APPELLO
PROMOSSO DA: Padre Alex Zanotelli, Ennio Abate, Cristina
Alziati, Angelo Baracca, Ernesto Burgio, Chiara
Cavallaro, Paola Ciardella, Patrizia Creati, Mauro
Cristaldi, Manlio Dinucci, Antonino Drago, Giuseppe
Gozzini, Alberto L'Abate, Paola Manduca, Alfonso Navarra,
Giorgio Parisi, Claudio Pozzi, Giovanni Sarubbi, Alberto
Tarozzi, Andrea Trentini, Riccardo Troisi, Monica Zoppè 24/08/06
Sembra essersi formato un consenso generale
sull'opportunità/necessità che l'Italia partecipi alla
Forza Internazionale di Interposizione in Libano. È
indubbio che per arrestare la spirale di violenza che
sempre più insanguina il Medio Oriente, e si estende
pericolosamente al resto del mondo, sia più che mai
necessario un impegno attivo della comunità
internazionale, sotto la guida dell'Onu. L'esito di un
tale impegno dipende tuttavia in modo determinante dalle
condizioni in cui verrà attuato e condotto. Sembra più
che mai necessario richiamare l'attenzione del Governo,
del Parlamento e di tutti i cittadini su alcuni punti
molto delicati.
Una prima considerazione doverosa è che la guerra in
Libano ha occultato il problema palestinese. Non sembra
accettabile, in particolare, che la comunità
internazionale ignori completamente il fatto che Ministri
e Parlamentari di un paese che dovrebbe essere sovrano
siano stati sequestrati (ancora dabato 19 agosto il
vice-premier, Nasser-as-Shaer), imprigionati, ed almeno
in un caso anche torturati. In nessun altro Paese un
simile intervento straniero potrebbe venire tollerato:
perché nessuno reagisce nel caso di Israele? È
inaccettabile il silenzio del Governo italiano.
Venendo alla costituzione di una Forza Internazionale di
Interposizione, essa deve ubbidire ad alcune condizioni
fondamentali ed elementari: è evidente che non possono
farne parte militari di un paese che non sia
rigorosamente equidistante tra i due belligeranti.
L'Italia ha stipulato lo scorso anno un impegnativo
Accordo di Cooperazione Militare con Israele, che inficia
in modo sostanziale e irrimediabile la nostra
equidistanza. Il Diritto Internazionale impone, come
minimo, la preventiva sospensione di tale Accordo,
i cui termini dettagliati devono assolutamente essere
resi noti all'opinione pubblica.
È il caso di ricordare ancora che Israele ha partecipato
a manovre militari della Nato svoltesi in Sardegna, nelle
quali si saranno indubbiamente addestrati piloti ad altri
militari israeliani, impegnati poi nella guerra in
Libano. Da queste circostanze discende una ulteriore
condizione: è necessaria una garanzia assoluta che il
comando di questa Forza di Interposizione rimanga
strettamente sotto il comando dell'Onu, e non possa
essere trasferita in nessun momento alla Nato.
È assolutamente necessario, inoltre, che le spese della
missione non gravino ulteriormente sul bilancio dello
stato italiano, e in particolare non comportino riduzioni
delle spese sociali, ma rientrino nel bilancio del
Ministero della Difesa per le missioni militari italiane
all'estero.
Queste sembrano condizioni fondamentali e irrinunciabili
per la partecipazione del nostro paese.
Rimangono però altre riserve. Appare singolare e
tutt'altro che neutrale il fatto che una Forza
Internazionale di Interposizione venga schierata sul
territorio di uno dei due Paesi belligeranti, quello
attaccato, e non sul loro confine. Deve essere chiaro
pertanto che, finché tale forza opererà in territorio
libanese, essa deve essere soggetta alla sovranità
libanese, e che non potrà in alcun modo essere
incaricata del disarmo né dello scioglimento di
Hezbollah. Queste condizioni operative esporranno
comunque i militari che compongono questa forza ad agire
nel caso in cui avvengano (reali o pretese) provocazioni:
come potranno opporsi con la forza all'esercito
israeliano, tutt'ora presente in territorio libanese? Non
ci si facciano illusioni sulle regole d'ingaggio, che
verranno decise dall'organismo che guiderà la missione,
e non dal nostro Governo. Riteniamo giusto richiedere
anche che il contingente militare sia affiancato da un
congruo numero di volontari disarmati.
Deve infine risultare estremamente chiaro che questa
Forza di Interposizione non potrà mai, e in alcun modo,
essere coinvolta in una ripresa o in una estensione del
conflitto. Così come deve essere escluso un suo impiego
per proteggere le ditte italiane che si lanceranno nel
lucroso business della ricostruzione del Libano.
É necessario fugare con molta chiarezza qualsiasi
illusione che l'interposizione militare, anche nelle
migliori condizioni, sia risolutiva per il conflitto in
Medio Oriente, soprattutto per risolvere la fondamentale
questione palestinese. Chi arresterà la distruzione
delle case, delle coltivazioni e delle infrastrutture dei
palestinesi, gli omicidi mirati (in palese violazione di
qualsiasi norma giuridica)? Chiediamo pertanto che, prima
di inviare un contingente italiano, il nostro Governo
ponga con forza a livello internazionale l'esigenza
irrinunciabile del dispiegamento di una forza
internazionale di pace anche a Gaza e in Cisgiordania, a
garanzia della sicurezza di Israele e come condizione per
la creazione di uno Stato Palestinese.
