HANNO ucciso il
Le Pen olandese. Hanno ammazzato l'Haider di
Rotterdam. Così dicono le televisioni e i
giornali di un'Europa incredula, lacerata
all'improvviso da un conflitto etnico e culturale
portato fino all'estremo del delitto politico,
percorsa da tutti gli odii anti-qualcuno che si
possano immaginare, avvelenata
dall'anti-semitismo, dall'anti-islamismo, e ora
insanguinata dalla mano fanatica o pazza di un
giustiziere del "politicamente
corretto".
L'assassinio di Pim Fortuyn ad Amsterdam è il
secondo capitolo europeo della storia cominciata
l'11 settembre a New York e inoculatasi nello
psicodramma del voto francese: il conflitto di
civiltà, la rivolta dei bianchi contro gli
immigrati, la resurrezione della destra xenofoba
e ora la ricomparsa dei suoi nemici armati.
Eppure Pim Fortuyn non era Le Pen, nè Haider.
Non era antisemita. Non era nazista. Non irrideva
l'Olocausto. A sentir lui, il suo modello era
piuttosto Silvio Berlusconi. Ma era anche tutto
ciò che Berlusconi non potrebbe mai essere: gay
dichiarato, testa rasata, camicia a scacchi e
pochette nel taschino, un passato da marxista,
illustrato da una cattedra di sociologia
all'Università di Groningen.
Del nostro fenomeno politico condivideva semmai
la elettrica capacità di "bucare" il
video, la infaticabile attività mediatica (è
morto all'uscita dall'ennesima intervista) e la
stupefacente capacità di costruire un partito in
pochi mesi, farlo trionfare alle elezioni
comunali di Rotterdam (35% alla prima uscita) e
lanciarlo verso un clamoroso successo su scala
nazionale alle prossime politiche, previste tra
appena nove giorni.
Avrei dovuto incontrarlo domani in Olanda, per
un'intervista. Il circo dei giornalisti europei,
lasciata Parigi, stava già convergendo su
Rotterdam, per ascoltare dall'"enfant
terrible" della un tempo noiosissima
politica olandese il nuovo sberleffo vincente
della xenofobia e dell'antieuropeismo.
Sapevamo già che cosa ci avrebbe detto. L'ha
scritto in un libro, "Contro
l'islamizzazione della nostra cultura", che
è anche troppo fedele al titolo, e va a ruba
nelle librerie di Amsterdam, una delle città
più multirazziali d'Europa, dove un cittadino su
tre non ha la pelle bianca.
La sua parola d'ordine era: "L'Olanda è al
completo, sedici milioni di olandesi sono già
abbastanza". Ma la sua xenofobia non era
stata incubata nell'uovo del serpente nazista,
non veniva dai bassifondi dell'antisemitismo.
Incredibile per quanto possa sembrare, si
appellava invece ai vertici di tolleranza
raggiunti dalla civiltà europea. Odiava i
musulmani perché non rispettavano i gay come
lui, specialmente da quando l'imam di una moschea
di Rotterdam li aveva paragonati ai maiali.
Li voleva fermare alle frontiere perché la loro
religione minacciava la libertà delle donne, il
"freee speech", la tolleranza verso le
droghe leggere e la pratica dell'eutanasia, tutto
ciò che la liberale Olanda ha di più caro.
Prendeva di petto il grande tabù della sinistra
europea, l'illusione che la necessaria convivenza
con gli inevitabili immigrati possa essere
ammantata di multiculturalismo, esaltata come un
"melting pot" americano, ignorando i
dolorosi mal di pancia che essa provoca non tra
le élite, ma tra i poveri, le "working
class", la gente che vive porta a porta con
"lo straniero": "La società
multiculturale - aveva detto appena qualche
giorno fa - non funziona, ci fa vivere sempre
più separati, non più vicini. Dirlo non è
razzismo". Per questo, a differenza di altri
movimenti xenofobi europei, non aveva varcato la
linea divisoria della "deportazione".
