CRITICHE ALLA FINANZIARIA 2006 - 2007

Carissimi,               a poche ore  dalla mia partenza per il " Centro Congressi  Cavour "  di Roma  (  riunione  nazionale compagni mozione " Sinistra D.S. per il SOCIALISMO" in merito  alla situazione politica del Paese ) , leggo , praticamente su tutti i giornali , l'ennesima  "scivolata  negativa " del  Governo Prodi  sulle promesse programmatiche - non mantenute- al  Popolo dei lavoratori, operai, pensionati, studenti , disoccupati, ecc. .....!                  Infatti ,da una più attenta lettura della Finanziaria   e dei documenti  ad essa collegati ,si svelano molti elementi  preoccupanti  tra questi i più preoccupanti sono :                        1°) la beffa del cuneo fiscale per i lavoratori " con una mano danno qualche cosa e dall'altra se lo riprendono con le aliquote".                       2°) si attuano, con abbondanza di risorse stanziate per più anni , tutte le spese riguardanti le missioni militari ed il riarmo/ aggiornamento  del nostro sistema " di difesa " ( sic!).          Questo continuo  degrado  ed  infinocchiamento  del popolo da parte del Governo porta Prodi , ormai al "baratro" della sua fine nel Paese e nel  Parlamento.            Ciò avrebbe  conseguenze clamorose che non escludono il ricorso di elezioni politiche anticipate : elezioni politicamente  e numericamente già perse in queste condizioni  pessime con  gli attuali rapporti  tra governanti e masse popolari.            Siamo in tempo per evitare tale catastrofe istituzionale ?             Penso di SI  se  si rivede nel profondo le cifre e  stessa filosofia sociale della Finanziaria riportandola  alle genuina formulazione  nel rispetto delle  famose 200 pagine del programma sul quale Prodi ha avuto il voto della maggioranza ( risicata) degli italiani.           Inoltre ,si deve perentoriamente raccomandare , alle decine di parlamentari e senatori  del Centro Sinistra ,  di smetterla di perdere  del tempo  preziosissimo cercando di mettere in piedi  la chimera ( rilevatasi sempre più   un " castello di carte " ) denominato  Partito Democratico (  D.S. + Margherita), mentre la Casa democratica brucia allontanandosi  pericolosamente  dai suoi garanti  più fedeli ( operai  e produttori di ricchezza)  che richiedono un pò più di equità e giustizia sociale.                             Cordialità  da      

Ugo Montecchi

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Per soddisfare le ambizioni interventiste dell'imperialismo italiano

LA FINANZIARIA DI PRODI AUMENTA VERTIGINOSAMENTE LE SPESE MILITARI

4,5 miliardi in più nel triennio per nuovi armamenti offensivi

PRC, PdCI E VERDI IN SILENZIO FANNO DA COPERTURA

Qui non c'è gara: Prodi batte nettamente Berlusconi. Nel senso peggiore del termine. Nel senso che il governo dell'Unione aumenta molto di più le spese militari rispetto al precedente esecutivo della Casa del fascio. E lo fa per dare sostegno finanziario alla politica imperialista e interventista che il premier democristiano bolognese e l'ex comunista revisionista D'Alema hanno rilanciato alla grande da quando sono giunti alla presidenza del Consiglio il primo, e al ministero degli Esteri il secondo; che si concreta col mantenimento e l'ampliamento dei contingenti militari all'estero, di cui quello in Libano è solo l'ultimo, con la dotazione di nuove, potenti, sofisticate armi adatte all'offensiva e alla repressione della resistenza dei popoli invasi, con il completamento del modello dell'esercito, da quello più mastodontico composto da militi di leva e quello composto da militi professionisti super addestrati e profumatamente pagati.

Le cifre dedicate al capitolo spese militari, che stanno scritte nella Finanziaria, approvata dal governo e ora in discussione in parlamento, sono chiare e indiscutibili. Cifre comunque ulteriormente esplicitate, nel dettaglio, nella Nota aggiuntiva del ministro della Difesa Parisi, presentata alla Commissione Difesa della Camera. Per chi non vuol vedere e non vuol sentire, aggiungiamo, come il PRC, il PdCI e i Verdi che su ciò fino ad ora hanno calato un assordante silenzio. Si parla di ben 4,5 miliardi di euro in più per il prossimo triennio, che si aggiungono allo stanziamento complessivo, da destinare alla dotazione di "armi tecnologiche".

Nell'articolo 13 si legge: "Per il finanziamento degli interventi a sostegno dell'economia nel settore dell'industria nazionale ad elevato contenuto tecnologico è istituito un apposito fondo iscritto nello stato di previsione del ministero della Difesa, con una dotazione di 1.700 milioni di euro per l'anno 2007, di 1.550 milioni di euro per l'anno 2008 e di 1.200 milioni di euro per il 2009"

La lista della spesa continua nell'articolo 187 dove è segnalato uno stanziamento di 400 milioni di euro per il 2007 e 500 milioni per il 2008 e 2009 destinati alla "manutenzione ordinaria e straordinaria dei mezzi, materiali, sistemi, infrastrutture, equipaggiamenti nonché adeguamento delle capacità operative e dei livelli di efficenza anche in funzione di missioni internazionali di pace". E non è finita qui. Con l'articolo 110 si rifinanziano le attività già previste a favore del settore aeronautico e che ammontano a 100 milioni per il 2007, 110 per il 2008 e altri 100 milioni di euro per il 2009. Si tratta degli aerei Eurofighter, lasciati appositamente fuori dall'articolo 113 affinché abbiano un ulteriore specifico finanziamento.

Nella Finanziaria di Prodi (e Bertinotti) ci sono almeno altri due provvedimenti a favore del ministero della Difesa: il primo riguarda la possibilità di vendere le caserme dismesse e incamerare il ricavato, invece che inviarlo al ministero del Tesoro come avviene nella vendita di altri immobili della pubblica amministrazione. E anche questo è un modo per aumentare il finanziamento delle spese militari; il secondo (articolo 57, quarto comma) autorizza le forze armate a non applicare il blocco al 20% del turn-over, previsto invece per tutti gli altri ministeri della pubblica amministrazione. Insomma non ci sono limiti all'assunzione di nuovi militari, se non quelli dettati dalle disponibilità di bilancio.

Non va dimenticato l'articolo 188 della Finanziaria che rende automatico il meccanismo di finanziamento (un miliardo l'anno) per le missioni militari all'estero. Passando così il potere decisionale dal parlamento all'esecutivo. Per superare le proteste che questo provvedimento ha sollevato il governo, è vero, si è impegnato a cancellarlo. Ma a tutt'oggi, dell'emendamento promesso non c'è traccia.

