casalinga dove il malato veniva curato meglio e lontano dagli altri componenti della famiglia per non contagiarli può essere considerata la famosa banja russa. Questa era una costruzione a parte fuori dell’izbà di solito posta su un trespolo sollevato dal terreno e al cui interno si accedeva con una scaletta. Qui c’era un forno (gornìza o meglio kamelenoc’ka) dove si arroventavano i sassi di fiume. Il bagno era fatto nel proprio sudore che si generava nell’aria ad alta temperatura del piccolo ambiente. Se l’aria era troppo secca, con un lungo mestolo si spruzzava acqua sui sassi roventi e il gioco era fatto! Nella banja ci si curava, si partoriva o semplicemente ci si rinvigoriva…

La banja era considerata un luogo di purificazione e perciò sacro dove non era permessa alcuna attività dopo il calar del sole! In questo piccolo ambiente infatti abitava il cosiddetto Bannik, un essere magico immaginato come un orribile vecchietto proprio perché sicuramente scaturito da uno di quegli spiriti maligni che, accumulati nel corpo, era venuto fuori col sudore. C’era un tipo di gadanie curioso che le ragazze facevano di notte presso la banja sfruttando i poteri del piccolo mostro maligno. Una per una le giovani aprivano la porta della banja, si alzavano le vesti sul di dietro e ponevano il proprio deretano nudo rivolto verso l’interno, mentre il resto del corpo rimaneva al di fuori. Ognuna di loro aspettava poi di sentire il tocco della mano del bannik che annunciava che tipo di fidanzato avrebbero incontrato!

Abbiamo detto che qui si partoriva. Non appena la donna incinta sentiva le prime doglie, occorreva subito preparare la banja. Lì dentro il neonato veniva pulito e fasciato, senza perderlo mai di vista poiché c’era il pericolo che il Bannik gli facesse qualche brutto scherzo, come probabilmente era accaduto al principe Vseslav di Polozk nell’XI sec. al quale il Bannik aveva regalato una grossa voglia sulla fronte costringendolo ad indossare un cappello per tutta la vita per nasconderla!

Poi il bambino viene portato in giro alla banja per ben sette volte affinché la dea dell’alba (Zarjà) lo protegga da qualsiasi malattia infantile e si pronuncia uno scongiuro “Alba-albuccia, alba di prima mattina, allontana da questo bimbo ogni male!” Siccome il cielo è visto come una grande parete con le stelle come dei fori attraverso i quali il Creatore guarda le sue creature, al momento della nascita si apre un nuovo foro (una stella) e di là il neonato è sotto lo sguardo del Creatore fino alla sua morte.

Infine figlio e madre si trasferivano nell’izbà calda dove era previsto un posto speciale per il neonato. Infatti un travone trasversale al centro del soffitto da una parete all’altra, chiamato matiza (piccola madre!), serviva per appendere e dondolare la culla (di solito regalata dai vicini) e tutta dipinta di verde. Questo sistema impediva che il bimbo mentre dormiva potesse essere molestato da animaletti o insetti pericolosi o, soprattutto, dalla maliziosa Kikimora (v. oltre)! Certamente c’erano sempre nuove nascite ogni anno e, sebbene l’evento fosse una gioia per tutti, rimaneva il problema di dover allevare il nuovo nato per portarlo alla maggiore età che qui, si raggiungeva in pratica verso gli otto-nove anni.

In relazione ciò c’era un rito importante per il piccolo essere umano maschio ed era quello molto solenne del primo taglio dei capelli (postrìg). Il postrig gli permetteva di avere la sua voce in capitolo e il suo posto nell’assemblea del villaggio e, soprattutto, di ricevere la sua parte di campo da lavorare per sostentarsi (volgarmente chiamato zhito ossia pane)! I capelli, accuratamente raccolti dalla madre commossa, erano però immediatamente bruciati affinché nessuno spirito malefico potesse usarli per fargli qualche incantesimo.

Il primo taglio dei capelli per la donna invece era all’epoca del matrimonio dove le lunghissime trecce, finora raccolte sul capo, adesso venivano sciolte e recise per essere regalate ad altre donne non sposate.

Ripetiamo invece che il problema numero uno restava il numero di bocche da sfamare. Perché allora non limitare il numero delle nascite ricorrendo al vecchio metodo di allungare il periodo di allattamento? Insomma, una donna doveva essere fertile, ma non esageratamente! Per questo l’antica società medievale aveva previsto delle soluzioni sia affidando (dietro pagamento!) il bimbo in più prima del postrig a chi lo richiedesse in un’altra comunità sia addirittura vendendolo come schiavo in terre lontane. Non era questo un costume prettamente slavo o slavo-orientale, era semplicemente un comportamento diffuso in tutta l’Europa (e mai scomparso neppure ai giorni nostri, benché mascherato dietro altre etichette, malgrado tutte le leggi protettive dell’infanzia!). D’altronde non era forse più giusto che il bimbo abbandonando la famiglia evitasse maggiori stenti a lui stesso e a tutti i suoi? Perlomeno passando in un’altra comunità avrebbe potuto star meglio e costruirsi una vita diversa. Naturalmente lo stesso avveniva per le donne! Insomma dobbiamo immaginarci un amor filiale molto diverso da quello di oggi senza inutili pregiudizi scandalizzati.

