Carissimi,
a poche ore dalla mia partenza per il " Centro
Congressi Cavour " di
Roma ( riunione
nazionale compagni mozione " Sinistra D.S. per
il SOCIALISMO" in merito alla situazione
politica del Paese ) , leggo , praticamente su
tutti i giornali , l'ennesima
"scivolata negativa " del Governo
Prodi sulle promesse programmatiche - non
mantenute- al Popolo dei lavoratori, operai,
pensionati, studenti , disoccupati, ecc. .....!
Infatti ,da una più attenta lettura della
Finanziaria e dei documenti ad essa
collegati ,si svelano molti elementi
preoccupanti tra questi i più preoccupanti
sono :
1°) la beffa del cuneo fiscale per i
lavoratori " con una mano danno qualche cosa e
dall'altra se lo riprendono con le aliquote".
2°) si attuano, con abbondanza di risorse stanziate per
più anni , tutte le spese riguardanti le missioni
militari ed il riarmo/ aggiornamento del nostro
sistema " di difesa " ( sic!).
Questo continuo degrado ed
infinocchiamento del popolo da parte del Governo
porta Prodi , ormai al "baratro" della sua
fine nel Paese e nel Parlamento.
Ciò avrebbe conseguenze clamorose che non
escludono il ricorso di elezioni politiche anticipate :
elezioni politicamente e numericamente già perse
in queste condizioni pessime con gli
attuali rapporti tra governanti e masse
popolari.
Siamo in tempo per evitare tale catastrofe istituzionale
?
Penso di SI se si rivede nel profondo le
cifre e stessa filosofia sociale della Finanziaria
riportandola alle genuina formulazione nel
rispetto delle famose 200 pagine del programma sul
quale Prodi ha avuto il voto della maggioranza (
risicata) degli italiani.
Inoltre ,si deve perentoriamente raccomandare , alle
decine di parlamentari e senatori del Centro
Sinistra , di smetterla di perdere del
tempo preziosissimo cercando di mettere in
piedi la chimera ( rilevatasi sempre
più un " castello di carte " )
denominato Partito Democratico ( D.S. +
Margherita), mentre la Casa democratica brucia
allontanandosi pericolosamente dai suoi
garanti più fedeli ( operai e produttori di
ricchezza) che richiedono un pò più di equità e
giustizia sociale.
Cordialità da Ugo
Montecchi
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Per soddisfare le
ambizioni interventiste dell'imperialismo italiano
LA
FINANZIARIA DI PRODI AUMENTA VERTIGINOSAMENTE LE SPESE
MILITARI
4,5 miliardi in più
nel triennio per nuovi armamenti offensivi
PRC, PdCI E VERDI IN
SILENZIO FANNO DA COPERTURA
Qui non c'è gara: Prodi
batte nettamente Berlusconi. Nel senso peggiore del
termine. Nel senso che il governo dell'Unione aumenta
molto di più le spese militari rispetto al precedente
esecutivo della Casa del fascio. E lo fa per dare
sostegno finanziario alla politica imperialista e
interventista che il premier democristiano bolognese e
l'ex comunista revisionista D'Alema hanno rilanciato alla
grande da quando sono giunti alla presidenza del
Consiglio il primo, e al ministero degli Esteri il
secondo; che si concreta col mantenimento e l'ampliamento
dei contingenti militari all'estero, di cui quello in
Libano è solo l'ultimo, con la dotazione di nuove,
potenti, sofisticate armi adatte all'offensiva e alla
repressione della resistenza dei popoli invasi, con il
completamento del modello dell'esercito, da quello più
mastodontico composto da militi di leva e quello composto
da militi professionisti super addestrati e
profumatamente pagati.
Le cifre dedicate al
capitolo spese militari, che stanno scritte nella
Finanziaria, approvata dal governo e ora in discussione
in parlamento, sono chiare e indiscutibili. Cifre
comunque ulteriormente esplicitate, nel dettaglio, nella
Nota aggiuntiva del ministro della Difesa Parisi,
presentata alla Commissione Difesa della Camera. Per chi
non vuol vedere e non vuol sentire, aggiungiamo, come il
PRC, il PdCI e i Verdi che su ciò fino ad ora hanno
calato un assordante silenzio. Si parla di ben 4,5
miliardi di euro in più per il prossimo triennio, che si
aggiungono allo stanziamento complessivo, da destinare
alla dotazione di "armi tecnologiche".
Nell'articolo 13 si
legge: "Per il finanziamento degli interventi a
sostegno dell'economia nel settore dell'industria
nazionale ad elevato contenuto tecnologico è istituito
un apposito fondo iscritto nello stato di previsione del
ministero della Difesa, con una dotazione di 1.700
milioni di euro per l'anno 2007, di 1.550 milioni di euro
per l'anno 2008 e di 1.200 milioni di euro per il
2009"
La lista della spesa
continua nell'articolo 187 dove è segnalato uno
stanziamento di 400 milioni di euro per il 2007 e 500
milioni per il 2008 e 2009 destinati alla
"manutenzione ordinaria e straordinaria dei mezzi,
materiali, sistemi, infrastrutture, equipaggiamenti
nonché adeguamento delle capacità operative e dei
livelli di efficenza anche in funzione di missioni
internazionali di pace". E non è finita qui. Con l'articolo
110 si rifinanziano le attività già previste a
favore del settore aeronautico e che ammontano a 100
milioni per il 2007, 110 per il 2008 e altri 100 milioni
di euro per il 2009. Si tratta degli aerei Eurofighter,
lasciati appositamente fuori dall'articolo 113 affinché
abbiano un ulteriore specifico finanziamento.
Nella Finanziaria di Prodi
(e Bertinotti) ci sono almeno altri due provvedimenti a
favore del ministero della Difesa: il primo riguarda la
possibilità di vendere le caserme dismesse e incamerare
il ricavato, invece che inviarlo al ministero del Tesoro
come avviene nella vendita di altri immobili della
pubblica amministrazione. E anche questo è un modo per
aumentare il finanziamento delle spese militari; il
secondo (articolo 57, quarto comma) autorizza le
forze armate a non applicare il blocco al 20% del
turn-over, previsto invece per tutti gli altri ministeri
della pubblica amministrazione. Insomma non ci sono
limiti all'assunzione di nuovi militari, se non quelli
dettati dalle disponibilità di bilancio.
Non va dimenticato l'articolo
188 della Finanziaria che rende automatico il
meccanismo di finanziamento (un miliardo l'anno) per le
missioni militari all'estero. Passando così il potere
decisionale dal parlamento all'esecutivo. Per superare le
proteste che questo provvedimento ha sollevato il
governo, è vero, si è impegnato a cancellarlo. Ma a
tutt'oggi, dell'emendamento promesso non c'è traccia.