Da un attenta lettura della legge di bilancio si scopre che non tutte le spese militari sono segnate nei conti del ministero della Difesa. Ce ne sono altre "nascoste" furbescamente tra i finanziamenti assegnati al ministero "per lo sviluppo economico" elargiti all'industria delle armi. E' il caso del programma per la costruzione di 10 unità navali "Fremm" ribattezzate dalla marina italiana "Rinascimento", un programma già avviato dal governo Berlusconi con 30 milioni di euro per il 2006 e 60 milioni per il 2007. Stanziamenti ulteriormente aumentati da Prodi e Padoa Schioppa a 135 milioni di euro per il 2008 e 2009.

Dalla Nota del ministro Parisi si apprende che, nel 2007 la spesa complessiva del comparto Difesa ammonterà a 18.134 miliardi di euro. Di questi 12.437 miliardi vanno a Esercito, Marina e Aeronautica; 5.282 miliardi vanno ai carabinieri; 111 milioni per le funzioni esterne; 304 milioni servono per coprire le pensioni. Ma nel conto ci vanno aggiunti gli stanziamenti sanciti negli art.113 e 187, portando la spesa a oltre 20 miliardi di euro.

Nel capitolo dedicato all'ammodernamento e rinnovamento dell'apparato militare il grosso dei piani d'investimento va per la costruzione di aerei (1.359 miliardi) ossia gli Ioint. Strike Fighter, un programma questo a cui partecipa anche Israele, e ancora gli elicotteri NH-90 funzionali allo spostamento rapido di truppe in territori di guerra. A ciò vanno aggiunti i già citati Eurofighter che saranno completati nel 2015. Senza dimenticare l'adeguamento dei Tornado e degli Amx. Altri voci importanti di questo programma d'investimenti riguardano i sistemi missilistici (435 milioni) e mezzi navali (535 milioni) che prevedono anche la costosissima portaerei Cavour, altre due nuove fregate della Classe Orizzonte e due sommergibili.

Se questo contesto che abbiamo delineato è esatto, e lo è, si pone una domanda ineludibile: non diciamo i vertici dei partiti falsamente comunisti di Bertinotti e Diliberto, perché questi si sono ormai venduti l'anima al diavolo (capitalista), ma la base e gli elettori di questi partiti, più in generale il movimento che in questi anni si è battuto contro le guerre di aggressione, contro l'interventismo militare italiano nei vari scacchieri di guerra, contro l'aumento delle spese militari a danno di quelle sociali, contro la militarizzazione dell'apparato industriale, con Finmeccanica e Fincantieri con un ruolo di punta, possono accettare questa politica militaristica e imperialista del governo Prodi? Non possono! E allora bisogna dare fiato alla protesta, farsi sentire nelle piazze, mandando al quel paese i suddetti vertici che non li rappresentano più.

