Inquadratura fissa. Sullo sfondo c'è un villaggio, in primo piano lo scemo di quel villaggio che guarda verso di noi e dice: "Anche Dio è stato qui, sulla terra, tra la gente, ma quando ha incontrato i gitani allora ha preso ed è ritornato su un'altra volta."
Sono alcune decine di fotogrammi di un film dell'89, Il tempo dei gitani (Dum za vesanje, Jugoslavia) dello slavo Emir Kusturica. I personaggi che popolano il film in verità non sono gitani ma rom jugoslavi - la traduzione letterale del titolo del film è peraltro Una casa da appendere - ma, forse per comodità, si usano indifferentemente diversi nomi per indicare questo popolo originario dell'India nord-occidentale: zingari, gitani, zigani, rom e così via.
Gente diversa, vista sovente con sguardo poco benevolo, gente che ha spesso affascinato registi e sceneggiatori, sin dal lontano 1906, anno di produzione del primo lungometraggio in cui compaiono zingari: Esmeralda, di Alice Guy Blanche. Gli zingari sul grande schermo sono stati uomini e donne bellissimi dal fascino fatale oppure, al contrario, esseri malfidati e viscidi. E ancora avventurieri facili di coltello, anime rose dalle fiamme della passione d'amore, fattucchiere, uomini infidi, femmine ribelli, musicisti girovaghi. Si, musicisti, perché non esiste un mondo zingaro senza musica. Violini, fisarmoniche, tromboni, fanfare intere stanno lì, nel nostro immaginario e nei film che hanno contribuito a costruirlo, pronti a fornire il sottofondo di storie d'amore e passione o di danze trascinanti.
In più di novanta anni di cinema ispirato in qualche modo agli zingari, dal già citato Esmeralda fino a Gatto nero gatto bianco (Black Cat White Cat, Jugoslavia 1998) di Emir Kusturica, sono stati prodotti decine di film in cui, per lo più, ha prevalso la descrizione di un mondo dominato da mistero e passione ma anche da miseria e violenza. In ogni caso un mondo a parte a cui è negata l'integrazione col nostro mondo, in teoria più rassicurante e ordinato.
Ma addentriamoci nella cinematografia zingaresca. A pensarci bene, tornano alla mente pochi film. Non ci sono capolavori da ricordare ma qualche buona pellicola e una galleria di personaggi sbiaditi nella quale, di tanto in tanto, brilla qualche puro diamante. Eppure sono tanti i grandi registi che hanno fatto film sugli zingari: De Mille, Chaplin, Lubitch, Dieterle, Ray, Losey, Siegel, Saura, Kusturica e altri ancora. Tuttavia spesso ne sono venuti fuori film di maniera, senza anima, opere presto dimenticate.
Segnalarvi tutti i film servirebbe solo a sprecare una pagina della rivista, così ho deciso di seguire tre itinerari che, inevitabilmente, si incroceranno fra loro:

a) I film italiani: sono pochi e per ciò li cito tutti. Cominciò Giuseppe Maria Scotese, nel '53, con la sua Carmen proibita, poi, in ordine cronologico, Tuilio De Micheli con Duello implacabile (1960), Carmine Gallone con Carmen di Trastevere (1962), Luigi Bazzoni con L'uomo, l'orgoglio, la vendetta, Bruno Corbucci con Isabella duchessa dei diavoli (1969), Francesco Rosi con Carmen (1984), Tonino Zangardi con Allullo drom (1993), Silvio Soldini con Un'anima divisa in due (1993) e, infine, Dino Risi con Giovani e belli.
Un gruppo di film molti dei quali sono caduti nell'oblio insieme agli autori e nei quali il mondo degli zingari ha fornito semplicemente il pretesto per raccontare storie melodrammatiche d'amore e gelosia. Rosi fa un film-opera, Bazzoni perfino una versione western della Carmen di Merimée. I film usciti nel '93 testimoniano invece un interesse dietro il quale c'è una seria ricerca culturale sul mondo dei rom e sui rapporti che essi hanno, o non hanno, con la società italiana. Il film di Soldini però cancella dalle sale quello di Zangardi. La protagonista del suo film, Maria Bakò, è una ragazza ungherese di origini zingare e nel film fa la parte della nomade Pabe che si innamora di Leo, un bravissimo Fabrizio Bentivoglio. Un incontro tra anime diverse che manifestano dolorosamente la impossibilità dell'incontro tra mondi e culture lontanissime fra loro.