Da un attenta lettura
della legge di bilancio si scopre che non tutte le spese
militari sono segnate nei conti del ministero della
Difesa. Ce ne sono altre "nascoste"
furbescamente tra i finanziamenti assegnati al ministero
"per lo sviluppo economico" elargiti
all'industria delle armi. E' il caso del programma per la
costruzione di 10 unità navali "Fremm"
ribattezzate dalla marina italiana
"Rinascimento", un programma già avviato dal
governo Berlusconi con 30 milioni di euro per il 2006 e
60 milioni per il 2007. Stanziamenti ulteriormente
aumentati da Prodi e Padoa Schioppa a 135 milioni di euro
per il 2008 e 2009.
Dalla Nota del ministro
Parisi si apprende che, nel 2007 la spesa complessiva del
comparto Difesa ammonterà a 18.134 miliardi di euro. Di
questi 12.437 miliardi vanno a Esercito, Marina e
Aeronautica; 5.282 miliardi vanno ai carabinieri; 111
milioni per le funzioni esterne; 304 milioni servono per
coprire le pensioni. Ma nel conto ci vanno aggiunti gli
stanziamenti sanciti negli art.113 e 187, portando la
spesa a oltre 20 miliardi di euro.
Nel capitolo dedicato
all'ammodernamento e rinnovamento dell'apparato militare
il grosso dei piani d'investimento va per la costruzione
di aerei (1.359 miliardi) ossia gli Ioint. Strike
Fighter, un programma questo a cui partecipa anche
Israele, e ancora gli elicotteri NH-90 funzionali allo
spostamento rapido di truppe in territori di guerra. A
ciò vanno aggiunti i già citati Eurofighter che saranno
completati nel 2015. Senza dimenticare l'adeguamento dei
Tornado e degli Amx. Altri voci importanti di questo
programma d'investimenti riguardano i sistemi
missilistici (435 milioni) e mezzi navali (535 milioni)
che prevedono anche la costosissima portaerei Cavour,
altre due nuove fregate della Classe Orizzonte e due
sommergibili.
Se questo contesto che
abbiamo delineato è esatto, e lo è, si pone una domanda
ineludibile: non diciamo i vertici dei partiti falsamente
comunisti di Bertinotti e Diliberto, perché questi si
sono ormai venduti l'anima al diavolo (capitalista), ma
la base e gli elettori di questi partiti, più in
generale il movimento che in questi anni si è battuto
contro le guerre di aggressione, contro l'interventismo
militare italiano nei vari scacchieri di guerra, contro
l'aumento delle spese militari a danno di quelle sociali,
contro la militarizzazione dell'apparato industriale, con
Finmeccanica e Fincantieri con un ruolo di punta, possono
accettare questa politica militaristica e imperialista
del governo Prodi? Non possono! E allora bisogna dare
fiato alla protesta, farsi sentire nelle piazze, mandando
al quel paese i suddetti vertici che non li rappresentano
più.
Il filo nero
della politica estera italiana: dall'Iraq al Libano
Milioni di
elettori hanno votato il "centro-sinistra"
perché speravano in un netto cambiamento di rotta
rispetto alla precedente politica di Berlusconi, Bossi e
Fini. È innegabile che, giorno dopo giorno, il nuovo
governo distrugge sempre più questa ingenua ma tenace
illusione.
Qui ci limiteremo all'analisi della politica estera,
poiché è il settore dove forse più grandi apparivano
le possibilità di cambiamento davanti agli occhi delle
masse di sinistra, e poiché in questo settore rientra il
tema attualmente più scottante, ovvero la missione
militare in Libano.
All'indomani dell'insediamento del nuovo governo, il
ministro degli Esteri D'Alema, già conosciuto nel '99
come capo del governo italiano, tra i bombardatori dei
Balcani, ha assicurato il rientro dei soldati italiani
dall'Iraq entro l'autunno, negando il ritiro immediato.
Ai dirigenti del "centro-sinistra", impegnati a
tenere i piedi su due staffe, una tra il mondo dell'alta
finanza, della grande imprenditoria, del Vaticano, dei
circoli americani e massonici, e finanche della mafia, e
l'altro tra il proprio elettorato dinanzi al quale non
possono permettersi di perdere completamente la faccia,
non è parso vero di "accontentare" i movimenti
pacifisti semplicemente urlando che avrebbero mantenuto
una promessa di Berlusconi: quella del ritiro dei soldati
dall'Iraq entro l'inverno, appena anticipata all'autunno.
Contemporaneamente è stata confermata la presenza
militare dell'Italia nell'occupazione dell'Afghanistan
che prosegue da ormai cinque anni. Presenza che non solo
non si è alleggerita, ma è stata anzi aumentata sia
quantitativamente, con l'invio di ulteriori forze, che
qualitativamente, con l'assunzione del comando della Task
Force nel Mediterraneo, la quale tra l'altro compie anche
operazioni di sostegno alla missione irakena.
Per mettere a tacere la critica più o meno timida di
alcuni parlamentari "dissidenti" della
"sinistra radicale" riguardo la conferma della
missione afghana, l'Unione ha sostenuto di aver dovuto
applicare ciò che era scritto sul Programma di governo
per obbedire alla volontà degli elettori. Come se i 20
milioni di italiani, molto spesso lavoratori, che hanno
sbarrato un qualche simbolo del
"centro-sinistra", avessero letto le 281 pagine
del Programma, come se lo avessero anzi scritto loro
stessi e lo avessero accettato in ogni singola parte.
Tale ipocrita giustificazione però, oltre a ricordare
che non era poi così difficile nutrire sfiducia nella
politica estera del nuovo governo prima che questo la
spostasse dalla carta alla realtà, mette in luce il
carattere pienamente presidenzialista del
"centro-sinistra", in tutto e per tutto
omologato alla seconda repubblica.
Come se non bastasse, Prodi e Parisi non hanno esitato a
promuovere in prima linea la missione militare Onu in
Libano, sulla quale va fatta un po' di chiarezza.
Essa viene spacciata per una missione di pace. In realtà
si tratta di una missione di guerra: a cosa serve
altrimenti l'enorme apparato bellico spedito nella
regione, composto tra l'altro da navi da guerra, mezzi
corazzati, reparti d'assalto, elicotteri da
combattimento? Nelle regole d'ingaggio (per quel poco che
sono state rese pubbliche) si autorizza esplicitamente i
soldati a sparare non solo se aggrediti, ma anche per
"prevenire" gli attacchi. È ad ogni modo
curioso che Prodi e Bertinotti cerchino di mascherare
questa missione con lo stesso appellativo di
"missione di pace" con cui Berlusconi ha
tentato invano di mascherare la guerra imperialista in
Iraq. Ci ha già pensato il ben informato Cossiga, prima
che ci pensino i fatti, a mettere a nudo la realtà di
questa missione: "Temo che molti in Italia non
abbiano ancora capito. Lì si andrà a sparare,
purtroppo" (intervista a "Il Giornale" del
27 agosto).
