Vorrei dare
umana sepoltura ai "collaborazionisti"
di
lanfranco caminiti lanfranco@apolis.com
Laghi di lacrime grandi quanto il Tiberiade piangono i
morti palestinesi
massacrati a Jenin.
Mari di lacrime densi come il mar Morto piangono i morti
israeliani
dell'ultimo attentato suicida.
A volte mi chiedo se siano dello stesso sale le lacrime
palestinesi e
israeliane. Deve esser così, come potrebbe essere
altrimenti?
Ma nessuno versa una lacrima per i
"collaborazionisti", torturati,
fucilati, uccisi, squartati, trascinati, appesi, esposti
al ludibrio.
Semmai urla e incitamenti: uncinare la maglia mentre la
morte si fa
pubblica, si fa spettacolo è antico vizio. Solo occhi
asciutti per i
"collaborazionisti".
Da morti, non hanno più famiglia, non hanno più amici,
fidanzate,
parenti. Ci si chiede se mai li abbiano avuti. Anzi, di
sicuro non li
hanno mai avuti.
Da morti, non hanno uno straccio di funerale. Non si
trovano mani
pietose. Come per gli scomunicati, non hanno terra dove
essere inumati:
che i loro corpi restino esposti, ai cani. E' Creonte a
impedirlo, la
ragione di stato, la ragione del sangue, della comunità:
Creonte
impedisce sempre di seppellire i cadaveri scomodi.
I vivi che rimangono li rinnegano, bisogna pur
sopravvivere. Quei morti
non hanno madri, padri: propriamente non sono mai nati e
quindi non sono
neppure morti.
I morti di Jenin interrogano l'opinione pubblica, creano
scandalo,
provocano indignazione.
I morti del bus saltato in aria [o era una pizzeria? una
discoteca? un
mercato, forse] chiamano alla mobilitazione, pongono
domande dure,
schieramenti, lacerazioni.
Ma nessuno spende una parola per i
"collaborazionisti", nessuno ne
parla, vi fa un editoriale, nessuno si commuove. Una
piaga,
un'infezione: anche solo a nominarla vengono le pustole
alla bocca.
Certo, raccapricciano quei corpi trascinati per le
strade, messi a testa
in giù a un qualche palo, trattati come quarti di carne
da appendere a
un gancio: ti aspetteresti che qualcuno li macelli, ne
dia pezzi di qua
e di là. Incartati come frattaglie.
Ma il raccapriccio riguarda gli autori del gesto, non le
vittime: le
vittime propriamente sono quel che sono, pezzi di carne.
Per chiunque.
Khaled e Jihad Qmeil avevano 15 e 16 anni, erano accusati
di avere
ucciso un loro cugino, Osama Qmeil, uno importante, un
ufficiale
palestinese che aveva già fatto la prima Intifada e era
addetto
all'esecuzione di collaborazionisti: gli israeliani lo
volevano morto.
Un tribunale li aveva condannati alla prigione e non a
morte, per avere
meno di 18 anni. Meno di 18 anni:
"collaborazionisti" con meno di 18
anni. Si cresce in fretta in Palestina. Si muore in
fretta in Palestina.
Il processo si era tenuto in un palazzo qualunque: non
c'è più
tribunale: i bombardamenti l'hanno distrutto. Ma la folla
voleva il loro
sangue. Così, sono stati uccisi in un lavatoio, in un
cesso, forse il
segno di un ultimo disprezzo nei loro confronti. A
ucciderli altri
membri della famiglia.
Questa volta non c'erano le telecamere come a Nablus a
riprendere
l'esecuzione.
L'IDL, l'Esercito israeliano, comunica di aver trovato
tra le "carte
segrete" di Arafat un elenco di 350
collaborazionisti da eliminare,
ancora da eliminare. Forse le cose non stanno esattamente
così, forse le
cose sono suppergiù così. Sono tanti 350
collaborazionisti da eliminare.
Ma furono 800 i collaborazionisti eliminati dal 1987 al
1993, al tempo
della prima Intifada. E sono tanti, tantissimi. Più del
numero di
vittime israeliane degli attentati suicidi di adesso. I
palestinesi si
uccidono fra loro senza riguardo.
Alcune stime parlano di 450 detenuti nelle carceri
dell'Autorità
palestinese: molti di questi sono sospettati di
collaborazionismo.
Sono tantissimi 800 collaborazionisti eliminati e tutti
gli altri
dell'elenco da eliminare e tutti gli altri imprigionati e
tutti quelli
ammazzati in questa Intifada e da quando Israele ha
scatenato la guerra:
non sono "un" giuda, una spia, un infame, un
traditore, un venduto: sono
un fenomeno. Fonti israeliane parlano di 20.000
"collaboratori",
approssimativamente. Una cifra così esagerata da
sembrare detta
provocatoriamente, come uno schiaffo. E nello stesso
tempo fonti
israeliane dichiarano che meno della metà delle persone
uccise come
collaborazionisti nella prima Intifada erano
effettivamente tali.
Di sicuro, c'è un intero villaggio di collaborazionisti
e delle loro
famiglie: si chiama Fatma. E ce n'è un altro, Dahaniya,
che per metà è
popolato da palestinesi che hanno collaborato con
l'esercito israeliano
e che sono stati portati qui da altri villaggi.
