LO SFACELO IN ATTO:

VERSO IL SOTTOSVILUPPO, IN UNA DEMOCRAZIA AUTORITARIA

E NEL FALLIMENTO DELLA FORMAZIONE

Che in Italia vi sia un’«emergenza democratica» – un vero e proprio deficit di democrazia, una riduzione della democrazia a forma sempre piú vuota, formalmente esistente ma sostanzialmente fittizia – dovrebbe essere evidente. Tuttavia, come si può forse ipotizzare, quando l’evidente è cosí tanto … evidente, palese, posto lí, davanti agli occhi di tutti e presente all’esperienza di tutti, pare risultare troppo accecante, perché sia generalmente assunto e ammesso.

Un breve, parziale elenco

In Italia la democrazia non è in corso di "svuotamento"? E non si sta andando sempre piú - in modo esteso, dall’"alto" al "basso" ma anche dal "basso all’"alto" – in questa direzione?

Basti solo pensare alle recenti elezioni politiche, attuate in base a una legge elettorale inaccettabile (a mio avviso incostituzionale – non è però che quella precedente fosse migliore) che tanti hanno criticato e attaccato a piú riprese e con veemenza, ma che il precedente governo ha lasciato cosí com’era, mentre ora … non se ne parla piú.

Basti pensare alla realtà effettiva dell’"impianto" politico (al di là dei discorsi di propaganda, buoni per i diversi comparti dell’elettorato) del "grosso" degli opposti schieramenti, Pdl e Pd, sempre piú simile - all’"americana", come peraltro è stato già teorizzato, oltre che applicato, da tempo (vedi la teoria dell’«alternanza»), il che configura le formazioni politiche maggiori come, in fondo e infine, frazioni di un solo partito di governo e di Stato.

Basti pensare alla situazione relativa alla nostra Carta costituzionale - elaborata e varata dagli esponenti delle forze politiche della Resistenza e della Liberazione, certo un compromesso, ma basato sull’antifascismo e di elevato livello, che poneva un concreto bilanciamento dei poteri statuali, che subordinava il "privatismo" agli interessi e condizioni «del paese», ossia alla gran parte della popolazione, e poneva principi fondamentali nel campo dei diritti, ben oltre quelli tradizionali del liberalismo (libertà di opinione, espressione, religione; eguaglianza di fronte alla legge; diritto elettorale attivo e passivo, etc.), ossia nel campo del lavoro, della salute, della casa, dello studio, dell’assistenza,etc. -, ebbene, si veda questa nostra Costituzione disapplicata e distorta, stravolta e violata, sia nei fatti, con leggi ordinarie (dal diritto al lavoro a quello alla pensione, alla sanità, alla casa, allo studio, per non parlare del divieto di ricorso alla guerra nei rapporti con l’estero - vedi art. 11), sia nella lettera, con varie modificazioni (la modifica del titolo V, le misure sulla giustizia, le disposizioni che hanno permesso gli statuti regionali – come quello della Regione Toscana, per esempio, ma non solo – e che hanno introdotto i "governatori" delle Regioni e i "sindaci-podestà"), e ormai, e da tempo, ribadita come astrazione, come discorso, come pura retorica, mentre se ne preparano ulteriori stravolgimenti.

Basti pensare al "sistema" dell’informazione, che è occultamento, disinformazione, deformazione, mistificazione, non solo sui giornali e soprattutto nei tg e "dibattiti" vari – che finiscono per essere tutti simili, se non uguali –, ma anche tramite la moda, potente veicolo di "modi d’essere" che vano oltre il semplice abbigliamento, e tramite lo strabordante «intrattenimento» (che è un inno al peggio e sollecitazione del peggio nelle relazioni civili e umane, è "educazione" all’inciviltà) - e le rarissime occasioni di maggiore onestà e correttezza informative servono da foglia di fico per accreditare tutto il resto.

Basti pensare all’accantonamento di ogni vera sovranità del nostro paese, non solo sul piano geostrategico e geopolitico, ma anche sul piano finanziario ed economico - e che democrazia c’è, senza effettiva indipendenza?