Chiediamo che su queste questioni fondamentali vengano
prese ufficialmente decisioni chiare, esplicite e
trasparenti, e si esigano le dovute garanzie a livello
internazionale.
Clicca qui per
aderire
Fonte: http://www.ildialogo.org/
I tre fronti
di Sbancor -
L'Italia sta per mandare 3.500 soldati allo sbaraglio su
quello che G.W.Bush ha definito "il terzo
fronte" della guerra al terrorismo. Ma qual è il
terzo fronte? Oggi è la frontiera libano-israeliana.
Già lungamente ed inutilmente presidiata dall'UNIFIL. Ma
dalla fine di agosto, quando l'Iran risponderà
negativamente alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza
dell'ONU sul nucleare, il Terzo Fronte, quello vero,
sarà l'Iran e, forse, anche la Siria. Ora, se valutiamo
con spirito equanime l'andamento delle operazioni sugli
altri due fronti, Afghanistan e Iraq, c'è di che
rabbrividire.
Cito da fonte non sospetta: Alessandro Politi, in un
paper intitolato Un multipolarismo difficile, presentato
all'interno del Rapporto Nomisma "Nomos &
Khaos" 2005:
"La guerra in Afghanistan (Operazione Enduring
Freedom) rischia di essere persa. (.) Secondo le mappe
pubblicate dall'ONU tra il giugno 2002 ed il febbraio
2004 la coalizione non solo non sta vincendo ma ha subito
una costante erosione nel controllo delle province
disputate. Se un tempo solo tratti della frontiera
pakistana erano insicuri, ora lo è l'intera fascia
frontaliera. Nel giro di un anno (aprile 2005) secondo
mappe non pubblicate, il saliente ribelle nelle province
di Uruzgan, Zabul, e Ghazni è aumentato del 20% circa
sul totale (.) Concretamente dopo le azioni di disarmo e
smobilitazione del luglio 2005, vi sono ancora dai
100.000 ai 180.000 irregolari in armi, dei quali 2-3000
combattenti talebani e irriducibili ed un centinaio di
qa'edisti".
Domanda: E gli altri chi sono? Le antiche milizie dei
"signori della guerra e dell'oppio"? In parte
sicuramente. Ma molti sono semplicemente afghani che di
fronte alla distruzione dei villaggi, ai danni
collaterali, all'uccisione di vecchi donne e bambini, ma
soprattutto di fronte all'insipienza dell'intervento
della coalizione e del governo fantoccio di Kabul, hanno
semplicemente deciso che era più prudente rimanere in
armi. Le corrispondenze di Gino Strada e di Vauro dal
"fronte afghano" degli ospedali di guerra
valgono molto più delle scempiaggini di analisti,
esperti militari e giornalisti!
Certo, secondo Politi "se questa guerra viene persa,
l'intera ONU e la coalizione militare impegnata
nell'operazione subiranno lo stesso scacco politico
patito dai sovietici nel 1988, con prevedibili effetti
nelle minoranze arabe o mussulmane jihadiste o
simpatizzanti"
Peccato che questo effetto l'abbiamo già ottenuto
proprio con la "guerra afghana": un'operazione
di polizia che doveva individuare e catturare i vertici
di Al Qa'eda ed arrestare (dead or alive) Osama bin
Laden. Sono passati cinque, dico cinque anni. Osama e
Zahwahiri sono ancora a piede libero - e qualcuno mi deve
spiegare perché - e Enduring Freedom e Isaf - che
militarmente sono la stessa cosa hanno fallito il loro
obiettivo principale e sono divenute una "guerra
coloniale". E la storia insegna che le "guerre
coloniali" in Afghanistan le hanno perse tutti,
tranne Alessandro il Grande. Ma non mi sembra che la
"coalizione" sia paragonabile alla falange
macedone!
Ma continuiamo a leggere Politi: "La guerra in
Iraq è invece persa. Sul piano strategico reale gli Usa
avevano puntato a trasformare l'Iraq in un perno di
manovra strategico nel Medio Oriente, con la possibilità
di rimpiazzare le grandi basi perdute in Arabia Saudita
di fronte alla pressione di Al Qa'eda e della casa
regnante. A livello simbolico le forze USA oggi non
riescono nemmeno a controllare l'autostrada che collega
l'aeroporto di Baghdad alla Zona Internazionale, tanto è
vero che gli spostamenti diplomatici avvengono solo in
elicottero"
In più c'è la "Guerra Civile irachena" fra
Sciiti e Sunniti, che potrebbe portare addirittura a uno
"dissociazione" (è il termine che si usò in
Jugoslavia) dello Stato Iracheno o a qualche forma molto
radicale di federalismo. Vedi qui.
Solo nel mese di luglio ci sono stati 3.438 morti di
morte violenta, secondo dati del Ministero della Sanità
e della "Morgue".