Il filo nero della politica estera italiana: dall'Iraq al Libano

Milioni di elettori hanno votato il "centro-sinistra" perché speravano in un netto cambiamento di rotta rispetto alla precedente politica di Berlusconi, Bossi e Fini. È innegabile che, giorno dopo giorno, il nuovo governo distrugge sempre più questa ingenua ma tenace illusione.
Qui ci limiteremo all'analisi della politica estera, poiché è il settore dove forse più grandi apparivano le possibilità di cambiamento davanti agli occhi delle masse di sinistra, e poiché in questo settore rientra il tema attualmente più scottante, ovvero la missione militare in Libano.
All'indomani dell'insediamento del nuovo governo, il ministro degli Esteri D'Alema, già conosciuto nel '99 come capo del governo italiano, tra i bombardatori dei Balcani, ha assicurato il rientro dei soldati italiani dall'Iraq entro l'autunno, negando il ritiro immediato. Ai dirigenti del "centro-sinistra", impegnati a tenere i piedi su due staffe, una tra il mondo dell'alta finanza, della grande imprenditoria, del Vaticano, dei circoli americani e massonici, e finanche della mafia, e l'altro tra il proprio elettorato dinanzi al quale non possono permettersi di perdere completamente la faccia, non è parso vero di "accontentare" i movimenti pacifisti semplicemente urlando che avrebbero mantenuto una promessa di Berlusconi: quella del ritiro dei soldati dall'Iraq entro l'inverno, appena anticipata all'autunno.
Contemporaneamente è stata confermata la presenza militare dell'Italia nell'occupazione dell'Afghanistan che prosegue da ormai cinque anni. Presenza che non solo non si è alleggerita, ma è stata anzi aumentata sia quantitativamente, con l'invio di ulteriori forze, che qualitativamente, con l'assunzione del comando della Task Force nel Mediterraneo, la quale tra l'altro compie anche operazioni di sostegno alla missione irakena.
Per mettere a tacere la critica più o meno timida di alcuni parlamentari "dissidenti" della "sinistra radicale" riguardo la conferma della missione afghana, l'Unione ha sostenuto di aver dovuto applicare ciò che era scritto sul Programma di governo per obbedire alla volontà degli elettori. Come se i 20 milioni di italiani, molto spesso lavoratori, che hanno sbarrato un qualche simbolo del "centro-sinistra", avessero letto le 281 pagine del Programma, come se lo avessero anzi scritto loro stessi e lo avessero accettato in ogni singola parte. Tale ipocrita giustificazione però, oltre a ricordare che non era poi così difficile nutrire sfiducia nella politica estera del nuovo governo prima che questo la spostasse dalla carta alla realtà, mette in luce il carattere pienamente presidenzialista del "centro-sinistra", in tutto e per tutto omologato alla seconda repubblica.
Come se non bastasse, Prodi e Parisi non hanno esitato a promuovere in prima linea la missione militare Onu in Libano, sulla quale va fatta un po' di chiarezza.
Essa viene spacciata per una missione di pace. In realtà si tratta di una missione di guerra: a cosa serve altrimenti l'enorme apparato bellico spedito nella regione, composto tra l'altro da navi da guerra, mezzi corazzati, reparti d'assalto, elicotteri da combattimento? Nelle regole d'ingaggio (per quel poco che sono state rese pubbliche) si autorizza esplicitamente i soldati a sparare non solo se aggrediti, ma anche per "prevenire" gli attacchi. È ad ogni modo curioso che Prodi e Bertinotti cerchino di mascherare questa missione con lo stesso appellativo di "missione di pace" con cui Berlusconi ha tentato invano di mascherare la guerra imperialista in Iraq. Ci ha già pensato il ben informato Cossiga, prima che ci pensino i fatti, a mettere a nudo la realtà di questa missione: "Temo che molti in Italia non abbiano ancora capito. Lì si andrà a sparare, purtroppo" (intervista a "Il Giornale" del 27 agosto).
L'obiettivo di questa missione è quello di salvare gli aggressori israeliani nel momento in cui la resistenza libanese, organizzata per la maggioranza dagli Hezbollah, era finalmente riuscita a bloccare l'invasione israeliana. Nella risoluzione dell'Onu infatti, non si parla mai di assicurare il ritiro immediato delle truppe di Israele dal territorio libanese, mentre si stabilisce quale compito specifico della missione il disarmo di Hezbollah, cioè della resistenza libanese, esattamente ciò in cui non era riuscito Israele. Proprio per questo il contingente multinazionale non viene stanziato nel Paese aggressore, e nemmeno in entrambi, ma nel Paese aggredito.
Ci viene detto che la funzione di questa missione è quella di salvaguardare il Libano dalle violenze israeliane. Ma quando mai si è vista una forza che, per difendere gli aggrediti, li disarma e al contempo garantisce all'aggressore la libertà di restare sul loro territorio? Una forza che vuole "difendere" gli aggrediti dichiara forse tregua solo allorché essi conseguono le prime vittorie sull'invasore?
Senza dire che nella risoluzione dell'Onu non viene detta una parola sui crimini di Israele, che ha deliberatamente invaso un paese sovrano senza alcun preavviso, facendo tornare alla memoria le vili invasioni naziste ai danni dell'Austria nel '38, della Polonia nel '39 e della Russia nel '41, e ha compiuto stragi efferate, massacrato oltre 1.100 civili, distrutto 15.000 case, provocato un milione di profughi su un Paese di appena tre milioni di abitanti. Anzi vengono giustificati ufficialmente.
Questo per quanto riguarda le caratteristiche più visibili della missione, direttamente ricavabili dalle stesse dichiarazioni e documenti. Per quanto riguarda un'analisi più profonda, non dobbiamo mai dimenticare la celebre frase del generale Von Clausewitz divenuta parte integrante della visione materialista della storia, secondo cui " la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi".
Gli Stati che oggi sostengono la missione Onu in Libano, legati da mille fili economici politici e militari a Israele, hanno nel recente passato sempre sostenuto una politica filoisraeliana, antisiriana, antilibanese, antipalestinese, e il loro intervento militare in quella regione è la diretta continuazione, con le armi in mano, della politica precedente. Non è verosimile credere che senza armi sviluppino una politica e con le armi ne sviluppino una opposta.
Si sente dire che questa missione sarebbe legittima perché approvata e gestita dall'Onu. Ma non è certo il colore dei caschi che rende una missione giusta o sbagliata. In ogni caso non si può ignorare che l'Onu rappresenta oggi solo il luogo dove le varie potenze tentano di gestire le reciproche contraddizioni interimperialiste. E dunque l'"unità dell'Onu" significa solo la temporanea ricomposizione degli interessi particolari delle varie potenze imperialiste attorno a un qualche interesse comune. Niente di più probabile che l'interesse comune all'imperialismo americano, a quello europeo, a quello russo, ecc., cozzi direttamente con l'interesse di un qualche popolo, in questo caso quello libanese. Fino a quando l'Onu sarà solo un "covo di briganti", per parafrasare la felice espressione con cui Lenin ebbe a indicare la defunta Società delle Nazioni, dove questi briganti "multilateralmente" e "democraticamente" tentano di accordarsi sulla spartizione del bottino, il sigillo Onu non solo non dimostrerà la legittimità di una missione, ma anzi la metterà ulteriormente in dubbio.
Gli interessi particolari dei vari Stati si sono in questo caso risolti attorno al comune interesse politico strategico di salvaguardare nella regione l'egemonia di Israele in quanto longa manus dell'imperialismo americano in Medioriente.
Ogni paese si differenzia poi nello sforzo e nelle richieste a seconda dei rispettivi interessi particolari. Così, non è un caso se le due potenze che si spendono maggiormente in questa missione in terra libanese, ossia l'Italia e la Francia, sono rispettivamente il primo partner commerciale e il primo creditore del Libano. La seconda, assieme all'Arabia Saudita, altra grande sostenitrice di Israele, ha in passato esercitato pressioni sul governo libanese affinché privatizzasse i beni pubblici, col risultato di favorire la penetrazione delle aziende straniere. La prima ha invece firmato un trattato militare segreto con l'aggressore israeliano.
Il ruolo di prima importanza assunto dall'Europa in generale in questa missione si spiega anche con l'esistenza del progetto Mercato Unico Euro-mediterraneo del 2010 volto a garantire la penetrazione dei capitali europei nella regione, oltre che ovviamente con l'importanza geopolitica del Medioriente.

Quale discontinuità col governo Berlusconi?
I dirigenti della "sinistra radicale" non perdono occasione per sottolineare la discontinuità in politica estera che la missione Onu rappresenterebbe. Obiettivamente, non si capisce dove stia questa discontinuità. Un unico filo imperialista lega la politica estera di Berlusconi e Fini con quella di Prodi e D'Alema, ossia la strenua difesa degli interessi del capitale italiano (dal quale non a caso Prodi è stato incoronato) in tutto il mondo, anche a costo di intervenire con le armi. Ovviamente ciò non significa che non esistano delle differenze dialettiche tra i due schieramenti, e negarlo comporterebbe di non comprendere il modo concreto in cui questa continuità si realizza.
Ma queste differenze non riguardano né la natura imperialista della politica estera, né il metodo interventista di questo imperialismo, né la struttura essenziale delle alleanze internazionali. Mentre per Berlusconi la posizione ideale per l'Italia e per l'Unione europea era, come per Blair, all'ombra degli Usa, per Prodi essa può meglio giocare il suo ruolo di grande potenza all'interno dell'Ue accanto all'asse franco-tedesco, ma sempre e comunque in stretta alleanza con gli "amici d'Oltreoceano". Di conseguenza, per Berlusconi l'unilateralismo americano rappresentava il carro su cui l'Italia doveva salire per giocare un ruolo nello scenario mondiale, mentre per Prodi il "multilateralismo" dell'Onu rappresenta la leva per rafforzare la posizione dell'Ue in alleanza con gli Usa. Questa e solo questa è la "discontinuità" del governo Prodi dal governo Berlusconi.
La continuazione della politica estera interventista ad ogni modo dimostra che la guerra non deriva dalla volontà di singoli ministri, governi o parlamenti, ma si impone ad essi come una necessità oggettiva dell'attuale fase del capitalismo.
Per ultimo, per non cadere nell'empirismo, in quel metodo di indagine cioè che isola ciascun fenomeno dal suo contesto, occorre inserire la politica estera del governo Prodi all'interno di tutta la sua politica generale: e ci si accorge che la continuità col governo Berlusconi non è prerogativa della politica estera, ma riguarda tutte le questioni anche sul piano interno, dalla finanziaria stangatrice alle privatizzazioni in cantiere, dal mantenimento dei Cpt e della logica repressiva sull'immigrazione al rifiuto di abrogare le controriforme Biagi e Moratti, ai già preannunciati attacchi alle pensioni, dal sopra citato presidenzialismo al promesso federalismo, ecc.

