testo del
discorso del Papa ECCO COSA HA DETTO IL PAPA CHE HA FATTO
SCATENARE L'IRA DEI MUSULMANI.
BOLLETTINO N. 0445 - 12.09.2006 8
[01245-05.02] [Originalsprache: Deutsch]
" TRADUZIONE IN LINGUA ITALIANA
Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.
Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante stare ancora una volta
sulla
cattedra dell'università e una volta ancora poter tenere
una
lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a
quegli
anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto
superiore di
Freising, iniziai la mia attività di insegnante
accademico
all'università di Bonn. Era - nel 1959 - ancora il tempo
della
vecchia università dei professori ordinari. Per le
singole cattedre
non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in
compenso c'era
un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto
anche tra i
professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione
nelle stanze
dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i
filologi e
naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano
molto
stretti.
Una volta in ogni semestre
c'era un cosiddetto dies
academicus, in cui professori di tutte le facoltà si
presentavano
davanti agli studenti dell'intera università, rendendo
così
possibile una vera esperienza di universitas: il fatto
che noi,
nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci
rendono
incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e
lavoriamo nel
tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni,
stando così
insieme anche nella comune responsabilità per il retto
uso della
ragione - questo fatto diventava esperienza viva.
L'università,
senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà
teologiche. Era
chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza
della
fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del
"tutto"
dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano
condividere la fede, per la cui correlazione con la
ragione comune
si impegnano i teologi.
Questa coesione interiore nel
cosmo della
ragione non venne disturbata neanche quando una volta
trapelò la
notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra
università
c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di
una cosa che
non esisteva - di Dio. Che anche di fronte ad uno
scetticismo così
radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su
Dio per
mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel
contesto della
tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme
dell'università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi
la parte
edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del
dialogo che il
dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse
durante i
quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un
persiano
colto su cristianesimo e islam e sulla verità di
ambedue. Fu poi
probabilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante
l'assedio di
Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si
spiega così
perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto
più
dettagliato che non le risposte dell'erudito persiano. Il
dialogo si
estende su tutto l'ambito delle strutture della fede
contenute nella
Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto
sull'immagine di Dio e
dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla
relazione
tra le "tre Leggi": Antico Testamento - Nuovo
Testamento - Corano.
Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento -
piuttosto
marginale nella struttura del dialogo - che, nel contesto
del
tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che
mi servirà come punto
di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio ( - controversia) edito dal prof.
Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihad (guerra
santa).
Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si
legge: "Nessuna costrizione nelle cose di
fede". È una delle sure
del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora
senza potere
e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva
anche le
disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel
Corano, circa
la guerra santa.
Senza
soffermarsi sui particolari, come la
differenza di trattamento tra coloro che possiedono il
"Libro" e
gli "increduli", egli, in modo
sorprendentemente brusco, si rivolge
al suo interlocutore semplicemente con la domanda
centrale sul
rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo:
"Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di
nuovo, e vi troverai
soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua
direttiva di
diffondere per mezzo della spada la fede che egli
predicava".
L'imperatore
spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la
diffusione della fede mediante la violenza è cosa
irragionevole. La
violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura
dell'anima. "Dio non si compiace del sangue; non
agire secondo
ragione ( è contrario alla natura di Dio. La fede è
frutto
dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre
qualcuno alla
fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di
ragionare
correttamente, non invece della violenza e della
minaccia. Per
convincere un'anima ragionevole non è necessario
disporre né del
proprio braccio, né di strumenti per colpire né di
qualunque altro
mezzo con cui si possa minacciare una persona di
morte.".
L'affermazione
decisiva in questa argomentazione contro la
conversione mediante la violenza è: non agire secondo
ragione è
contrario alla natura di Dio. L'editore, Theodore Khoury,
commenta:
per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella
filosofia greca,
quest'affermazione è evidente. Per la dottrina
musulmana, invece,
Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è
legata a
nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della
ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera
del noto
islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn
Hazn si
spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato
neanche dalla
sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a
rivelare a noi la
verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare
anche
l'idolatria.
Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella
realizzazione
concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in
modo molto
diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia
in
contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un
pensiero greco o
vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto
si
manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco
nel senso
migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della
Bibbia.
Modificando il primo versetto del Libro della Genesi,
Giovanni ha
iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole:
"In principio era
il ". È questa proprio la stessa parola che usa
l'imperatore:
Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e
parola - una
ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma,
appunto, come
ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola
conclusiva sul
concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie
spesso
faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la
loro meta,
trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il
logos è
Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio
biblico e il
pensiero greco non era un semplice caso.
La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse
le vie
dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la
sua
supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr
At 16,6-10) - questa
visione può essere interpretata come una
"condensazione" della
necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede
biblica e
l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da
molto tempo.
Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che
distacca
questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici
nomi
affermando soltanto il suo essere, è, nei confronti del
mito, una
contestazione con la quale sta in intima analogia il
tentativo di
Socrate di vincere e superare il mito stesso.