L'obiettivo di questa missione è quello di salvare gli
aggressori israeliani nel momento in cui la resistenza
libanese, organizzata per la maggioranza dagli Hezbollah,
era finalmente riuscita a bloccare l'invasione
israeliana. Nella risoluzione dell'Onu infatti, non si
parla mai di assicurare il ritiro immediato delle truppe
di Israele dal territorio libanese, mentre si stabilisce
quale compito specifico della missione il disarmo di
Hezbollah, cioè della resistenza libanese, esattamente
ciò in cui non era riuscito Israele. Proprio per questo
il contingente multinazionale non viene stanziato nel
Paese aggressore, e nemmeno in entrambi, ma nel Paese
aggredito.
Ci viene detto che la funzione di questa missione è
quella di salvaguardare il Libano dalle violenze
israeliane. Ma quando mai si è vista una forza che, per
difendere gli aggrediti, li disarma e al contempo
garantisce all'aggressore la libertà di restare sul loro
territorio? Una forza che vuole "difendere" gli
aggrediti dichiara forse tregua solo allorché essi
conseguono le prime vittorie sull'invasore?
Senza dire che nella risoluzione dell'Onu non viene detta
una parola sui crimini di Israele, che ha deliberatamente
invaso un paese sovrano senza alcun preavviso, facendo
tornare alla memoria le vili invasioni naziste ai danni
dell'Austria nel '38, della Polonia nel '39 e della
Russia nel '41, e ha compiuto stragi efferate, massacrato
oltre 1.100 civili, distrutto 15.000 case, provocato un
milione di profughi su un Paese di appena tre milioni di
abitanti. Anzi vengono giustificati ufficialmente.
Questo per quanto riguarda le caratteristiche più
visibili della missione, direttamente ricavabili dalle
stesse dichiarazioni e documenti. Per quanto riguarda
un'analisi più profonda, non dobbiamo mai dimenticare la
celebre frase del generale Von Clausewitz divenuta parte
integrante della visione materialista della storia,
secondo cui " la guerra è la continuazione della
politica con altri mezzi".
Gli Stati che oggi sostengono la missione Onu in Libano,
legati da mille fili economici politici e militari a
Israele, hanno nel recente passato sempre sostenuto una
politica filoisraeliana, antisiriana, antilibanese,
antipalestinese, e il loro intervento militare in quella
regione è la diretta continuazione, con le armi in mano,
della politica precedente. Non è verosimile credere che
senza armi sviluppino una politica e con le armi ne
sviluppino una opposta.
Si sente dire che questa missione sarebbe legittima
perché approvata e gestita dall'Onu. Ma non è certo il
colore dei caschi che rende una missione giusta o
sbagliata. In ogni caso non si può ignorare che l'Onu
rappresenta oggi solo il luogo dove le varie potenze
tentano di gestire le reciproche contraddizioni
interimperialiste. E dunque l'"unità dell'Onu"
significa solo la temporanea ricomposizione degli
interessi particolari delle varie potenze imperialiste
attorno a un qualche interesse comune. Niente di più
probabile che l'interesse comune all'imperialismo
americano, a quello europeo, a quello russo, ecc., cozzi
direttamente con l'interesse di un qualche popolo, in
questo caso quello libanese. Fino a quando l'Onu sarà
solo un "covo di briganti", per parafrasare la
felice espressione con cui Lenin ebbe a indicare la
defunta Società delle Nazioni, dove questi briganti
"multilateralmente" e
"democraticamente" tentano di accordarsi sulla
spartizione del bottino, il sigillo Onu non solo non
dimostrerà la legittimità di una missione, ma anzi la
metterà ulteriormente in dubbio.
Gli interessi particolari dei vari Stati si sono in
questo caso risolti attorno al comune interesse politico
strategico di salvaguardare nella regione l'egemonia di
Israele in quanto longa manus dell'imperialismo americano
in Medioriente.
Ogni paese si differenzia poi nello sforzo e nelle
richieste a seconda dei rispettivi interessi particolari.
Così, non è un caso se le due potenze che si spendono
maggiormente in questa missione in terra libanese, ossia
l'Italia e la Francia, sono rispettivamente il primo
partner commerciale e il primo creditore del Libano. La
seconda, assieme all'Arabia Saudita, altra grande
sostenitrice di Israele, ha in passato esercitato
pressioni sul governo libanese affinché privatizzasse i
beni pubblici, col risultato di favorire la penetrazione
delle aziende straniere. La prima ha invece firmato un
trattato militare segreto con l'aggressore israeliano.
Il ruolo di prima importanza assunto dall'Europa in
generale in questa missione si spiega anche con
l'esistenza del progetto Mercato Unico Euro-mediterraneo
del 2010 volto a garantire la penetrazione dei capitali
europei nella regione, oltre che ovviamente con
l'importanza geopolitica del Medioriente.
Quale discontinuità col governo Berlusconi?
I dirigenti della "sinistra radicale" non
perdono occasione per sottolineare la discontinuità in
politica estera che la missione Onu rappresenterebbe.
Obiettivamente, non si capisce dove stia questa
discontinuità. Un unico filo imperialista lega la
politica estera di Berlusconi e Fini con quella di Prodi
e D'Alema, ossia la strenua difesa degli interessi del
capitale italiano (dal quale non a caso Prodi è stato
incoronato) in tutto il mondo, anche a costo di
intervenire con le armi. Ovviamente ciò non significa
che non esistano delle differenze dialettiche tra i due
schieramenti, e negarlo comporterebbe di non comprendere
il modo concreto in cui questa continuità si realizza.
Ma queste differenze non riguardano né la natura
imperialista della politica estera, né il metodo
interventista di questo imperialismo, né la struttura
essenziale delle alleanze internazionali. Mentre per
Berlusconi la posizione ideale per l'Italia e per
l'Unione europea era, come per Blair, all'ombra degli
Usa, per Prodi essa può meglio giocare il suo ruolo di
grande potenza all'interno dell'Ue accanto all'asse
franco-tedesco, ma sempre e comunque in stretta alleanza
con gli "amici d'Oltreoceano". Di conseguenza,
per Berlusconi l'unilateralismo americano rappresentava
il carro su cui l'Italia doveva salire per giocare un
ruolo nello scenario mondiale, mentre per Prodi il
"multilateralismo" dell'Onu rappresenta la leva
per rafforzare la posizione dell'Ue in alleanza con gli
Usa. Questa e solo questa è la
"discontinuità" del governo Prodi dal governo
Berlusconi.
La continuazione della politica estera interventista ad
ogni modo dimostra che la guerra non deriva dalla
volontà di singoli ministri, governi o parlamenti, ma si
impone ad essi come una necessità oggettiva dell'attuale
fase del capitalismo.