Ciò detto, l’occupazione femminile era soprattutto curare e crescere figli. Questi frutti del suo seno d’altronde, a parte l’orgoglio di averli creati nel proprio grembo, secondo il modo di vedere del tempo le garantivano la posizione sociale all’interno della comunità e le assegnavano, ora, in “modo naturale” la gestione e l’economia della casa. Anzi! Ci sono molti indizi che indicano che la donna nell’izbà avesse un proprio angolo inaccessibile all’uomo, se non in casi estremi, separato dal resto dell’ambiente da una tenda dove conservava un proprio patrimonio di oggetti particolari intoccabile dal marito e da chiunque altro…

Quali erano i suoi compiti in casa? Certamente importantissima era la preparazione, la conservazione e la trasformazione delle derrate alimentari!

Qui lamentiamo la mancanza di reperti archeologici sufficienti che ci diano un’idea più precisa degli arnesi e del vasellame da cucina usato nei secoli X-XIII d.C., ma presumendo che questo armamentario (utvar’) non sia cambiato molto nelle sue funzioni, e neppure nel suo aspetto e pochissimo nel materiale usato per fabbricarlo, possiamo ricostruire la figura della nostra massaia alle prese con un grosso pentolone di coccio (gorsciòk) avente tre gambe proprie sul fondo, sempre di coccio, oppure poggiato su un costosissimo treppiedi di ferro (taganka). In questa pentola, probabilmente di origini antichissime visto che un pentolone del genere ha tipizzato la cultura mitteleuropea preistorica, la nostra signora preparava la kascia come avveniva ancora qualche decina di anni fa in Ucraina o in Bielorussia. Un grosso mestolo certamente era a sua disposizione più altri cucchiaioni e cucchiai più piccoli, rigorosamente tutti di legno.

Ha anche una padella (skovorodà) di coccio senza manico dove sciogliere il grasso o lo strutto di porco per friggere. Non manca certamente un arnese molto importante per lavorare attraverso la bocca della pec’ka: una specie di forchettone-pala di legno (latòk) che serve ad introdurre e a tirar fuori le pentole e le padelle o per mettere il pane e le focacce a cuocere per poi estrarle fuori pronte. Insomma qualcosa come la pala di un moderno pizzaiolo nostrano!

C’è persino una bella madia per poterci lavorare la farina mescolata con l’acqua salata per le varie paste e pastelle che servivano di base, ad esempio, a cuocere le bliny (frittelle caratteristiche russe simili al Pfannkuchen germanico) oltre che per dolci e dolcetti. Secchi e tinozze (kadki) se ne sono invece trovati molti, specialmente negli scavi di Novgorod eseguiti nella seconda metà del XX sec. da Janin e Arzihovskii, e molti di questi recipienti avevano delle misure costanti. Questa circostanza ci indica non solo l’attenzione con la quale questi oggetti erano fabbricati, ma anche l’esistenza di una standardizzazione e, nel caso specifico, di una produzione in serie. Bicchieri scavati nel legno o barattoli di scorza intrecciata, cestini e scodelle, anche questi facevano parte della batteria da cucina della nostra cuoca. Una cosa strana dei bicchieri e delle scodelle è che essi erano a fondo convesso e non a fonde piatto e dovevano perciò essere trattenuti dalle mani per non farne rovesciare il contenuto! Un coltello o una piccola accetta con relativa pietra da affilare non mancava…

E i piatti? Abbiamo notizia dell’uso del pane… come piatto in cui mangiare! In realtà l’uso è di per sé antico, ma se è ben provato per la tavola del re polacco Ladislao Jagellone nel XIV sec., non sappiamo con sicurezza se ciò fosse un costume abituale nell’izbà russa o a tavola del signore della Rus’ di Kiev. D’altronde il vocabolo russo tarelka per piatto di coccio è parola tedesca (da Teller) importata dall’ovest, per cui sicuramente il piatto come lo immaginiamo oggi fu introdotto molto più tardi (XVI sec.), e dunque non possiamo confermare l’uso del pane quale piatto per mangiarvi dentro.

La nostra massaia ad ogni modo non si limitava a preparare il cibo partendo dalla materia prima già pronta o dalle derrate che provenivano dai campi, ma aveva anche il compito di cercare in giro le spezie, di coltivare nell’orto gli aromi e le insalate, la frutta fresca e le radici succulente per arricchire e variare la dieta giornaliera. Di una pianta ormai riconosciuta commestibile niente veniva gettato via,  come invece avviene oggi dove molti rifiuti urbani sono parti di piante che invece una volta erano tranquillamente consumate con gusto.