E basti pensare alle "micro-violazioni" e "micro-vessazioni", ormai divenute "normali", alla supponenza costante e alle prevaricazioni permanenti a livello locale - enti locali, istituzioni varie, anche culturali …

E questo elenco potrebbe ben continuare, e a lungo. Ma è meglio sottolineare una notazione: risulta forse che nel panorama "ufficiale" - mi riferisco ai maggiori e minori leaders ed esponenti vari della «classe politica», a opinionisti di tv e stampa, giornalisti, conduttori di dibattiti televisivi, etc. – vi sia qualcuno che mette al primo e primario posto la carenza di democrazia, l’inconsistenza delle democrazia, la distruzione della democrazia nel nostro paese? Di piú: risulta che, di conseguenza, vi sia qualcuno nel panorama "ufficiale" – politico e culturale – che ne tragga le dovute conseguenze?

La risposta è «no»: non risulta, non c’è - e non è per caso.

Democrazia formale e sostanziale

Esistono «[…] due diverse concezioni di democrazia. Una definisce democratica la società in cui il popolo ha i mezzi per partecipare in modo significativo alla gestione dei propri interessi e in cui i media sono accessibili e liberi. Una definizione di questo tipo si trova anche sul dizionario. La concezione alternativa è quella che prevede una società in cui al popolo è proibito gestire i propri interessi e i mezzi di comunicazione sono strettamente e rigidamente controllati. Questa può apparire una forma di democrazia improbabile, ma è importante comprendere che si tratta della concezione prevalente. E lo è da lungo tempo, non solo nella prassi, ma anche nella teoria. Una lunga storia, risalente alle prime rivoluzioni democratiche moderne nell’Inghilterra del XVII secolo, riflette questa ideologia» - sto citando Noam Chomsky. E si potrebbero citare altri passi e interventi di Chomsky in proposito, nonché quelli di molti altri autori ancora.

Né Chomsky è il primo, e non sarà l’ultimo, ad affrontare questo "nodo". Va ricordato che già nell’elaborazione marxiana si trova - e precocemente, fin dai suoi inizi - la rilevazione critica della differenza e contraddizione permanenti fra «democrazia formale» e «democrazia sostanziale» (perché l’eguaglianza formale di diritti e doveri dei cittadini è negata dalla differenza sostanziale delle condizioni economiche e sociali, fra chi ha la proprietà e/o il possesso, diretti o indiretti, dei mezzi di produzione e chi ne è escluso, donde, e in interconnessione, le differenze di ruolo, "peso", accesso al potere politico).

Peraltro, basta una anche non profonda conoscenza della storia (si può ben obiettare che è precisamente quella che manca, ma si aprirebbe un altro, benché intimamente legato, discorso) per constatare come già le trasformazioni nei Paesi bassi e le rivoluzioni in Inghilterra del XVII secolo abbiano ammodernato e trasformato lo Stato (dell’Assolutismo) in un organismo piú adatto al contesto socio-economico allora in formazione - al nuovo modo di produzione, industriale, o meglio capitalistico -, ma abbiano dato vita a una realtà a lungo scarsamente democratica (benché mantenesse o ampliasse le libertà, ma confinandole sostanzialmente al piano civile) e anzi, piuttosto, oligarchica, mentre lo scontro fra democrazia allargata e democrazia ristretta si avvia subito già all’interno della rivoluzione francese del 1789 e anni seguenti.

La democrazia tende - quasi "organicamente", si potrebbe dire, all’interno del presente modo di produzione, o se vogliamo, della «modernità» - a venire contenuta e ristretta, a essere svuotata di sostanza, precisamente perché gli interessi e imperativi dominanti sono quelli di pochi (per esprimersi in maniera semplice), mentre i restanti vi sono inseriti – e/o, piuttosto, costretti (storicamente e socialmente) a inserirvisi – in modo stratificato e subalterno (e non mancano, anzi aumentano, coloro che sono esclusi anche dall’inserimento subordinato: gli emarginati).

Per cui la "cosa" è evidente - lo voglio ripetere, anche troppo, forse, per poterlo risultare: una democrazia che fosse anche sostanziale porterebbe immediatamente all’urto fra interessi e imperativi dei pochi e quelli dei molti, della maggioranza della popolazione.

Perciò occorre far sí che le libertà corrispondano a "usi comuni", e non a quelli della presa di decisione sui "nodi" fondamentali (produzione e riproduzione in campo economico, assetto sociale, modalità di conduzione e assunzione delle misure politiche, gestione dello spazio urbano, collocazione internazionale alias sovranità e indipendenza del paese, e cosí via).

