Il gay xenofobo
che odiava l'Islam



di ANTONIO POLITO

HANNO ucciso il Le Pen olandese. Hanno ammazzato l'Haider di Rotterdam. Così dicono le televisioni e i giornali di un'Europa incredula, lacerata all'improvviso da un conflitto etnico e culturale portato fino all'estremo del delitto politico, percorsa da tutti gli odii anti-qualcuno che si possano immaginare, avvelenata dall'anti-semitismo, dall'anti-islamismo, e ora insanguinata dalla mano fanatica o pazza di un giustiziere del "politicamente corretto".

L'assassinio di Pim Fortuyn ad Amsterdam è il secondo capitolo europeo della storia cominciata l'11 settembre a New York e inoculatasi nello psicodramma del voto francese: il conflitto di civiltà, la rivolta dei bianchi contro gli immigrati, la resurrezione della destra xenofoba e ora la ricomparsa dei suoi nemici armati.

Eppure Pim Fortuyn non era Le Pen, nè Haider. Non era antisemita. Non era nazista. Non irrideva l'Olocausto. A sentir lui, il suo modello era piuttosto Silvio Berlusconi. Ma era anche tutto ciò che Berlusconi non potrebbe mai essere: gay dichiarato, testa rasata, camicia a scacchi e pochette nel taschino, un passato da marxista, illustrato da una cattedra di sociologia all'Università di Groningen.

Del nostro fenomeno politico condivideva semmai la elettrica capacità di "bucare" il video, la infaticabile attività mediatica (è morto all'uscita dall'ennesima intervista) e la stupefacente capacità di costruire un partito in pochi mesi, farlo trionfare alle elezioni comunali di Rotterdam (35% alla prima uscita) e lanciarlo verso un clamoroso successo su scala nazionale alle prossime politiche, previste tra appena nove giorni.

Avrei dovuto incontrarlo domani in Olanda, per un'intervista. Il circo dei giornalisti europei, lasciata Parigi, stava già convergendo su Rotterdam, per ascoltare dall'"enfant terrible" della un tempo noiosissima politica olandese il nuovo sberleffo vincente della xenofobia e dell'antieuropeismo.

Sapevamo già che cosa ci avrebbe detto. L'ha scritto in un libro, "Contro l'islamizzazione della nostra cultura", che è anche troppo fedele al titolo, e va a ruba nelle librerie di Amsterdam, una delle città più multirazziali d'Europa, dove un cittadino su tre non ha la pelle bianca.

La sua parola d'ordine era: "L'Olanda è al completo, sedici milioni di olandesi sono già abbastanza". Ma la sua xenofobia non era stata incubata nell'uovo del serpente nazista, non veniva dai bassifondi dell'antisemitismo. Incredibile per quanto possa sembrare, si appellava invece ai vertici di tolleranza raggiunti dalla civiltà europea. Odiava i musulmani perché non rispettavano i gay come lui, specialmente da quando l'imam di una moschea di Rotterdam li aveva paragonati ai maiali.

Li voleva fermare alle frontiere perché la loro religione minacciava la libertà delle donne, il "freee speech", la tolleranza verso le droghe leggere e la pratica dell'eutanasia, tutto ciò che la liberale Olanda ha di più caro. Prendeva di petto il grande tabù della sinistra europea, l'illusione che la necessaria convivenza con gli inevitabili immigrati possa essere ammantata di multiculturalismo, esaltata come un "melting pot" americano, ignorando i dolorosi mal di pancia che essa provoca non tra le élite, ma tra i poveri, le "working class", la gente che vive porta a porta con "lo straniero": "La società multiculturale - aveva detto appena qualche giorno fa - non funziona, ci fa vivere sempre più separati, non più vicini. Dirlo non è razzismo". Per questo, a differenza di altri movimenti xenofobi europei, non aveva varcato la linea divisoria della "deportazione".

Non chiedeva il reimpatrio degli immigrati che già vivono in Olanda (il 10%, più che in Francia o in Inghilterra, senza parlare dell'Italia). Ma la chiusura della frontiere ai nuovi arrivi, la denuncia degli accordi di Schengen, e l'"assimilazione" culturale degli stranieri: se volevano restare, che parlassero la lingua e rispettassero i costumi del paese che li ospitava. Per accentuare l'ambiguità del suo messaggio, si era scelto un vice originario di Capo Verde e numerosi candidati di pelle scura.

Quest'impasto di idee ed emozioni, spesso generico e confuso, veniva distillato però in odio, in un linguaggio crudo, arrogante, e talvolta disgustoso: "Che cosa vogliono i tossicodipendenti? Ne vogliono di più? Una piccola overdose? Nessun problema". E presentato con lo charme di un originale, un "dandy", un dannunziano, uno Sgarbi che preferiva gli uomini, viveva in una pseudo-villa romana piena di opere d'arte battezzata "Casa di Pietro", e viaggiava in un'elegante Daimler con autista efebico e due cagnolini sempre in grembo, Kenneth e Carla.

Dicendo senza vergogna quello che milioni di europei pensano e per nostra fortuna si vergognano ancora di dire, se non nel segreto dell'urna. Era un segno della sua contraddittoria natura che fosse stato espulso dal partito estremista cui aveva aderito, "Olanda vivibile", perché aveva proposto, proprio lui gay, la modifica dell'articolo 1 della Costituzione che proibisce ogni discriminazione. Si era così costruito la sua lista, e in due mesi aveva sfondato nella roccaforte di Rotterdam. Per il 15 maggio i sondaggi lo davano tra il 15% e il 20% su scala nazionale, in grado di conquistare 25 seggi su 150 in parlamento, e di essere così l'ago della bilancia della complicata politica olandese, basata sul proporzionale e sui governi di coalizione, e dunque estremamente vulnerabile agli estremismi. "Voglio fare il primo ministro", aveva detto nell'ultima intervista.

"Nè destra nè sinistra, è l'epitome della Nuova Politica in Europa, populista e scandalosa", scriveva di lui un giornale di Londra. Che si stesse affermando proprio nell'Olanda tollerante nei secoli, la dice lunga sullo stato di confusione dell'opinione pubblica europea.

Proprio nel paese di Anna Frank, nel paese da cui i nazisti avevano deportato i quattro quinti della comunità ebraica, nel paese in cui la "correttezza politica" censurava fino a qualche anno fa sui giornali il colore della pelle dei criminali, per non ingenerare razzismo. E nel paese il cui governo, diretto per otto anni dal socialdemocratico Wim Kok, si è dimesso di recente, unico in Europa, per la vergogna di non aver saputo fermare il massacro di musulmani a Srebenica, dove le truppe olandesi erano tra gli impotenti "peacekeeping".

Chi sia stato il sanguinario assassino non lo sappiamo ancora: non sappiamo se al tramonto prega rivolto alla Mecca o se a sera legge i testi della guerriglia rivoluzionaria o se ce l'ha per qualche sua ragione personale con i gay. Sappiamo solo che il suo gesto ha precipitato nella tragedia il già grave dramma sociale e politico che stava scuotendo la civile Europa. Quella stessa Europa che ogni tanto pretende di dare lezioni di civiltà all'America, e poi si ritrova con gli anti-semiti in corteo, gli anti-islamici nelle urne, e il piombo dei proiettili nella testa di un leader politico. Di nuovo alle prese con l'odio e l'intolleranza, marchio di fabbrica della sua storia.

(7 maggio 2002)