Centodieci morti al giorno. Più delle vittime
complessive del conflitto israelo-palestinese. Nei primi
sette mesi dell'anno i morti sono stati, sempre secondo
fonti del governo iracheno, 17.776. E c'è la provincia
di Bassora pronta a esplodere (vedi qui).
E c'è l'Iran che deve solo aspettare che l'Iraq o gran
parte di esso finisca per gravitare nella sua area di
influenza. Già è stato siglato un accordo sul petrolio
fra Iran e Iraq.
"Secondo l'accordo, Baghdad spedirà a Teheran 100
mila barili di greggio al giorno. In cambio l'Iran
invierà all'Iraq 2 milioni di litri di prodotti
raffinati al giorno. Il trasporto del carburante avverrà
in un primo momento su strada, ma le due parti non
escludono la costruzione di un oleodotto che colleghi i
due paesi. Si tratta di un risultato importante per
l'Iraq, che e' costretto spesso a importare derivati del
petrolio a causa dei continui attacchi dei miliziani
all'industria petrolifera. Un tempo estremamente tesi, i
rapporti tra Baghdad e Teheran sono migliorati da quando
un governo a maggioranza Sciita ha preso il potere a
Baghdad." (Repubblica online, 16 agosto 2006)
Le conseguenze mediatiche della guerra in
Libano
La capacità di resistenza, per non dire la
"vittoria", degli Hezbollah contro l'esercito
più forte del Medioriente, l'Idf, ha segnato
probabilmente una svolta cruciale, che non riguarda solo
il Libano.
Essa ha due conseguenze immediate, uno sul piano della
comunicazione - che nella guerra al terrorismo è
fondamentale - e un'altra sul piano della geopolitica
dell'area.
Nonostante gli sforzi per attribuire agli
"Hezb" l'etichetta di "terroristi",
compito a cui si è dedicata gran parte della stampa
occidentale, e italiana in particolare, è sinceramente
difficile convincere l'opinione pubblica che un gruppo
così radicato nel Sud del Libano, rappresentato da due
ministri nel governo libanese, alleato con forze come
quelle del Generale Aoun, cristiano-maronita, un gruppo
che gestisce ospedali, centri di assistenza e che ora
manda i suoi militanti nelle aree colpite dai
bombardamenti per fornire supporto alla popolazione, sia
solo un gruppo di efferati "terroristi" (1).
Il che non esclude ovviamente che gli "Hezb"
abbiano condotto operazioni con tecniche terroristiche.
Secondo l'israeliano Intelligence and Terrorism
Information Center at the Center for Special Studies
(CSS) Hezbollah sarebbe responsabile fra l'altro,
- dell'autobomba all'ambasciata americana di Beirut
del 18 aprile 1983, (63 vittime)
- dell'autobomba contro le caserme dei marines e del
corpo dospedizione francese in Libano il 23 ottobre dello
stesso anno (241 marines e 58 paracadutisti francesi
uccisi).
- dell'autobomba del 20 settembre 1984 contro un sito
annesso all'ambasciata USA a Beirut Est (30 morti)
- dell'attentato alla AMIA, un centro ebraico a Buenos
Aires nel luglio del 1994 (86 morti)
- dell'attentato all'ambasciata israeliana sempre a
Buenos Aires nel1992.
Per dovere di cronaca: i primi tre attentati furono
rivendicati dalla Jihad Islamica, un gruppo inizialmente
proveniente dai "Fratelli Mussulmani" (sunniti)
ma che dal 1979 manifestò simpatie per la rivoluzione
khomeinista e che da tempo è considerato legato
all'Iran. Sempre per dovere di cronaca. Secondo il CSS
l'ex presidente argentino Carlos Menem, incassò, per
ordine di Kamenei, una tangente da 10 milioni di dollari
su una Banca Svizzera per depistare le indagine
sull'attentato all'AMIA.
Ma di fronte al bombardamento indiscriminato di Beirut
Sud molti, anche in Occidente, iniziano a pensare che fra
lanciare bombe dagli aerei su pulmini carichi di
profughi, su ambulanze o ricoveri di donne e bambini, e
portarle con le proprie mani o peggio con il proprio
corpo, non esista una differenza morale o etica
rilevante. Al massimo sono diverse le tecnologie
adottate.
E' qui che incomincia a crollare la costruzione
mediatica, ma anche giuridica della "Guerra al
Terrorismo".
Partiamo dalla normativa:a livello di Assemblea delle
Nazioni Unite nel 1994 si definisce il terrorismo come
degli: "Atti criminali intesi o calcolati per
provocare uno stato di terrore nel pubblico in generale,
o verso un gruppo di persone o particolari persone".
Nel 1999 sempre l'Assemblea ONU, Risoluzione 54/164 al
punto 3: "Ribadisce la propria assoluta condanna
degli atti, metodi e pratiche terroristiche, in tutte le
forme e manifestazioni, in quanto azioni che mirano alla
distruzione dei diritti umani, delle libertà
fondamentali e della democrazia, minacciano l'integrità
territoriale degli Stati, destabilizzano i governi
legittimamente costituiti, colpiscono il pluralismo della
società civile e pregiudicano lo sviluppo economico e
sociale degli Stati"
Basterebbero queste due citazioni a dimostrare che il
bombardamento del Libano è stata una azione
terroristica. Non solo nel metodo ma anche nel merito.