Perciò si muove la "gran macchina" del consenso (della costruzione del consenso, che implica una differenziazione interna di indicazioni, proposte, discorsi, nel controllo e per il controllo), in cui i media hanno assunto un ruolo sempre maggiore, ormai strabordante, e una funzione decisiva, ma mantiene questo ruolo e funzione anche il sistema della formazione nel suo complesso, senza dimenticare i partiti e le organizzazioni collaterali e le associazioni fiancheggiatrici, compresi i sindacati, con le catene di interessati, di "gente" in "lista d’attesa", di coinvolti vari, etc. In questo modo tutte le frazioni e fazioni, e tutti gli esponenti, della «classe politica» con "aspiranti" vari a inserirvisi, con tutti i vari annessi e connessi, svolgono precisamente il loro ruolo e adempiono alle loro funzioni: organizzare e spartirsi il consenso, per la riconferma della «classe politica» stessa, nel suo complesso. Cito ancora da Chomsky: si pensa o ci si comporta (il che è lo stesso) in base alla considerazione che vi siano «due "funzioni": quella dirigenziale, svolta dalla classe specializzata» – ossia la «classe politica» con le connesse burocrazie e addetti (ai media, ma anche alla formazione, alle diverse istituzioni e associazioni) – «dagli uomini responsabili» – ché tali si ritengono, e in qualche misura e fino a un certo punto lo sono, ma va specificato: nei confronti degli interessi e imperativi dominanti, e strati sociali corrispondenti –, coloro «che pensano, pianificano e comprendono gli interessi comuni, e quella svolta dal gregge smarrito» – ché tale viene considerata, al di là delle ciarle demagogiche, la gran massa della popolazione – «la funzione dello "spettatore", di colui che non partecipa all’azione. Anzi, poiché viviamo in una democrazia, le funzioni della maggioranza [delle popolazione] sono molteplici: di tanto in tanto le è concesso di dare il suo appoggio a uno o all’altro dei membri della classe specializzata, di dire: "vogliamo che sia questo il nostro capo", oppure "vogliamo che sia quello". Dal momento che il nostro non è uno Stato totalitario [quello degli Usa, ma ciò vale anche per la Repubblica italiana, n.d.a.], vi sono le elezioni. Ma, una volta che ha dato appoggio all’uno o all’altro membro della classe specializzata, la maggioranza deve farsi da parte e diventare spettatore dell’azione, rinunciando alla partecipazione. Questo è ciò che accade in una democrazia che funziona a dovere» – ironia tanto pesante, quanto realistica.

Ma – qualcuno potrebbe obiettare – le finalità dei diversi leaders, esponenti, commentatori, etc., appaiono varie, a volte in contrasto, vi sono anche discussioni accese … Certo, e con polemiche svariate fra settori e comparti, e frazioni e fazioni. Certo, perché solo cosí "si funziona" in quello che viene detto «sistema democratico» - e "funziona" meglio dei totalitarismi o comunque regimi dittatoriali che impongono e si impongono con il manganello e la prigione, ma cosí sollevano ostilità crescenti, e prima o poi crollano (vengono abbattuti o si sgretolano una volta esaurita la funzione per cui sono sorti: gli esempi storici costituiscono una ricca serie).

Nel «sistema democratico», in ultima istanza, le finalità della "macchina" si riassumono in una sola: convincere che è questo l’unico mondo possibile e che "le cose vanno cosí perché sono cosí", e che occorre delegare a chi è "addetto", a chi "c’è dentro", a questo o quel comparto della «classe politica» e organismi collaterali - controllando e/o frenando i mutamenti, perché non siano messi in discussione l’assetto contingente (finché questo è sostenibile, ed è utile sostenerlo) e comunque non lo sia l’assetto di fondo (quando le trasformazioni urgono o sono utilizzabili).

Apertura di spazi possibili, e sua necessità

Allora la democrazia deve per forza seguire la tendenza, avanzata e avanzante, a essere ridotta a vuota forma? A quella forma per cui - dal livello centrale a quello locale, dal livello politico a quello amministrativo, fino alle elezioni interne a una serie di istituzioni - si viene chiamati ogni tanto a esprimere un voto (piú o meno manipolato dalla "gran macchina", che arriva fino agli interessi particolari, veri o presunti, e alle specifiche convinzioni) e poi … "ragazzi, lasciateci lavorare!". E se un numero sempre maggiore di persone si "disaffezionano" anche di questo rituale, poco importa, anzi è meglio - al di là degli ipocriti lamenti: vuol dire che non partecipano e le decisioni vanno avanti in base al consenso preso agli altri.