La triste parabola del pacifismo borghese: dalla "non violenza" alle "missioni di pace"
Quel che più risulta incomprensibile ad un osservatore sentimentale, è l'appoggio alle missioni militari dato da molte di quelle forze (PRC, Verdi, Manifesto, Tavola della pace, associazioni cattoliche, ecc.) che fino a ieri non solo si erano opposte con apparentemente fermezza alle guerre di Berlusconi, ma avevano anche elevato la "non-violenza" a principio assoluto e metafisico. Se nel caso dell'Afghanistan si è trattato per lo più di una rassegnata accettazione, nel caso del Libano si tratta di una vera e propria campagna interventista, tanto che la tradizionale Marcia della pace di Assisi è stata quest'anno trasformata in una vera Marcia della guerra a sostegno della missione in Libano.
Ciò non è frutto solo di un cattivo compromesso tra le forze "pacifiste" e quelle liberali e imperialiste nel "centro-sinistra", ma del naturale "sviluppo" del riformismo in socialsciovinismo. Nell'epoca dell'imperialismo lo sfruttamento dei paesi arretrati diventa una condizione necessaria per una politica di piccole e insignificanti concessioni economiche ai lavoratori dei paesi ricchi: l'appoggio delle forze riformiste dei paesi capitalisti alla propria borghesia contro i popoli dei paesi oppressi è la conseguenza politica più lampante di questa situazione economica.
Ieri che le forze riformiste stavano all'opposizione elaborarono la teoria della non-violenza assoluta quale teoria della capitolazione alle guerre imperialiste; oggi che stanno al governo gettano a mare la vecchia non-violenza in luogo della "nuova" teoria delle "missioni di pace" quale teoria del sostegno alle guerre imperialiste.
Le due "teorie" sembrano inconciliabili, invece non lo sono affatto. La teoria della "missione di pace" è solo lo sviluppo dialettico e conseguente della teoria della non violenza quando essa compie un necessario salto di qualità e si trasforma nel proprio opposto: è la dimostrazione più chiara della totale bancarotta del pacifismo borghese.
Se ieri i "non-violenti" facevano comunque parte del movimento contro la guerra, oggi i "missionari di pace" fanno parte a pieno titolo del fronte dell'imperialismo, hanno cioè definitivamente compiuto la loro parabola dalla codarda capitolazione al tradimento pieno.

(Articolo de "Il Bolscevico", organo del PMLI, n. 39/2006)

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stamane, attivo provinciale dei delegati Cgil-Cisl-Uil sulla Finanziaria 2007.   pur tra luci ed ombre, non vi è dubbio alcuno: l'impianto generale e la struttura portante della finanziaria sono compatibili con quanto Cgil-Cisl-Uil vanno chiedendo da anni: per quanto riguarda la giustizia sociale ed il rilancio dell'economia. pur tra luci ed ombre, ma non vi è alcun dubbio..   tuttavia, in ogni discorso possibile attorno alla finanziaria - senza pregiudizi ideologici - mi rimane in bocca una specie di retrogusto amaro, mi rimangono dei non detti d'insoddisfazione (come zone grigie di un ragionamento che non mi soddisfa, di un calcolo che non mi quadra, come quando voglio dare il nome ad una cosa ma trovo inadeguata ogni parola...)   stamane, forse, ho scovato la parola giusta, ho trovato quel nome che mi manca per rappresentare l'inadeguatezza sottile di questa finanziaria - e di tutti i discorsi che si fanno intorno ai malati gravi: l'economia e la società.   non sono un economista, ma mi chiedo perché la sinistra italiana e i sindacati (che di questa sinistra sono parte fondamentale) non hanno mai fatto proprio l'Appello degli Economisti.   sono convinto che quella indicata nell'Appello è la strada giusta per uscire dai tranelli del neoliberismo e dalle truffe della finanza globalizzata che stanno inchiodando al palo intere generazioni di lavoratori precari, di pensionati taglieggiati, di cittadini vessati, ecc.ecc., in tutta Europa.   rileggiamolo con attenzione - l'Appello degli Economisti - e vedremo che davvero si tratta dell'uovo di Colombo. però, bisognerebbe che la "Politica" riacquistasse finalmente autonomia e autorevolezza rispetto all'Economia [il vero Dittatore del nostro tempo, il Grande fratello che ci consuma la vita, in cambio di niente] riprendiamoci in mano il nostro futuro e quello dei nostri figli!   Lorenzo Mazzucato (delegato Cgil)   @@@@@@@@@@@@@@@@@@  

APPELLO DEGLI ECONOMISTI

Non abbattere il debito pubblico ma stabilizzarlo e rilanciare il paese

L’esito delle elezioni politiche di aprile e l’insediamento del Governo Prodi hanno suscitato presso la maggioranza degli italiani una forte aspettativa di rilancio dell’economia e di ridefinizione degli indirizzi di politica economica a fini di equità e di coesione sociale.

A questo scopo si rendono indispensabili provvedimenti coraggiosi ed incisivi: un programma di legislatura che preveda ampi investimenti nel sistema delle infrastrutture materiali e immateriali, nell’istruzione, nella formazione e nella ricerca scientifica e tecnologica; un indirizzo di politica industriale che spinga il nostro tessuto produttivo verso un modello di sviluppo fondato sulle nuove tecnologie, e che risulti equilibrato sul piano ambientale e territoriale; una diversa disciplina del mercato del lavoro e delle relazioni industriali che ripristini le condizioni per la crescita dei salari reali, per il superamento di una logica produttiva fondata sulla precarietà del lavoro, per il rafforzamento degli ammortizzatori sociali e più in generale degli strumenti di welfare.

Si tratta di interventi necessari, inderogabili, per il cui perseguimento occorrono impegno e risorse.