Durante la buona stagione possiamo dunque vedere la nostra donna vagare per la foresta a raccogliere le bacche e i frutti selvatici che poi si preoccupava di pulire, tagliare in pezzi più piccoli e far seccare sulla pec’ka dopo averli sparpagliati su un graticcio di legno e per poterli gustare d’inverno. Raccoglieva naturalmente i funghi che, seccati, venivano infilati come in una lunghissima collana e appesi nell’angolo bello dell’izbà o alla matiza.

Come conservava il cibo la nostra madre di famiglia, oltre che seccandolo? Già il freddo intenso durante il lungo inverno era un mezzo conservante efficace e, a questo scopo, alcune derrate erano immagazzinate nell’izbà fredda. Un altro metodo, diciamo così spontaneo, era quello di lasciare alcune radici e piante succulente ipogee come carota, rapa (talvolta anche cipolla e aglio) e simili nella terra fredda sotto la neve dove si erano sviluppate per estrarle al momento del consumo. Il freddo però era meglio sfruttato usando la cantina scavata sotto l’izbà!

Un conservante principe restava il sale e la salamoia era la soluzione ideale per conservare moltissimi alimenti.

Teniamo presente che l’acqua dei pozzi nel nord della Pianura Russa, a causa di giacimenti sotterranei di salgemma, è quasi sempre salata. L’estrazione del sale avveniva in vari modi, sia dalle fonti salate di cui abbiamo notizia esistere sulle rive meridionali del lago Ilmen sia dagli acquitrini bielorussi e delle paludi del Pripjat, ma anche in posti vicini alla foce dei grandi fiumi che sboccavano nel Mar Nero: Il Dnepr, il Bug, il Dnestr e persino nel Mar d’Azov. In questi ultimi luoghi c’era un’antichissima tradizione risalente ai greci del Ponto Eussino di come estrarre il sal marino per concentrazione in soluzione acquosa tramite bollitura o evaporazione ed essiccazione nel sole. Alla fine il sale non appariva come il nostro, quasi puro Cloruro di Sodio cristallino e biancastro, ma risultava spesso una mescolanza di Cloruro e Nitrato di Sodio, come quello estratto nelle paludi a nord ed era il migliore poiché agiva sia come conservante sia come “arrossante” nel caso della carne.

Probabilmente la donna sapeva estrarre piccole quantità di sale dall’acqua dei pozzi senza ricorrere a specialisti e ne teneva gran conto, giacché il sale era in ogni caso un prodotto costoso! Il rito del benvenuto all’ospite nella casa russa (hlebosolje) ne denuncia l’importanza poiché viene offerto pane e sale…

Un alimento che andava conservato col sale perché abbondante, ma soggetto a rapido deterioramento, era il pesce. Se la pesca era un’occupazione prettamente maschile ed era offensivo e inimmaginabile che una donna potesse andare a pesca, mettere il pesce sotto sale invece era un lavoro da donna…

I fiumi e i laghi della Pianura Russa, lo ripetiamo, erano (e in parte lo sono ancora) frequentati da pesci di grossa mole come il Salmone o lo Storione, pesci di cui gli individui di grande età (5-6 anni) raggiungono proporzioni quasi gigantesche. Lo storione, ad esempio, tipico del Mar Nero e del Mar Caspio (Acipenser huso), può raggiungere il 9 m di lunghezza e i 1400 kg di peso! Nel 1995 ad esempio, a prova che questi grossi pesci era ancora disponibili nel Medioevo russo, ricordiamo che l’Università di Mosca ritrovò presso il Cremlino lo scheletro di un individuo beluga di ben 3 m di lunghezza e del peso (dedotto) di oltre 100 kg! Questi pesci catturati, liberati delle interiora, ben lavati erano posti in tranci o a volta interi sotto sale per un certo tempo. Penetrando nelle carni dell’animale il sale le privava dell’acqua e impediva che marcissero. I pezzi così preparati poi potevano essere tenuti in riserva per l’inverno prossimo. Altri pesci più piccoli invece venivano posti in una salamoia molto densa. Si potevano anche seccare al vento e al sole, se erano stati catturati d’estate…

Il Mar Baltico in particolare forniva pesce e quello più famoso del Medioevo: l’Aringa. Le Aringhe sono distinte in quelle del Mare del Nord che sono più grandi e quelle del Baltico, appunto più piccole e più sottili, ma, a detta degli intenditori, queste ultime sono le più saporite. La distinzione fra le due specie è chiaramente espressa dai popoli rivieraschi nelle proprie lingue e così i russi parlano di salaka se è l’Aringa baltica e di sel’dka se invece è quella atlantica. Ad onor del vero aggiungiamo che l’atlantica in particolare ebbe gran diffusione quando l’Hansa tedesca cominciò a commerciarne in  grande quantità nel XIII sec. e quindi prima di quest’epoca era poco conosciuta nei villaggi dell’entroterra russo.

Col sale e con la salamoia si conservavano le carni dei porci di allevamento (o dei piccoli animali catturati) e questa operazione di solito veniva eseguita alla fine dell’anno dopo la mietitura.