Seymour M. Hersh, il giornalista americano che scoprì la
strage di My Lay in Vietnam, ha scritto su The New Yorker
del 21 agosto che l'attacco al Libano era stato preparato
da molto tempo prima e con il pieno consenso del Governo
Americano. Non solo: "Secondo un ex membro
dell'intelligence israeliana, il piano iniziale, così
come schematizzato da Israele, prevedeva un massiccio
bombardamento in risposta alla prossima provocazione
degli Hezbollah. (.) Israele riteneva che prendendo di
mira obiettivi come le infrastrutture del Libano, incluse
le autostrade, i depositi di carburante, e perfino le
strade normali e il principale aeroporto di Beirut, ciò
avrebbe persuaso la maggior parte della popolazione
Cristiana e Sannita del Libano a rivoltarsi contro gli
Hezbollah".Un magistrato direbbe che la fattispecie
del reato di "terrorismo", così come descritto
dalla risoluzione dell'Assemblea dell'ONU si
applicherebbe perfettamente al comportamento
israeliano.Nonostante gli "Hezbollah" possano
essere considerati una organizzazione
"terroristica", ciò che è apparso evidente
nei giorni scorsi è che la differenza fra
"terrorismo" e "terrorismo di Stato"
è estremamente labile. Anzi inesistente.
Pare che agli americani i quali, dopo la strage di
Qana, chiedevano a Olmert di limitare i danni civili,
egli abbia risposto irritato "E voi cosa avete fatto
in Kossovo! Lì non subivate neanche il lancio di una
katjuscia, e avete massacrato diecimila civili!"
Non c'è dubbio, la nostra politica è fatta da
gentiluomini di vecchio stampo.
Gli attentati di Londra avrebbe potuto rilanciare la
"visione classica" del terrorismo islamico:
aerei carichi di civili che esplodono in aria. Ma ogni
giorno che passa anche la stampa inglese non nasconde un
certo scetticismo. Qualcuno l'ha ironicamente chiamata la
"strage dei biberon" per il gran numero di
biberon finiti nei cestini durante la ricerca di
esplosivo liquido. Ma è proprio l'esplosivo liquido a
costituire un problema. The Royal Society of Chemistry,
una autorevole associazione scientifica inglese ha
pubblicato sul suo bollettino Chemistry World un articolo
di B.Perks e K Sanderson che solleva molti dubbi sulla
possibilità di utilizzare esplosivo liquido sugli aerei.
In breve, gli esplosivi liquidi più conosciuti sono la
nitroglicerina e il triacetone triperoxide (TATP), che
non è propriamente un esplosivo liquido, ma è un solido
proveniente dalla combinazione di componenti liquide.
L'idea di portare nitroglicerina su un aereo è
semplicemente folle: esploderebbe durante i controlli a
terra, ad esempio quando passa sotto i raggi X, se non
addirittura durante il trasporto in aeroporto. Il TATP
sembra sia stato usato negli attentati alle metropolitane
di Londra lo scorso anno, a detta dei laboratori che
hanno svolto le indagini su un campione rimasto
inesploso. Ma introdurre le componenti liquide del TATP
in aereo e produrlo nella "toilette"
dell'aeroplano è altrettanto improbabile. Sono
necessarie "basse temperature e tutta l'operazione
va effettuata in una soluzione acquosa".
Gli obiettivi geopolitici
Sempre secondo Seymour Hersh "l'obiettivo a lungo
termine dell'Amministrazione USA era di aiutare la
nascita di una coalizione Arabo-Sunnita - comprese
nazioni come l'Arabia Saudita, la Giordania, e L'Egitto -
coalizione che si sarebbe dovuta unire nella
"pressione" degli Stati Uniti e dell'Europa
contro il predominio dei mullah Sciiti in Iran.
Questo, però, se Israele avesse vinto sul campo in modo
incontrovertibile. Esattamente il contrario di quanto è
successo.
Pare che la stessa Amministrazione Bush si sia divisa a
un certo punto al suo interno, fra la posizione di
Cheney, favorevole ad appoggiare a oltranza Israele, e
quella di Condoleeza Rice. La Rice, dopo aver consentito,
attraverso la sciagurata "Conferenza di Roma",
il proseguimento dell'offensiva israeliana, si è accorta
dell'errore commesso e ha addirittura chiesto al
Presidente di poter aprire un tavolo di trattativa con la
Siria, cercando un ruolo di mediazione. Donald Rumsfeld
buttava fumo dal naso: pur odiando gli Hezbollah si era
reso conto che, se le milizie scite irachene avessero
attaccato le "sue" truppe in Iraq, la
situazione sarebbe volta al peggio. Rumsfeld era in alla
Casa Bianca nel 1975, quando le truppe americane si
ritirarono dal Vietnam. Non voleva ripetere l'esperienza.