Perché cosí è concepita e soprattutto attuata la "democrazia" (virgolette d’obbligo) nella visione e comunque nella prassi di quella che è stata chiamata la «casta» – con operazione truffaldina e di matrice vetero-destrorsa da parte di Stella e Rizzo, che parlano solo del "personale politico" e delle risorse che "macina", guardandosi bene anche solo dall’accennare ai vari managers, banchieri, finanzieri, dirigenti vari di consigli di amministrazione, etc. –, vale a dire dalla «classe politica», con i seguiti dei "ceti politici" locali, interconnessa, come parte integrante e costitutiva, con il grande capitale transnazionale, la grande finanza, la grande industria, i vari circoli e lobbies d’affari – ed è questa la «casta», se vogliamo usare il termine, la casta dominante, a cui la «classe politica» è necessaria, perché gli imperativi economici possono essere attuati solo attraverso le disposizioni, le misure o il laisser faire della politica, delle istituzioni, dello Stato.

Dunque, non c’è spazio, allora, per momenti di democrazia piú effettiva? Non vi sono possibilità di aprire "varchi" a livelli di democrazia piú reale? Sí, vi sono. Ma come? La sostanza del "come" è stata sintetizzata a suo tempo da Henri Lefebvre: «non c’è democrazia al di fuori della lotta permanente per la democrazia».

E questo è necessario in generale, ed è tanto piú necessario adesso nel nostro paese, nella situazione in cui si trova - in cui è stata ridotta l’Italia, nel contesto della cosiddetta «globalizzazione», denominazione che è già una mistificazione, come non bisogna stancarsi di ripetere: il modo di produzione della «modernità», o capitalistico, è «globalizzato» da prima della sua nascita, nel processo di accumulazione di tutte le sue condizioni (di cui sono parte integrante gli imperi coloniali e la formazione del mercato mondiale attraverso gli oceani e i mari), per quella presente è solo la sua fase attuale.

Ricordiamo con sintetici accenni che cosa è successo, che cosa è stato portato avanti fino a oggi - in nome della «modernizzazione», delle necessità oggettive, dell’adeguamento alla «globalizzazione», degli «impegni internazionali» e altri discorsi del genere, condite con promesse mirabolanti di «magnifiche sorti e progressive», in effetti per assumere subalternamente gli imperativi di questa fase del modo di produzione capitalistico, del grande captale transnazionale, delle grandi potenze, Usa in primis e "organismi internazionali" (Banca mondiale, Fondo monetario, Organizzazione del commercio) diretti da Usa e maggiori potenze e connessi al grande capitale, senza dimenticare quella "succursale" degli Usa, di tali organismi, del grande capitale (e dell’alleanza politico militare degli Usa, la Nato) che è l’Unione europea. Ed è stato portato avanti - va rilevato e sottolineato - con continuità di fondo attraverso i governi di centrosinistra e di centrodestra, è stato portato avanti con il condimento di critiche piú o meno sdegnate delle minoranze, con un qualche scontro su libertà civili e ingerenza ecclesiastica (ma, su ciò, anche chi è piú "liberale" è molto "morbido" e "possibilista" nei fatti), è stato portato avanti fino a tuttora, e tuttora prosegue: costruzione del precariato, distruzione delle condizioni del lavoro, devastazione delle pensioni, svendita del patrimonio pubblico, apertura di tutti gli spazi possibili al privatismo e obbedienza a smantellamenti, dislocazioni, delocalizzazioni, desertificazioni del tessuto produttivo, smantellamento dei servizi pubblici, massacro della democrazia costituzionale, coinvolgimento nella «guerra infinita». Il tutto sotto il condimento della forsennata ripetizione della dissennata litania del neoliberismo. È una linea che ci sta riducendo a un paese del «terzo mondo» - in pieno «sottosviluppo»: l’Italia è un paese «in via di sottosviluppo».