Quando veniva macellato, le parti grasse del maiale con tutta la pelle venivano conservate e appese da qualche parte nella cantina. Siccome il lardo costituiva un piatto molto popolare nell’izbà si ricorreva ad alcune formule che dovevano preservarlo dai vermi o dagli insetti che sono in uso addirittura ancora oggi.

 

Scongiuro contro le vespe (o contro il Mangialardo, Dermestes lardarius) che possono rovinare il prezioso lardo di porco

Vespa, (dea-) madre di tutte le vespe, tu non sei mia madre e i tuoi figli sono le tue vespine e i miei sono i miei bambini e voi (o vespe!) non mi siete figli (ossia parenti). Porto con me l’erba santa, la secco nella fredda foresta d’abeti, la brucio nella radura verde. O vespette, volate verso quel fumo. O (dea-)vespa, vola verso la foresta. La parola è: serratura, la lingua è: chiave (cioè, uscite e chiuderò la casa e non ritornerete mai più)!

 

La carne però poteva essere conservata al gelo nella cantina sotto l’izbà (podval, pogreb, podklet) dopo averla pulita e dissanguata e avvolta in stracci puliti, all’inizio dell’inverno naturalmente!

 

Come si prepara la carne salata (soljanina)

(da una ricetta di E. Molohovez, 1861, rielaborata da ACM)

 

Fatto in pezzi abbastanza grossi l’animale appena macellato, lo si terge accuratamente dal sangue mentre la carne è ancora calda poiché il sangue guasterebbe rapidamente la carne stessa. Togliere le ossa più grosse e poi strofinare con una miscela salina tutte le superfici in vista. Il sale deve essere seccato nella pec’ka affinché assorba meglio acqua e si attacchi bene alla carne. La miscela salina è fatta con sale marino, salnitro, e con le spezie a disposizione. Si faccia questa operazione di strofinamento col sale con forza e con pazienza. Dopodiché si lascia raffreddare la carne così preparata e la si sistema in piccoli tini di legno di quercia previamente puliti e disinfettati con cenere umida. I pezzi più grossi si porranno nel centro e quelli più piccoli tutt’intorno. Il fondo del barile sarà stato già preparato con sale e spezie prima di introdurre la carne. Comprimere ora il tutto senza troppa forza pigiando con un pestello in modo da non lasciare spazi vuoti. Spargete ancora sale e spezie della miscela sopra detta e riempite fino all’orlo ogni tino. Chiudete con apposito coperchio di legno e sigillate con argilla molto densa che lascerete asciugare e seccare nell’izbà calda per due o tre giorni. Ogni giorno avrete l’accortezza di rivoltare ogni tino. Finalmente i tini vanno posti nella ghiacciaia e lasciati lì per almeno tre settimane, avendo cura di capovolgerli ogni settimana.

 

Queste erano tutte incombenze femminili che non finivano però qui.

Abbiamo visto come la donna aveva il compito di curare le ferite, i malati, assistere i vecchi inabili e perfino di curare gli animali. Ora, siccome il malato era visto non come colui il cui corpo è stato colpito da un agente patogeno preciso, ma come uno assalito e conquistato  da un qualche spirito maligno che adesso abitava dentro di lui. Occorreva dunque scacciare quella forza impura e qui la donna, avendo una lunga esperienza ereditata da sua madre che l’aveva appresa prima di lei dalla propria, faceva la parte della cosiddetta znaharka, ossia la sapiente. Agiva sia usando pozioni, infusi e impiastri di erbe e sostanze varie che lei soltanto conosceva sia pronunciando scongiuri e preghiere particolari indirizzate agli dèi (in tempi cristiani, ai santi) che presumibilmente potevano aiutare a scacciare lo spirito maligno. Queste pratiche gli procuravano talvolta una funzione alquanto ambigua poiché l’insuccesso della cura o la morte del malato la trasferivano subito nel mondo delle streghe malefiche (ved’my). Quindi ci voleva una grande accortezza ad evitare accuse e colpe, stando attenta a non dare troppe speranze a chi a lei si affidava per una cura estrema. Acquistare però la nomea di znaharka era pure un onore molto difficile da conseguire e raramente accadeva alle donne giovani. Le nonne invece che avevano ormai passato i 40 anni sembravano agli occhi della gente quasi delle persone immortali e il loro agire era accettato di buon grado e considerato inappellabile. Si pensava che se una morte o una non guarigione seguiva ad un trattamento di una vecchia znaharka, la responsabilità ricadeva su colui che non aver ottemperato puntigliosamente a tutti gli obblighi che la znaharka aveva prescritto con precisione: Un solo errore rituale e la cura risultava non più valida e giusta!

Il fatto che la donna avesse dei cicli mensili simili a quelli della Luna la portava ad essere collegata a questo nume femminile (Lunà) protettore e compagno splendente della donna benché la Luna avesse anche il nome di un dio maschile (Mesjac) ossia il padrone del tempo, giacché il tempo si contava con i mesi lunari.