Il processo iniziato
presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico
Testamento, una
nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele,
ora privo
della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del
cielo e della
terra, presentandosi con una semplice formula che
prolunga la parola
del roveto: "Io sono". Con questa nuova
conoscenza di Dio va di pari
passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo
drastico
nella derisione delle divinità che sono soltanto opera
delle mani
dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la
durezza del
disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano
ottenere con la
forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro
culto
idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica,
andava
interiormente incontro alla parte migliore del pensiero
greco, fino
ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato
specialmente
nella tarda letteratura sapienziale.
Oggi noi sappiamo che la
traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in
Alessandria -
la "Settanta" -, è più di una semplice (da
valutare forse in modo
poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti
una
testimonianza testuale a se stante e uno specifico
importante passo
della storia della Rivelazione, nel quale si è
realizzato questo
incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo
e la sua
divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel
profondo, vi si
tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico
illuminismo e
religione. Partendo veramente dall'intima natura della
fede
cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero
ellenistico fuso
ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire
"con il logos"
è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel
tardo Medioevo,
si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono
questa
sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In
contrasto con il
cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò
con Duns
Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine
portò
all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la
voluntas
ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di
Dio, in virtù
della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il
contrario di
tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano
delle
posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle
di Ibn Hazn
e potrebbero portare fino all'immagine di un
Dio-Arbitrio, che non è
legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e
la diversità
di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che
anche la
nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non
sono più un
vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali
rimangono per noi
eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue
decisioni
effettive.
In contrasto con ciò, la fede
della Chiesa si è sempre
attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo
eterno
Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una
vera
analogia, in cui certo le dissomiglianze sono
infinitamente più
grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da
abolire
l'analogia e il suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non
diventa più
divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un
volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente
divino è
quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha
agito e agisce
pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore
"sorpassa" la
conoscenza ed è per questo capace di percepire più
del semplice
pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del
Dio-logos,
per cui il culto cristiano è - un culto che concorda
con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm
12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che
si è avuto
tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico
del
pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non
solo dal punto
di vista della storia delle religioni, ma anche da quello
della
storia universale - un dato che ci obbliga anche oggi.
Considerato
questo incontro, non è sorprendente che il
cristianesimo, nonostante
la sua origine e qualche suo sviluppo importante
nell'Oriente, abbia
infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in
Europa.
Possiamo esprimerlo anche inversamente: incontro, al
quale si
aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha
creato
l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione,
si può
chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente
purificato, sia una
parte integrante della fede cristiana, si oppone la
richiesta della
dis-ellenizzazione del cristianesimo - una richiesta che
dall'inizio
dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca
teologica.
Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel
programma
della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse
tuttavia
nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono
chiaramente
distinte l'una dall'altra.
La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con
i postulati
fondamentali della Riforma del XVI secolo. Considerando
la
tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si
vedevano di
fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata
totalmente
dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione
della fede
dall'esterno in forza di un modo di pensare che non
derivava da
essa. Così la fede non appariva più come vivente parola
storica, ma
come elemento inserito nella struttura di un sistema
filosofico. Il
sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale
della fede,
come essa è presente originariamente nella Parola
biblica. La
metafisica appare come un presupposto derivante da altra
fonte, da
cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere
totalmente
se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto
accantonare il
pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a
questo
programma con una radicalità imprevedibile per i
riformatori. Con
ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione
pratica,
negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una
seconda
onda nel programma della dis-ellenizzazione: di essa
rappresentante
eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei
studi, come
nei primi anni della mia attività accademica, questo
programma era
fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come
punto di
partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il
Dio dei
filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella
mia
prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare
questo
argomento. Non intendo riprendere qui tutto il discorso.
Vorrei però
tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità
che
caratterizzava questa seconda onda di dis-ellenizzazione
rispetto
alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il
ritorno al
semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che
verrebbe prima
di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle
ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che
costituirebbe
il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità.
Gesù avrebbe
dato un addio al culto in favore della morale.
In definitiva, Egli
viene rappresentato come padre di un messaggio morale
umanitario. Lo
scopo di ciò è in fondo di riportare il cristianesimo
in armonia con
la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi
apparentemente
filosofici e teologici, come per esempio la fede nella
divinità di
Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso,
l'esegesi storico-
critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la
teologia nel
cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è
qualcosa di
essenzialmente storico e quindi di strettamente
scientifico. Ciò che
essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così
dire,
espressione della ragione pratica e di conseguenza anche
sostenibile
nell'insieme dell'università.
Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della
ragione, espressa
in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel
frattempo però
ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze
naturali.
Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla
in breve,
su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed
empirismo, che il
successo tecnico ha confermato. Da una parte si
presuppone la
struttura matematica della materia, la sua per così dire
razionalità
intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla
nella sua
efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per
così dire,
l'elemento platonico nel concetto moderno della natura.