La nostra preoccupazione è che il Governo si stia orientando verso una politica generale delle finanze pubbliche che precluderebbe ogni possibilità di fornire risposta alle reali esigenze del Paese. Dal Documento di programmazione economica e finanziaria sembra infatti emergere una pesante manovra di finanza pubblica volta a realizzare un rapido abbattimento del rapporto tra debito pubblico e Pil. Il perseguimento di un simile obiettivo richiederebbe l’accumulo di avanzi primari annuali estremamente ampi. Ciò implicherebbetagli significativi alla spesa pubblica, incrementi del prelievo fiscale non reimpiegabili nell’economia e, presumibilmente, ulteriori dismissioni e privatizzazioni.

Se questo tipo di orientamento prevalesse gli effetti sul sistema economico e sociale potrebbero rivelarsi deleteri. Da un lato, si avrebbe una ulteriore compressione della domanda aggregata e quindi dei livelli di attività economica, con riflessi negativi sullo stesso bilancio pubblico. Dall’altro, si rinuncerebbe ad impiegare risorse reali e finanziarie in politiche strutturali utili al rilancio e allo sviluppo economico-sociale.

Ci preme mettere in luce che questa strada non è per nulla obbligata. Non sussistono, infatti, né vincoli istituzionali né imperativi tecnico-economici che impongano un abbattimento del debito.

In primo luogo, l’unificazione monetaria europea e la presenza di un mercato finanziario integrato hanno fortemente ridimensionato i differenziali tra i tassi d’interesse dei paesi membri, e non sussiste alcun motivo tecnicamente plausibile per attendersi incrementi significativi e duraturi di tali differenziali. Qualsiasi riferimento ad eventuali reazioni avverse da parte dei mercati andrebbe pertanto seriamente argomentato sul piano tecnico-scientifico, anziché essere semplicisticamente evocato.

In secondo luogo, l’analisi economica mostra che non esiste un’unica definizione plausibile di sostenibilità delle finanze pubbliche: per ogni data differenza tra i tassi d’interesse e i tassi di crescita del reddito, esistono molteplici combinazioni possibili del deficit e del debito, tutte sostenibili sul piano della stretta logica economica. Questo significa che i vincoli del deficit al 3% e del debito al 60% del Pil, sanciti dal Trattato dell’Unione, non godono in quanto tali di alcuna legittimazione scientifica. Nulla impedisce, pertanto, che essi vengano sottoposti ad una nuova e diversa valutazione in sede politica, nazionale ed europea. A questo riguardo, è opportuno ricordare che il Trattato dell’Unione non prevede sanzioni rispetto al vincolo del debito pubblico al 60%, e che le sanzioni previste per i paesi il cui deficit superasse il limite del 3% non sono finora mai state applicate, nonostante le significative e ripetute violazioni.

Non vi sono dunque ragioni valide per imporre al Paese un’azione di drastico abbattimento del debito; il nostro sistema economico attende piuttosto una ripresa responsabile, razionale, innovatrice, dell’intervento pubblico nell’economia. A questo scopo, noi proponiamo che il Governo fissi come obiettivo generale di legislatura non l’abbattimento ma la sola stabilizzazione del debito rispetto al Pil, determinando conseguentemente il valore del rapporto tra deficit e Pil. L’eventuale esigenza di ulteriori riduzioni del rapporto tra deficit e Pil - da verificare nelle sedi del Parlamento nazionale, della Commissione e del Consiglio europeo - andrebbe comunque esaminata tenendo conto della mancata applicazione di sanzioni nei confronti di quei paesi membri che negli anni passati presentavano “disavanzi eccessivi”. Inoltre, più in generale, qualsiasi intervento sul disavanzo andrebbe valutato alla luce della necessità di muoversi sempre ed esclusivamente in termini anti-ciclici rispetto all’andamento dell’economia e di sostenere più elevati sentieri di sviluppo del reddito e dell’occupazione.

Sono queste, riteniamo, le opzioni di finanza pubblica che nella presente situazione risultanocompatibili con i fondamentali obiettivi di sviluppo economico del Paese e di rispetto dei più elementari principi di equità e di giustizia sociale.

ADESIONI

Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), Bruno Bosco (Università di Milano Bicocca), Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Roberto Ciccone (Università di Roma Tre), Nicola Acocella (Università di Roma “La Sapienza”), Roberto Artoni (Università Bocconi di Milano), Enrico Bellino (Università Cattolica di Milano), Mario Biagioli (Università di Parma), Adriano Birolo (Università di Padova), Paolo Bosi (Università di Modena e Reggio Emilia), Dino Bruno (economista), Mario Cassetti (Università di Brescia), Luigi Cavallaro (editorialista), Valerio Cerretano (Libera Università di Bolzano), Sergio Cesaratto (Università di Siena), Guglielmo Chiodi (Università di Roma “La Sapienza”), Francesca Corrado (Università di Modena e Reggio Emilia), Carmela D’Apice (Università di Roma Tre), Pasquale De Muro (Università di Roma Tre), Giancarlo de Vivo (Università di Napoli “Federico II”), Amedeo Di Maio (Università di Napoli “L’Orientale”), Leonardo Ditta (Università di Roma “La Sapienza”), Maria Giuseppina Eboli (Università di Roma “La Sapienza”), Marianna Epicoco (Università di Milano), Sergio Ferrari (ENEA), Stefano Figuera (Università di Catania), Luciano Fiordoni (economista MPS), Massimo Florio (Università di Milano), Giuseppe Fontana (Università del Sannio), Guglielmo Forges Davanzati (Università di Lecce), Saverio M. Fratini (Università di Roma Tre), Andrea Fumagalli (Università di Pavia), Pierangelo Garegnani (Università di Roma Tre), Francesco Garibaldo (Istituto per il Lavoro), Giorgio Gattei (Università di Bologna), Augusto Graziani (Università di Roma “La Sapienza”), Bruno Jossa (Università di Napoli “Federico II”), Antonio Lavorato (economista), Sergio Levrero (Università di Roma Tre), Stefano Lucarelli (Università Politecnica delle Marche), Vincenzo Maffeo (Università di Roma “La Sapienza”), Sandro Magni (economista), Giovanni Mazzetti (Università della Calabria), Franca Meloni (Università di Napoli “Federico II”), Luca Michelini (Università LUM), Nerio Naldi (Università di Roma “La Sapienza”), Guido Ortona (Università del Piemonte Orientale), Giulio Palermo (Università di Brescia), Antonella Palumbo (Università di Roma Tre), Marco Passarella (Università di Firenze), Sergio Parrinello (Università di Roma “La Sapienza”), Fabio Petri (Università di Siena), Antonella Picchio (Università di Modena e Reggio Emilia), Marco Piccioni (Università di Napoli “Federico II”), Francesco Pingue (Università di Napoli “Federico II”), Massimo Pivetti (Università di Roma “La Sapienza”), Felice Roberto Pizzuti (Università di Roma “La Sapienza”), Giuseppe Privitera (Università di Catania), Paolo Ramazzotti (Università di Macerata), Fabio Ravagnani (Università di Roma “La Sapienza”), Angelo Reati (economista), Roberto Romano (Ufficio Studi Cgil), Eleonora Sanfilippo (Università di Roma “La Sapienza”), Alessandro Santoro (Università di Milano Bicocca), Francesco Scacciati (Università di Torino), Ernesto Screpanti (Università di Siena), Riccardo Soliani (Università di Genova), Arsenio Stabile (Università di Siena), Antonella Stirati (Università di Roma Tre), Francesca Stroffolini (Università di Napoli “Federico II”), Cristina Tajani (Università di Milano), Mario Tiberi (Università di Roma “La Sapienza”), Guido Tortorella Esposito (Università del Sannio), Attilio Trezzini (Università di Roma Tre), Giovanna Vertova (Università di Bergamo), Carmen Vita (Università del Sannio), Adelino Zanini (Università Politecnica delle Marche).