Una speciale protettrice della donna di casa era invece Mokoscià o Mokosc’ il cui nome suggerisce, per la somiglianza con l’aggettivo mokryi, ossia bagnato, un’origine di questa dea come dea delle acque. In realtà però il nome è legato per etimo alla tessitura e perciò Mokoscià era importante per questa sua facoltà e le donne di casa stavano attente a non provocare la sua ira e a tenersela buona con offerte continue ogni giorno di fiori ed erbe particolari pestate e cotte in suo onore. Addirittura si diceva che Mokoscià apparisse nelle izbe e filasse di notte sul telaio mentre tutti dormivano, se era stata appagata dalla venerazione della padrona di casa! Guai a dimenticare del capecchio (kudel’) in giro, se ne sarebbe offesa! A lei era dedicato il quinto giorno della settimana in cui la donna interrompeva il suo lavoro invernale più importante: la tessitura! Non fermarsi al venerdì sarebbe stato un sacrilegio tanto grande che avrebbe offeso Mokoscià la quale, durante notte, era capace di imbrogliare talmente la trama del telaio da dover ricominciare la tessitura daccapo! In suo onore alla sera del giovedì la padrona di casa preparava un grosso pane con una coppetta piena di sale su un tavolino nell’angolo bello dell’izbà e attendeva che la dea venisse a mangiarne. Con il Cristianesimo Mokoscià fu relegata fra gli spiriti impuri e diabolici e la sua festa fu sostituita da quella della santa Parasceva, celebrata logicamente anch’essa di venerdì con la preparazione della Tavola di Parasceva, ma vi fu aggiunto al pane e al sale anche del miele!

Il paleografo V. A. Ciudinov ha ritrovato il nome di Mokoscià su moltissimi sassi morenici (valuny) che si trovano sparsi nella Pianura Russa deducendone una venerazione molto più diffusa di quello che si può pensare. Secondo lui è la Dea Maggiore del pantheon slavo e presiede alla consacrazione dei bambini al dio Rod dopo il postrig. Secondo lo stesso ricercatore, non solo a Perun, ma anche a Mokoscià è abbinata la quercia come albero sacro. Aggiungiamo che Mokoscià è l’unica dea femminile del pantheon vladimiriano e la sua venerazione era un obbligo esclusivo delle donne. Nel nord russo la si immaginava con una grande testa di capelli scompigliati e dita lunghissime per poter tessere meglio senza doversi alzare dal telaio. Molto probabilmente, visto che questo culto aveva riti segreti, essa presiedeva ai gadanie dell’inizio dell’anno dove gli uomini non erano ammessi.

La tessitura era un’occupazione importante abbiamo detto e perciò alla donna toccava, oltre a tenere in ordine l’orto, anche la coltivazione del lino e della canapa…

Intorno a queste piante femminili e in particolare intorno al lino – Linum usitatissimum – e alla meno documentata canapa – Cannabis sativa – si sono raccolte moltissime leggende russe. Queste piante erano considerate quasi come delle figlie che andavano trattate con delicatezza e attenzione. C’era un giorno particolare della primavera in cui il lino andava seminato, né prima né dopo! Così come c’era un giorno in cui esso doveva poi essere raccolto ossia prima che cadesse la prima pioggia d’autunno. Il lino era usato esclusivamente per tessere la biancheria della donna e quella dei suoi per tutti i momenti della vita. Le bimbe già verso i 6-7 anni cominciavano a curare le piante di lino insieme alla loro mamma!!

Occorreva seminare con molta cura in modo che ogni seme desse una pianta vigorosa e sana e alta (poteva raggiungere il metro e mezzo ed era chiamato il lungo: dolgunec!) e per questo i semi andavano distanziati perché una pianta non soffocasse l’altra nella fila. Finalmente la pianta spuntava e cominciava a crescere, ma, strano a dirsi, veniva spesso infastidita dalle piante concorrenti e così, un giorno più libero di altri un gruppo di donne e di bambini si recavano sulla “striscia seminata a lino” per sradicare, senza disturbare le radici della carissima pianta, tutte le “erbacce”. Non era così facile poiché le “erbacce” erano molto simili al lino stesso ed occorreva tanta  esperienza per riconoscerle… Un altro nemico del lino erano le afidi o pulci (blohy) che appena comparivano occorreva immediatamente distruggere. Come? Con la cenere tiepida della pec’ka!

Verso la fine della crescita, dopo circa 90 giorni quando s’avvicinava la piena estate, le donne tremavano se durante la notte sentivano tuonare: La pioggia poteva far imputridire il lino! Al contrario quando il sole era troppo intenso, il lino poteva diventare troppo secco! Il lino inoltre fiorisce per un sol giorno e il suo fiore blu intenso si apre per farsi fecondare e dare i preziosi semi (due per frutto!). Finalmente è pronto per essere tirato fuori dal terreno e messo in tanti mazzi! Le donne sanno distinguere bene le piante più basse che serviranno per la produzione dei semi e quindi dell’olio da quelle alte per la fibra tessile. Si preparava una treggia tirata da un cavallino dove i mazzi molto alti e pesanti erano adagiati con cura e trasportati fino all’izbà fredda. Dopo qualche giorno gli steli seccati erano battuti e lasciavano cadere così i loro semi. Questi erano importanti perché si dovevano scegliere i migliori per la prossima semina. I semi ricavati dalle piante più basse si usavano sia per l’olio sia per tisane e cataplasmi oppure, perché no?, da mettere sul pane per ingentilirne il sapore.