Non chiedeva il reimpatrio degli immigrati che
già vivono in Olanda (il 10%, più che in
Francia o in Inghilterra, senza parlare
dell'Italia). Ma la chiusura della frontiere ai
nuovi arrivi, la denuncia degli accordi di
Schengen, e l'"assimilazione" culturale
degli stranieri: se volevano restare, che
parlassero la lingua e rispettassero i costumi
del paese che li ospitava. Per accentuare
l'ambiguità del suo messaggio, si era scelto un
vice originario di Capo Verde e numerosi
candidati di pelle scura.
Quest'impasto di idee ed emozioni, spesso
generico e confuso, veniva distillato però in
odio, in un linguaggio crudo, arrogante, e
talvolta disgustoso: "Che cosa vogliono i
tossicodipendenti? Ne vogliono di più? Una
piccola overdose? Nessun problema". E
presentato con lo charme di un originale, un
"dandy", un dannunziano, uno Sgarbi che
preferiva gli uomini, viveva in una pseudo-villa
romana piena di opere d'arte battezzata
"Casa di Pietro", e viaggiava in
un'elegante Daimler con autista efebico e due
cagnolini sempre in grembo, Kenneth e Carla.
Dicendo senza vergogna quello che milioni di
europei pensano e per nostra fortuna si
vergognano ancora di dire, se non nel segreto
dell'urna. Era un segno della sua contraddittoria
natura che fosse stato espulso dal partito
estremista cui aveva aderito, "Olanda
vivibile", perché aveva proposto, proprio
lui gay, la modifica dell'articolo 1 della
Costituzione che proibisce ogni discriminazione.
Si era così costruito la sua lista, e in due
mesi aveva sfondato nella roccaforte di
Rotterdam. Per il 15 maggio i sondaggi lo davano
tra il 15% e il 20% su scala nazionale, in grado
di conquistare 25 seggi su 150 in parlamento, e
di essere così l'ago della bilancia della
complicata politica olandese, basata sul
proporzionale e sui governi di coalizione, e
dunque estremamente vulnerabile agli estremismi.
"Voglio fare il primo ministro", aveva
detto nell'ultima intervista.
"Nè destra nè sinistra, è l'epitome della
Nuova Politica in Europa, populista e
scandalosa", scriveva di lui un giornale di
Londra. Che si stesse affermando proprio
nell'Olanda tollerante nei secoli, la dice lunga
sullo stato di confusione dell'opinione pubblica
europea.
Proprio nel paese di Anna Frank, nel paese da cui
i nazisti avevano deportato i quattro quinti
della comunità ebraica, nel paese in cui la
"correttezza politica" censurava fino a
qualche anno fa sui giornali il colore della
pelle dei criminali, per non ingenerare razzismo.
E nel paese il cui governo, diretto per otto anni
dal socialdemocratico Wim Kok, si è dimesso di
recente, unico in Europa, per la vergogna di non
aver saputo fermare il massacro di musulmani a
Srebenica, dove le truppe olandesi erano tra gli
impotenti "peacekeeping".
Chi sia stato il sanguinario assassino non lo
sappiamo ancora: non sappiamo se al tramonto
prega rivolto alla Mecca o se a sera legge i
testi della guerriglia rivoluzionaria o se ce
l'ha per qualche sua ragione personale con i gay.
Sappiamo solo che il suo gesto ha precipitato
nella tragedia il già grave dramma sociale e
politico che stava scuotendo la civile Europa.
Quella stessa Europa che ogni tanto pretende di
dare lezioni di civiltà all'America, e poi si
ritrova con gli anti-semiti in corteo, gli
anti-islamici nelle urne, e il piombo dei
proiettili nella testa di un leader politico. Di
nuovo alle prese con l'odio e l'intolleranza,
marchio di fabbrica della sua storia.
(7 maggio 2002)
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