I mille volti di Carmen: sono tanti i film ispirati alla Carmen creata da Prosper Mérimée, storia dell'amore tragico tra don José e la zingara Carmen, più tardi resa universalmente conosciuta da George Bizet nella cui opera Carmen da gitana viene trasformata in sigaraia. Una vicenda di amore e morte nella quale la protagonista, spirito ribelle e avido di libertà, sfugge all'appassionato José fino a quando lui la uccide.
La filmografia italiana, come già visto, è piena di storie ispirate alla Carmen. Nel resto del mondo, già durante l'epoca del muto erano state realizzate più di dieci versioni cinematografiche ispirate alla storia di Carmen. Tra le altre due statunitensi del 1915, quella di Raoul Walsh, con Theda bara, e quella di Cecil B. De Mille. Tutte e due i film si intitolano semplicemente Carmen. Poi Ernst Lubistch realizza Sangue gitano (Carmen, Germania 1918). Due anni prima il grande Charlie Chaplin aveva diretto e interpretato una sua Carmen (USA), parodia, a lieto fine, dei film di Walsh e De Mille, ambientata nel ventesimo secolo. Poi comincia a prorompere la musica. In Carmen de la Triana (Spagna/Germania 1938) di Florian Rey, la bella gitana è impersonata dalla grande cantante e ballerina di flamenco Imperio Argentina.
A volte la storia originale è stata profondamente manipolata e trasformata. E' il caso di Carmen Jones (USA 1954) film musicale che Otto Preminger realizza con un cast interamente nero (tra gli altri Harry Belafonte). In questo caso gli eredi di Bizet cercarono di bloccare l'uscita del film perché, a loro dire, tradiva lo spirito dell'opera da cui era stata tratto. Voglio infine ricordare il bellissimo Carmen Story (Carmen, Spagna 1983) di Carlos Saura. Nella finzione filmica il regista spagnolo inserisce la tragica storia di Carmen e José all'interno della preparazione di un balletto ispirato all'opera di Bizet. Il film è un'esaltazione della danza che esplode trascinata dalla musica. Protagonisti il grande ballerino Antonio Gades e una affascinante Laura Del Sol. Paco De Lucia adatta le musiche di Bizet ai ritmi del flamenco.

Alcuni film da rivedere: tra questi, sicuramente, i già citati Un'anima divisa in due e Carmen Story. Poi I Lautari (Lautary, URSS 1972) di Emil Lotjanu, un lungometraggio passato, tra la fine dei '70 e gli '80, quasi esclusivamente nelle sale d'essai e che pochi hanno avuto il piacere di vedere. Il protagonista è un musicista nomade costretto ad un disperato viaggio attraverso campagne e villaggi alla ricerca della sua amata, una zingara andata in sposa ad un uomo ricco,. Da recuperare un altro film di Carlos Saura, L'amore stragone (El amor brujo, Spagna 1986). Questo film, ispirato all'omonimo balletto musicato da Manuel De Falla nel 1915, va rivisto per i balli (ancora Gades e Laura Del Sol con in più Cristina Hoyos), per le musiche, per i colori fiammeggianti che inondano a tratti lo schermo. Per il resto il film procede stancamente e alla fine delude.
Alla fine due opere di Emir Kusturica, già citate: Il tempo dei gitani e Gatto nero gatto bianco. Sono due film densi, pieni di personaggi descritti a tinte forti e di situazioni spesso grottesche. Il primo segue le vicende di un ragazzo rom che lascia il villaggio dove vive con nonna, sorellina e un tacchino, e parte per l'Italia insieme ad un boss locale che scopriremo impegnato nella compravendita di bambini destinati all'accattonaggio. Una storia piena di ladri e banditi - "ogni popolo ha i suoi banditi" dice il regista -, di visioni e magie che sospendono il film tra la realtà e la fantasia. Personalmente preferisco la prima parte del film, quella ambientata nel villaggio rom, dopo mi pare che qualcosa vada perduto. Citazione d'obbligo per le musiche evocative di Halid Radzebasic e Goran Bregovic.
E veniamo a Gatto nero gatto bianco, la buona e la cattiva sorte che si intrecciano. All'inizio il regista pensava di fare un documentario sul gruppo musicale zingaro Muzika Akrobatika, alla fine ci dona una storia tragica mascherata da festa, una storia di sopraffattori e sopraffatti, di oppressori e oppressi. E un film pieno di luci, colori, musiche, spesso travolgenti, e trovate. Ma facciamo parlare lo stesso Kusturica: "Sono tornato a raccontare i gitani perché è il solo popolo che non cambia mai, che sfiora quella che noi chiamiamo civiltà senza lasciarsene contaminare, i soli che mantengano intatta la loro storia, che vivano nel presente la loro memoria, che tutti tentano di distruggere e che pure sempre sopravvivono, che vivono nell'illegalità senza farsi corrompere, che attraversano la miseria e la ricchezza con la stessa allegra indifferenza. Sono eterni e indistruttibili come le comunità di insetti che seguono il disegno arcano e geometricamente perfetto della loro specie. Sono l'ultimo popolo capace di vivere immerso nei colori e nell'eccesso del kitsch".