Per ultimo, per non cadere nell'empirismo, in quel metodo
di indagine cioè che isola ciascun fenomeno dal suo
contesto, occorre inserire la politica estera del governo
Prodi all'interno di tutta la sua politica generale: e ci
si accorge che la continuità col governo Berlusconi non
è prerogativa della politica estera, ma riguarda tutte
le questioni anche sul piano interno, dalla finanziaria
stangatrice alle privatizzazioni in cantiere, dal
mantenimento dei Cpt e della logica repressiva
sull'immigrazione al rifiuto di abrogare le controriforme
Biagi e Moratti, ai già preannunciati attacchi alle
pensioni, dal sopra citato presidenzialismo al promesso
federalismo, ecc.
La triste parabola del pacifismo borghese: dalla
"non violenza" alle "missioni di
pace"
Quel che più risulta incomprensibile ad un
osservatore sentimentale, è l'appoggio alle missioni
militari dato da molte di quelle forze (PRC, Verdi,
Manifesto, Tavola della pace, associazioni cattoliche,
ecc.) che fino a ieri non solo si erano opposte con
apparentemente fermezza alle guerre di Berlusconi, ma
avevano anche elevato la "non-violenza" a
principio assoluto e metafisico. Se nel caso
dell'Afghanistan si è trattato per lo più di una
rassegnata accettazione, nel caso del Libano si tratta di
una vera e propria campagna interventista, tanto che la
tradizionale Marcia della pace di Assisi è stata
quest'anno trasformata in una vera Marcia della guerra a
sostegno della missione in Libano.
Ciò non è frutto solo di un cattivo compromesso tra le
forze "pacifiste" e quelle liberali e
imperialiste nel "centro-sinistra", ma del
naturale "sviluppo" del riformismo in
socialsciovinismo. Nell'epoca dell'imperialismo lo
sfruttamento dei paesi arretrati diventa una condizione
necessaria per una politica di piccole e insignificanti
concessioni economiche ai lavoratori dei paesi ricchi:
l'appoggio delle forze riformiste dei paesi capitalisti
alla propria borghesia contro i popoli dei paesi oppressi
è la conseguenza politica più lampante di questa
situazione economica.
Ieri che le forze riformiste stavano all'opposizione
elaborarono la teoria della non-violenza assoluta quale
teoria della capitolazione alle guerre
imperialiste; oggi che stanno al governo gettano a mare
la vecchia non-violenza in luogo della "nuova"
teoria delle "missioni di pace" quale teoria
del sostegno alle guerre imperialiste.
Le due "teorie" sembrano inconciliabili, invece
non lo sono affatto. La teoria della "missione di
pace" è solo lo sviluppo dialettico e conseguente
della teoria della non violenza quando essa compie un
necessario salto di qualità e si trasforma nel proprio
opposto: è la dimostrazione più chiara della totale
bancarotta del pacifismo borghese.
Se ieri i "non-violenti" facevano comunque
parte del movimento contro la guerra, oggi i
"missionari di pace" fanno parte a pieno titolo
del fronte dell'imperialismo, hanno cioè definitivamente
compiuto la loro parabola dalla codarda capitolazione al
tradimento pieno.
(Articolo
de "Il Bolscevico", organo del PMLI, n.
39/2006)
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stamane, attivo
provinciale dei delegati Cgil-Cisl-Uil sulla Finanziaria
2007. pur tra
luci ed ombre, non vi è dubbio alcuno: l'impianto
generale e la struttura portante della finanziaria
sono compatibili con quanto Cgil-Cisl-Uil vanno chiedendo
da anni: per quanto riguarda la giustizia sociale ed
il rilancio dell'economia. pur tra luci ed ombre, ma non vi è alcun
dubbio.. tuttavia,
in ogni discorso possibile attorno alla finanziaria -
senza pregiudizi ideologici - mi rimane in bocca una
specie di retrogusto amaro, mi rimangono dei non
detti d'insoddisfazione (come zone grigie di un
ragionamento che non mi soddisfa, di un calcolo che
non mi quadra, come quando voglio dare il nome ad una
cosa ma trovo inadeguata ogni parola...)
stamane, forse, ho
scovato la parola giusta, ho trovato quel nome che mi
manca per rappresentare l'inadeguatezza sottile di
questa finanziaria - e di tutti i discorsi che si fanno
intorno ai malati gravi: l'economia e la società.
non sono un
economista, ma mi chiedo perché la sinistra
italiana e i sindacati (che di questa sinistra sono parte
fondamentale) non hanno mai fatto proprio l'Appello
degli Economisti. sono convinto che quella indicata nell'Appello
è la strada giusta per uscire dai tranelli del
neoliberismo e dalle truffe della finanza
globalizzata che stanno inchiodando al palo
intere generazioni di lavoratori precari, di pensionati
taglieggiati, di cittadini vessati,
ecc.ecc., in tutta Europa. rileggiamolo con attenzione - l'Appello
degli Economisti - e vedremo che davvero si
tratta dell'uovo di Colombo. però, bisognerebbe che la
"Politica" riacquistasse
finalmente autonomia e autorevolezza rispetto
all'Economia [il vero Dittatore del nostro tempo, il
Grande fratello che ci consuma la vita, in cambio di
niente] riprendiamoci
in mano il nostro futuro e quello dei nostri figli!
Lorenzo Mazzucato
(delegato Cgil)
@@@@@@@@@@@@@@@@@@
APPELLO DEGLI ECONOMISTI
Non abbattere il
debito pubblico ma stabilizzarlo e rilanciare il paese
Lesito delle elezioni
politiche di aprile e linsediamento del Governo
Prodi hanno suscitato presso la maggioranza degli
italiani una forte aspettativa di rilancio
delleconomia e di ridefinizione degli indirizzi di
politica economica a fini di equità e di
coesione sociale.
A questo scopo si rendono
indispensabili provvedimenti coraggiosi ed
incisivi: un programma di legislatura che
preveda ampi investimenti nel sistema delle
infrastrutture materiali e immateriali,
nellistruzione, nella formazione e nella ricerca
scientifica e tecnologica; un indirizzo di politica
industriale che spinga il nostro tessuto produttivo verso
un modello di sviluppo fondato sulle nuove tecnologie, e
che risulti equilibrato sul piano ambientale e
territoriale; una diversa disciplina del mercato del
lavoro e delle relazioni industriali che ripristini le
condizioni per la crescita dei salari reali, per il
superamento di una logica produttiva fondata sulla
precarietà del lavoro, per il rafforzamento degli
ammortizzatori sociali e più in generale degli strumenti
di welfare.
Si tratta di interventi
necessari, inderogabili, per il cui perseguimento
occorrono impegno e risorse.