Si potrebbe ironizzare a lungo sulle strategie
americane in Medio Oriente, sui goffi tentativi di
governare i "signori della guerra" in
Afghanistan, sui tentativi di alleanza prima con gli
Sciiti e poi con i Sunniti in Iraq, sulle "relazioni
pericolose" con la famiglia saudita, e così via,
fino al fiasco libanese.
E però questa immagine degli americani adolescenti
malcresciuti, affetti da sindrome di Peter Pan, ignoranti
di storia e di cultura è uno stereotipo un po' troppo
logorato e sostanzialmente falso. Ad esempio la
trasformazione della resistenza all'occupazione USA nella
Guerra Civile Irachena è stata un'operazione studiata in
gran parte a tavolino . L'utilizzo dell'ala qa'edista di
Zharkawi (chiunque esso sia stato) è stata probabilmente
una grande operazione di intelligence. Non a caso
l'amministrazione americana diede sin dall'inizio gran
risalto alla presunta lettera di Zharkawi alla dirigenza
di Al Q'aeda , in cui si sosteneva la guerra civile
contro gli sciti, chiamati eretici "sabei",
lettera diligentemente riportata dal sito "New
American Century" http://www.newamericancentury.org/middleeast-20040212.htm
E anche durante la guerra in Libano, guarda caso Ynet,
agenzia israeliana, riporta le dichiarazioni dello
Sceicco Safar al Hawali, antico maestro di Osama Bin
Laden, il quale definisce "il Partito di Dio"
(Hezbollah) come "il Partito di Satana" e
dichiara di aver emesso una fatwa per vietare ai credenti
di sostenere in qualsiasi modo gli Hezb.
Storicamente gli americani sono esperti di guerre
etnico-religiose, fin dalle Guerre Indiane del tempo
della frontiera, alla conquista delle Filippine, al
Vietnam, con l'utilizzo della minoranza Hmong, alla
Jugoslavia, alla guerra in Afghanistan, con il conflitto
fra tagiki, ukbeki, azeri e pashtun.
L'ipotesi di una "dissociazione" dell'Iraq in
una federazione di Stati (2) certo comporterebbe vantaggi
e svantaggi: Uno dei problemi più complessi è la
concentrazione delle risorse petrolifere dei campi di
Kirkuk nell'area a prevalenza curda. Le relazioni con la
Turchia diverrebbero certamente più tese.
L'ipotesi di uno stato unitario "pacificato" a
prevalenza Sciita è però ancor più pericolosa per gli
USA.
In Iraq i partiti di estrazione Sciita di fatto
monopolizzano il governo e sono per adesso indispensabili
agli americani per il contenimento della guerriglia,
soprattutto di estrazione "baathista"-sunnita.
In Libano gli Hezbollah sono direttamente collegati
all'Iran e controllano l'intero Sud del Libano, esprimono
membri del governo libanese e raccolgono il 28% dei
consensi elettorali; in Palestina, area ad assoluta
maggioranza Sunnita, l'Iran controlla almeno un gruppo
della resistenza, la Jihad Islamica, e mira a diventare
il paese di riferimento per le ali più oltranziste del
movimento palestinese, dopo l'azzeramento della dirigenza
di Hamas effettuato dagli israeliani. Non bisogna
dimenticare infine che il gruppo dirigente siriano che fa
capo a Bashir Assad è anch'esso parte della Sh'ia, anche
se di una setta particolare come gli alawithi. I
musulmani Sciiti nel mondo sono ormai 130 milioni, la
maggioranza in Iran, il 60% in Iraq, il 30% in Libano. Ma
sono presenti ormai anche in Pakistan, in Palestina e
persino nella culla dell'ortodossia Sunnita ottomana: la
Turchia.
Il "Terzo Fronte" appare indubbiamente il
più duro. Ed è proprio lì che vogliamo inviare le
nostre truppe. Viste le scarse risorse di cui dispone il
nostro malconcio paese e la miseria prossima ventura che
quel menagramo di Tommaso Padoa Schioppa non cessa di
ricordarci ogni volta che apre bocca, invece di militari
costosi quanto inutili, non sarebbe meglio mandare che so
io Emergency, la Protezione Civile, un po' di società di
ingegneria e costruzione per avviare la ricostruzione di
un paese di cui avremmo dovuto impedire la distruzione?
Lasciamo ai Parà francesi il compito di interposizione.
Ché sul Libano hanno qualche responsabilità storica
maggiore delle nostre.
Se l'Europa fosse qualcosa di più di una
"espressione geografica," vincolata a una serie
di parametri e regolamenti idioti, e ad alleanze
quantomeno discutibili, il suo compito sarebbe stato
quello di intervenire immediatamente, assicurando, ad
esempio, l'inviolabilità dello spazio aereo libanese.
Evitando così la distruzione del Libano, la migrazione
biblica degli sfollati, oltre a un migliaio di morti. Una
posizione forte, certo, ma almeno chiara.
Ma Israele, come la Turchia dal 2004 è praticamente un
paese NATO (vedi qui).
Difficile pensare quindi un esito diverso da quello della
Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, che di fatto
ha concesso a Israele un mese di tempo per protrarre i
bombardamenti indiscriminati sul Libano.