Gli steli del “lungo” erano poi immersi nell’acqua e restavano a macerare per isolare le fibre dal gambo legnoso per circa due settimane. Bisognava anche stare attenti perché non marcissero e quindi tutto andava fatto in acqua corrente, possibilmente in un angolo del fiume o del canale vicino appositamente preparato. Quando le fibre erano ormai visibilmente separate dal gambo, si tiravano fuori dall’acqua e gli steli erano battuti con energia ancora una volta uno per uno con assi di legno.

Si pettinavano con una specie di pettine fitto (myka). Si sceglievano le fibre migliori e queste, filate con fuso e conocchia e avvolte in gomitoli, si tessevano sul telaio di casa. Dai teli ottenuti si confezionavano le varie camicione e gonne per gli uomini e per le donne. Alcune la giovane donna le metteva da parte in una cassapanca apposita per portarle via con sé quando si sposava…

La stessa cosa si faceva con la Canapa che aveva più o meno lo stesso ciclo annuale del lino sebbene la pianta preferisse la vicinanza della palude per crescere bene e richiedesse una cura un po’ diversa. Infatti la Canapa è dioica e quindi ha piante maschio (pòskon’) e piante femmina (honoplja) separate. Inoltre le larghe foglie di questa pianta potevano esser consumate come insalata o per zuppe e dalle sue bacche si preparava un kisel’ o gelatina vegetale con effetti psicotropi speciali.

Abbiamo detto che i semi di lino servono ad insaporire il pane, ma anche quelli di canapa. E sì! Il pane è il cibo vitale, l’abbiamo ripetuto varie volte, e dunque anche impastare e cuocere questo alimento e scegliere gli ingredienti per renderlo più appetitoso è un lavoro importantissimo ed esclusivo delle donne… purchè lo facciano quando non hanno il mestruo! Addirittura era normale che alcune izbe si mettessero insieme per fare il pane per tutta una settimana in una sola pec’ka

Per fare il pane occorreva saper preparare la pasta acida per lievitare (opàra o dezhà) e c’era la massaia che sapeva farla meglio di altre. Siccome serve anche per fare la braga (la birra slava) e l’idromele (mjod), la preparazione deve essere eseguita con molta attenzione. Si parte meglio da farina o di segala o di frumento, si fa un impasto molto morbido che poi, messo dentro una scodella (kvasciònka), si ricopre con una retina in modo da impedire che gli insetti vi penetrino. Ecco! Occorre ora lasciarla all’aria per qualche giorno e quando la si vedrà diventare più liquida e fare delle bolle in superficie vorrà dire che è pronta. Non è però sempre buona poiché a volte è talmente amara che bisogna gettarla via. Come mai? Evidentemente chi l’ha preparata deve aver commesso qualcosa di brutto o era impura perché preda di uno spirito maligno che glie l’ha guastata.

C’era anche un metodo più antico molto più primitivo per fare la pasta acida: Ai vecchi e ai ragazzi erano consegnati dei chicchi di orzo o di miglio e questi dovevano masticarli e farne un bolo che poi sputavano in una scodella. Questo bolo veniva poi messo al caldo dove fermentava… Questo è il metodo originario che ancor oggi usano molti popoli, se non hanno il lievito di birra da comperare al supermercato!

 

Preparare la pasta acida, dezhà, aiutati dalla Luna (Mesjac)

(ricetta tratta da I. P. Saharov, 1980, e rielaborata da ACM)

 

Preparare l’impasto con la neve dell’inverno, nel retro dell’izbà. Scegliere una notte dal cielo terso e attendere che la Luna sia apparsa e poi mormorare: Luna, o mia Luna! D’oro sono i tuoi cornini. Guarda attraverso la finestra perché adesso vengo ad offrirti la dezhà e tu soffiaci su! Dopodiché il contenitore con la pasta acida (dezhnik) si mette vicino alla piccola finestra, l’unica bassa (la gattaiola!), e si attende che la Luna lo illumini. E’ importante preparare questa prima dezhà in perfetta solitudine e in segreto quando tutti dormono. Questo è molto importante per qualsiasi strjapùha (ossia colei che conosce le ricette segrete) all’opera.

 

La braga e i vari mjod erano le bevande più popolari dell’antica Rus’ ed erano perciò preparate quasi con affetto affinché non venisse fuori una poltiglia imbevibile e quindi da gettar via. Di solito la fermentazione poteva essere o interrotta anzitempo o portata avanti ulteriormente per avere una gradazione alcolica maggiore della bevanda finale.