http://www.appellodeglieconomisti.com

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Il governo Prodi vara la Finanziaria 2007 di 33,4 miliardi di euro, tra le più pesanti del dopoguerra, anche con i voti del PRC e del PdCI
La stangata c'è e colpisce anche i poveri
Tagli drastici alle Regioni e agli enti locali. Scippato il Tfr dei lavoratori. Aumentati i ticket sanitari. Solo rinviate le ennesime controriforme su pensioni e pubblica amministrazione. Solo 6 su 10 il turn-over nel pubblico impiego. Via libera a nuove tasse comunali. Parziale e insufficiente redistribuzione a favore dei redditi medio-bassi. Soldi alle imprese. Aumentate le spese militari
I vertici sindacali confederali danno il loro via libera per un "piatto di lenticchie"

Il governo dell'Unione di Prodi ha varato la sua prima manovra economica e finanziaria per il 2007, con proiezione triennale e quinquennale per alcuni aspetti che riguardano i dati macroeconomici (Pil, debito, tasso occupazionale, ecc.) e l'applicazione di alcune misure approvate. Lo ha fatto nella riunione del consiglio dei ministri di sabato 30 settembre, durata ben 10 ore e con il voto unanime di tutti i ministri, ivi compresi quelli del PRC, del PdCI e dei Verdi. Si tratta di una manovra molta ampia e complessa (oltre 200 articoli) composta: da un disegno di legge che contiene la legge finanziaria, di un decreto legge contenente vari provvedimenti fiscali e di una legge delega concernente le misure, da precisare nei prossimi mesi, sulla tassazione delle rendite, l'aggiornamento degli estimi catastali, i metodi di accertamento e di riscossione. Si tratta di una manovra economica fiscale e finanziaria tra le più pesanti, per dimensione, degli ultimi 60 anni, seconda solo a quella del governo Amato del '92 (93 mila miliardi di lire).


Le cifre parlano da sole. Il complesso dei provvedimenti varati ammontano a 33,4 miliardi di euro. Così suddivisi: 20 miliardi e 395 milioni di euro di tagli ed entrate extrafiscali e 13 miliardi di euro di nuove entrate. Nella prima voce troviamo: tagli a enti locali e patto di stabilità per 4,3 miliardi di euro; minori spese di 3 miliardi euro nella sanità; 5,265 miliardi in campo previdenziale; 5 miliardi dal Tfr dei lavoratori; 2,83 miliardi di euro di risparmi dalla pubblica amministrazione. Sono tagli strutturali, chiarisce Padoa Schioppa, che permettono già nel 2007 di portare il rapporto debito-Pil al 2,8%, cioè sotto quel 3% richiesto dalla Unione europea.
La Finanziaria uscita dal consiglio dei ministri, frutto di un compromesso tra le varie "anime" della maggioranza di governo, è risultata parzialmente differente da quanto previsto nel Dpef (Documento di programmazione economica) e nelle bozze che giravano sui tavoli nei giorni immediatamente prima del varo ufficiale.

Parzialmente differente nell'entità, si parlava di 35 miliardi, poi di 30 e infine la scelta è caduta sui 33,4. Parzialmente diversa nei contenuti, visto che nei due casi precedenti erano state prospettate misure ancora più pesanti nei confronti dei lavoratori pubblici, sulla previdenza, la scuola. Mitigati anche a seguito della minaccia dello sciopero generale dei sindacati e dal possibile voto contrario dei partiti di Bertinotti e Diliberto.


Ma questa mossa tattica dei volponi Prodi e dal ministro per l'Economia Padoa Schioppa non deve ingannare sulla reale natura della Finanziaria. Non bisogna dar troppo credito alle dichiarazioni demagogiche e con poco fondamento del presidente del consiglio quando afferma che la sua manovra economica è all'insegna della giustizia sociale e a favore dei ceti più deboli fortemente impoveriti negli ultimi anni in conseguenza delle politiche liberiste del precedente governo di Berlusconi. Né bisogna dar credito agli apprezzamenti davvero esagerati espressi da Bertinotti, dal ministro Ferrero e dal segretario del PRC Giordano che parlano addirittura di una "svolta" di politica economica e fiscale, quasi che la Finanziaria approvata sia più loro che di Prodi e Padoa Schioppa. Noi non vediamo nessuna svolta. Vediamo solo delle parziali e insufficienti modifiche rispetto alla politica berlusconiana, nella gestione del bilancio, in campo fiscale, economico e sociale.


La manovra prodiana va valutata nel suo insieme. Non perdendo di vista, anzi denunciando con forza i tagli alla spesa sociale e pubblica, che ci sono e tanti per via diretta e per via indiretta, denunciando il rincaro delle vecchie e l'immissione di nuove tasse che regioni ed enti locali dovranno per forza di cose attuare; denunciando l'estensione dei ticket sanitari, lo scippo del trattamento di fine rapporto di lavoro (Tfr) dei lavoratori, il dilazionamento dei finanziamenti per i contratti del pubblico impiego, la parziale copertura del turn-over, l'aumento delle spese militari per i contingenti all'estero, le regalie fiscali e in soldi ai padroni. Denunciando le misure che ci sono e quelle che mancano in materia di precariato e "mercato del lavoro", che rimane sostanzialmente regolato dalla legge 30.