La nostra preoccupazione è che
il Governo si stia orientando verso una politica generale
delle finanze pubbliche che precluderebbe ogni
possibilità di fornire risposta alle reali esigenze del
Paese. Dal Documento di programmazione economica e
finanziaria sembra infatti emergere una pesante manovra
di finanza pubblica volta a realizzare un rapido
abbattimento del rapporto tra debito pubblico e Pil. Il
perseguimento di un simile obiettivo richiederebbe
laccumulo di avanzi primari annuali estremamente
ampi. Ciò implicherebbetagli significativi
alla spesa pubblica, incrementi del prelievo
fiscale non reimpiegabili nelleconomia e,
presumibilmente, ulteriori dismissioni e privatizzazioni.
Se questo tipo di orientamento
prevalesse gli effetti sul sistema economico e sociale
potrebbero rivelarsi deleteri. Da
un lato, si avrebbe una ulteriore compressione della
domanda aggregata e quindi dei livelli di attività
economica, con riflessi negativi sullo stesso bilancio
pubblico. Dallaltro, si rinuncerebbe ad impiegare
risorse reali e finanziarie in politiche strutturali
utili al rilancio e allo sviluppo economico-sociale.
Ci preme mettere in luce che
questa strada non è per nulla obbligata. Non sussistono,
infatti, né vincoli istituzionali né imperativi
tecnico-economici che impongano un abbattimento del
debito.
In primo luogo,
lunificazione monetaria europea e la presenza di un
mercato finanziario integrato hanno fortemente
ridimensionato i differenziali tra i tassi
dinteresse dei paesi membri, e non sussiste alcun
motivo tecnicamente plausibile per attendersi incrementi
significativi e duraturi di tali differenziali. Qualsiasi
riferimento ad eventuali reazioni avverse da parte dei
mercati andrebbe pertanto seriamente
argomentato sul piano tecnico-scientifico,
anziché essere semplicisticamente evocato.
In secondo luogo, lanalisi
economica mostra che non esiste ununica
definizione plausibile di sostenibilità delle
finanze pubbliche: per ogni data differenza tra i tassi
dinteresse e i tassi di crescita del reddito,
esistono molteplici combinazioni possibili del deficit e
del debito, tutte sostenibili sul piano della stretta
logica economica. Questo significa che i vincoli del
deficit al 3% e del debito al 60% del Pil, sanciti dal
Trattato dellUnione, non godono in quanto tali di
alcuna legittimazione scientifica. Nulla impedisce,
pertanto, che essi vengano sottoposti ad una nuova e
diversa valutazione in sede politica, nazionale ed
europea. A questo riguardo, è opportuno ricordare che il
Trattato dellUnione non prevede sanzioni rispetto
al vincolo del debito pubblico al 60%, e che le sanzioni
previste per i paesi il cui deficit superasse il limite
del 3% non sono finora mai state applicate, nonostante le
significative e ripetute violazioni.
Non vi sono dunque ragioni
valide per imporre al Paese unazione di drastico
abbattimento del debito; il nostro sistema
economico attende piuttosto una ripresa responsabile,
razionale, innovatrice, dellintervento pubblico
nelleconomia. A questo scopo, noi proponiamo che il
Governo fissi come obiettivo generale di legislatura non
labbattimento ma la sola stabilizzazione
del debito rispetto al Pil, determinando
conseguentemente il valore del rapporto tra deficit e
Pil. Leventuale esigenza di ulteriori riduzioni del
rapporto tra deficit e Pil - da verificare nelle sedi del
Parlamento nazionale, della Commissione e del Consiglio
europeo - andrebbe comunque esaminata tenendo conto della
mancata applicazione di sanzioni nei confronti di quei
paesi membri che negli anni passati presentavano
disavanzi eccessivi. Inoltre, più in
generale, qualsiasi intervento sul disavanzo andrebbe
valutato alla luce della necessità di muoversi sempre ed
esclusivamente in termini anti-ciclici rispetto
allandamento delleconomia e di sostenere più
elevati sentieri di sviluppo del reddito e
delloccupazione.
Sono queste, riteniamo, le
opzioni di finanza pubblica che nella presente situazione
risultanocompatibili con i fondamentali
obiettivi di sviluppo economico del Paese e di rispetto
dei più elementari principi di equità e di giustizia
sociale.
ADESIONI
Riccardo Realfonzo (Università del
Sannio), Bruno Bosco (Università di Milano Bicocca),
Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Roberto
Ciccone (Università di Roma Tre), Nicola Acocella
(Università di Roma La Sapienza), Roberto
Artoni (Università Bocconi di Milano), Enrico Bellino
(Università Cattolica di Milano), Mario Biagioli
(Università di Parma), Adriano Birolo (Università di
Padova), Paolo Bosi (Università di Modena e Reggio
Emilia), Dino Bruno (economista), Mario Cassetti
(Università di Brescia), Luigi Cavallaro
(editorialista), Valerio Cerretano (Libera Università di
Bolzano), Sergio Cesaratto (Università di Siena),
Guglielmo Chiodi (Università di Roma La
Sapienza), Francesca Corrado (Università di Modena
e Reggio Emilia), Carmela DApice (Università di
Roma Tre), Pasquale De Muro (Università di Roma Tre),
Giancarlo de Vivo (Università di Napoli Federico
II), Amedeo Di Maio (Università di Napoli
LOrientale), Leonardo Ditta
(Università di Roma La Sapienza), Maria
Giuseppina Eboli (Università di Roma La
Sapienza), Marianna Epicoco (Università di
Milano), Sergio Ferrari (ENEA), Stefano Figuera
(Università di Catania), Luciano Fiordoni (economista
MPS), Massimo Florio (Università di Milano), Giuseppe
Fontana (Università del Sannio), Guglielmo Forges
Davanzati (Università di Lecce), Saverio M. Fratini
(Università di Roma Tre), Andrea Fumagalli (Università
di Pavia), Pierangelo Garegnani (Università di Roma
Tre), Francesco Garibaldo (Istituto per il Lavoro),
Giorgio Gattei (Università di Bologna), Augusto Graziani
(Università di Roma La Sapienza), Bruno
Jossa (Università di Napoli Federico II),
Antonio Lavorato (economista), Sergio Levrero
(Università di Roma Tre), Stefano Lucarelli (Università
Politecnica delle Marche), Vincenzo Maffeo (Università
di Roma La Sapienza), Sandro Magni
(economista), Giovanni Mazzetti (Università della
Calabria), Franca Meloni (Università di Napoli
Federico II), Luca Michelini (Università
LUM), Nerio Naldi (Università di Roma La
Sapienza), Guido Ortona (Università del Piemonte
Orientale), Giulio Palermo (Università di Brescia),
Antonella Palumbo (Università di Roma Tre), Marco
Passarella (Università di Firenze), Sergio Parrinello
(Università di Roma La Sapienza), Fabio
Petri (Università di Siena), Antonella Picchio
(Università di Modena e Reggio Emilia), Marco Piccioni
(Università di Napoli Federico II),
Francesco Pingue (Università di Napoli Federico
II), Massimo Pivetti (Università di Roma La
Sapienza), Felice Roberto Pizzuti (Università di
Roma La Sapienza), Giuseppe Privitera
(Università di Catania), Paolo Ramazzotti (Università
di Macerata), Fabio Ravagnani (Università di Roma
La Sapienza), Angelo Reati (economista),
Roberto Romano (Ufficio Studi Cgil), Eleonora Sanfilippo
(Università di Roma La Sapienza), Alessandro
Santoro (Università di Milano Bicocca), Francesco
Scacciati (Università di Torino), Ernesto Screpanti
(Università di Siena), Riccardo Soliani (Università di
Genova), Arsenio Stabile (Università di Siena),
Antonella Stirati (Università di Roma Tre), Francesca
Stroffolini (Università di Napoli Federico
II), Cristina Tajani (Università di Milano), Mario
Tiberi (Università di Roma La Sapienza),
Guido Tortorella Esposito (Università del Sannio),
Attilio Trezzini (Università di Roma Tre), Giovanna
Vertova (Università di Bergamo), Carmen Vita
(Università del Sannio), Adelino Zanini (Università
Politecnica delle Marche).