Ad esempio, nei conventi del resto d’Europa dove pure si preparavano queste bevande prevaleva la birra più alcolica e il mjod più forte, per cui non abbiamo esitazione a pensare che anche qui nel nordest della Pianura Russa si sapeva fare questo tipo “più forte” di bevande fermentate così popolari nel nord visto che si partiva da una materia prima tipicamente slava: il miele!

 

Ricetta per preparare l’idromele (mjod) classico da M. Denbinska

riadattata da ACM

Portare una certa quantità di acqua all’ebollizione e versarla bollente su una miscela di spezie (erbe aromatiche come finocchio, chiodi di garofano etc.) posta sul fondo di un barilotto (possibilmente di legno di quercia). Chiudere e lasciar raffreddare. Riaprire e filtrare il liquido. Mescolare tre parti d’acqua con una parte di miele mentre il liquido è ancora tiepido e limpido e cercare poi un ragazzo appena pubere (questa è una precauzione magica!) che per cinque ore deve agitarla e rimestarla piano finché il miele non si è ben sciolto. Il barilotto scoperchiato è lasciato a sé per quaranta giorni e quaranta notti lasciandolo fermentare dopo avervi aggiunto la pasta acida per far il pane (o il lievito di birra). In questo caso il liquido non va posto al freddo, ma al caldo per lasciare agire i Saccharomycetes sp. (i fermenti). Il liquido schiumerà man mano che si forma alcol e anidride carbonica. Liberare dalla schiuma e filtrare e la bevanda è pronta. Questa bevanda può esser fatta invecchiare anche ulteriormente per mesi o per qualche anno e il sapore sarà sempre una nuova e gradita sorpresa.

Naturalmente bisognerà preparare il mjod per berlo fresco anche d’estate!

Si poteva far la birra anche dal pane raffermo, invece che dai cereali, e questa birra particolare era la più amata da gustare mescolata con foglie di menta quando si usciva dalla banja. Era chiamata kvas e il suo etimo probabilmente risale al norreno (la lingua dei Variaghi) hvas ossia acido.

Tutto questo fa la donna usando tutta una serie di arnesi e recipienti. Per la tessitura, ad esempio, usava un telaio, fusi e conocchie, arcolai e scardassi. Per far la farina aveva il proprio mulino “da casa” di pietra. Per lavare i vestiti poi usava matterelli speciali per battere la stoffa sui sassi lisci del fiume. Tutto è sempre a disposizione nei vari spazi dell’izbà.

Quando era possibile, l’izbà è divisa in modo che si ricavi persino un angolo dove trova posto un letto, vicino alla pec’ka. Attenzione però! Non serviva per dormire, ma solo per far da monumento alla ricchezza della casa, poiché sotto quelle coperte erano custodite tutte le cose più preziose e perciò: Quanto più alto il letto, tanto più ricca è la casa!

La donna però non è mai sola. Un ospite permanente e molto riverito, perché temuto, è lo spirito della casa: il Domovòi! Questo essere poco benevolo e molto permaloso, la proteggeva e abitava (talvolta insieme alla sua donna) sotto il fondo della pec’ka, dove, oltre ai ceppi di legno, era ricavato una spazio per lui e la sera della sua festa, a metà febbraio, la donna russa gli lasciava da mangiare davanti alla pec’ka.

Vi capita di non trovare più un oggetto che avevate messo in un certo posto, di scivolare, o di inciampare su un asse sconnesso e altri piccoli guai di casa? Ebbene ciò è dovuto al Domovòi che voi avete offeso magari senza saperlo!

Un altro commensale dell’izbà è il gatto. Senza di lui come fare a liberarsi dai topi frugivori? Per questo motivo nelle saghe russe quando s’inaugura la nuova izbà si lascia che sia il gatto il primo essere vivente ad entrare. Il suo posto preferito, quando non vaga nell’izbà fredda o nel giardino, è sul cosiddetto tetto della pec’ka

A parte le occupazioni “domestiche” la donna conservava molti dei diritti dell’uomo, almeno quanto alle decisioni politiche, poiché sappiamo che partecipava alla Vece con pieno diritto di voto. Inoltre, siccome la donna giungeva più frequentemente dell’uomo ad età venerande, ciò la portava a diventare non solo una persona di riferimento per tutta la comunità (la già nominata znaharka), ma non era neppure escluso che riuscisse a diventare una capo-clan come un ciur!

Un triste obbligo della donna, specialmente per quelle dell’élite al potere, rimase invece per molto tempo quello di morire bruciata accanto a suo marito, non avendo il diritto di sopravvivergli! La prima di cui abbiamo notizia che interrompesse questo macabro rito, fu Olga di Kiev che avendo un bimbo piccolino ancora da accudire, riuscì a farsene dispensare, ma dovette prendere su di sé il compito di vendicare la morte del marito Igor ucciso dai Drevljani…

Qui si innestava una curiosa abitudine slava. Se una ragazza moriva prima di essersi sposata, la si dava in moglie ad un ragazzo del vicinato subito mentre era ancora in corso il rito funebre e costui era considerato suo vedovo. Al contrario, se un ragazzo moriva prima di essersi sposato, si trovava una ragazza disposta a sposare il morto e a tenere il lutto per lui prima di risposarsi!