Considerando, inoltre, che le controriforme (ennesime) su pensioni e pubblica amministrazione annunciate nel Dpef sono solo state rinviate di qualche mese. "Anche i sindacati - afferma il ministro degli Esteri e vicepremier D'Alema - lo devono sapere. Da marzo sulle pensioni noi puntiamo a una revisione profonda del sistema previdenziale". E per quanto riguarda la pubblica amministrazione, "faremo anche questa riforma - aggiunge - che in Finanziaria abbiamo solo parzialmente avviato.

Una ragionevole riduzione del personale... si farà nel tempo". Gli fa eco il ministro DS per le Attività produttive Bersani che dice: "non potevamo fare ora la riforma delle pensioni, ma con questa manovra abbiamo preso un accordo con il sindacato per un'ulteriore fase di riforma del sistema previdenziale da chiudere entro marzo". Se si tiene presente questo quadro d'insieme, ne esce molto ridimensionata la redistribuzione della ricchezza a favore dei redditi medio-bassi attraverso la modifica dell'Irpef (Imposta sulle persone fisiche) e la riduzione del "cuneo fiscale".

I PROVVEDIMENTI


Enti locali. Un capitolo tra i più pesanti e peggiori della Finanziaria riguarda le Regioni e gli enti locali ai quali viene imposto una riduzione delle spese pari a 4,3 miliardi di euro (2,2, alle province e ai comuni). Un salasso persino più consistente di quello attuato da Berlusconi (1,8 miliardi) con la Finanziaria 2006 con conseguenze devastanti per l'amministrazione delle città, l'erogazione dei servizi pubblici e il sostentamento dell'assistenza sociale che ormai passa in gran parte a livello territoriale. Accanto ai tagli, aumento delle vecchie tasse e immissione di nuove: questo dovranno fare gli amministratori regionali e comunali per fronteggiare le esigenze di bilancio. Quindi rincari nelle addizionali Irpef, nell'Ici e utilizzo delle nuove imposte previste in Finanziaria, come quella di scopo e quella di soggiorno. Il tutto nel nome del federalismo fiscale. Appare una beffa la concessione dell'innalzamento del 2,6% del tetto dell'indebitamento.


Sanità. Un altro capitolo non così bello come si vorrebbe far credere è quello della sanità. Qui con una mano si dà e con l'altra si piglia. Nel senso che nel prossimo anno è prevista una "razionalizzazione" della spesa con un risparmio di 3 miliardi di euro. Gli stessi 3 miliardi saranno destinati in un arco di tre anni all'ammodernamento degli ospedali e all'apertura di nuovi servizi sanitari. Più un miliardo per le Regioni in maggiori difficoltà finanziarie. L'aspetto più odioso: l'imposizione di nuovi ticket sanitari. Il ticket sul pronto soccorso di 23 euro per i cosiddetti "codici bianchi", cioè non urgenti + altri 18 euro (41 in totale) se, nello steso caso, saranno fatti accertamenti diagnostici. Una quota fissa di 10 euro a ricetta per visite specialistiche, che si vanno ad aggiungere alle spese per l'impegnativa già in vigore.


Pubblico impiego. Anche se le misure più dure saranno prese in seguito, la manovra non prevede nulla di buono, anzi. Il governo, è vero, ha aumentato gli stanziamenti per il rinnovo dei contratti di lavoro, peraltro scaduti da diversi mesi, a 3.225 miliardi di euro ma dilazionati, per due terzi,nel 2008. Questo significa, di fatto, uno slittamento dei tempi contrattuali e perdite di stipendio per gli interessati. La riduzione del personale passa da una copertura parziale del turn over, che non va oltre la sostituzione di 6 dipendenti, di cui 4 precari, su 10 che vanno in pensione.


Previdenza. In attesa della controriforma fissata per marzo prossimo, scampato il pericolo della chiusura di una finestra delle quattro previste nel 2007 per le pensioni di anzianità, la manovra stabilisce l'aumento dei contributi previdenziali per i lavoratori parasubordinati (i co.co.co) portandoli dal 18,5% al 23% e ai lavoratori autonomi dal 17,5 al 20% dal 1° gennaio 2008. Oltre a ciò il governo scippa il Tfr di quei lavoratori che non hanno scelto se destinarlo ai fondi oppure mantenerlo, per un importo pari al 60%, da versare in un nuovo fondo Inps. Così si intende anticipare l'entrata in vigore della "riforma" della previdenza complementare Maroni al 1° luglio 2007. Per i datori di lavoro, che tanto sbraitano come fossero soldi loro, sono fissate delle compensazioni con l'esonero dal versamento dei contributi sociali dovuti per assegni familiari, maternità, e disoccupazione.


Scuola. Nella Finanziaria c'è la promessa dell'assunzione di 150 mila docenti precari nei prossimi tre anni. A fronte però, di una uscita per pensionamento di 280 mila unità solo nel 2007. A questo proposito è nota l'intenzione del governo di alzare il rapporto tra docenti e alunni (compresi quelli di appoggio) creando inevitabilmente personale in "esubero".


Spese militari. Aumenta invece la spesa per il finanziamento dei contingenti militari all'estero: Iraq, Afghanistan, Libano, ecc. E non solo. L'art.188 della Finanziaria istituisce un apposito fondo attivato con decreto legge semestrale del governo, previa informazione del presidente della repubblica, che salta e rende superflua l'approvazione del parlamento.


Irpef. La modifica dell'Irpef, sia nella parte degli scaglioni di reddito, sia in quella dell'aliquota d'imposta che nelle detrazioni è considerata dal governo la misura principe attraverso la quale passa la sventolata redistribuzione della ricchezza a favore dei redditi medio-bassi. C'è un aumento della no-tax area, cioè delle esenzioni, che passa da 7 mila a 7.500 euro per i pensionati e da 7.500 a 8.000 per i lavoratori. C'è un ritorno a un sistema a cinque aliquote (23% su 15.000 euro; 27% da 15 a 28.000 euro; 38% da 28 a 55 mila euro; 41% da 55 a 75.000 euro; 43% oltre 75.000 euro), che prendono il posto delle vecchie quattro della controriforma Tremonti (23% fino a 26 mila euro; 33% da 26 a 33.500 euro; 39% da 33.550 a 100 mila euro: 43% oltre questa soglia). C'è un sistema di detrazioni finalizzato a sgravare le famiglie numerose, detrazioni che decrescono e si annullano in relazione al reddito percepito. Non c'è dubbio che questo sistema aumenta il prelievo sui redditi alti (oltre i 75.000 euro) e riduce quelli inferiori ai 40 mila. Ma va detto con tutta chiarezza che questa redistribuzione in termini concreti, in soldi, è poca cosa. Non è sufficiente nemmeno a recuperare quanto scippato dal governo Berlusconi. Si poteva e si doveva fare di più!