http://www.appellodeglieconomisti.com
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Il governo Prodi
vara la Finanziaria 2007 di 33,4 miliardi di euro, tra le
più pesanti del dopoguerra, anche con i voti del PRC e
del PdCI
La stangata c'è e
colpisce anche i poveri
Tagli drastici alle
Regioni e agli enti locali. Scippato il Tfr dei
lavoratori. Aumentati i ticket sanitari. Solo rinviate le
ennesime controriforme su pensioni e pubblica
amministrazione. Solo 6 su 10 il turn-over nel pubblico
impiego. Via libera a nuove tasse comunali. Parziale e
insufficiente redistribuzione a favore dei redditi
medio-bassi. Soldi alle imprese. Aumentate le spese
militari
I vertici
sindacali confederali danno il loro via libera per un
"piatto di lenticchie"
Il governo dell'Unione di
Prodi ha varato la sua prima manovra economica e
finanziaria per il 2007, con proiezione triennale e
quinquennale per alcuni aspetti che riguardano i dati
macroeconomici (Pil, debito, tasso occupazionale, ecc.) e
l'applicazione di alcune misure approvate. Lo ha fatto
nella riunione del consiglio dei ministri di sabato 30
settembre, durata ben 10 ore e con il voto unanime di
tutti i ministri, ivi compresi quelli del PRC, del PdCI e
dei Verdi. Si tratta di una manovra molta ampia e
complessa (oltre 200 articoli) composta: da un disegno di
legge che contiene la legge finanziaria, di un decreto
legge contenente vari provvedimenti fiscali e di una
legge delega concernente le misure, da precisare nei
prossimi mesi, sulla tassazione delle rendite,
l'aggiornamento degli estimi catastali, i metodi di
accertamento e di riscossione. Si tratta di una manovra
economica fiscale e finanziaria tra le più pesanti, per
dimensione, degli ultimi 60 anni, seconda solo a quella
del governo Amato del '92 (93 mila miliardi di lire).
Le cifre parlano da sole. Il complesso dei provvedimenti
varati ammontano a 33,4 miliardi di euro. Così
suddivisi: 20 miliardi e 395 milioni di euro di tagli ed
entrate extrafiscali e 13 miliardi di euro di nuove
entrate. Nella prima voce troviamo: tagli a enti locali e
patto di stabilità per 4,3 miliardi di euro; minori
spese di 3 miliardi euro nella sanità; 5,265 miliardi in
campo previdenziale; 5 miliardi dal Tfr dei lavoratori;
2,83 miliardi di euro di risparmi dalla pubblica
amministrazione. Sono tagli strutturali, chiarisce Padoa
Schioppa, che permettono già nel 2007 di portare il
rapporto debito-Pil al 2,8%, cioè sotto quel 3%
richiesto dalla Unione europea.
La Finanziaria uscita dal consiglio dei ministri, frutto
di un compromesso tra le varie "anime" della
maggioranza di governo, è risultata parzialmente
differente da quanto previsto nel Dpef (Documento di
programmazione economica) e nelle bozze che giravano sui
tavoli nei giorni immediatamente prima del varo
ufficiale.
Parzialmente differente
nell'entità, si parlava di 35 miliardi, poi di 30 e
infine la scelta è caduta sui 33,4. Parzialmente diversa
nei contenuti, visto che nei due casi precedenti erano
state prospettate misure ancora più pesanti nei
confronti dei lavoratori pubblici, sulla previdenza, la
scuola. Mitigati anche a seguito della minaccia dello
sciopero generale dei sindacati e dal possibile voto
contrario dei partiti di Bertinotti e Diliberto.
Ma questa mossa tattica dei volponi Prodi e dal ministro
per l'Economia Padoa Schioppa non deve ingannare sulla
reale natura della Finanziaria. Non bisogna dar troppo
credito alle dichiarazioni demagogiche e con poco
fondamento del presidente del consiglio quando afferma
che la sua manovra economica è all'insegna della
giustizia sociale e a favore dei ceti più deboli
fortemente impoveriti negli ultimi anni in conseguenza
delle politiche liberiste del precedente governo di
Berlusconi. Né bisogna dar credito agli apprezzamenti
davvero esagerati espressi da Bertinotti, dal ministro
Ferrero e dal segretario del PRC Giordano che parlano
addirittura di una "svolta" di politica
economica e fiscale, quasi che la Finanziaria approvata
sia più loro che di Prodi e Padoa Schioppa. Noi non
vediamo nessuna svolta. Vediamo solo delle parziali e
insufficienti modifiche rispetto alla politica
berlusconiana, nella gestione del bilancio, in campo
fiscale, economico e sociale.
La manovra prodiana va valutata nel suo insieme. Non
perdendo di vista, anzi denunciando con forza i tagli
alla spesa sociale e pubblica, che ci sono e tanti per
via diretta e per via indiretta, denunciando il rincaro
delle vecchie e l'immissione di nuove tasse che regioni
ed enti locali dovranno per forza di cose attuare;
denunciando l'estensione dei ticket sanitari, lo scippo
del trattamento di fine rapporto di lavoro (Tfr) dei
lavoratori, il dilazionamento dei finanziamenti per i
contratti del pubblico impiego, la parziale copertura del
turn-over, l'aumento delle spese militari per i
contingenti all'estero, le regalie fiscali e in soldi ai
padroni. Denunciando le misure che ci sono e quelle che
mancano in materia di precariato e "mercato del
lavoro", che rimane sostanzialmente regolato dalla
legge 30.