La risoluzione dell'ONU 1701 è un capolavoro di
ambiguità come ha ben evidenziato Paolo Chiocchetti su
Carmilla.
Praticamente l'80% dei compiti spetta all'Esercito
libanese, male armato, debole e, come sanno benissimo gli
israeliani, formato ormai al 75% da Sciiti. Solo gli
ufficiali sono cristiani o sunniti, ma molti parteggiano
per il Generale Aoun, attualmente alleato a Hezbollah.
Insomma una barzelletta.
Dall'altra parte l'intera risoluzione è filo-israeliana:
non parla dei blocchi navali e dei consueti sorvoli del
Libano da parte dell'aviazione di Tshal, che durano da
almeno vent'anni. Di buono nella 1701 c'è solo il
"cessate il fuoco".
A una prima valutazione, dunque, gli obiettivi strategici
degli USA e degli Israeliani sono falliti sul piano
militare, ma forse hanno recuperato qualcosa su quello
diplomatico. La domanda è: dove si riaccenderà il
"terzo fronte"? Di nuovo in Libano, o a Bassora
oppure direttamente in Iran con una campagna di
bombardamenti?
Una notizia passata inosservata, a volte, è la chiave
di interpretazione dei nuovi assetti geopolitici.
In Aprile l'Agenzia Russa Itar-Tass riportava le
dichiarazioni di Manuchehr Mohammadi, ministro degli
esteri iraniano che dichiarava la richiesta dell'Iran di
far parte del Gruppo di Shanghai, (Shanghai Cooperation
Organization - SCO).
Cos'è lo SCO? Nato nel 1997 fra Russia, Cina,
Kazakistan, Kyrgyzstan e Tajikistan - i cosiddetti cinque
di Shanghai - a cui si aggiunse l'Uzbekistan, lo SCO si
proponeva inizialmente di risolvere i problemi relativi
alla frontiera russo-cinese. Ben presto però i suoi
scopi si sono allargati: nel 2001 fra le sue finalità fu
inserita la "lotta al terrorismo in Centro-Asia,
dove vi erano state infiltrazioni qa'ediste (wahabbite),
particolarmente rischiose vista l'esistenza sia negli
Stati dell'ex URSS che in Cina di ampie comunità
mussulmane, addirittura maggioritarie nelle ex
repubbliche sovietiche del centro Asia. Comunque
all'inizio i suoi obiettivi sembravano modesti.
Oggi non è più così. All'iniziale funzione di
anti-terrorismo, si sono aggiunte funzioni di
cooperazione militare, economica e culturale. Esso
rappresenta un'area di oltre 30 milioni di kmq e una
popolazione di un miliardo 455 milion idi persone. Non
solo nel 2005 il Gruppo di Shanghai è stato aperto ad
altri Stati come "osservatori": Mongolia,
Pakistan, India e Iran.
Di fatto all'offensiva americana in "Eurasia" -
il vecchio sogno di Brezinsky - che doveva puntare sulle
repubbliche sovietiche del Centro-Asia si è contrapposta
un'alleanza Russo-Cinese che in pochi anni si è
consolidata enormemente.
Per comprendere la sua influenza basta pensare che
dispone di due membri permanenti nel Consiglio di
Sicurezza dell'ONU.
Il Gruppo di Shanghai vuole entrare nella gestione
della "crisi nucleare iraniana" e non ha
nessuna intenzione di lasciare all'America e a Israele il
monopolio della politica estera mondiale. Si è creata
una nuova "faglia" che rischia di riallontanare
Oriente ed Occidente. L'Iran è esattamente sul confine
della faglia.
E d'altra parte l'atteggiamento Russo-Cinese nelle
recenti crisi mediorientali, e soprattutto verso l'Iran
sembra non solo coordinato, ma volto a trovare soluzioni
antitetiche a quelle americane. I Russi hanno proposto a
più riprese di svolgere loro per conto dell'Iran i
processi di arricchimento dell'uranio. Inoltre chiunque
abbia un minimo di conoscenza in campo militare sa che
quella dell'atomica iraniana è una minaccia estremamente
relativa.
Vediamo perché. Il numero delle atomiche israeliane non
è evidentemente pubblico. Ma ci sono delle stime:
l'Intelligence americano le valutava a fine anni '90 fra
75 e 130. Le foto realizzate da Mordechai Vanunu, che
pagò con lunghi anni di carcere la divulgazione
dell'informazione, facevano ritenere che vi fosse un
potenziale fra le 100 e le 200 bombe. Le stime più alte
arrivano a 400. Comunque stiamo parlando di una potenza
nucleare in grado di polverizzare tutte le capitali del
mondo arabo. I vettori di trasporto, oltre agli aerei,
sono circa 300 missili Jericho 1 e Jericho 2 , il primo
con una gittata di 500 km e il secondo da 1.500 a 4.000
km, a cui si aggiungono 12 missili Popeye Turbo con
gittata da 200 km per sottomarini di classe Dolphin di
fabbricazione tedesca.