Un’abitudine abbastanza razionale, sebbene crudele in un certo senso e che coinvolgeva però entrambi i sessi, era quella del ritiro nella foresta delle vedove sconsolate anziane e ormai economicamente inutili alla comunità. Si pensava che in quell’ambiente magico non morissero, ma si trasformassero in animali o in alberi e perciò una timorosa riverenza particolare era dovuta loro, se si incontravano presso i crocicchi dei sentieri. La donna troppo sapiente, lo ribadiamo, faceva paura perché con le sue arti di scacciare via gli spiriti maligni poteva essere pericolosa e, nel caso più deteriore, si trasformava persino in una strega cattiva (babà jagà) capace di mutare le proprie sembianze in quelle di esseri demoniaci e quindi da mandar via e isolare, a meno che non scegliessero “spontaneamente”, ancor prima di morire, di ritirarsi “al di là del fiume”. Di loro non si sapeva più nulla, sebbene si trovasse sempre qualcuno che giurava di averne viste in qualche cerimonia sabbatica (sciabasc’) intorno a qualche vecchia quercia durante la notte. Da questo scaturiva il timore e la venerazione dovuti a tutti gli esseri silvicoli perché alla fine… erano dei parenti (in russo navi) trapassati!

Il ruolo femminile più o meno come l’abbiamo descritto sopra si mantenne per secoli quasi senza mutamenti benché la Chiesa e il Cristianesimo tentassero di demonizzarlo. Nelle Cronache Russe si dice chiaramente che i cristiani (e i monaci in particolare) vivono secondo la legge scritta (del Vangelo) e “loro” (i pagani nei villaggi) secondo i loro costumi diabolici intrisi di sesso selvaggio e di cibi proibiti, di depravazione dei costumi di famiglia etc. etc. e tutto… per colpa della donna!           

Riallacciandoci perciò al problema della donna come essere magico ecco che al sovrapporsi della mitologia cristiana su quella pagana, nel mir la figura della Madonna prevalse su quella di qualsiasi altro personaggio cristiano. A lei furono dedicate le tre chiese di mattoni della Rus’ di Kiev sotto il nome appropriato di Santa Sofia ossia la Saggezza Sacra che non poteva che essere attribuibile soltanto ad una donna.

E’ la figura della Madonna che così comincia a dominare tutte le feste e le celebrazioni russe. Al 15 agosto la Madonna abbandona questo mondo e sale al cielo mentre dorme in un sonno che sta fra la morte e l’oblivione totale della sua vita terrena (Uspenie in russo). E’ l’ultima festa dell’estate secondo la tradizione cristiana e annuncia l’inverno che però, per la divisione dell’anno greco-bizantina, è preceduto dall’autunno e l’8 settembre ecco riapparire un’altra festa della Madonna: la sua nascita! E non è finita! Evidentemente mascherando un antico rito pagano in questo giorno dove è facile identificare la Madonna con la Madre Umida Terra, nella prima mattinata le donne richiamavano il bestiame dai pascoli che doveva ora esser trasferito nel hlev ossia nelle stalle o nei ripari nelle vicinanze dell’izbà (logicamente, sotto la protezione dello spirito della stalla che finora era stato inattivo, il Hlevnik). Le donne dunque si recavano insieme presso le rive di un lago o di un fiume o di altra corrente d’acqua con molti pani fatti con farina d’avena. Qui celebravano l’incontro con la Madonna dell’Autunno (Matusc’ka Osenina) con una specie di picnic fra donne. I pani d’avena invece, benedetti ormai dal rito compiuto, venivano spezzati con le mani e dati da mangiare agli animali nel hlev.

Questa era anche la festa del Rinnovo del Fuoco che sapientemente, quando la popolarità del culto della Vergine fu abbastanza consolidato, la Chiesa consacrò al posto della pagana Festa di Kupala. Erano anche questi i giorni delle visite fra i nuovi sposi e i suoceri rispettivi.

Una festa particolare tutta russa era invece quella del Manto della Vergine. La celebrazione aveva origine da una leggenda originatasi a Costantinopoli nel 911 d.C. quando era stato sventato un attacco arabo contro la città dall’apparizione del manto (in russo pokrov) della Vergine nel cielo che aveva sbalordito tutti e così gli arabi erano stati respinti e Costantinopoli salvata! E quindi al 1° ottobre la Festa del Manto della Vergine divenne la più popolare e la più solenne delle feste “femminili”. Moltissime icone e chiese sono dedicate a questo scialle della madonna e non solo! Lo scialle con su ricamati motivi di fiori (specialmente rose) acquistò una dignità nuova per la contadina che considerava questo capo di vestiario il più importante da mettere in mostra nelle feste e nelle solennità!