Considerando, inoltre,
che le controriforme (ennesime) su pensioni e pubblica
amministrazione annunciate nel Dpef sono solo state
rinviate di qualche mese. "Anche i sindacati -
afferma il ministro degli Esteri e vicepremier D'Alema -
lo devono sapere. Da marzo sulle pensioni noi puntiamo a
una revisione profonda del sistema previdenziale". E
per quanto riguarda la pubblica amministrazione,
"faremo anche questa riforma - aggiunge - che in
Finanziaria abbiamo solo parzialmente avviato.
Una ragionevole
riduzione del personale... si farà nel tempo". Gli
fa eco il ministro DS per le Attività produttive Bersani
che dice: "non potevamo fare ora la riforma delle
pensioni, ma con questa manovra abbiamo preso un accordo
con il sindacato per un'ulteriore fase di riforma del
sistema previdenziale da chiudere entro marzo". Se
si tiene presente questo quadro d'insieme, ne esce molto
ridimensionata la redistribuzione della ricchezza a
favore dei redditi medio-bassi attraverso la modifica
dell'Irpef (Imposta sulle persone fisiche) e la riduzione
del "cuneo fiscale".
I PROVVEDIMENTI
Enti locali. Un capitolo tra i più pesanti
e peggiori della Finanziaria riguarda le Regioni e gli
enti locali ai quali viene imposto una riduzione delle
spese pari a 4,3 miliardi di euro (2,2, alle province e
ai comuni). Un salasso persino più consistente di quello
attuato da Berlusconi (1,8 miliardi) con la Finanziaria
2006 con conseguenze devastanti per l'amministrazione
delle città, l'erogazione dei servizi pubblici e il
sostentamento dell'assistenza sociale che ormai passa in
gran parte a livello territoriale. Accanto ai tagli,
aumento delle vecchie tasse e immissione di nuove: questo
dovranno fare gli amministratori regionali e comunali per
fronteggiare le esigenze di bilancio. Quindi rincari
nelle addizionali Irpef, nell'Ici e utilizzo delle nuove
imposte previste in Finanziaria, come quella di scopo e
quella di soggiorno. Il tutto nel nome del federalismo
fiscale. Appare una beffa la concessione
dell'innalzamento del 2,6% del tetto dell'indebitamento.
Sanità. Un altro capitolo non così
bello come si vorrebbe far credere è quello della
sanità. Qui con una mano si dà e con l'altra si piglia.
Nel senso che nel prossimo anno è prevista una
"razionalizzazione" della spesa con un
risparmio di 3 miliardi di euro. Gli stessi 3 miliardi
saranno destinati in un arco di tre anni
all'ammodernamento degli ospedali e all'apertura di nuovi
servizi sanitari. Più un miliardo per le Regioni in
maggiori difficoltà finanziarie. L'aspetto più odioso:
l'imposizione di nuovi ticket sanitari. Il ticket sul
pronto soccorso di 23 euro per i cosiddetti "codici
bianchi", cioè non urgenti + altri 18 euro (41 in
totale) se, nello steso caso, saranno fatti accertamenti
diagnostici. Una quota fissa di 10 euro a ricetta per
visite specialistiche, che si vanno ad aggiungere alle
spese per l'impegnativa già in vigore.
Pubblico
impiego. Anche
se le misure più dure saranno prese in seguito, la
manovra non prevede nulla di buono, anzi. Il governo, è
vero, ha aumentato gli stanziamenti per il rinnovo dei
contratti di lavoro, peraltro scaduti da diversi mesi, a
3.225 miliardi di euro ma dilazionati, per due terzi,nel
2008. Questo significa, di fatto, uno slittamento dei
tempi contrattuali e perdite di stipendio per gli
interessati. La riduzione del personale passa da una
copertura parziale del turn over, che non va oltre la
sostituzione di 6 dipendenti, di cui 4 precari, su 10 che
vanno in pensione.
Previdenza. In attesa della controriforma
fissata per marzo prossimo, scampato il pericolo della
chiusura di una finestra delle quattro previste nel 2007
per le pensioni di anzianità, la manovra stabilisce
l'aumento dei contributi previdenziali per i lavoratori
parasubordinati (i co.co.co) portandoli dal 18,5% al 23%
e ai lavoratori autonomi dal 17,5 al 20% dal 1° gennaio
2008. Oltre a ciò il governo scippa il Tfr di quei
lavoratori che non hanno scelto se destinarlo ai fondi
oppure mantenerlo, per un importo pari al 60%, da versare
in un nuovo fondo Inps. Così si intende anticipare
l'entrata in vigore della "riforma" della
previdenza complementare Maroni al 1° luglio 2007. Per i
datori di lavoro, che tanto sbraitano come fossero soldi
loro, sono fissate delle compensazioni con l'esonero dal
versamento dei contributi sociali dovuti per assegni
familiari, maternità, e disoccupazione.
Scuola. Nella Finanziaria c'è la
promessa dell'assunzione di 150 mila docenti precari nei
prossimi tre anni. A fronte però, di una uscita per
pensionamento di 280 mila unità solo nel 2007. A questo
proposito è nota l'intenzione del governo di alzare il
rapporto tra docenti e alunni (compresi quelli di
appoggio) creando inevitabilmente personale in
"esubero".
Spese militari. Aumenta invece la spesa per il
finanziamento dei contingenti militari all'estero: Iraq,
Afghanistan, Libano, ecc. E non solo. L'art.188 della
Finanziaria istituisce un apposito fondo attivato con
decreto legge semestrale del governo, previa informazione
del presidente della repubblica, che salta e rende
superflua l'approvazione del parlamento.
Irpef. La modifica dell'Irpef, sia
nella parte degli scaglioni di reddito, sia in quella
dell'aliquota d'imposta che nelle detrazioni è
considerata dal governo la misura principe attraverso la
quale passa la sventolata redistribuzione della ricchezza
a favore dei redditi medio-bassi. C'è un aumento della
no-tax area, cioè delle esenzioni, che passa da 7 mila a
7.500 euro per i pensionati e da 7.500 a 8.000 per i
lavoratori. C'è un ritorno a un sistema a cinque
aliquote (23% su 15.000 euro; 27% da 15 a 28.000 euro;
38% da 28 a 55 mila euro; 41% da 55 a 75.000 euro; 43%
oltre 75.000 euro), che prendono il posto delle vecchie
quattro della controriforma Tremonti (23% fino a 26 mila
euro; 33% da 26 a 33.500 euro; 39% da 33.550 a 100 mila
euro: 43% oltre questa soglia). C'è un sistema di
detrazioni finalizzato a sgravare le famiglie numerose,
detrazioni che decrescono e si annullano in relazione al
reddito percepito. Non c'è dubbio che questo sistema
aumenta il prelievo sui redditi alti (oltre i 75.000
euro) e riduce quelli inferiori ai 40 mila. Ma va detto
con tutta chiarezza che questa redistribuzione in termini
concreti, in soldi, è poca cosa. Non è sufficiente
nemmeno a recuperare quanto scippato dal governo
Berlusconi. Si poteva e si doveva fare di più!