Dall'altra
parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della
natura per i
nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare
verità o
falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza
decisiva. Il
peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze,
stare più
dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così
strettamente
positivista come J. Monod si è dichiarato convinto
platonico o
cartesiano. Questo comporta due orientamenti fondamentali
decisivi
per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza
derivante
dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di
parlare di
scientificità.
Ciò che pretende di essere
scienza deve confrontarsi
con questo criterio. E così anche le scienze che
riguardano le cose
umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la
filosofia,
cercano di avvicinarsi a questo canone della
scientificità.
Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora
il fatto
che il metodo come tale esclude il problema Dio,
facendolo apparire
come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo,
però, ci
troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e
ragione
che è doveroso mettere in questione.
Torneremo ancora su questo argomento. Per il momento
basta tener
presente che, in un tentativo alla luce di questa
prospettiva di
conservare alla teologia il carattere di disciplina
"scientifica",
del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma
dobbiamo
dire di più: è l'uomo stesso che con ciò subisce una
riduzione.
Poiché allora gli interrogativi propriamente umani,
cioè quelli
del "da dove" e del "verso dove", gli
interrogativi della religione
e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio
della comune
ragione descritta dalla "scienza" e devono
essere spostati
nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base
alle sue
esperienze, che cosa gli appare religiosamente
sostenibile, e
la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva
l'unica istanza
etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione
perdono la loro
forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della
discrezionalità personale.
È questa una condizione
pericolosa per
l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose
della religione
e della ragione - patologie che necessariamente devono
scoppiare,
quando la ragione viene ridotta a tal punto che le
questioni della
religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che
rimane dei
tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole
dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia,
semplicemente
insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto
questo
ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza
onda della
dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In
considerazione
dell'incontro con la molteplicità delle culture si ama
dire oggi che
la sintesi con l'ellenismo, compiutasi nella Chiesa
antica, sarebbe
stata una prima inculturazione, che non dovrebbe
vincolare le altre
culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare
indietro fino
al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire
il
semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo
poi di nuovo
nei loro rispettivi ambienti.
Questa tesi non è
semplicemente
sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo
Testamento,
infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se
stesso il
contatto con lo spirito greco - un contatto che era
maturato nello
sviluppo precedente dell'Antico Testamento. Certamente ci
sono
elementi nel processo formativo della Chiesa antica che
non devono
essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di
fondo che,
appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca
della
ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte
della fede
stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione.
Questo tentativo, fatto solo a
grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo
interno, non
include assolutamente l'opinione che ora si debba
ritornare
indietro, a prima dell'illuminismo, rigettando le
convinzioni
dell'età moderna. Quello che nello sviluppo moderno
dello spirito è
valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo
grati per le
grandiose possibilità che esso ha aperto all'uomo e per
i progressi
nel campo umano che ci sono stati donati. L'ethos della
scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla
verità e
quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della
decisione
di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica
negativa è
dunque l'intenzione; si tratta invece di un allargamento
del nostro
concetto di ragione e dell'uso di essa. Perché con tutta
la gioia di
fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le
minacce che
emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come
possiamo
dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si
ritrovano unite in
un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata
della
ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e
dischiudiamo ad
essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la
teologia,
non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica,
ma come
teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla
ragione della
fede, deve avere il suo posto nell'università e nel
vasto dialogo
delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo
delle culture e
delle religioni - un dialogo di cui abbiamo un così
urgente bisogno.
Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che
soltanto la
ragione positivista e le forme di filosofia da essa
derivanti siano
universali. Ma le culture profondamente religiose del
mondo vedono
proprio in questa esclusione del divino
dall'universalità della
ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una
ragione,
che di fronte al divino è sorda e respinge la religione
nell'ambito
delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo
delle
culture.
E tuttavia, la moderna ragione
propria delle scienze
naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta
in sé, come
ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la
trascende insieme
con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve
semplicemente
accettare la struttura razionale della materia e la
corrispondenza
tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti
nella natura
come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso
metodico.
Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste
e deve
essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e
modi del
pensare - alla filosofia e alla teologia. Per la
filosofia e, in
modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi
esperienze e
convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità,
specialmente
quella della fede cristiana, costituisce una fonte di
conoscenza;
rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione
inaccettabile del
nostro ascoltare e rispondere.
Qui mi viene in mente una
parola di
Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano
toccate molte
opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice:
"Sarebbe ben
comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante
cose
sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio
ogni
discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo
perderebbe
la verità dell'essere e subirebbe un grande danno".
L'occidente, da
molto tempo, è minacciato da questa avversione contro
gli
interrogativi fondamentali della sua ragione, e così
può subire solo
un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza
della ragione,
non il rifiuto della sua grandezza - è questo il
programma con cui
una teologia impegnata nella riflessione sulla fede
biblica, entra
nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo
ragione (con il
logos) è contrario alla natura di Dio", ha detto
Manuele II,
partendo dalla sua immagine cristiana di Dio,
all'interlocutore
persiano. È a questo grande logos, a questa vastità
della ragione,
che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri
interlocutori.
Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande
compito
dell'università.
|