L'esercito israeliano
protegge questi villaggi, ma non si preoccupa più di
tanto: anche qui i
"collaborazionisti" vengono uccisi: l'unica
speranza per loro è ottenere
la cittadinanza israeliana e poi trasferirsi a Jaffa o
altrove, dove è
più facile forse essere dimenticati. Ma c'è una
selezione durissima per
ottenere la cittadinanza e non sappiamo quali siano le
"prove" di questo
percorso. C'è un motivo per questo insistita diffidenza
dei padroni
israeliani: anche gli attentati, gli agguati dei kamikaze
e dei martiri
palestinesi si compiono talvolta per mano di altri
collaborazionisti,
gli arabi israeliani che vengono reclutati nella Jihad,
in Hamas, tra i
Tanzim.
E' un fenomeno questo. Uno dei fenomeni orribili di
questa guerra, di
questo conflitto. A cui nessuno volge lo sguardo. Per cui
nessuno ha una
parola di pietà. Come fosse scontato.
E invece proprio quel numero denso indica l'orrore di
questo conflitto,
la sua configurazione.
Indica l'assurdità di una qualunque demarcazione netta
in una terra che
è fatta di convivenze, di complicità, di scambi, di
traffici.
Le armi che uccidono gli israeliani sono comprate dai
palestinesi anche
al mercato nero israeliano, si trova di tutto a quel
mercato nero:
sofisticati attrezzi tecnologici per congegni da lontano,
macchine
blindate e veloci, esplosivo di ogni tipo.
I segugi per rintracciare ricercati che fabbricano le
bombe sono scovati
dagli elicotteri israeliani attraverso dei palestinesi
che spalmano una
vernice speciale sulle auto dei terroristi o che hanno
messo del
plastico nel cellulare del capo degli artificieri
fondamentalisti così
da farlo saltare in aria al primo squillo.
Questa non è la "guerra sporca", la guerra
coperta. E' questa la guerra.
E senza i "collaborazionisti" non s'è mai
potuta fare questa guerra.
Senza quei cani da caccia non si sarebbero mai
individuate le prede.
Temo che ci sia un qualche rapporto tra il fenomeno dei
collaborazionisti e la "tabula rasa"
dell'esercito di Sharon: adesso che
i collaborazionisti stanno diminuendo, muoiono come
mosche, hanno tanta
paura, gli israeliani non sanno più come prendere le
prede: nessuno
spalma più vernici che permettono l'individuazione
dell'obiettivo: è più
semplice spianare tutto, colpire dove capita, ammucchiare
ogni cosa: là
in mezzo, nel mucchio ci dovrà pur esser la preda.
I "venduti" non sono mai amati, c'è solo odio
per chi tradisce: chi
vende il proprio fratello merita il disprezzo della
propria gente e il
disprezzo di chi compra. Così è sempre stato, così
sarà.
Chi compra dà ai venduti qualche osso - il
"listino" dell'esercito e del
Mossad israeliani non permette di arricchirti - proprio
come si fa con i
bracchi. Ma nessuna carezza in premio: il bracco è
fedele, lui sì merita
carezze.
Per illuderti di fuggire con quegli ossi dovresti vendere
anche tua
madre, se mai te n'è rimasta una, se non l'hai già
venduta: ti dà così
poco l'esercito e il Mossad israeliani. Ti inchiodano
lì. A tradire, a
mestare, a vendere la carne della tua carne, il sangue
del tuo sangue. A
sperare che presto tutto finisca e sai che non finirà
mai, perché c'è
solo uno stillicidio lento. Perché non può mai finire,
neanche se
vendessi tutti quelli che conosci e non conosci. Non
scapperai mai da
questa guerra e dal suo orrore. Non scapperai mai dal tuo
orrore. Dalla
tua fine segnata.
Lo sai mentre ti imprigionano e ti danno pugni e calci,
lo sai che
sarebbe successo. Lo sai mentre ti torturano per farti
ammettere, per
farti rivelare circostanze, nomi, contatti, lo sai che
sarebbe successo.
Lo sai mentre ti trascinano sulla piazza della Mangiatoia
e molte teste
si girano per non vedere e molte altre accorrono per
vedere, lo sai che
sarebbe successo. E' questo il gioco, no?
Vile chi ti ha comprato, pagato, usato: questo io dico. A
lui vada il
segno dell'infamia. L'infamia di questa guerra.
Vile chi ti uccide: questo io dico. Che coraggio
guerriero mai ci sarà
nel trascinarti fuori da una cella e spararti alla nuca?
Vile questo
stesso "obbligo", per dare l'esempio, per
serrare le fila, placare la
sete di sangue dei giovani che fanno la coda per
esplodersi [non
menatene vanto: che popolo sorgerà mai senza quel seme,
quei ventri? Non
vedete che i migliori di voi si uccidono? Le passioni si
uccidono, le
generosità si uccidono: restano i politicanti e i
profeti, deforme
selezione naturale della specie].
Vile chi gira lo sguardo altrove o chi, pur disgustato,
pensa che il
momento non chiede sottigliezze, "poi si
vedrà".
Vile, certo, vile anche tu che hai ucciso, indicato al
cecchino il
bersaglio.
Nessuno trova mai parole di ragione per spiegare quello
che fai.
Neanch'io ho le parole giuste per te.
Ma ho pietà di te, come di ogni vittima.
Roma, 17 aprile 2002
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