Cuneo fiscale. Nella manovra è confermata la riduzione di 5 punti del cuneo fiscale (9 miliardi di euro) da dividere 60% alle aziende e 40% ai lavoratori, sia pure dilazionata nei prossimi due anni. Per le imprese questo grosso bonus si concretizza con uno sconto dell'Irap e il riconoscimento di un importo deducibile, pari a 5 mila euro, su base annua per ogni dipendente a tempo indeterminato impiegato nel periodo dell'imposta; deduzione che sale a 10.000 euro per le regioni del Mezzogiorno.


Altre misure fiscali. Riguardano gli studi di settore che saranno aggiornati ogni tre anni anziché quattro e la revisione dell'aliquota di imposizione sulle rendite finanziarie (titoli di Stato e obbligazioni di nuova emissione, plusvalenze azionarie, fondi d'investimento, dividendi) che passa dal 12,5% al 20%; mentre per i depositi e le obbligazioni sotto i 18 mesi l'aliquota scende dal 27 al 20%. Il tutto però farà parte di una legge delega affidata al ministero per l'economia da varare nei prossimi sei mesi.


Queste nell'essenziale le misure principali della Finanziaria. Le quali hanno trovato il consenso immediato e servizievole dei vertici sindacali confederali. I segretari di Cgil, Cisl e Uil si sono espressi pubblicamente a favore della manovra. Ad Epifani, Bonanni e Angeletti è stato sufficiente che il governo correggesse il tiro sui contratti del pubblico impiego, separasse la manovra finanziaria e la "riforma" previdenziale, operasse la suddetta modifica dell'Irpef per cancellare ogni proposito di mobilitazione. Insomma si sono accontentati del solito "piatto di lenticchie". Diverso il giudizio dei sindacati extraconfederali che hanno espresso un netto dissenso e promettono mobilitazioni. E i leader della sinistra sindacale, i vari Rinaldini e Cremaschi, non hanno nulla da dire?


Occorre fare un'opera di sensibilizzazione e di chiarificazione tra i lavoratori e le masse popolari per sviluppare, da sinistra, un movimento critico e di lotta. Anche perché questo testo della Finanziaria potrebbe anche peggiorare, e tanto, nel corso della discussione parlamentare. Non solo ad opera dell'azione della Casa del fascio, ma anche di parti dell'Unione (Margherita, Udeur, Rosa nel pugno) che hanno già detto di voler modificare da destra la manovra. Il "centro-destra" ha anche minacciato una manifestazione.
Sarebbe davvero un grave errore lasciare ad esso il monopolio della piazza!
In ogni caso la stangata c'è e colpisce anche i poveri, e per questo va respinta.

(Articolo de "Il Bolscevico", organo del PMLI, n. 36/2006)

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La Finanziaria non soddisfa gli atipici
 
Le critiche di NIdiL alla legge finanziaria. Mancano le tutele per la gravidanza a rischio e l'indennità di malattia rischia di essere inesigibile. Senza l'aggancio dei compensi ai salari dei dipendenti, l'aumento della contribuzione Inps rischia di scaricarsi sui redditi dei collaboratori. NIdiL chiede la stabilizzazione dei precari nella pubblica amministrazione.

    
Ad una prima lettura della Finanziaria 2007 NIdiL Cgil, pur riconoscendo la positività del percorso di innalzamento dell’aliquota contributiva e dopo aver avanzato assieme alla CGIL e alle altre organizzazioni sindacali precise richieste al Governo per cominciare ad affrontare i problemi della parasubordinazione, ritiene decisamente insufficienti per i precari le misure contenute nella legge e, oltre le ricadute negative di alcuni provvedimenti, denuncia il rischio di creare ulteriori sperequazioni per lavoratori già svantaggiati.


Infatti la richiesta di aumentare, tramite l’innalzamento dell’aliquota contributiva, il costo del lavoro parasubordinato per scoraggiarne l’uso improprio, non è stata accompagnata, nella finanziaria, da criteri precisi per definire i compensi dei collaboratori. In questo modo l’aumento dell’aliquota verrà scaricato ancora una volta sui lavoratori parasubordinati diminuendo il loro già esiguo compenso netto. Saranno purtroppo ancora una volta i lavoratori a pagare.
Non c’è nessuna norma per stabilire che i compensi dei parasubordinati non siano inferiori a quelli previsti nei contratti collettivi nazionali per i dipendenti con riferimento ad analoghe professionalità.
Per le partita iva individuali poi, l’aumento sarà ancora più pesante, non essendoci alcun riequilibrio fra quanto pagato dal lavoratore e quanto dal datore di lavoro.

Questi lavoratori, a differenza degli altri, dovranno pagarsi per intero i contributi.
L’assenza di costi previdenziali a carico dei committenti è quindi un incentivo all’utilizzo improprio di lavoratori con partita Iva individuale.
L’aumento della contribuzione non è poi accompagnato da un incremento delle tutele e delle prestazioni sociali a favore dei collaboratori, che a causa della loro condizione lavorativa ne avrebbero reale bisogno.
Rimangono insolute infatti le questioni riguardanti la tutela della gravidanza a rischio per le collaboratrici e il riconoscimento della disoccupazione con requisiti ridotti a lavoratori che si caratterizzano per una forte discontinuità lavorativa.


In più NIdiL e la Cgil avevano chiesto al Governo di sbloccare l’accesso alla formazione per i parasubordinati, rendendo esigibili e strutturali le attuali risorse accantonate nel Fondo Inps. Anche di questo in Finanziaria non vi è traccia.
E’ senza dubbio positivo aver previsto l’indennizzo per malattia domiciliare e una indennità economica per congedo parentale. Questi provvedimenti, però, sono parziali (al massimo 18 euro al giorno per malattia, dal quarto giorno e per un massimo di 20 giorni l’anno) o addirittura inesigibili dai lavoratori e si traducono in poco più di una mancia.


L’indennità economica per congedo parentale, invece, non è affatto esigibile al momento, poiché i parasubordinati non hanno il diritto alla sospensione della prestazione per congedi, né è regolamentato l’utilizzo nei contratti individuali.
Infine, nel Pubblico Impiego, non sono poi previste né stabilizzazioni dei parasubordinati, né sono riconosciuti i periodi svolti dai collaboratori ai fini dei punteggi nei concorsi. Questa iniquità riguarda anche i lavoratori in somministrazione a tempo determinato (ex interinali).
Per ultimo sono previsti tagli sulle collaborazioni della pubblica amministrazione, ciò si tradurrà in un’inevitabile licenziamento di migliaia di Co.Co.Co del pubblico impiego.