Cuneo fiscale. Nella manovra è confermata la
riduzione di 5 punti del cuneo fiscale (9 miliardi di
euro) da dividere 60% alle aziende e 40% ai lavoratori,
sia pure dilazionata nei prossimi due anni. Per le
imprese questo grosso bonus si concretizza con uno sconto
dell'Irap e il riconoscimento di un importo deducibile,
pari a 5 mila euro, su base annua per ogni dipendente a
tempo indeterminato impiegato nel periodo dell'imposta;
deduzione che sale a 10.000 euro per le regioni del
Mezzogiorno.
Altre misure
fiscali. Riguardano
gli studi di settore che saranno aggiornati ogni
tre anni anziché quattro e la revisione dell'aliquota di
imposizione sulle rendite finanziarie (titoli di Stato e
obbligazioni di nuova emissione, plusvalenze azionarie,
fondi d'investimento, dividendi) che passa dal 12,5% al
20%; mentre per i depositi e le obbligazioni sotto i 18
mesi l'aliquota scende dal 27 al 20%. Il tutto però
farà parte di una legge delega affidata al ministero per
l'economia da varare nei prossimi sei mesi.
Queste nell'essenziale le misure principali della
Finanziaria. Le quali hanno trovato il consenso immediato
e servizievole dei vertici sindacali confederali. I
segretari di Cgil, Cisl e Uil si sono espressi
pubblicamente a favore della manovra. Ad Epifani, Bonanni
e Angeletti è stato sufficiente che il governo
correggesse il tiro sui contratti del pubblico impiego,
separasse la manovra finanziaria e la "riforma"
previdenziale, operasse la suddetta modifica dell'Irpef
per cancellare ogni proposito di mobilitazione. Insomma
si sono accontentati del solito "piatto di
lenticchie". Diverso il giudizio dei sindacati
extraconfederali che hanno espresso un netto dissenso e
promettono mobilitazioni. E i leader della
sinistra sindacale, i vari Rinaldini e Cremaschi, non
hanno nulla da dire?
Occorre fare un'opera di sensibilizzazione e di
chiarificazione tra i lavoratori e le masse popolari per
sviluppare, da sinistra, un movimento critico e di lotta.
Anche perché questo testo della Finanziaria potrebbe
anche peggiorare, e tanto, nel corso della discussione
parlamentare. Non solo ad opera dell'azione della Casa
del fascio, ma anche di parti dell'Unione (Margherita,
Udeur, Rosa nel pugno) che hanno già detto di voler
modificare da destra la manovra. Il
"centro-destra" ha anche minacciato una
manifestazione.
Sarebbe davvero un grave errore lasciare ad esso il
monopolio della piazza!
In ogni caso la stangata c'è e colpisce anche i poveri,
e per questo va respinta.
(Articolo
de "Il Bolscevico", organo del PMLI, n.
36/2006)
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La Finanziaria non soddisfa
gli atipici
Le critiche di NIdiL alla legge
finanziaria. Mancano le tutele per la gravidanza a
rischio e l'indennità di malattia rischia di essere
inesigibile. Senza l'aggancio dei compensi ai salari dei
dipendenti, l'aumento della contribuzione Inps rischia di
scaricarsi sui redditi dei collaboratori. NIdiL chiede la
stabilizzazione dei precari nella pubblica
amministrazione.
Ad una prima lettura della Finanziaria 2007 NIdiL Cgil,
pur riconoscendo la positività del percorso di
innalzamento dellaliquota contributiva e dopo aver
avanzato assieme alla CGIL e alle altre organizzazioni
sindacali precise richieste al Governo per cominciare ad
affrontare i problemi della parasubordinazione, ritiene
decisamente insufficienti per i precari le misure
contenute nella legge e, oltre le ricadute negative di
alcuni provvedimenti, denuncia il rischio di creare
ulteriori sperequazioni per lavoratori già svantaggiati.
Infatti la richiesta di aumentare, tramite linnalzamento
dellaliquota contributiva, il costo del lavoro
parasubordinato per scoraggiarne luso improprio,
non è stata accompagnata, nella finanziaria, da criteri
precisi per definire i compensi dei collaboratori. In
questo modo laumento dellaliquota verrà
scaricato ancora una volta sui lavoratori parasubordinati
diminuendo il loro già esiguo compenso netto. Saranno
purtroppo ancora una volta i lavoratori a pagare.
Non cè nessuna norma per stabilire che i compensi
dei parasubordinati non siano inferiori a quelli previsti
nei contratti collettivi nazionali per i dipendenti con
riferimento ad analoghe professionalità.
Per le partita iva individuali poi, laumento sarà
ancora più pesante, non essendoci alcun riequilibrio fra
quanto pagato dal lavoratore e quanto dal datore di
lavoro.
Questi lavoratori, a
differenza degli altri, dovranno pagarsi per intero i
contributi.
Lassenza di costi previdenziali a carico dei
committenti è quindi un incentivo allutilizzo
improprio di lavoratori con partita Iva individuale.
Laumento della contribuzione non è poi
accompagnato da un incremento delle tutele e delle
prestazioni sociali a favore dei collaboratori, che a
causa della loro condizione lavorativa ne avrebbero reale
bisogno.
Rimangono insolute infatti le questioni riguardanti la
tutela della gravidanza a rischio per le collaboratrici e
il riconoscimento della disoccupazione con requisiti
ridotti a lavoratori che si caratterizzano per una
forte discontinuità lavorativa.
In più NIdiL e la Cgil avevano chiesto al Governo di
sbloccare laccesso alla formazione per i
parasubordinati, rendendo esigibili e strutturali le
attuali risorse accantonate nel Fondo Inps. Anche di
questo in Finanziaria non vi è traccia.
E senza dubbio positivo aver previsto lindennizzo
per malattia domiciliare e una indennità economica per
congedo parentale. Questi provvedimenti, però, sono
parziali (al massimo 18 euro al giorno per malattia,
dal quarto giorno e per un massimo di 20 giorni
lanno) o addirittura inesigibili dai lavoratori
e si traducono in poco più di una mancia.
Lindennità economica per congedo parentale,
invece, non è affatto esigibile al momento, poiché i
parasubordinati non hanno il diritto alla sospensione
della prestazione per congedi, né è regolamentato
lutilizzo nei contratti individuali.
Infine, nel Pubblico Impiego, non sono poi previste
né stabilizzazioni dei parasubordinati, né sono
riconosciuti i periodi svolti dai collaboratori ai fini
dei punteggi nei concorsi. Questa iniquità riguarda
anche i lavoratori in somministrazione a tempo
determinato (ex interinali).
Per ultimo sono previsti tagli sulle collaborazioni della
pubblica amministrazione, ciò si tradurrà in
uninevitabile licenziamento di migliaia di Co.Co.Co
del pubblico impiego.
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