A questo potenziale l'Iran può opporre pochi esemplari,
forse prototipi, di Shabab 3 con una gittata di 1.900 km.
In grado comunque di colpire Israele. E' vero che l'Iran
sta potenziando il suo programma missilistico, ma è
anche vero che l'atomica iraniana non potrà essere
pronta, secondo le stime AIEA, che fra cinque-dieci anni.
E' opinione comune infine che, dopo lo smembramento
dell'URSS, il "Trattato di non proliferazione
nucleare" abbia perso di senso. Israele, India e
Pakistan non vi aderiscono, la Corea del Nord si è
ritirata dai sottoscrittori e la possibilità che anche
piccoli stati si dotino di armi nucleari, è estremamente
alta, purtroppo.
Da un punto di vista militare l'intera questione è
priva di senso. La forza del mondo arabo-mussulmano nei
confronti di Israele è costituita dall'enorme differenza
demografica fra ebrei e mussulmani. E anche questa è
relativa, considerando le divisioni etnico-religiose
all'interno del mondo arabo-mussulmano. Sul piano
tecnologico la forza è tutta dalla parte di Israele.
L'atomica iraniana, se mai verrà costruita, avrà una
logica di "deterrenza", come fra USA e URSS ai
tempi della guerra fredda. Gli ambienti militari
israeliani temono proprio questo: essere costretti a
sedersi al tavolo delle trattative. E seguono gli
americani nella guerra preventiva.
Ma allora come mai la crisi iraniana scoppia proprio
adesso?
Alcuni motivi "geopolitici" appaiono già da
quanto detto. Riassumendo: la politica americana per un
"Nuovo Medioriente" non può permettere che fra
i suoi due avamposti, l'Afghanistan e l'Iraq, esista uno
"stato canaglia", un "asse del male"
il quale potenzialmente ha già in mano il controllo del
governo iracheno e può giocare in Afghanistan la carta
della minoranza azera e dell'"esecrabile banda di
Golbodin Hekmatyar (Hezb-i-Islami) che ridusse in macerie
Kabul con l'indiscriminato bombardamento e il lancio dei
missili quotidiani.". Così la chiamavano le donne
del RAWA, l'Associazione Rivoluzionaria delle Donne
Afghane (vedi qui). Oggi Hekmatyar è gentile ospite
dell'Iran.
Il Governo Americano non può soprattutto permettere che
il quarto produttore mondiale di petrolio e il secondo di
gas entri nel "Gruppo di Shanghai", dove c'è
la Russia, secondo produttore di greggio, e primo per il
gas. La geopolitica delle fonti energetiche verrebbe
rivoluzionata definitivamente.
Ma, a differenza di diversi critici della politica
americana, da Chossudosky a Chomsky, solo per citare
alcuni punti di riferimento, io non credo che ci troviamo
nella situazione di un "imperialismo classico",
cioè del tentativo di impossessarsi di risorse
strategiche attraverso la guerra. Insomma: una guerra per
il petrolio. Un piccolo esempio: Gli USA prima della
guerra del 2003, in pieno embargo, importavano dall'Iraq
in media più di 800 milioni di barili giorno, con il
sistema "Oil for Food". Oggi dopo l'occupazione
ne importano 522. Nonostante gli attacchi della
"resistenza" ad alcune centrali di pompaggio -
peraltro limitati - il calo dimostra che il petrolio
iracheno non era un obiettivo immediato degli USA.
Diverso il discorso sulle riserve, ma quelle verranno
amministrate probabilmente da un governo Sciita
filo-iraniano, o da un improbabile Stato Kurdo.
No, il petrolio è una variabile del "Grande
Gioco" Mediorientale, influenza sicuramente i conti
della Exxon e di Halliburton, grandi elettori di Bush, ma
non basta da solo a spiegare la destabilizzazione
dell'intero Medioriente. Fra l'altro una "Guerra per
il petrolio", condotta secondo i canoni classici
dell'imperialismo, avrebbe dovuto avere come obiettivo un
ribasso del prezzo del greggio: l'esatto inverso di
quanto si sta verificando.
Storicamente gli americani, fin dalla prima crisi
petrolifera, sono stati avvantaggiati dagli alti prezzi
del petrolio. Un petrolio più caro vuol dire creare una
massa di liquidità in dollari (petrodollari) che non
incide sull'inflazione americana, ma che viene
"riciclata" in parte sui mercati finanziari,
principalmente americani, e in parte in progetti di
sviluppo nei paesi produttori, (realizzati in gran parte
da società americane) ovviamente purché siano
"amici", come l'Arabia Saudita e gli Emirati.
Il flusso di capitali così generato viene utilizzato per
pareggiare il "deficit della bilancia commerciale
americana" attraverso investimenti diretti e di
portafoglio. Il risultato è che i cittadini USA possono
continuare a vivere al di sopra delle proprie
possibilità: una generazione di Oscar Wilde, anche se
meno autoironici.