E i risultati - ben previsti da tempo da un ridottissimo numero di persone, ovviamente inascoltate, sul piano generale della fase attuale del modo di produzione e su quello particolare delle sorti dell’Italia - si toccano ora con mano: dalla crisi cosiddetta «finanziaria» insorta negli Usa e in estensione all’Europa e al mondo (cosiddetta «finanziaria»: è un tentativo linguistico di circoscriverla, perché ogni crisi economica comincia a manifestarsi nel settore del capitale monetario, o bancario o finanziario) a quanto registrano nel nostro paese i dati ufficiali (sempre in sottostima rispetto alla realtà, quando sono negativi), in termini di Pil (indicatore del tutto discutibile, ma pur sempre significativo), di produzione, di occupazione, e cosí via. Continuando cosí - ma si badi: ci hanno già ben inoltrato su questa strada - il nostro paese finirà per essere una sorta "pontone" nel cuore del Bacino del Mediterraneo al servizio dei comandi geostrastrategici e geoeconomici altrui, con la produzione importante, decisiva, strategica, in mano al capitale transnazionale (che i nomi locali siano di managers e finanzieri italiani avrà ben poca rilevanza) e alle sue decisioni, e condizioni critiche permanenti, nello scatenamento delle «grandi opere» inutili e dannose, degli investimenti immobiliari e della rendita fondiaria, con la distruzione dei nostri territori e delle nostre città storiche e artistiche, nell’avvitamento del disastro sanitario-ambientale. Un paese sottosviluppato, che si baserà in qualche misura sul turismo - finché potrà durare, perché speculazione e degrado metteranno in crisi anche il piano storico-artistico e naturale -, sulla prestazione d’opera a produzioni altrui, nel progressivo sfacelo.

È questo catastrofismo? "Suvvia, no, è eccessivo, non si può dipingere un quadro a tinte cosí fosche, vi sarà qualcos’altro, succederà qualcos’altro …": Mi sono già sentito rivolgere questa accusa di catastrofismo in alcune occasioni, tempo fa, parlando della «globalizzazione». Rispondo a chi mi facesse questa obiezione come risposi a suo tempo: se non si fa nulla, basta aspettare, per vedere e constatare.

Ma è proprio tutto quanto delineato - la linea di fondo, portata avanti e in atto - che richiede, che implica, che impone la formalizzazione della democrazia sotto una massiccia costruzione del consenso, la riduzione della democrazia a vuota forma: perché una democrazia che fosse qualcosa di effettivo, di sostanziale, avrebbe impedito e impedirebbe questa linea di fondo, che urta, confligge, è contraria alla maggioranza della popolazione. È fascismo, un rinnovato o nuovo fascismo? Il fascismo - questo movimento e poi regime dittatoriale, che va definito reazionario di massa - è situato in un dato momento storico, né si ripresenterà come tale. Peraltro, non ce n’è bisogno. Si va, anzi in qualche misura già ci siamo, in quella che di può definire democrazia (nella forma) autoritaria (nella sostanza) - un’oligarchia in vesti elettivo-rappresentative.

Perciò la necessità della lotta per la democrazia: per contrastare questa linea di fondo - che investe tutti i piani: politico, sociale, economico, civile, culturale. Una lotta articolata e combinata, e anch’essa su tutti i piani possibili, a cominciare precisamente da quello per una democrazia piú sostanziale e meno formale; una lotta in cui il «locale» assume gran peso: perché, con tutti gli schieramenti e forze che si possono avere, poi ogni scontro avviene concretamente hic et nunc, con "chi c’è" e "quel che fa" in loco, e le grandi forze in campo non bastano, non hanno già il successo in pugno, di fronte a decise iniziative locali - che non possono semplicemente schiacciare, precisamente nel contesto della democrazia, seppur formale e in sostanza autoritaria -, specie se tali lotte si rapportano e si collegano fra di loro.

Formazione e università

Nel quadro delineato, la vita civile - l’esistenza concreta della "gente" - è ridotta e si riduce. A che cosa? Sotto la colonizzazione massmediale - connessione fittizia e nel contempo subalterna con il mondo, con gli "altri" - si riduce alle relazioni familiari (quando vi sono, e senza entrare in merito alla loro natura, non sempre rosea, anzi al contrario) e a piccole cerchie di amicizie (piú o meno vere o presunte) e conoscenze, in ambienti urbani che vanno all’habitat (funzioni meramente essenziali per l’esistenza) e non all’abitare (ricco di relazioni, di impulsi e di aperture). La connessione con "il resto" non c’è, e si impongono le esigenze "di base" (la riproduzione della vita, lavorare o studiare, etc.), sotto l’imperio del «divertimento» (uscire dal tran-tran).