Al di là degli itinerari percorsi sopra vorrei segnalare il lavoro di Tony Gatlif, unico regista nelle cui vene circola sangue gitano. Gatlif ha diretto una trilogia, acclamata in vari festival specialistici, sul popolo e la musica degli zingari. La trilogia, finora invisibile per i non addetti ai lavori, si compone dei seguenti film: Les Princes (Francia 1983), Latcho Drom (Francia 1993) e Gadjo Dilo (Francia 1997).
Giunto in fondo a questa parziale filmografia vorrei finalmente liberare le immagini, filmiche ovviamente, e i suoni che vorticano nella mia mente da quando ho cominciato a pensare a questo articolo. Le immagini sono di due volti, quello di Marlene Dietrich, chiromante dal fascino misterioso immersa nel bianconero - in verità nero con qualche spruzzata di bianco - de L'infernale Quinlan (Touch of Evil, USA 1958) di Orson Welles e quello bellissimo e abbronzato di Alain Delon, novello, romantico Robin Hood gitano in Lo zingaro (Le Gitan, Francia/Italia 1975) di José Giovanni.
I suoni sono quelli di Asfalt Tango della Fanfare Ciocârlia. Impossibile ascoltarli senza sentire piccoli brividi scorrere lungo la schiena.

 

Zingari, quel popolo
che non cambia mai


VENEZIA - È nato a Sarajevo, è di religione musulmana e la sua lingua materna è il serbo. Rifiuta di definirsi serbobosniaco, perché "mi sento francojugoslavo". Quando parla del suo paese, lo chiama Jugoslavia, come se la guerra non l'avesse frantumato nel sangue, "perché per me esiste ancora nonostante tutto, ed è un concetto culturale, una realtà emotiva e anche politica che i nuovi confini non possono distruggere". Emir Kusturica è un uomo di 43 anni, bello e forte, con i capelli ricci, gli occhi azzurri e un sorriso gentile: pare mite ma non lo è, il che gli ha permesso di difendersi con forza quando il suo film "Underground", Palma d'oro al Festival di Cannes del 1994 è stato accusato nel pieno del tragico conflitto in Bosnia, di essere filoserbo, e cioè dalla parte sbagliata.

