Nel
"pronto soccorso" improvvisato dai centri
sociali
I giovani manganellati: "Chiusi in piazza come
topi"
I
ragazzi della rivolta accusano
"Era una trappola senza uscita"
La
minaccia: "Ci rivedremo a Genova. Saremo
centomila"
di
RAFFAELLA MENICHINI NAPOLI - "E non fumate qui dentro,
qui c'è gente che sta male...". "Pronto
soccorso" Ska, centro sociale occupato alle spalle
della facoltà di Architettura, pure occupata, un'ora
dopo le cariche di piazza Municipio. Su un banchetto c'è
il selfservice farmacia: cotone idrofilo, alcol, cerotti,
qualcuno fa la spola col bar all'angolo con i cubi di
ghiaccio che bruciano in mano. I ragazzi arrivano a ritmo
continuo, con il sangue che cola in rivoli fra i capelli,
le facce pallide, i jeans strappati. Tre infermieri e due
medici prestano i primi soccorsi.
Si sente parlare romano, barese, romagnolo, gli stranieri
non si sa dove siano finiti, sembravano anche i più
minacciosi in piazza, ma dopo gli scontri si sono come
dileguati. L'ordine è partito in piazza: "Niente
ospedale, che lì vi fermano. Ci sono i piantoni in
ambulanza". Il tam tam porta dritto qui. I ragazzi
sono decine, appoggiati ai muri, con i compagni che li
sorreggono, qualcuno si stende in terra.
Quelli del centro sociale sono seri seri, danno ordini,
parlano fitto al telefonino. Spunta un foglietto con sei
nomi e numeri di cellulari, "Sono avvocati, giovani.
Possono andare subito negli ospedali ad assistere chi
viene fermato lì". Si segnano i nomi dei dispersi,
arriva un omone: "Cerco Ivan, mio figlio, tiene un
piercing qui in bocca". Risata generale: "E che
è un segno distintivo?". A Jolanda da Novara i
punti li hanno messi in ospedale. Cinque suture in testa,
per una scarica di manganellate. "Continuavo a
urlare: sono incinta di tre mesi, fatemi uscire di
qui". Uscire da quella piazza, un catino chiuso su
tutti i lati, una trappola a colpo d'occhio, dicono i
ragazzi.
Sono giovanissimi, un po' disorientati, esausti. Per
molti è la prima volta in piazza, la prima di sicuro che
vivono da vicino un confronto violento. C'è chi è
andato al corteo col casco della moto, gli occhialini da
piscina per difendersi dai lacrimogeni e il fazzolettone
d'ordinanza tirato sul naso, ma un conto è portarsi
l'attrezzatura, un conto è trovarsi in mezzo alle
cariche, "violente come non ne vedevamo dal
'77", racconteranno poi i più "anziani".
Lo shock li ammutolisce.
Che non sarebbe stata una giornata facile lo si era
capito fin dalla partenza del corteo. Un filo di tensione
che spegne i cori, ognuno marcia per conto suo, distante,
senza i rimbalzi di voce, i giochi e gli sfottò che
avevano caratterizzato i colorati blitz della vigilia.
L'unica nota ironica è il "pallonepannocchia
transgenica" sul camioncino che apre il corteo e che
poi finirà lanciato contro i poliziotti. Pochi slogan,
cantano e ballano solo i Rom e gli immigrati africani
raccolti dietro lo striscione di Rifondazione che
chiedono "libera circolazione per tutti". A
fianco a loro c'è don Vitaliano Della Sala, il
"prete rosso" di Avellino che ormai non perde
un appuntamento del "popolo di Seattle" - è
reduce dalla marcia zapatista e poi denuncerà: "E'
stato più facile per Marcos arrivare a Città del
Messico che per questi ragazzi a piazza Plebiscito".
Sfilano seri dietro un megafono "classico" i
disoccupati organizzati, sfilano mute le "tute
bianche", la militanza d'assalto nata nel NordEst,
"ma qui siamo quasi tutti di Napoli". Sfilano
ordinate le delegazioni più ufficiali - i Verdi, le
Donne in nero, Mani Tese - e quelle più inedite, come i
giovani in total black di "Reclaim the money" -
forse ispirati agli inglesi di Reclaim the street,
variante ambientalista e situazionista del popolo di
Seattle, ma che in versione napoletana chiedono il
salario garantito. Tanti gli studenti medi e
universitari, all'attacco degli "uomini
transgenici". Seri e misteriosi i tre anarchici
austriaci mascherati. Chiude il corteo il camion del Prc
attrezzato con un sound system a ritmo di rap. Il clima
è di attesa, senza entusiasmo. Ed è solo il preludio.
In piazza Municipio, capita l'aria, molti vorrebbero
andarsene, ma non possono.
"E' stato un atto criminale bloccarci dentro la
piazza, senza via d'uscita - dice Francesco, portavoce
del movimento napoletano, durante un'affollata conferenza
stampa - sembravamo topi impazziti, ho visto ragazzi
piangere, implorare che li facessero andare a casa. I
funzionari di Digos e polizia hanno perso il controllo
dei loro uomini". Fruga sotto il tavolo e da una
busta tira fuori un pezzo di stoffa intriso di sangue:
"è la camicia è di un ragazzo pestato".
Dietro il banco, i testimoni della giornata si alternano
a raccontare episodi, a denunciare. Un giornalista
pestato perché "sembravo uno di voi", avvocati
che volevano incontrare i fermati in Questura e sono
stati respinti, un professore che accompagnava il figlio
ginnasiale e i suoi compagni ed è finito in fuga
"mente scaricavano in aria le mitragliette". Su
un video scorrono spezzoni di immagini amatoriali: gente
a terra, isolata e picchiata. La giornata non è finita,
i ragazzi chiedono ai giornalisti una "scorta"
alla stazione per garantire chi riparte con il treno. E
preannunciano: "Ci rivedremo a Genova, per bloccare
il G8 saremo in centomila".
(18 marzo 2001)
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