In tale contesto che cosa dice e che senso ha la formazione? La "messa in forma" è data dai media e dal loro contro da parte del potere politico-statuale ed economico-capitalistico - con tutta la subcultura sguaiata e chiassosa, e/o banale e retriva, che viene diffusa capillarmente. La cultura viene sempre piú identificata con Internet - nei piú giovani -, dove si trova tutto, e che è tutto (tutto ciò che vi viene messo, e nella superficialità inarrestabile). E la formazione? Serve a esigenze storiche - come il leggere, scrivere e far di conto -, che sono ineludibili, ma che diventa sempre piú difficile assolvere. Per il resto, può servire per questioni tecniche (formazione tecnica per questo o quel settore e comparto). Ma anche queste - in funzione di sbocchi occupazionali - diventano problematiche nel contesto indicato, dato il piano inclinato del «sottosviluppo» su cui il paese è avviato.

E allora? Il fallimento - da vera e propria «bancarotta fraudolenta» - del sistema della formazione, e in particolare dell’università dovrebbe risultare anch’esso tanto interconnesso alla linea avanzata e avanzante, tanto conseguente, quanto evidente - né lo risolveranno certo le risibili misure recentemente varate dall’attuale governo.

Abbattuto il ruolo precedente della formazione e università - in breve: l’"impianto" gentiliano, adottato nel fascismo e proseguito fino alla fine degli anni sessanta del Novecento, di dare una formazione generica di base e/o parzialmente professionale subalterna, da "classe operosa" al popolo, e per il resto di selezionare lo strato dei funzionari e da questi (non senza l’intervento di cooptazione da parte di chi deteneva la gestione del potere) la «classe dirigente» - e non proceduto (contrastato e sconfitto) la prospettiva di un suo senso "altro" - sempre in breve: dare la massima formazione potenzialmente a tutti per una democrazia coerente, questione di fondo delle battaglie dal ‘68 in poi, il che avrebbe implicato e richiesto un mutamento complessivo ben piú ampio -, queste sono sboccare nella presente (e da tempo) indeterminatezza (dis)funzionale della "scuola-azienda", "università-impresa", senza senso interno (per docenti e discenti) e senza sbocchi significativi di collocazione, mentre l’università, nello specifico, e venuta via via divenendo luogo di collocazione di raccomandati di raccomandati di raccomandati, nonché di favoritismi e nepotismo da parte della «classe politica» e della "casta" (intesa nel senso che si è indicato), dove ogni attitudine scientifica svanisce - le eccezioni esistenti servono a confermare la regola e il generale "andazzo".

Non il sistema della formazione né tantomeno l’università "costruiscono" i cittadini «e la classe dirigente». La formazione e l’università in particolare svolgono un ruolo incerto e vacillante di "appendice sussidiaria" rispetto al "sistema" esistente e, l’università, rispetto alla «classe dirigente», o «politica», presente - la cui strutturazione avviene tramite il "sistema" delle frazioni e fazioni politiche e delle organizzazioni collaterali, nonché attraverso le vie dei circoli e centri di interessi economici (privati e cosiddetti «pubblici»). Abbiamo la tragicomica dimostrazione di come "il sapere che comanda al potere" - illusione filosofica, di matrice hegeliana - sia una fola, perché è il potere che comanda al sapere, lo piega, lo sussume, ma proprio tramite ciò via via lo dissolve - e l’Italia del XXI secolo ne costituisce addirittura il paradigma.

Che fare? Risposta: anche qui, la lotta per la cultura, per una formazione culturale significativa e sensata, è nel contempo anche una lotta per la democrazia, fa parte di quella lotta per la democrazia senza la quale la democrazia stessa non esiste. Una lotta che si dirige contro le prevaricazioni, contro i favoritismi e nepotismi, senza dimenticare le appropriazioni indebite (ruoli e denaro), che si dirige a dare una formazione sensata unita a una sottesa visione "altra" e "oltre" del mondo. Certo, è difficile: i discenti non mostrano, da tempo, molto tempo, di avere quella "spinta" che ebbero nella congiuntura (storica, sociale, culturale) della fine anni sessanta-primi anni settanta del Novecento; i docenti sono in gran parte l’esito di quanto si è, diciamo cosí, "sbozzato". È probabile che formazione e università debbano essere investiti da processi democratici dal loro esterno - se vi saranno, com’è da auspicare e propugnare -, che si travasino anche al loro interno e riaccendano una tutt’"altra" prospettiva. Ma intanto teniamo accesa la brace della critica e della consapevolezza - peraltro, sempre come ha detto Henri Lefebre, «non c’è sapere senza critica del sapere». E anche con l’incontro di oggi abbiamo fatto qualcosa in questa direzione.

Mario Monforte