La guerra come forma di regolazione
dell'economia in un periodo di crisi
L'economia americana, come è noto agli esperti -
anche se non ai giornalisti economici - è in crisi dal
marzo 2000, quando tutti i principali indicatori, a
partire dalla produzione industriale, iniziarono a
puntare verso il basso, fino allo sgonfiamento prima
della "bolla della new economy" e poi
dell'intera borsa americana. E' forse non del tutto
inutile ricordare alcune di quelle cifre: nel secondo
trimestre del 2000 l'economia americana passò da un
tasso di crescita del 5%, allo 0% della fine del 2000,
andando in recessione per due trimestri nel 2001.
Nonostante gli sforzi della FED, che iniziò una serie
vertiginosa di ribassi dei tassi di interesse, fino a
portarli a valori negativi, sotto cioè il tasso
d'inflazione, la Borsa registrò il peggior crollo dai
tempi di Wall Street: l'indice Standard & Poors 500
perse fra il 1999 e il 2002 589,5 punti, pari al 67% del
suo valore.
La tragedia del 9/11 avvenne proprio nel mezzo della
crisi. Guardando l'indice Dow Jones si nota una pesante
caduta di circa 400 punti i giorni 5 e 6 settembre dopo
la rottura di quota 10.000, avvenuta a fine agosto. Il 7
ed il 9 la Borsa è chiusa per il week-end. Il 10 rimane
piatta, come in attesa. L'11 gli aerei si schiantano
sulle Torri e Wall Street chiude per circa una settimana.
Seguono altri crolli del listino fino a portare il Down
Jones poco sopra quota 8.000. Poi lentamente la ripresa.
Nel frattempo era scoppiata la "Guerra al
Terrorismo" che, dal punto di vista economico, volle
dire un aumento impressionante del deficit pubblico. La
recessione fu scongiurata, la crisi finanziaria anche e
l'America ricominciò a crescere a tassi del 3,5% annuo.
Molto più dell'Europa.
Tutto ciò però ha avuto un costo in termini di deficit
commerciali e pubblici. Nel periodo di Clinton l'America
aveva accumulato un grande deficit commerciale, ma aveva
un forte "surplus" nel Bilancio Federale, pari
al 2% del PIL. Nell'era del primo mandato Bush si è
arrivati a un deficit fiscale superiore al 4% del PIL.
Ciò vuol dire che in meno di quattro anni una cifra pari
al 6% del PIL americano è stato trasferito dallo Stato
all'economia. Si tratta di una cifra enorme. A cui si
assomma un deficit commerciale superiore al 5% del P.I.L.
"Gli Stati Uniti - dice Joseph Stiglitz (premio
Nobel per l'Economia, ex consigliere di Clinton e
professore alla Columbia University) - stanno ampiamente
contraendo prestiti, al ritmo di due miliardi di dollari
al giorno, per pagare l'ampio deficit commerciale. Il
più ricco paese del mondo vive al di sopra dei propri
mezzi. Comunque, anche la più potente nazione del mondo
non può sfuggire alla semplice aritmetica del debito: i
soldi servono per pagare gli interessi e, eventualmente,
ripagare i prestiti. Facendo così gli USA saranno più
poveri."
Negli ultimi giorni diversi economisti americani, non
particolarmente anticonformisti, come Nouriel Rubini sul
suo blog, e Paul Krugman, sul New York Times, hanno messo
in guardia su una possibile prossima recessione
dell'economia americana fra la fine del 2006 e il 2007.
Questa volta sarà la "bolla immobiliare" a
innescare la crisi che potrebbe estendersi al dollaro e
ai mercati finanziari. Oltre a mettere letteralmente sul
"marciapiede" migliaia di famiglie americane
che hanno usato la crescita del prezzo delle case per
"rifinanziare" i propri mutui a tassi ora
sempre più alti.
A novembre ci sono le elezioni americane per il
Congresso. La "Junta" Militare che governa
attualmente gli Stati Uniti deve vincerle, se non vuol
rimanere ingessata fino al 2008, data delle prossime
presidenziali. Aspettiamoci il peggio.
Il Dio e il bambino
Come dire: il rischio che "Il Terzo Fronte"
si riapra prima dell'autunno è concreto. E se il quadro
geopolitico che ho provato a delineare ha una pur scarsa
possibilità di essere vero, Il Terzo Fronte" non
sarà uno scherzo: per la prima volta rischieranno di
confrontarsi l'ormai consolidata egemonia americana e la
nascente potenza euroasiatica. Nessuna delle due, né il
"fondamentalismo liberista" yankee, né il
"nazionalismo totalitario Russo-Cinese", sembra
poter incarnare un futuro possibile per l'umanità. Se un
"altro mondo è possibile", andrebbe cercato in
fretta. Prima che, come scriveva Ezra Pound "Ognuno
segua il suo Dio". Ed Ezra Pound, benché geniale,
non era propriamente uno scrittore "di
sinistra".
Per quanto mi riguarda il mio, di Dio è stato
bombardato a Balbek. Un cacciabombardiere israeliano ha
centrato, insieme a un bambino di dieci anni, anche una
parte del Tempio di Bacco-Dioniso. Ma il mio, di Dio,
c'è abituato. Da sempre muore ogni anno, e ogni anno
rinasce, così come spero accada al bambino. Che forse
altri non era che una epifania del Dio.
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