A Sarajevo non ha più potuto mettere piede, per non rischiare la vita. "Ma il mio film non era affatto dalla parte dei serbi, cercava di non chiudere gli occhi sulla natura tragica della nostra terra, dove non esistono i buoni e icattivi, ma un feroce eterno scontro in cui ci sono prevaricatori e vittime da ogni parte. Nel mio paese possono esserci delle pause che vengono chiamate pace, ma la guerra non finirà mai. L'Italia, l'Onu hanno fatto quello che potevano per far interrompere la carneficina, ma l'odio resta, così fanatico che nulla potrà estinguerlo". Gli attacchi politici a lui e a "Underground" gli erano sembrati così ingiusti da fargli decidere che mai più avrebbe fatto un film. Invece adesso, quattro anni dopo, torna alla mostra con Gatta nera gatto bianco, che "doveva essere un documentario sul gruppo musicale gitano Muzika akrobatika che aveva suonato in Underground. Ma poi non ho resistito, mi sono venute in mente tante storie vere, quella di un matrimonio che non si doveva celebrare perché quel giorno era morto il nonno, e invece si fece lo stesso nascondendo il cadavere e posticipando il decesso, o quella di certi luoghi dove ti sconsigliano di posteggiare la macchina perché se no i maiali se la mangiano. E ci sono ricascato".

Il film è stato girato in Serbia, a 40 chilometri da Belgrado, in una campagna bellissima lungo il Danubio, su cui navigano i battelli russi che vengono dal Mar Nero. "Sono tornato a raccontare i gitani perché è il solo popolo che non cambia mai, che sfiora quella che noi chiamiamo civiltà senza lasciarsene contaminare, i soli che mantengano intatta la loro storia, che vivano nel presente la loro memoria, che tutti tentano di distruggere e che pure sempre sopravvivono, che vivono nell'illegalità senza farsi corrompere, che attraversano la miseria e la ricchezza con la stessa allegra indifferenza. Sono eterni e indistruttibili come le comunità di insetti che seguono il disegno arcano e geometricamente perfetto della loro specie. Sono l'ultimo popolo capace di vivere immersi nei colori e nell'eccesso del kitsch.

"Per trovare i suoi ottuagenari sdentati o con i denti d'oro, le sue vecchie obese e ridenti, i più alti, i più scheletrici, i più storti, una folla vorticosa di gente sempre in preda alla musica e al ballo, le sue belle volgari, Kusturica ha scelto tra 3500 gitani, "come faceva Fellini, quelli ch avevano l'aspetto più sorprendente". Nel caos del film, nella costante allegria, gioia di vivere, nell'intreccio di imbrogli, pigrizie, sopraffazioni, pare di sentire una violenza fortissima che può scoppiare da un momento all'altro, che potrebbe trasformarsi nelle efferatezze che hanno insanguinato l'ex Jugoslavia.

"Io ci sento invece dell'erotismo. Ma comunque il più allegro e violento personaggio del film è un serbo il cui titolo d'onore è quello di essere un criminale di guerra. Non è uno zingaro, è uno dei pochi attori veri del film, appunto un serbo". Gli
zingari di Gatta nera gatto bianco, titolo che si riferisce alle loro superstizioni, alla fortuna e alla sfortuna intrecciate insieme, sono ricchissimi, uno è il re delle discariche (e si lamenta di aver perso l'affare con Trieste e Udine) l'altro possiede un cementificio: viaggiano in decappottabile o in limousine ma hanno il gabinetto fuori casa, ed è solo un buco con un asse di legno, comprano gli elettrodomestici ma non li usano, abitano in veri palazzi percorsi da branchi di oche o di capre, si fanno di cocaina ma si divertono allo spettacolo della donna cicciona in grado di strappare i chiodi col sedere. "I soldi non contano per i gitani, dagli oggetti di consumo non si lasciano schiavizzare. Li vogliono ma non sanno che farsene, perché la loro vita è quella di mille anni fa. Diventare ricchi è un gioco, il piacere dell'imbroglio e dell'inganno. Anche a me dei soldi importa niente, il mio piacere è sentirmi libero".

Vive da sempre con la stessa moglie, ha due figli di 20 e 11 anni, sta tra Parigi, Belgrado, il Montenegro - e ieri sera alla presentazione del film c'era il suo presidente - New York e la barca di 16 metri nell'Egeo. Sta scrivendo la sua autobiografia romanzata, e preparando il film che girerà l'hanno prossimo di produzione francoamericana, tratto da "Albergo bianco" di Thomas. "Anche non volendo si torna sempre alla storia e alle sue tragedie: questa volta racconterò di una donna che dall'Ucraina alla Germania e ritorno, sarà costretta a vivere tra bolscevismo e nazismo".